eventExtractionHDN/commentaries/data_parsed/convivio_DF.csv

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SÌ COME DICE LO FILOSOFO ... DESIDERANO DI SAPERE,"sono le parole con cui si apre la <i>Metafisica</i> di Aristotele (I 1, 980a 21) il Filosofo per antonomasia in tutta la produzione filosofica e teologica del tardo Medioevo. Il sintagma prima Filosofia"" verrà applicato da Dante alla <i>Metafisica</i> in <i>Cv</i>  II xiii 8, ma esso è già presente nello stesso Aristotele per distinguere questa scienza dalla <i>Fisica</i>, filosofia seconda  (cfr. <i>Metaph</i>. VI 1, 1026 a 27-30). Prima e seconda hanno qui valore assoluto ed indicano il grado di dignità nella gerarchia delle scienze. La <i>Metafisica</i> infatti si occupa sia dell'essere in assoluto che di quel particolare tipo di enti (gli enti divini) che è causa dell'essere per tutti gli altri. Venire dopo la <i>Fisica</i> (questo infatti significa  in greco <i>Metafisica</i>) significa allora essere al vertice del sistema del sapere. Dal punto di vista della nostra conoscenza e del nostro apprendimento il rapporto però si  inverte e la <i>Metafisica</i> viene dopo la <i>Fisica</i> nel senso che non può essere padroneggiata senza una previa conoscenza del mondo fisico. Con la frase iniziale del <i>Convivio</i>  si aprono molti dei commenti aristotelici del XIII secolo (per esempio ben Gianfranco Fioravanti, <i>Sermones in lode della Filosofia e della Logica a Bologna nella prima metà del XIV secolo</i>, in AAVV, <i>L'insegnamento della logica a Bologna nel XIV secolo</i> a cura di Dino Buzzetti, Maurizio Ferriani, Andrea Tabarroni,  Presso l' Istituto per la storia dell' Università di Bologna, Bologna 1992.  undici dei tredici commenti di Tommaso. Cfr. Cheneval - Imbach 1993). Essa era comunque diventata il vessillo di battaglia dei maestri parigini di filosofia della seconda metà del '200, che la utilizzavano nei loro scritti per fondare e difendere la dignità superiore del filosofare. Usandola Dante dimostra così fin dall'inizio di volersi mantenere al livello della cultura alta ed universitaria.","I 1, 980a 21",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SÌ COME DICE LO FILOSOFO ... DESIDERANO DI SAPERE,"sono le parole con cui si apre la <i>Metafisica</i> di Aristotele (I 1, 980a 21) il Filosofo per antonomasia in tutta la produzione filosofica e teologica del tardo Medioevo. Il sintagma prima Filosofia"" verrà applicato da Dante alla <i>Metafisica</i> in <i>Cv</i>  II xiii 8, ma esso è già presente nello stesso Aristotele per distinguere questa scienza dalla <i>Fisica</i>, filosofia seconda  (cfr. <i>Metaph</i>. VI 1, 1026 a 27-30). Prima e seconda hanno qui valore assoluto ed indicano il grado di dignità nella gerarchia delle scienze. La <i>Metafisica</i> infatti si occupa sia dell'essere in assoluto che di quel particolare tipo di enti (gli enti divini) che è causa dell'essere per tutti gli altri. Venire dopo la <i>Fisica</i> (questo infatti significa  in greco <i>Metafisica</i>) significa allora essere al vertice del sistema del sapere. Dal punto di vista della nostra conoscenza e del nostro apprendimento il rapporto però si  inverte e la <i>Metafisica</i> viene dopo la <i>Fisica</i> nel senso che non può essere padroneggiata senza una previa conoscenza del mondo fisico. Con la frase iniziale del <i>Convivio</i>  si aprono molti dei commenti aristotelici del XIII secolo (per esempio ben Gianfranco Fioravanti, <i>Sermones in lode della Filosofia e della Logica a Bologna nella prima metà del XIV secolo</i>, in AAVV, <i>L'insegnamento della logica a Bologna nel XIV secolo</i> a cura di Dino Buzzetti, Maurizio Ferriani, Andrea Tabarroni,  Presso l' Istituto per la storia dell' Università di Bologna, Bologna 1992.  undici dei tredici commenti di Tommaso. Cfr. Cheneval - Imbach 1993). Essa era comunque diventata il vessillo di battaglia dei maestri parigini di filosofia della seconda metà del '200, che la utilizzavano nei loro scritti per fondare e difendere la dignità superiore del filosofare. Usandola Dante dimostra così fin dall'inizio di volersi mantenere al livello della cultura alta ed universitaria.","VI 1, 1026 a 27-30",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
LA RAGIONE... SUBIETTI,"Dante sintetizza in poche righe una argomentazione rintracciabile abbastanza correntemente in molti di quegli elogi della filosofia con i quali i maestri parigini aprivano i loro corsi o che comunque inserivano nelle loro lezioni (su questa letteratura cfr. per un primo sguardo d'insieme: Lafleur 1988): 'ogni realtà, indirizzata (impinta"") dall'ordine provvidenziale (""provedenza di prima natura""), desidera come suo fine e suo bene la piena realizzazione della propria natura (""è inclinabile alla sua propria perfezione""); l' uomo si caratterizza per il possesso e l'esercizio dell'intelletto; dunque la piena realizzazione della sua natura si identificherà per lui con l'attività intellettuale, cioè con la scienza (che per Dante, come per i suoi contemporanei, significa, aristotelicamente, sapere rigorosamente dimostrativo). E poiché il raggiungimento del fine si identifica con la felicità assoluta (""ultima"") solo chi possiede la scienza è veramente felice. Dunque tutti noi, per natura, siamo soggetti (""semo subietti"") a questo desiderio'. Sonia Gentili ha richiamato l'attenzione sulla stretta corrispondenza  tra l'inizio del <i>Convivio</i> e le prime frasi del prologo del Commento al <i>De anima</i> del domenicano Graziadio di Ascoli (""Sicut in principio metaphisice Philosophus dicit: Omnes homine naturaliter scire desiderant. Huius autem aliqualiter ratio esse potest quia unumquodque naturali quadam inclinacione seu desiderio inclinatur et appetit suum proprium et ultimum complementum""; cfr. Gentili 2004, p. 179, nota 1) Graziadio è cronologicamente posteriore al testo dantesco così come lo è l'anonimo professore bolognese che utilizzerà, quasi con le stesse parole, il medesimo sillogismo.: ""Philosophus in principio Metaphysicae: omnes homines etc. Unumquodque enim naturaliter appetit  suam perfectionem; sed scire est perfectio hominis per quam distinguitur a brutis animalibus; ergo omnis homo naturaliter scire desiderat"" (cfr. Fioravanti 1992, p. 172). Si tratta comunque di un motivo pervasivo, presente anche nel <i>Prologo</i> ad un corso di lezioni sull' <i>Etica Nicomachea</i> del domenicano fiorentino Remigio de' Girolami, lui sì contemporaneo e concittadino di Dante. Probabilmente questo testo è stato composto durante un soggiorno parigino di Remigio, ma le idee che esprime avranno avuto certamente modo di essere divulgate anche a Firenze (cfr. Panella 1981, pp. 122).   La  ""prima natura"" con la sua ""provedenza"" è con tutta probabilità da identificare con la ""natura universale che ordina la particulare a sua perfezione"" di cui si parla in <i>Convivio</i> I vii 9; III iv 10; IV ix 2, xxvi 3.  Gli argomenti di Giorgio Inglese a favore della lezione  ""propia natura"" (cfr. Inglese 2000, pp. 79-97) si scontrano, a mio avviso, con la difficoltà di attribuire ad una inclinazione naturale non consapevole una 'provvidenza'. Vedi a questo proposito <i>Pd</i> I 109 sgg. dove Dante distingue chiaramente tra l'istinto che orienta ogni singolo ente nel ""gran mar dell'essere"" e la ""provedenza che cotanto assetta"".",elogi alla filosofia dei maestri parigini,CONCORDANZA GENERICA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Elogi_della_filosofia,Elogi della Filosofia,,,http://purl.org/bncf/tid/762,CONCEPT
LA RAGIONE... SUBIETTI,"Dante sintetizza in poche righe una argomentazione rintracciabile abbastanza correntemente in molti di quegli elogi della filosofia con i quali i maestri parigini aprivano i loro corsi o che comunque inserivano nelle loro lezioni (su questa letteratura cfr. per un primo sguardo d'insieme: Lafleur 1988): 'ogni realtà, indirizzata (impinta"") dall'ordine provvidenziale (""provedenza di prima natura""), desidera come suo fine e suo bene la piena realizzazione della propria natura (""è inclinabile alla sua propria perfezione""); l' uomo si caratterizza per il possesso e l'esercizio dell'intelletto; dunque la piena realizzazione della sua natura si identificherà per lui con l'attività intellettuale, cioè con la scienza (che per Dante, come per i suoi contemporanei, significa, aristotelicamente, sapere rigorosamente dimostrativo). E poiché il raggiungimento del fine si identifica con la felicità assoluta (""ultima"") solo chi possiede la scienza è veramente felice. Dunque tutti noi, per natura, siamo soggetti (""semo subietti"") a questo desiderio'. Sonia Gentili ha richiamato l'attenzione sulla stretta corrispondenza  tra l'inizio del <i>Convivio</i> e le prime frasi del prologo del Commento al <i>De anima</i> del domenicano Graziadio di Ascoli (""Sicut in principio metaphisice Philosophus dicit: Omnes homine naturaliter scire desiderant. Huius autem aliqualiter ratio esse potest quia unumquodque naturali quadam inclinacione seu desiderio inclinatur et appetit suum proprium et ultimum complementum""; cfr. Gentili 2004, p. 179, nota 1) Graziadio è cronologicamente posteriore al testo dantesco così come lo è l'anonimo professore bolognese che utilizzerà, quasi con le stesse parole, il medesimo sillogismo.: ""Philosophus in principio Metaphysicae: omnes homines etc. Unumquodque enim naturaliter appetit  suam perfectionem; sed scire est perfectio hominis per quam distinguitur a brutis animalibus; ergo omnis homo naturaliter scire desiderat"" (cfr. Fioravanti 1992, p. 172). Si tratta comunque di un motivo pervasivo, presente anche nel <i>Prologo</i> ad un corso di lezioni sull' <i>Etica Nicomachea</i> del domenicano fiorentino Remigio de' Girolami, lui sì contemporaneo e concittadino di Dante. Probabilmente questo testo è stato composto durante un soggiorno parigino di Remigio, ma le idee che esprime avranno avuto certamente modo di essere divulgate anche a Firenze (cfr. Panella 1981, pp. 122).   La  ""prima natura"" con la sua ""provedenza"" è con tutta probabilità da identificare con la ""natura universale che ordina la particulare a sua perfezione"" di cui si parla in <i>Convivio</i> I vii 9; III iv 10; IV ix 2, xxvi 3.  Gli argomenti di Giorgio Inglese a favore della lezione  ""propia natura"" (cfr. Inglese 2000, pp. 79-97) si scontrano, a mio avviso, con la difficoltà di attribuire ad una inclinazione naturale non consapevole una 'provvidenza'. Vedi a questo proposito <i>Pd</i> I 109 sgg. dove Dante distingue chiaramente tra l'istinto che orienta ogni singolo ente nel ""gran mar dell'essere"" e la ""provedenza che cotanto assetta"".",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Prologo_Etica_Nicomachea,Prologo a lezioni sull'Etica Nicomachea,Remigio dei Girolami,http://dbpedia.org/resource/Remigio_dei_Girolami,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
DENTRO DALL'UOMO ...,"secondo uno schema anch'esso presente nei commenti agli scritti aristotelici, soprattutto alla <i>Metafisica</i>, e nel genere letterario degli elogi della Filosofia cui abbiamo accennato, Dante affronta il tema degli ostacoli (<i>impedimenta</i> nel linguaggio tecnico di Parigi) che allontanano di fatto gli uomini dal filosofare. Il ricorso ai vari tipi di <i>impedimenta</i> serve a risolvere una difficoltà di fondo: se è vero che per natura tutti gli uomini tenderebbero alla conoscenza scientifica (cioè, nel nostro caso, filosofica), perchè, nella realtà effettuale sono così pochi quelli che la raggiungono, e così tanti quelli che non la considerano o addirittura la disprezzano?. Anche la classificazione degli ostacoli in ostacoli interni  ed esterni (dentro all'uomo e di fuori da esso"") rientra nella tradizione universitaria. Relativamente agli ostacoli interni va tenuto presente che, secondo un diffuso adagio aristotelico, un difetto sensoriale dovuto alla cattiva struttura degli organi, esemplificato qui dalla mancanza di udito e quindi di parola, rende impossibile l' acquisizione della scienza corrispondente (cfr. <i>An. Post</i>.  I 18, 81 a 38-40 ); per la cultura tardo medievale funziona il  principio che il più delle volte ad un handicap fisico corrisponde una qualche mancanza nelle facoltà conoscitive (è un adagio diffuso, tratto dalla <i>Physiognomica</i> pseudoaristotelica, quello per cui ""animae, ut plurimum, sequuntur corpora"" e Dante stesso vi farà riferimento in <i>Cv</i>  IV ii 7 ""La nostra mente ... è fondata sopra la complessione del corpo"". Cfr. anche <i>Cv</i> III viii 17). Quanto all'anima, la malizia consiste in una  radicata abitudine a commettere azioni malvage (""malizia"") cui segue un irrimediabile stravolgimento del giudizio (""inganno"")  che ritiene desiderabile e trova piacevole ciò che non lo è veramente (""viziose delettazioni"") e disprezza (""tiene a vile"") ciò che dovrebbe è fonte di vera felicità. Il termine <i>malitia</i> (traduzione latina del greco <i>kakia</i>) si trova nel primo capitolo del settimo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> (1145 a 16-17); nel suo Commento Tommaso d'Aquino la caratterizza appunto come una perversione abituale del desiderio talmente forte da dominare (""vincere"") la stessa ragione, portandola a considerare il piacere vizioso come il vero fine da raggiungere. Chi è in queste condizioni fa il male per scelta (<i>In libros Ethicorum expositio</i>, VII, <i>lectio</i> 1, n. 1294). I quattro impedimenti erano già elencati in trattati tipicamente universitari, anche se non tutti contemporaneamente: vedi ad esempio Tommaso d'Aquino nella <i>Summa contra Gentiles</i> (un'opera che Dante citerà esplicitamente in <i>Cv</i> IV xv 12 e IV xxx 3) I, cap. 4, n. 23  ""A fructu enim studiosae inquisitionis, qui est inventio veritatis, plurimi impediuntur tribus de causis. Quidam siquidem propter complexionis indispositionem (""parti indebitamente disposte"") ... Quidam vero impediuntur necessitate rei familiaris ... (""la cura familiare e civile"") ... Quidam autem impediuntur <i>pigritia</i> (""cagione ... induttrice ... di pigrizia"")"";  Boezio di Dacia, <i>De summo bono</i> (p. 373)  ""Cum enim omnes homines naturaliter scire desiderant, paucissimi tamen  ... studio sapientiae vacant. Videmus enim quosdam pigritiam sequi, quosdam autem voluptates sensibiles (""viziose delettazioni"") et quosdam desiderium bonorum fortunae""; Giovanni di Jandun, <i>Quaestiones super Metaphysicam</i> I q. 4  ""Aliquis impeditur propter defectum necessariorum ad vitam ... Similiter aliquis retrahitur propter malitiam individualis naturae (""quando la malizia vince in essa""). Alia causa est segnities propter quam aliquis abhorret studere"". Meno diretto mi sembra  il rapporto con la prefazione del <i>Didascalicon</i> di Ugo di San Vittore, accennato nel Commento  <i>Busnelli</i> e sottolineato particolarmente da Baranski (cfr. Baranski 2000, pp. 92-7). In ogni caso la trattazione dei due impedimenti esterni riflette preoccupazioni e giudizi propri di Dante: la ""cura familiare"" (cioè l'impegno relativo alla gestione dei rapporti e dei beni privati) e quella ""civile"" (cioè l' impegno relativo alla cosa pubblica, alla politica; con <i>civilis</i> viene infatti reso, nella traduzione latina della <i>Politica</i> aristotelica il termine <i>politikòs</i>) è visto non solo come inevitabile (""cagione di necessitade"", cioè causa che toglie ogni possibilità di dedicars allo studio), ma anche giustificato (""convenevole""). La <i>pigritia</i> poi si colora di notazioni socio-geografiche: la mancanza di scuole superiori (indicate al tempo di Dante con il nome di <i>Studia</i>), quindi di intellettuali (""gente studiosa"") e la  lontananza geografica che ne rende difficile la frequentazione saranno per tutto il Trecento ed oltre una delle motivazioni con cui le classi dirigenti dei Comuni italiani (Firenze, Pisa, Siena, Perugia ...) si impegnano nella fondazione di università municipali. Dante, che è stato a Bologna, la città dello Studio per antonomasia, pensa evidentemente che l' ostacolo sia ritenuto insormontabile solo dal vizio della pigrizia, degno di biasimo anche se non quanto la malizia. Ma soprattutto, come vedremo, Dante non accetta come irriformabile il dato di fatto per cui l'umanità è divisa tra una piccola minoranza di fruitori del sapere ed una stragrande maggioranza di frustrati inconsapevoli;  il suo <i>Convivio</i> è  infatti apparecchiato  per rimuovere, almeno in parte, i due ostacoli esterni. Una più ampia e anche in parte diversa trattazione dei difetti fisici e mentali che impediscono il raggiungimento della verità si avrà in <i>Cv</i> IV xv 11-18.",,CONCORDANZA GENERICA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commenti_agli_scritti_aristotelici,Commenti agli scritti aristotelici,,,http://purl.org/bncf/tid/29623,CONCEPT
DENTRO DALL'UOMO ...,"secondo uno schema anch'esso presente nei commenti agli scritti aristotelici, soprattutto alla <i>Metafisica</i>, e nel genere letterario degli elogi della Filosofia cui abbiamo accennato, Dante affronta il tema degli ostacoli (<i>impedimenta</i> nel linguaggio tecnico di Parigi) che allontanano di fatto gli uomini dal filosofare. Il ricorso ai vari tipi di <i>impedimenta</i> serve a risolvere una difficoltà di fondo: se è vero che per natura tutti gli uomini tenderebbero alla conoscenza scientifica (cioè, nel nostro caso, filosofica), perchè, nella realtà effettuale sono così pochi quelli che la raggiungono, e così tanti quelli che non la considerano o addirittura la disprezzano?. Anche la classificazione degli ostacoli in ostacoli interni  ed esterni (dentro all'uomo e di fuori da esso"") rientra nella tradizione universitaria. Relativamente agli ostacoli interni va tenuto presente che, secondo un diffuso adagio aristotelico, un difetto sensoriale dovuto alla cattiva struttura degli organi, esemplificato qui dalla mancanza di udito e quindi di parola, rende impossibile l' acquisizione della scienza corrispondente (cfr. <i>An. Post</i>.  I 18, 81 a 38-40 ); per la cultura tardo medievale funziona il  principio che il più delle volte ad un handicap fisico corrisponde una qualche mancanza nelle facoltà conoscitive (è un adagio diffuso, tratto dalla <i>Physiognomica</i> pseudoaristotelica, quello per cui ""animae, ut plurimum, sequuntur corpora"" e Dante stesso vi farà riferimento in <i>Cv</i>  IV ii 7 ""La nostra mente ... è fondata sopra la complessione del corpo"". Cfr. anche <i>Cv</i> III viii 17). Quanto all'anima, la malizia consiste in una  radicata abitudine a commettere azioni malvage (""malizia"") cui segue un irrimediabile stravolgimento del giudizio (""inganno"")  che ritiene desiderabile e trova piacevole ciò che non lo è veramente (""viziose delettazioni"") e disprezza (""tiene a vile"") ciò che dovrebbe è fonte di vera felicità. Il termine <i>malitia</i> (traduzione latina del greco <i>kakia</i>) si trova nel primo capitolo del settimo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> (1145 a 16-17); nel suo Commento Tommaso d'Aquino la caratterizza appunto come una perversione abituale del desiderio talmente forte da dominare (""vincere"") la stessa ragione, portandola a considerare il piacere vizioso come il vero fine da raggiungere. Chi è in queste condizioni fa il male per scelta (<i>In libros Ethicorum expositio</i>, VII, <i>lectio</i> 1, n. 1294). I quattro impedimenti erano già elencati in trattati tipicamente universitari, anche se non tutti contemporaneamente: vedi ad esempio Tommaso d'Aquino nella <i>Summa contra Gentiles</i> (un'opera che Dante citerà esplicitamente in <i>Cv</i> IV xv 12 e IV xxx 3) I, cap. 4, n. 23  ""A fructu enim studiosae inquisitionis, qui est inventio veritatis, plurimi impediuntur tribus de causis. Quidam siquidem propter complexionis indispositionem (""parti indebitamente disposte"") ... Quidam vero impediuntur necessitate rei familiaris ... (""la cura familiare e civile"") ... Quidam autem impediuntur <i>pigritia</i> (""cagione ... induttrice ... di pigrizia"")"";  Boezio di Dacia, <i>De summo bono</i> (p. 373)  ""Cum enim omnes homines naturaliter scire desiderant, paucissimi tamen  ... studio sapientiae vacant. Videmus enim quosdam pigritiam sequi, quosdam autem voluptates sensibiles (""viziose delettazioni"") et quosdam desiderium bonorum fortunae""; Giovanni di Jandun, <i>Quaestiones super Metaphysicam</i> I q. 4  ""Aliquis impeditur propter defectum necessariorum ad vitam ... Similiter aliquis retrahitur propter malitiam individualis naturae (""quando la malizia vince in essa""). Alia causa est segnities propter quam aliquis abhorret studere"". Meno diretto mi sembra  il rapporto con la prefazione del <i>Didascalicon</i> di Ugo di San Vittore, accennato nel Commento  <i>Busnelli</i> e sottolineato particolarmente da Baranski (cfr. Baranski 2000, pp. 92-7). In ogni caso la trattazione dei due impedimenti esterni riflette preoccupazioni e giudizi propri di Dante: la ""cura familiare"" (cioè l'impegno relativo alla gestione dei rapporti e dei beni privati) e quella ""civile"" (cioè l' impegno relativo alla cosa pubblica, alla politica; con <i>civilis</i> viene infatti reso, nella traduzione latina della <i>Politica</i> aristotelica il termine <i>politikòs</i>) è visto non solo come inevitabile (""cagione di necessitade"", cioè causa che toglie ogni possibilità di dedicars allo studio), ma anche giustificato (""convenevole""). La <i>pigritia</i> poi si colora di notazioni socio-geografiche: la mancanza di scuole superiori (indicate al tempo di Dante con il nome di <i>Studia</i>), quindi di intellettuali (""gente studiosa"") e la  lontananza geografica che ne rende difficile la frequentazione saranno per tutto il Trecento ed oltre una delle motivazioni con cui le classi dirigenti dei Comuni italiani (Firenze, Pisa, Siena, Perugia ...) si impegnano nella fondazione di università municipali. Dante, che è stato a Bologna, la città dello Studio per antonomasia, pensa evidentemente che l' ostacolo sia ritenuto insormontabile solo dal vizio della pigrizia, degno di biasimo anche se non quanto la malizia. Ma soprattutto, come vedremo, Dante non accetta come irriformabile il dato di fatto per cui l'umanità è divisa tra una piccola minoranza di fruitori del sapere ed una stragrande maggioranza di frustrati inconsapevoli;  il suo <i>Convivio</i> è  infatti apparecchiato  per rimuovere, almeno in parte, i due ostacoli esterni. Una più ampia e anche in parte diversa trattazione dei difetti fisici e mentali che impediscono il raggiungimento della verità si avrà in <i>Cv</i> IV xv 11-18.","I, cap. 4, n. 23",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_contra_Gentiles,Summa contra Gentiles,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
DENTRO DALL'UOMO ...,"secondo uno schema anch'esso presente nei commenti agli scritti aristotelici, soprattutto alla <i>Metafisica</i>, e nel genere letterario degli elogi della Filosofia cui abbiamo accennato, Dante affronta il tema degli ostacoli (<i>impedimenta</i> nel linguaggio tecnico di Parigi) che allontanano di fatto gli uomini dal filosofare. Il ricorso ai vari tipi di <i>impedimenta</i> serve a risolvere una difficoltà di fondo: se è vero che per natura tutti gli uomini tenderebbero alla conoscenza scientifica (cioè, nel nostro caso, filosofica), perchè, nella realtà effettuale sono così pochi quelli che la raggiungono, e così tanti quelli che non la considerano o addirittura la disprezzano?. Anche la classificazione degli ostacoli in ostacoli interni  ed esterni (dentro all'uomo e di fuori da esso"") rientra nella tradizione universitaria. Relativamente agli ostacoli interni va tenuto presente che, secondo un diffuso adagio aristotelico, un difetto sensoriale dovuto alla cattiva struttura degli organi, esemplificato qui dalla mancanza di udito e quindi di parola, rende impossibile l' acquisizione della scienza corrispondente (cfr. <i>An. Post</i>.  I 18, 81 a 38-40 ); per la cultura tardo medievale funziona il  principio che il più delle volte ad un handicap fisico corrisponde una qualche mancanza nelle facoltà conoscitive (è un adagio diffuso, tratto dalla <i>Physiognomica</i> pseudoaristotelica, quello per cui ""animae, ut plurimum, sequuntur corpora"" e Dante stesso vi farà riferimento in <i>Cv</i>  IV ii 7 ""La nostra mente ... è fondata sopra la complessione del corpo"". Cfr. anche <i>Cv</i> III viii 17). Quanto all'anima, la malizia consiste in una  radicata abitudine a commettere azioni malvage (""malizia"") cui segue un irrimediabile stravolgimento del giudizio (""inganno"")  che ritiene desiderabile e trova piacevole ciò che non lo è veramente (""viziose delettazioni"") e disprezza (""tiene a vile"") ciò che dovrebbe è fonte di vera felicità. Il termine <i>malitia</i> (traduzione latina del greco <i>kakia</i>) si trova nel primo capitolo del settimo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> (1145 a 16-17); nel suo Commento Tommaso d'Aquino la caratterizza appunto come una perversione abituale del desiderio talmente forte da dominare (""vincere"") la stessa ragione, portandola a considerare il piacere vizioso come il vero fine da raggiungere. Chi è in queste condizioni fa il male per scelta (<i>In libros Ethicorum expositio</i>, VII, <i>lectio</i> 1, n. 1294). I quattro impedimenti erano già elencati in trattati tipicamente universitari, anche se non tutti contemporaneamente: vedi ad esempio Tommaso d'Aquino nella <i>Summa contra Gentiles</i> (un'opera che Dante citerà esplicitamente in <i>Cv</i> IV xv 12 e IV xxx 3) I, cap. 4, n. 23  ""A fructu enim studiosae inquisitionis, qui est inventio veritatis, plurimi impediuntur tribus de causis. Quidam siquidem propter complexionis indispositionem (""parti indebitamente disposte"") ... Quidam vero impediuntur necessitate rei familiaris ... (""la cura familiare e civile"") ... Quidam autem impediuntur <i>pigritia</i> (""cagione ... induttrice ... di pigrizia"")"";  Boezio di Dacia, <i>De summo bono</i> (p. 373)  ""Cum enim omnes homines naturaliter scire desiderant, paucissimi tamen  ... studio sapientiae vacant. Videmus enim quosdam pigritiam sequi, quosdam autem voluptates sensibiles (""viziose delettazioni"") et quosdam desiderium bonorum fortunae""; Giovanni di Jandun, <i>Quaestiones super Metaphysicam</i> I q. 4  ""Aliquis impeditur propter defectum necessariorum ad vitam ... Similiter aliquis retrahitur propter malitiam individualis naturae (""quando la malizia vince in essa""). Alia causa est segnities propter quam aliquis abhorret studere"". Meno diretto mi sembra  il rapporto con la prefazione del <i>Didascalicon</i> di Ugo di San Vittore, accennato nel Commento  <i>Busnelli</i> e sottolineato particolarmente da Baranski (cfr. Baranski 2000, pp. 92-7). In ogni caso la trattazione dei due impedimenti esterni riflette preoccupazioni e giudizi propri di Dante: la ""cura familiare"" (cioè l'impegno relativo alla gestione dei rapporti e dei beni privati) e quella ""civile"" (cioè l' impegno relativo alla cosa pubblica, alla politica; con <i>civilis</i> viene infatti reso, nella traduzione latina della <i>Politica</i> aristotelica il termine <i>politikòs</i>) è visto non solo come inevitabile (""cagione di necessitade"", cioè causa che toglie ogni possibilità di dedicars allo studio), ma anche giustificato (""convenevole""). La <i>pigritia</i> poi si colora di notazioni socio-geografiche: la mancanza di scuole superiori (indicate al tempo di Dante con il nome di <i>Studia</i>), quindi di intellettuali (""gente studiosa"") e la  lontananza geografica che ne rende difficile la frequentazione saranno per tutto il Trecento ed oltre una delle motivazioni con cui le classi dirigenti dei Comuni italiani (Firenze, Pisa, Siena, Perugia ...) si impegnano nella fondazione di università municipali. Dante, che è stato a Bologna, la città dello Studio per antonomasia, pensa evidentemente che l' ostacolo sia ritenuto insormontabile solo dal vizio della pigrizia, degno di biasimo anche se non quanto la malizia. Ma soprattutto, come vedremo, Dante non accetta come irriformabile il dato di fatto per cui l'umanità è divisa tra una piccola minoranza di fruitori del sapere ed una stragrande maggioranza di frustrati inconsapevoli;  il suo <i>Convivio</i> è  infatti apparecchiato  per rimuovere, almeno in parte, i due ostacoli esterni. Una più ampia e anche in parte diversa trattazione dei difetti fisici e mentali che impediscono il raggiungimento della verità si avrà in <i>Cv</i> IV xv 11-18.","(p. 373) ""Cum enim omnes homines naturaliter scire desiderant, paucissimi tamen  ... studio sapientiae vacant. Videmus enim quosdam pigritiam sequi, quosdam autem voluptates sensibiles (""viziose delettazioni"") et quosdam desiderium bonorum fortunae""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_summo_bono,De summo bono,Boezio di Dacia,http://dbpedia.org/resource/Boetius_of_Dacia,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
SI MANUCA,"si mangia. Il pane degli angeli, nella tradizione veterotestamentaria è la manna (cfr. <i>Ps</i>. 77, 25 «Panem angelorum manducavit homo»). Nel vangelo di Giovanni (6, 59) il nuovo pane del cielo, che si oppone alla manna dei padri, è Cristo che si offre come vero cibo. Lesegesi patristica, a partire da Agostino, aveva visto  nel panis angelorum il Verbo stesso (cfr. le <i>Enarrationes in Psalmos</i>, <i>ps</i>. 77, 17, p. 1081, seguite quasi alla lettera da Cassiodoro e da Remigio di Auxerre, fino alla <i>Glossa</i> ordinaria, PL. 113, p. 970: «Panis caeli, non aliter quam Christus de quo coelestes, id est angeli, reficiuntur eius contemplatione»). A questa interpretazione se ne era aggiunta unaltra che collegava il pane degli angeli mangiato dagli uomini al mistero eucaristico (cfr. Aimone di Halberstadt, <i>Explanatio in Psalmos</i>, PL 116, p. 462). Nei decenni immediatamente precedenti il <i>Convivio</i>, nella sequenza della nuova festa del <i>Corpus Domini</i> da lui composta Tommaso dAquino aveva particolarmente sottolineato questultimo aspetto («in figuris praesignatus … datur manna patribus»; «ecce panis angelorum factus cibus viatorum»). Che, come qui avviene, il pane degli angeli indichi anche per gli uomini il sapere e la conoscenza è dunque un esegesi abbastanza originale di Dante: infatti solo nel Commento ai <i>Salmi</i> di Brunone di Asti viene identificato oltre che con il corpo di Cristo, con la “intelligentia” e la “scientia spiritualis” (cfr. PL 164, p. 998). Si è molto discusso se questo sapere si identificasse per Dante con la teologia o con la filosofia. Molto opportunamente Bruno Nardi ha fatto notare che  questa distinzione non sembra applicabile al pensiero dantesco, per cui il Verbo identificato appunto con il “panis angelorum” dallesegesi patristica e scolastica, riassume in sé entrambe (cfr. Nardi 1944, pp. 47-53). Minor attenzione è stata riservata al fatto che per lautore del <i>Convivio</i> questo pane viene distribuito ad alcuni (pochi) mentre altri, molti e sociologicamente ben connotati, ne rimangono esclusi: limmagine della mensa alla quale si siede e dove lo si può trovare e mangiare ha tutta laria di rimandare ad un contesto istituzionale. Per questo mi sembra plausibile che Dante stia pensando anche ad un sapere concreto e curriculare ed alle istituzioni che lo forniscono, prima di tutti lUniversità (nella bolla con cui nellaprile 1231 il papa Gregorio IX annunciava ai maestri e agli studenti parigini una revisione dei libri aristotelici in funzione di un loro uso legittimo come testi di insegnamento, la città ed il suo Studio venivano definiti  parens scientiarum e officina specialis sapientie (cfr.Denifle-Chatelain, <i>Chartularium Universitatis Parisiensis</i>,  I, n. 78).","6, 59",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_John,Vangelo di Giovanni,Giovanni,http://dbpedia.org/resource/John_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
SI MANUCA,"si mangia. Il pane degli angeli, nella tradizione veterotestamentaria è la manna (cfr. <i>Ps</i>. 77, 25 «Panem angelorum manducavit homo»). Nel vangelo di Giovanni (6, 59) il nuovo pane del cielo, che si oppone alla manna dei padri, è Cristo che si offre come vero cibo. Lesegesi patristica, a partire da Agostino, aveva visto  nel panis angelorum il Verbo stesso (cfr. le <i>Enarrationes in Psalmos</i>, <i>ps</i>. 77, 17, p. 1081, seguite quasi alla lettera da Cassiodoro e da Remigio di Auxerre, fino alla <i>Glossa</i> ordinaria, PL. 113, p. 970: «Panis caeli, non aliter quam Christus de quo coelestes, id est angeli, reficiuntur eius contemplatione»). A questa interpretazione se ne era aggiunta unaltra che collegava il pane degli angeli mangiato dagli uomini al mistero eucaristico (cfr. Aimone di Halberstadt, <i>Explanatio in Psalmos</i>, PL 116, p. 462). Nei decenni immediatamente precedenti il <i>Convivio</i>, nella sequenza della nuova festa del <i>Corpus Domini</i> da lui composta Tommaso dAquino aveva particolarmente sottolineato questultimo aspetto («in figuris praesignatus … datur manna patribus»; «ecce panis angelorum factus cibus viatorum»). Che, come qui avviene, il pane degli angeli indichi anche per gli uomini il sapere e la conoscenza è dunque un esegesi abbastanza originale di Dante: infatti solo nel Commento ai <i>Salmi</i> di Brunone di Asti viene identificato oltre che con il corpo di Cristo, con la “intelligentia” e la “scientia spiritualis” (cfr. PL 164, p. 998). Si è molto discusso se questo sapere si identificasse per Dante con la teologia o con la filosofia. Molto opportunamente Bruno Nardi ha fatto notare che  questa distinzione non sembra applicabile al pensiero dantesco, per cui il Verbo identificato appunto con il “panis angelorum” dallesegesi patristica e scolastica, riassume in sé entrambe (cfr. Nardi 1944, pp. 47-53). Minor attenzione è stata riservata al fatto che per lautore del <i>Convivio</i> questo pane viene distribuito ad alcuni (pochi) mentre altri, molti e sociologicamente ben connotati, ne rimangono esclusi: limmagine della mensa alla quale si siede e dove lo si può trovare e mangiare ha tutta laria di rimandare ad un contesto istituzionale. Per questo mi sembra plausibile che Dante stia pensando anche ad un sapere concreto e curriculare ed alle istituzioni che lo forniscono, prima di tutti lUniversità (nella bolla con cui nellaprile 1231 il papa Gregorio IX annunciava ai maestri e agli studenti parigini una revisione dei libri aristotelici in funzione di un loro uso legittimo come testi di insegnamento, la città ed il suo Studio venivano definiti  parens scientiarum e officina specialis sapientie (cfr.Denifle-Chatelain, <i>Chartularium Universitatis Parisiensis</i>,  I, n. 78).","ps. 77, 17, p. 1081",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Enarrationes_in_psalmos,Enarrationes in Psalmos,Agostino,http://dbpedia.org/resource/Augustine_of_Hippo,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
NON SANZA ... MANGIANDO,"provano compassione verso coloro che vedono andar («veggion sen gire») mangiando erba e ghiande, cibo degno di bestie («bestiale pastura») e non di uomini. La pastura di ghiande rimanda alla condizione del figliol prodigo costretto a desiderare il cibo dei porci che conduceva al pascolo (cfr. <i>Lc</i>. 15, 16).","15, 16",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Luke,Vangelo di Luca,Luca,http://dbpedia.org/resource/Luke_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
LIBERALMENTE,"la liberalità, virtù che aristotelicamente consiste nel saper acquisire e donare in modo corretto ricchezze materiali (cfr. <i>Eth. Nic</i>. IV 1, 1119 b 22 sgg. e lo stesso <i>Convivio</i>, IV xvii 4  «liberalitade, la quale è moderatrice del nostro dare e del nostro ricevere le cose temporali») viene estesa al bene della scienza. Qui essa dovrebbe trovare la sua applicazione insieme più alta e più necessaria: la scienza infatti è un dono di Dio e, come il tempo, non può essere comprata e venduta, ma solo dispensata (cfr. Post Giocarinis- Kay 1955). Ma questa linea di pensiero  andava ormai soccombendo sotto la pressione delle artes lucrativae, diritto e medicina, dove la preparazione universitaria dei professionisti serviva semmai ad alzare le tariffe (cfr. <i>Cv</i> IV xxvii 9). Laffermazione del <i>Convivio</i>, dunque, riguarda più il dover essere che lessere e forse non è priva di una sfumatura di ironia. Sulla relazione tra liberalità e misericordia in Dante vedi Artale 2000, pp. 69-97.","IV 1, 1119 b 22 sgg.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
LA NATURALE SETE CHE DI SOPRA È NOMINATA,"si tratta del desiderio di sapere di cui Dante ha parlato nel primo paragrafo di questo capitolo. La metafora della sete e l immagine del fonte vivo richiamano le parole rivolte da Gesù alla Samaritana nel Vangelo di Giovanni  «Aqua quam dabo … fiet … fons aquae salientis in vitam aeternam» (4, 14). La stessa metafora verrà usata da Dante in  <i>Pg</i>  XXI 1-4, con un rimando esplicito al testo evangelico: «La sete natural che mai non sazia / se non con lacqua onde la femminetta / sammaritana dimandò la grazia / mi travagliava …». Ma nel <i>Convivio</i>, come vedremo, Dante pensa che la sete “naturale” possa essere saziata “naturalmente” dal sapere che luomo è capace di raggiungere usando al meglio il proprio intelletto.","«Aqua quam dabo … fiet … fons aquae salientis in vitam aeternam» (4, 14)",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_John,Vangelo di Giovanni,Giovanni,http://dbpedia.org/resource/John_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
RICOLGO,"raccolgo. Anche l'immagine del raccogliere ciò che cade dalla mensa  rimanda a due passi evangelici: la parabola di Lazzaro e del ricco epulone  (<i>Lc</i>. 16, 21) e il colloquio di Gesù con la donna cananea (<i>Mt</i>. 15, 26-27). Con questa similitudine Dante in qualche modo caratterizza la sua collocazione particolare nei confronti del mondo della cultura alta: egli non fa parte strutturalmente della corporazione dei viri scientifici, ma, nonostante le cure civili e familiari è riuscito (come egli stesso ci dirà) a fruire in qualche misura del loro sapere, prima leggendo da solo alcuni testi, poi frequentando le istituzioni culturali che lo producono e lo tramandano.  Di questo sapere egli vuole ora essere in qualche modo il tramite verso coloro che ne sono stati totalmente esclusi. Da cosa deriva questo desiderio di divulgazione? Come vedremo Dante è un convertito alla Filosofia; a differenza degli intellettuali di professione ha  sperimentato e sperimenta personalmente la distanza abissale tra il pane degli angeli e l' erba e le ghiande che lui stesso non dimentica di aver mangiato («non me dimenticando»); quindi è maggiormente aperto ad un sentimento di compassione («misericordievolmente mosso») per coloro che sono rimasti in bestiale pastura e sente forte un bisogno che gli uomini di scienza non provano: quello di avvicinare al sapere filosofico il numero maggiormente possibile di persone. In effetti, come ha giustamente notato F. Cheneval (Cheneval 1998, p. 354) i maestri universitari avevano sì elencato gli impedimenti ad una vita veramente degna dell'uomo, ma non avevano mai pensato che fosse loro compito rimuoverli. La novità dellatteggiamento di Dante risulterà ancora più evidente se, con Ruedi Imbach, sottolineeremo che nellesegesi di Alberto Magno, un filosofo e teologo già da vivo modello di cultura alta, cui Dante si riferirà spesso nel <i>Convivio</i>, il pane che Gesù rifiuta inizialmente alla donna cananea è appunto la dottrina profonda, negata ai laici (cfr. <i>In Joel prophetam enarratio</i>, c. 1, n. 11 «Et cum laica peteret panem delicatum, respondit: non est bonum sumere panem filiorum et mittere canibus», citato in Imbach, 1989, p. 133).","15, 26-27",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Matthew,Vangelo di Matteo,Matteo,http://dbpedia.org/resource/Matthew_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
RICOLGO,"raccolgo. Anche l'immagine del raccogliere ciò che cade dalla mensa  rimanda a due passi evangelici: la parabola di Lazzaro e del ricco epulone  (<i>Lc</i>. 16, 21) e il colloquio di Gesù con la donna cananea (<i>Mt</i>. 15, 26-27). Con questa similitudine Dante in qualche modo caratterizza la sua collocazione particolare nei confronti del mondo della cultura alta: egli non fa parte strutturalmente della corporazione dei viri scientifici, ma, nonostante le cure civili e familiari è riuscito (come egli stesso ci dirà) a fruire in qualche misura del loro sapere, prima leggendo da solo alcuni testi, poi frequentando le istituzioni culturali che lo producono e lo tramandano.  Di questo sapere egli vuole ora essere in qualche modo il tramite verso coloro che ne sono stati totalmente esclusi. Da cosa deriva questo desiderio di divulgazione? Come vedremo Dante è un convertito alla Filosofia; a differenza degli intellettuali di professione ha  sperimentato e sperimenta personalmente la distanza abissale tra il pane degli angeli e l' erba e le ghiande che lui stesso non dimentica di aver mangiato («non me dimenticando»); quindi è maggiormente aperto ad un sentimento di compassione («misericordievolmente mosso») per coloro che sono rimasti in bestiale pastura e sente forte un bisogno che gli uomini di scienza non provano: quello di avvicinare al sapere filosofico il numero maggiormente possibile di persone. In effetti, come ha giustamente notato F. Cheneval (Cheneval 1998, p. 354) i maestri universitari avevano sì elencato gli impedimenti ad una vita veramente degna dell'uomo, ma non avevano mai pensato che fosse loro compito rimuoverli. La novità dellatteggiamento di Dante risulterà ancora più evidente se, con Ruedi Imbach, sottolineeremo che nellesegesi di Alberto Magno, un filosofo e teologo già da vivo modello di cultura alta, cui Dante si riferirà spesso nel <i>Convivio</i>, il pane che Gesù rifiuta inizialmente alla donna cananea è appunto la dottrina profonda, negata ai laici (cfr. <i>In Joel prophetam enarratio</i>, c. 1, n. 11 «Et cum laica peteret panem delicatum, respondit: non est bonum sumere panem filiorum et mittere canibus», citato in Imbach, 1989, p. 133).","16, 21",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Luke,Vangelo di Luca,Luca,http://dbpedia.org/resource/Luke_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
UN GENERALE CONVIVIO,"il termine “convivio” che come Dante ci dice immediatamente dopo, sarà anche il titolo dell'opera, è carico di richiami  e suggestioni. Che Platone avesse parlato di un banchetto filosofico veniva asserito nel XII secolo non a partire, come ci aspetteremmo, dal <i>Simposio</i> (un testo del tutto sconosciuto per il Medioevo) ma dal <i>Timeo</i> in cui proprio allinizio Socrate aveva accennato ad un convito del giorno prima. Così aveva glossato un suo interprete: «Plato per involucrum cuiusdam convivii tractat … materiam. Volens enim per positivam justitiam accedere ad naturalem … inducit Socratem … pridie Timaeo … dedisse <i>epulum</i>, id est tractatum de positiva iustitia» (Bernardo di Chartres, <i>Glosae super Timaeum</i>, ed. Dutton, p. 145). E poco dopo, spiegando il termine <i>epulum</i>:  «Epulum, id est convivium, dicitur disputatio philosophorum per simile, quia sicut in convivio multa habentur fercula, ita in eorum disputatione multae et variae tractantur sententiae» (ivi, p. 147). Nella Bibbia, poi,  la Sapienza stessa allestiva un banchetto per gli uomini (cfr. <i>Prv</i>  9, 1-5). Infine, nella stessa linea del pane degli angeli, il termine era stato utilizzato nella liturgia del <i>Corpus Domini</i> («O sacrum convivium in quo Christus sumitur»). Nella letteratura volgare, immediatamente prima di Dante,  Guittone dArezzo, richiesto di ammaestramenti, aveva parlato della sua poveretta mensa e di una vivanda che sarebbe stata utile al suo convitato (<i>Lettera a Gianni Bentivegna</i>, in <i>Lettere</i>, ed. Margueron,  p. 4). Dante, a differenza di Guittone, parla però di un «convivio generale», cioè pubblico, aperto a tutti. Il paragone può dunque rimandare anche ad una di quelle tavole bandite che nella Firenze del XIII secolo mostravano la “larghezza” di magnati come Betto Brunelleschi (cfr. <i>Decameron</i> VI 9). La <i>Cronica</i> di Giovanni Villani (VIII 89,  pp. 547-548) parla di una corte bandita nellestate del 1283 alla quale parteciparono «mille uomini e più tutti vestiti di robe bianche … stando in conviti insieme,in desinari e in cene» e richiamò a Firenze «di diverse parti molti gentiluomini di corte e giocolari» (meno convincente il richiamo del Commento di Cheneval ai convivia publica caratteristici di alcune città greche e ricordati nella <i>Politica</i> aristotelica). Viene così ulteriormente sottolineata l'intenzione di venire incontro ai bisogni più profondi di chi, non per disgrazia o colpa, è rimasto escluso dal sapere. Il <i>De vulgari eloquentia</i> (I i 1) esprime con la metafora del bere la medesima intenzione di venire incontro ad un vasto pubblico di non specialisti.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Timaeus_(dialogue),Timeo,Platone,http://dbpedia.org/resource/Plato,http://purl.org/bncf/tid/8332,WORK
UN GENERALE CONVIVIO,"il termine “convivio” che come Dante ci dice immediatamente dopo, sarà anche il titolo dell'opera, è carico di richiami  e suggestioni. Che Platone avesse parlato di un banchetto filosofico veniva asserito nel XII secolo non a partire, come ci aspetteremmo, dal <i>Simposio</i> (un testo del tutto sconosciuto per il Medioevo) ma dal <i>Timeo</i> in cui proprio allinizio Socrate aveva accennato ad un convito del giorno prima. Così aveva glossato un suo interprete: «Plato per involucrum cuiusdam convivii tractat … materiam. Volens enim per positivam justitiam accedere ad naturalem … inducit Socratem … pridie Timaeo … dedisse <i>epulum</i>, id est tractatum de positiva iustitia» (Bernardo di Chartres, <i>Glosae super Timaeum</i>, ed. Dutton, p. 145). E poco dopo, spiegando il termine <i>epulum</i>:  «Epulum, id est convivium, dicitur disputatio philosophorum per simile, quia sicut in convivio multa habentur fercula, ita in eorum disputatione multae et variae tractantur sententiae» (ivi, p. 147). Nella Bibbia, poi,  la Sapienza stessa allestiva un banchetto per gli uomini (cfr. <i>Prv</i>  9, 1-5). Infine, nella stessa linea del pane degli angeli, il termine era stato utilizzato nella liturgia del <i>Corpus Domini</i> («O sacrum convivium in quo Christus sumitur»). Nella letteratura volgare, immediatamente prima di Dante,  Guittone dArezzo, richiesto di ammaestramenti, aveva parlato della sua poveretta mensa e di una vivanda che sarebbe stata utile al suo convitato (<i>Lettera a Gianni Bentivegna</i>, in <i>Lettere</i>, ed. Margueron,  p. 4). Dante, a differenza di Guittone, parla però di un «convivio generale», cioè pubblico, aperto a tutti. Il paragone può dunque rimandare anche ad una di quelle tavole bandite che nella Firenze del XIII secolo mostravano la “larghezza” di magnati come Betto Brunelleschi (cfr. <i>Decameron</i> VI 9). La <i>Cronica</i> di Giovanni Villani (VIII 89,  pp. 547-548) parla di una corte bandita nellestate del 1283 alla quale parteciparono «mille uomini e più tutti vestiti di robe bianche … stando in conviti insieme,in desinari e in cene» e richiamò a Firenze «di diverse parti molti gentiluomini di corte e giocolari» (meno convincente il richiamo del Commento di Cheneval ai convivia publica caratteristici di alcune città greche e ricordati nella <i>Politica</i> aristotelica). Viene così ulteriormente sottolineata l'intenzione di venire incontro ai bisogni più profondi di chi, non per disgrazia o colpa, è rimasto escluso dal sapere. Il <i>De vulgari eloquentia</i> (I i 1) esprime con la metafora del bere la medesima intenzione di venire incontro ad un vasto pubblico di non specialisti.","«Plato per involucrum cuiusdam convivii tractat … materiam. Volens enim per positivam justitiam accedere ad naturalem … inducit Socratem … pridie Timaeo … dedisse epulum, id est tractatum de positiva iustitia»ed. Dutton, p. 145",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Glosae_super_Timaeum,Glosae super Timaeum,Bernardo di Chartres,http://dbpedia.org/resource/Bernard_of_Chartres,http://purl.org/bncf/tid/8332,WORK
UN GENERALE CONVIVIO,"il termine “convivio” che come Dante ci dice immediatamente dopo, sarà anche il titolo dell'opera, è carico di richiami  e suggestioni. Che Platone avesse parlato di un banchetto filosofico veniva asserito nel XII secolo non a partire, come ci aspetteremmo, dal <i>Simposio</i> (un testo del tutto sconosciuto per il Medioevo) ma dal <i>Timeo</i> in cui proprio allinizio Socrate aveva accennato ad un convito del giorno prima. Così aveva glossato un suo interprete: «Plato per involucrum cuiusdam convivii tractat … materiam. Volens enim per positivam justitiam accedere ad naturalem … inducit Socratem … pridie Timaeo … dedisse <i>epulum</i>, id est tractatum de positiva iustitia» (Bernardo di Chartres, <i>Glosae super Timaeum</i>, ed. Dutton, p. 145). E poco dopo, spiegando il termine <i>epulum</i>:  «Epulum, id est convivium, dicitur disputatio philosophorum per simile, quia sicut in convivio multa habentur fercula, ita in eorum disputatione multae et variae tractantur sententiae» (ivi, p. 147). Nella Bibbia, poi,  la Sapienza stessa allestiva un banchetto per gli uomini (cfr. <i>Prv</i>  9, 1-5). Infine, nella stessa linea del pane degli angeli, il termine era stato utilizzato nella liturgia del <i>Corpus Domini</i> («O sacrum convivium in quo Christus sumitur»). Nella letteratura volgare, immediatamente prima di Dante,  Guittone dArezzo, richiesto di ammaestramenti, aveva parlato della sua poveretta mensa e di una vivanda che sarebbe stata utile al suo convitato (<i>Lettera a Gianni Bentivegna</i>, in <i>Lettere</i>, ed. Margueron,  p. 4). Dante, a differenza di Guittone, parla però di un «convivio generale», cioè pubblico, aperto a tutti. Il paragone può dunque rimandare anche ad una di quelle tavole bandite che nella Firenze del XIII secolo mostravano la “larghezza” di magnati come Betto Brunelleschi (cfr. <i>Decameron</i> VI 9). La <i>Cronica</i> di Giovanni Villani (VIII 89,  pp. 547-548) parla di una corte bandita nellestate del 1283 alla quale parteciparono «mille uomini e più tutti vestiti di robe bianche … stando in conviti insieme,in desinari e in cene» e richiamò a Firenze «di diverse parti molti gentiluomini di corte e giocolari» (meno convincente il richiamo del Commento di Cheneval ai convivia publica caratteristici di alcune città greche e ricordati nella <i>Politica</i> aristotelica). Viene così ulteriormente sottolineata l'intenzione di venire incontro ai bisogni più profondi di chi, non per disgrazia o colpa, è rimasto escluso dal sapere. Il <i>De vulgari eloquentia</i> (I i 1) esprime con la metafora del bere la medesima intenzione di venire incontro ad un vasto pubblico di non specialisti.","9, 1-5",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Proverbs,Libro dei Proverbi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
UN GENERALE CONVIVIO,"il termine “convivio” che come Dante ci dice immediatamente dopo, sarà anche il titolo dell'opera, è carico di richiami  e suggestioni. Che Platone avesse parlato di un banchetto filosofico veniva asserito nel XII secolo non a partire, come ci aspetteremmo, dal <i>Simposio</i> (un testo del tutto sconosciuto per il Medioevo) ma dal <i>Timeo</i> in cui proprio allinizio Socrate aveva accennato ad un convito del giorno prima. Così aveva glossato un suo interprete: «Plato per involucrum cuiusdam convivii tractat … materiam. Volens enim per positivam justitiam accedere ad naturalem … inducit Socratem … pridie Timaeo … dedisse <i>epulum</i>, id est tractatum de positiva iustitia» (Bernardo di Chartres, <i>Glosae super Timaeum</i>, ed. Dutton, p. 145). E poco dopo, spiegando il termine <i>epulum</i>:  «Epulum, id est convivium, dicitur disputatio philosophorum per simile, quia sicut in convivio multa habentur fercula, ita in eorum disputatione multae et variae tractantur sententiae» (ivi, p. 147). Nella Bibbia, poi,  la Sapienza stessa allestiva un banchetto per gli uomini (cfr. <i>Prv</i>  9, 1-5). Infine, nella stessa linea del pane degli angeli, il termine era stato utilizzato nella liturgia del <i>Corpus Domini</i> («O sacrum convivium in quo Christus sumitur»). Nella letteratura volgare, immediatamente prima di Dante,  Guittone dArezzo, richiesto di ammaestramenti, aveva parlato della sua poveretta mensa e di una vivanda che sarebbe stata utile al suo convitato (<i>Lettera a Gianni Bentivegna</i>, in <i>Lettere</i>, ed. Margueron,  p. 4). Dante, a differenza di Guittone, parla però di un «convivio generale», cioè pubblico, aperto a tutti. Il paragone può dunque rimandare anche ad una di quelle tavole bandite che nella Firenze del XIII secolo mostravano la “larghezza” di magnati come Betto Brunelleschi (cfr. <i>Decameron</i> VI 9). La <i>Cronica</i> di Giovanni Villani (VIII 89,  pp. 547-548) parla di una corte bandita nellestate del 1283 alla quale parteciparono «mille uomini e più tutti vestiti di robe bianche … stando in conviti insieme,in desinari e in cene» e richiamò a Firenze «di diverse parti molti gentiluomini di corte e giocolari» (meno convincente il richiamo del Commento di Cheneval ai convivia publica caratteristici di alcune città greche e ricordati nella <i>Politica</i> aristotelica). Viene così ulteriormente sottolineata l'intenzione di venire incontro ai bisogni più profondi di chi, non per disgrazia o colpa, è rimasto escluso dal sapere. Il <i>De vulgari eloquentia</i> (I i 1) esprime con la metafora del bere la medesima intenzione di venire incontro ad un vasto pubblico di non specialisti.","in Lettere, ed. Margueron,  p. 4",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Lettera_a_Gianni_Bentivegna,Lettera a Gianni Bentivegna,Guittone d'Arezzo,http://live.dbpedia.org/resource/Guittone_d'Arezzo,http://purl.org/bncf/tid/2921,WORK
UN GENERALE CONVIVIO,"il termine “convivio” che come Dante ci dice immediatamente dopo, sarà anche il titolo dell'opera, è carico di richiami  e suggestioni. Che Platone avesse parlato di un banchetto filosofico veniva asserito nel XII secolo non a partire, come ci aspetteremmo, dal <i>Simposio</i> (un testo del tutto sconosciuto per il Medioevo) ma dal <i>Timeo</i> in cui proprio allinizio Socrate aveva accennato ad un convito del giorno prima. Così aveva glossato un suo interprete: «Plato per involucrum cuiusdam convivii tractat … materiam. Volens enim per positivam justitiam accedere ad naturalem … inducit Socratem … pridie Timaeo … dedisse <i>epulum</i>, id est tractatum de positiva iustitia» (Bernardo di Chartres, <i>Glosae super Timaeum</i>, ed. Dutton, p. 145). E poco dopo, spiegando il termine <i>epulum</i>:  «Epulum, id est convivium, dicitur disputatio philosophorum per simile, quia sicut in convivio multa habentur fercula, ita in eorum disputatione multae et variae tractantur sententiae» (ivi, p. 147). Nella Bibbia, poi,  la Sapienza stessa allestiva un banchetto per gli uomini (cfr. <i>Prv</i>  9, 1-5). Infine, nella stessa linea del pane degli angeli, il termine era stato utilizzato nella liturgia del <i>Corpus Domini</i> («O sacrum convivium in quo Christus sumitur»). Nella letteratura volgare, immediatamente prima di Dante,  Guittone dArezzo, richiesto di ammaestramenti, aveva parlato della sua poveretta mensa e di una vivanda che sarebbe stata utile al suo convitato (<i>Lettera a Gianni Bentivegna</i>, in <i>Lettere</i>, ed. Margueron,  p. 4). Dante, a differenza di Guittone, parla però di un «convivio generale», cioè pubblico, aperto a tutti. Il paragone può dunque rimandare anche ad una di quelle tavole bandite che nella Firenze del XIII secolo mostravano la “larghezza” di magnati come Betto Brunelleschi (cfr. <i>Decameron</i> VI 9). La <i>Cronica</i> di Giovanni Villani (VIII 89,  pp. 547-548) parla di una corte bandita nellestate del 1283 alla quale parteciparono «mille uomini e più tutti vestiti di robe bianche … stando in conviti insieme,in desinari e in cene» e richiamò a Firenze «di diverse parti molti gentiluomini di corte e giocolari» (meno convincente il richiamo del Commento di Cheneval ai convivia publica caratteristici di alcune città greche e ricordati nella <i>Politica</i> aristotelica). Viene così ulteriormente sottolineata l'intenzione di venire incontro ai bisogni più profondi di chi, non per disgrazia o colpa, è rimasto escluso dal sapere. Il <i>De vulgari eloquentia</i> (I i 1) esprime con la metafora del bere la medesima intenzione di venire incontro ad un vasto pubblico di non specialisti.","VIII 89,  pp. 547-548",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nova_Cronica,Nova Cronica,Giovanni Villani,http://dbpedia.org/resource/Giovanni_Villani,http://purl.org/bncf/tid/9645,WORK
PURGARE DA OGNI MACULA,"pulire da ogni macchia, da ogni sporcizia. Il termine purgare era già ststo usato da Brunetto Latini nel senso traslato che gli darà Dante (cfr. <i>La Rettorica</i> I, 13,  p. 7 «Tulio, volendo che la rettorica fosse amata e tenuta cara …, mise davanti questo prolago, nel quale purgò quelle cose che pareano a llui gravose » ).","I, 13,  p. 7 «Tulio, volendo che la rettorica fosse amata e tenuta cara …, mise davanti questo prolago, nel quale purgò quelle cose che pareano a llui gravose »",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/La_Rettorica,La Rettorica,Brunetto Latini,http://dbpedia.org/resource/Brunetto_Latini,http://purl.org/bncf/tid/4567,WORK
NON SI CONCEDE PER LI RETTORICI,"non è ammesso dai maestri di retorica (“per”, nellitaliano antico, ha  spesso il valore di complemento di mezzo o di agente). Dante si riferisce con tutta probabilità agli autori di quei testi che per la cultura medievale fondano e trasmettono la retorica come scienza capace di essere insegnata: essenzialmente il Cicerone del <i>De inventione</i> e della <i>Rhetorica ad Herennium</i> al tempo di Dante comunemente attribuita allArpinate. Non è da escludere la presenza di “rettorici” contemporanei come Brunetto Latini che nel <i>Trésor</i> aveva abbondantemente parafrasato Cicerone e nella <i>Rettorica</i> aveva commentato il <i>De inventione</i>. Né in Cicerone né in Brunetto si trova però un divieto di parlare di sé medesimi, bensì suggerimenti su come accattivarsi lanimo degli uditori parlando di sé, ma con modestia e senza iattanza (cfr. <i>Trésor</i>, III xxv 2, p. 678 che parafrasa <i>De inventione</i> I.22,  e <i>Rettorica</i>  95, pp. 120 sgg. che lo commenta). Tra questi, quello di «diluere crimina inlata et aliquas inhonestas suspiciones iniectas» corrisponde effettivamente ad una delle due cause che rendono necessario il parlare di sé alla quale si riferirà Dante nel paragrafo 13 («Luna è quando senza ragionare di sé grande infamia o pericolo non si può cessare»). Come hanno notato i commenti di <i>Busnelli</i> e di <i>Vasoli</i>, il divieto di parlare sia bene sia male di sé si trova piuttosto attribuito ad Aristotele in unopera assai diffusa e utlizzata nel Medio Evo, i <i>Facta  et dicta memorabilia</i> di Valerio Massimo (cfr. VII.ii.11 «Aristoteles de semet ipso in neutram partem loqui debere praedicabat, quoniam laudare se vani, vituperare stulti esset»). Da qui era passato in una delle più diffuse opere enciclopediche del Medioevo, lo <i>Speculum Historiale</i> di Vincenzo di Beauvais  (IV, cap. 82, p. 174) e dallo <i>Speculum</i> in unopera in volgare coeva di Dante, il Fiori e vita di filosafi e daltri savi e dimperadori, p. 128. Lipotesi più probabile è che Dante avesse trovato la massima nei <i>Disticha Catonis</i>, uno dei testi base delle scuole medievali di grammatica.  In ogni caso, accanto alla <i>auctoritas</i> degli “autori”, Dante registra il fatto che in linea di massima ci si astiene comunque («da ciò luomo è rimosso »: «luomo» ha un valore impersonale, come nel francese “on”) dal parlare di sé: se infatti parlare di qualcuno implica sempre lode o biasimo, chi parla di sé non può riferire la lode o il biasimo altro che a se stesso, e questo rende necessariamente il suo discorso rozzo e volgare («stanno a far dire rusticamente nella bocca di ciascuno»). Sulla necessità di non essere «laudatore di sé medesimo, la quale cosa è al postutto biasimevole a chi lo fa» cfr. <i>Vn</i> 19, 2.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Distichs_of_Cato,Disticha Catonis,,,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
NON SI CONCEDE PER LI RETTORICI,"non è ammesso dai maestri di retorica (“per”, nellitaliano antico, ha  spesso il valore di complemento di mezzo o di agente). Dante si riferisce con tutta probabilità agli autori di quei testi che per la cultura medievale fondano e trasmettono la retorica come scienza capace di essere insegnata: essenzialmente il Cicerone del <i>De inventione</i> e della <i>Rhetorica ad Herennium</i> al tempo di Dante comunemente attribuita allArpinate. Non è da escludere la presenza di “rettorici” contemporanei come Brunetto Latini che nel <i>Trésor</i> aveva abbondantemente parafrasato Cicerone e nella <i>Rettorica</i> aveva commentato il <i>De inventione</i>. Né in Cicerone né in Brunetto si trova però un divieto di parlare di sé medesimi, bensì suggerimenti su come accattivarsi lanimo degli uditori parlando di sé, ma con modestia e senza iattanza (cfr. <i>Trésor</i>, III xxv 2, p. 678 che parafrasa <i>De inventione</i> I.22,  e <i>Rettorica</i>  95, pp. 120 sgg. che lo commenta). Tra questi, quello di «diluere crimina inlata et aliquas inhonestas suspiciones iniectas» corrisponde effettivamente ad una delle due cause che rendono necessario il parlare di sé alla quale si riferirà Dante nel paragrafo 13 («Luna è quando senza ragionare di sé grande infamia o pericolo non si può cessare»). Come hanno notato i commenti di <i>Busnelli</i> e di <i>Vasoli</i>, il divieto di parlare sia bene sia male di sé si trova piuttosto attribuito ad Aristotele in unopera assai diffusa e utlizzata nel Medio Evo, i <i>Facta  et dicta memorabilia</i> di Valerio Massimo (cfr. VII.ii.11 «Aristoteles de semet ipso in neutram partem loqui debere praedicabat, quoniam laudare se vani, vituperare stulti esset»). Da qui era passato in una delle più diffuse opere enciclopediche del Medioevo, lo <i>Speculum Historiale</i> di Vincenzo di Beauvais  (IV, cap. 82, p. 174) e dallo <i>Speculum</i> in unopera in volgare coeva di Dante, il Fiori e vita di filosafi e daltri savi e dimperadori, p. 128. Lipotesi più probabile è che Dante avesse trovato la massima nei <i>Disticha Catonis</i>, uno dei testi base delle scuole medievali di grammatica.  In ogni caso, accanto alla <i>auctoritas</i> degli “autori”, Dante registra il fatto che in linea di massima ci si astiene comunque («da ciò luomo è rimosso »: «luomo» ha un valore impersonale, come nel francese “on”) dal parlare di sé: se infatti parlare di qualcuno implica sempre lode o biasimo, chi parla di sé non può riferire la lode o il biasimo altro che a se stesso, e questo rende necessariamente il suo discorso rozzo e volgare («stanno a far dire rusticamente nella bocca di ciascuno»). Sulla necessità di non essere «laudatore di sé medesimo, la quale cosa è al postutto biasimevole a chi lo fa» cfr. <i>Vn</i> 19, 2.","IV, cap. 82, p. 174",CONCORDANZA STRINGENTE,http://it.dbpedia.org/resource/Speculum_historiale,Speculum Historiale,Vincenzo di Beauvais,http://dbpedia.org/resource/Vincent_of_Beauvais,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
NON SI CONCEDE PER LI RETTORICI,"non è ammesso dai maestri di retorica (“per”, nellitaliano antico, ha  spesso il valore di complemento di mezzo o di agente). Dante si riferisce con tutta probabilità agli autori di quei testi che per la cultura medievale fondano e trasmettono la retorica come scienza capace di essere insegnata: essenzialmente il Cicerone del <i>De inventione</i> e della <i>Rhetorica ad Herennium</i> al tempo di Dante comunemente attribuita allArpinate. Non è da escludere la presenza di “rettorici” contemporanei come Brunetto Latini che nel <i>Trésor</i> aveva abbondantemente parafrasato Cicerone e nella <i>Rettorica</i> aveva commentato il <i>De inventione</i>. Né in Cicerone né in Brunetto si trova però un divieto di parlare di sé medesimi, bensì suggerimenti su come accattivarsi lanimo degli uditori parlando di sé, ma con modestia e senza iattanza (cfr. <i>Trésor</i>, III xxv 2, p. 678 che parafrasa <i>De inventione</i> I.22,  e <i>Rettorica</i>  95, pp. 120 sgg. che lo commenta). Tra questi, quello di «diluere crimina inlata et aliquas inhonestas suspiciones iniectas» corrisponde effettivamente ad una delle due cause che rendono necessario il parlare di sé alla quale si riferirà Dante nel paragrafo 13 («Luna è quando senza ragionare di sé grande infamia o pericolo non si può cessare»). Come hanno notato i commenti di <i>Busnelli</i> e di <i>Vasoli</i>, il divieto di parlare sia bene sia male di sé si trova piuttosto attribuito ad Aristotele in unopera assai diffusa e utlizzata nel Medio Evo, i <i>Facta  et dicta memorabilia</i> di Valerio Massimo (cfr. VII.ii.11 «Aristoteles de semet ipso in neutram partem loqui debere praedicabat, quoniam laudare se vani, vituperare stulti esset»). Da qui era passato in una delle più diffuse opere enciclopediche del Medioevo, lo <i>Speculum Historiale</i> di Vincenzo di Beauvais  (IV, cap. 82, p. 174) e dallo <i>Speculum</i> in unopera in volgare coeva di Dante, il Fiori e vita di filosafi e daltri savi e dimperadori, p. 128. Lipotesi più probabile è che Dante avesse trovato la massima nei <i>Disticha Catonis</i>, uno dei testi base delle scuole medievali di grammatica.  In ogni caso, accanto alla <i>auctoritas</i> degli “autori”, Dante registra il fatto che in linea di massima ci si astiene comunque («da ciò luomo è rimosso »: «luomo» ha un valore impersonale, come nel francese “on”) dal parlare di sé: se infatti parlare di qualcuno implica sempre lode o biasimo, chi parla di sé non può riferire la lode o il biasimo altro che a se stesso, e questo rende necessariamente il suo discorso rozzo e volgare («stanno a far dire rusticamente nella bocca di ciascuno»). Sulla necessità di non essere «laudatore di sé medesimo, la quale cosa è al postutto biasimevole a chi lo fa» cfr. <i>Vn</i> 19, 2.","VII.ii.11 «Aristoteles de semet ipso in neutram partem loqui debere praedicabat, quoniam laudare se vani, vituperare stulti esset»",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Facta_et_dicta_memorabilia,Facta et dicta memorabilia,Valerio Massimo,http://dbpedia.org/resource/Valerius_Maximus,http://purl.org/bncf/tid/9645,WORK
'L NUMERO E LA QUANTITÀ E 'L PESO DEL BENE,"Dante riecheggia qui un brano della Scrittura (<i>Sap</i>. 11, 21 «Omnia in mensura et numero et pondere disposuisti»).","11, 21",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Wisdom,Sapienza,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
E QUESTA NECESSITATE MOSSE BOEZIO,"Dante usa come esempio di un lecito parlare di sé Boezio e il suo <i>De consolatione philosophiae</i>, scritto nel 524 d.C. mentre il filosofo e uomo politico latino era incarcerato a Pavia sotto l accusa di alto tradimento nei confronti del re Teodorico. All inizio del trattato Boezio, rivolgendosi alla Filosofia (personificata in una veneranda matrona che gli è apparsa in prigione), pronuncia una appassionata apologia di se stesso, lamentandosi che nessuno si fosse levato a difenderlo («poi che altro escusatore non si levava») e dimostrando  infondate le accuse che lo avevano fatto incarcerare lontano da Roma («essilio»; cfr. <i>De consolatione philosophiae</i> I, prosa 3, 3, p. 9  «tu in has essilii nostri solitudines, o omnium magistra virtutum, venisti?») che, altrimenti, sarebbero rimaste per lui marchio d'infamia perenne («perpetual infamia». Boezio si lamenta di esser stato «existimatione foedatus»; cfr <i>De consolatione philosophiae</i> I, prosa 4, 45, p. 18).","I, prosa 3, 3, p. 9",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
E QUESTA NECESSITATE MOSSE BOEZIO,"Dante usa come esempio di un lecito parlare di sé Boezio e il suo <i>De consolatione philosophiae</i>, scritto nel 524 d.C. mentre il filosofo e uomo politico latino era incarcerato a Pavia sotto l accusa di alto tradimento nei confronti del re Teodorico. All inizio del trattato Boezio, rivolgendosi alla Filosofia (personificata in una veneranda matrona che gli è apparsa in prigione), pronuncia una appassionata apologia di se stesso, lamentandosi che nessuno si fosse levato a difenderlo («poi che altro escusatore non si levava») e dimostrando  infondate le accuse che lo avevano fatto incarcerare lontano da Roma («essilio»; cfr. <i>De consolatione philosophiae</i> I, prosa 3, 3, p. 9  «tu in has essilii nostri solitudines, o omnium magistra virtutum, venisti?») che, altrimenti, sarebbero rimaste per lui marchio d'infamia perenne («perpetual infamia». Boezio si lamenta di esser stato «existimatione foedatus»; cfr <i>De consolatione philosophiae</i> I, prosa 4, 45, p. 18).","I, prosa 4, 45, p. 18",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
LA QUALE ... NON SI POTEA,"il senso è che  nessuno  avrebbe potuto certificare con una testimonianza più attendibile la dottrina e gli esempi di vita offerti alla nostra considerazione. Agostino, infatti, li aveva sperimentati di persona prima di  narrarli. In effetti il vescovo di Ippona afferma chiaramente di aver scritto le <i>Confessioni</i> spinto non dalla curiosità,  ma dalla carità  perchè rechino frutto a chi le legge  (cfr. <i>Confessiones</i>, X iii 3-iv 6, pp. 156-58).","X iii 3-iv 6, pp. 156-58",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Confessions_(St._Augustine),Confessiones,Agostino,http://dbpedia.org/resource/Augustine_of_Hippo,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
LA PIAGA DELLA FORTUNA,"il colpo inferto dalla Fortuna. Il termine “fortuna” ha per Dante significati più complessi che per noi. La tarda antichità greco-latina aveva fatto della fortuna una divinità (la <i>Tyche</i>) che reggeva a suo capriccio il mondo delle ricchezze, del potere e del successo, e anche dellagonismo sportivo (una statua della <i>Tyche</i> dominava lingresso al grande stadio di Costantinopoli). Attraverso il <i>De consolatione philosophiae</i> questa personificazione era passata al Medioevo sia latino che romanzo (dal <i>Policraticus</i> di Giovanni di Salisbury al <i>Roman de la rose</i>) mantenendo la medesima sfera di competenza (gli «splendori mondani» di  <i>If</i> VII 77). La Fortuna, però, come la Natura dei maestri chartriani o di Alano di Lilla, era diventata una ancella di Dio. Lalternarsi dei suoi favori è plasticamente reso da un simbolo diffusissimo: la ruota della Fortuna (cfr.  <i>If</i> XV 95-6 «però giri Fortuna la sua rota / come le piace …»). Il suo girare non può essere fermato da preghiere perché fa parte esso stesso  di un  ordine provvidenziale che il più delle volte sfugge alla nostra comprensione immediata; come aveva già detto Agostino nel <i>Contra Academicos</i> (I i.1, p. 3): «quae vulgo fortuna nominatur, occulto quodam ordine regitur» (cfr. <i>Mn</i> II ix 9). Se riuscissimo ad adottare il punto di vista della totalità la Fortuna dovrebbe essere lodata, non biasimata (cfr.  <i>If</i> VII 91-3). Se in <i>Cv</i> IV xi 6 sgg., nel caso particolare della distribuzione delle ricchezze, la fortuna viene vista come principio di ingiustizia e quindi di irrazionalità, ciò dipende dalla natura stessa dei beni distribuiti, e inoltre si tratta di  giudizi formulati dal punto di vista di una giustizia e di una razionalità umane (cfr.  Renucci, 1954, pp. 99-100). In ogni modo qui e nella <i>Commedia</i> Dante ha come punto di riferimento Boezio, e non Aristotele o i suoi commentatori medievali, che presentano della fortuna e della casualità una dottrina piuttosto diversa (cfr. <i>Phys</i>. II, 5-6) e soprattutto assai più tecnica e meno trasfigurabile poeticamente.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
LA PIAGA DELLA FORTUNA,"il colpo inferto dalla Fortuna. Il termine “fortuna” ha per Dante significati più complessi che per noi. La tarda antichità greco-latina aveva fatto della fortuna una divinità (la <i>Tyche</i>) che reggeva a suo capriccio il mondo delle ricchezze, del potere e del successo, e anche dellagonismo sportivo (una statua della <i>Tyche</i> dominava lingresso al grande stadio di Costantinopoli). Attraverso il <i>De consolatione philosophiae</i> questa personificazione era passata al Medioevo sia latino che romanzo (dal <i>Policraticus</i> di Giovanni di Salisbury al <i>Roman de la rose</i>) mantenendo la medesima sfera di competenza (gli «splendori mondani» di  <i>If</i> VII 77). La Fortuna, però, come la Natura dei maestri chartriani o di Alano di Lilla, era diventata una ancella di Dio. Lalternarsi dei suoi favori è plasticamente reso da un simbolo diffusissimo: la ruota della Fortuna (cfr.  <i>If</i> XV 95-6 «però giri Fortuna la sua rota / come le piace …»). Il suo girare non può essere fermato da preghiere perché fa parte esso stesso  di un  ordine provvidenziale che il più delle volte sfugge alla nostra comprensione immediata; come aveva già detto Agostino nel <i>Contra Academicos</i> (I i.1, p. 3): «quae vulgo fortuna nominatur, occulto quodam ordine regitur» (cfr. <i>Mn</i> II ix 9). Se riuscissimo ad adottare il punto di vista della totalità la Fortuna dovrebbe essere lodata, non biasimata (cfr.  <i>If</i> VII 91-3). Se in <i>Cv</i> IV xi 6 sgg., nel caso particolare della distribuzione delle ricchezze, la fortuna viene vista come principio di ingiustizia e quindi di irrazionalità, ciò dipende dalla natura stessa dei beni distribuiti, e inoltre si tratta di  giudizi formulati dal punto di vista di una giustizia e di una razionalità umane (cfr.  Renucci, 1954, pp. 99-100). In ogni modo qui e nella <i>Commedia</i> Dante ha come punto di riferimento Boezio, e non Aristotele o i suoi commentatori medievali, che presentano della fortuna e della casualità una dottrina piuttosto diversa (cfr. <i>Phys</i>. II, 5-6) e soprattutto assai più tecnica e meno trasfigurabile poeticamente.","I i.1, p. 3",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Contra_Academicos,Contra Academicos,Agostino,http://dbpedia.org/resource/Augustine_of_Hippo,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
DAL VENTO SECCO,"la metafora della povertà che «vapora» (cioè esala) un vento secco, si spiega con la teoria generale dei venti esposta da Aristotele nel secondo libro dei <i>Meteorologici</i> (c. 4, 360 a 12 sgg.), un testo che Dante utilizzerà attraverso la parafrasi di Alberto Magno, e che comunque era tra i più diffusi, in traduzioni e compendi in volgare, anche al di fuori del circuito universitario (un esempio per tutti è <i>La composizione del mondo</i> colle sue cascioni di Ristoro dArezzo).","4, 360 a 12 sgg.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Meteorology_(Aristotle),Meteorologica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DAL VENTO SECCO,"la metafora della povertà che «vapora» (cioè esala) un vento secco, si spiega con la teoria generale dei venti esposta da Aristotele nel secondo libro dei <i>Meteorologici</i> (c. 4, 360 a 12 sgg.), un testo che Dante utilizzerà attraverso la parafrasi di Alberto Magno, e che comunque era tra i più diffusi, in traduzioni e compendi in volgare, anche al di fuori del circuito universitario (un esempio per tutti è <i>La composizione del mondo</i> colle sue cascioni di Ristoro dArezzo).",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Meteororum(Alberto_Magno),Meteororum,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
LA SECONDA MENTE,"Dante illustra analiticamente (usando il suo linguaggio, diremmo “sottilmente”) il processo per cui la buona opinione di una persona si accresce esponenzialmente passando di bocca in bocca: il secondo anello della catena («la seconda mente») non si limita a recepire lampliamento della fama operato dal primo («non solamente alla dilatazione della prima sta contenta»), ma a sua volta amplia ulteriormente rispetto a quello che le è giunto («quella più ampia fa che a lei non vene») per uno dei due motivi già prima accennati: o perché consapevolmente cerca di abbellire («procura di adornare») quel che trasmette agli altri («riportamento») considerandolo come fosse un suo proprio prodotto («sì quasi come suo effetto»), o perché è ingannato dallamore disinteressato che in lui si genera verso la persona lodata («per linganno che riceve della caritade in lei generata»). Anche qui nel primo caso si va contro coscienza, nel secondo no. Lo stesso si verifica in chi a sua volta riceve («la terza ricevitrice») e così la fama buona si accresce («si dilata») allinfinito. Una medesima struttura («ragione») possiamo osservare («si può vedere») nel processo con cui si accresce la cattiva fama («infamia»), solo che le cause vanno rovesciate nel loro contrario («volgendo le cagioni …nelle contrarie»); prodotta da una mente nemica, infatti, essa è cresciuta dallodio anzi che dalla «caritade». Per dar forza alla sua spiegazione Dante cita e traduce <i>Eneide</i> IV 175 «fama mobilitate <i>viget</i> viresque adquirit eundo». Dato che in latino <i>viget</i> non significa “vive”, ma “ha vigore”, è possibile sia che il codice di Virgilio letto da Dante avesse la variante <i>vivit</i> al posto di <i>viget</i>,  sia che Dante sbagliasse citando a memoria.",IV 175 «fama mobilitate viget viresque adquirit eundo»,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Aeneid,Aeneis,Virgilio,http://dbpedia.org/resource/Virgil,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
A GUISA DI PARGOLI,"come fossero dei bambini. Con l espressione fanciullezza danimo, indipendentemente dalletà effettiva, Aristotele aveva caratterizzato chi vive assecondando le passioni e non la ragione (cfr. <i>Eth. Nic</i>.  I  2, 1095a 6-8. Dante si riferirà espressamente a questo passo in <i>Cv</i> IV xvi 5). Il testo aristotelico osservava che costoro si lasciano trascinare da qualsiasi tipo di attrazione. Dante allarga questa breve notazione: quelli che seguono i sensi ora desiderano ardentemente una cosa («sono vaghi»), e poi velocemente ne sono sazi, si rallegrano e si rattristano intensamente ma per breve tempo e per motivi futili («si tratta di brievi dilettazioni e tristizie»), rapidamente diventano amici e rapidamente nemici («tosto» ha il valore di subito, improvvisamente). Osservazioni simili sono presenti in altri passi dell <i>Etica Nicomachea</i> e della <i>Retorica</i> in cui Aristotele illustra i caratteri propri dei giovani  (cfr. <i>Eth. Nic</i>. VIII  3, 1156 a 34-35 « i giovani rapidamente diventano amici e rapidamente cessano di esserlo»; <i>Rhet</i>. II 12, 1389 a 5-6  «sono incostanti e volubili nei loro desideri; il loro desiderio è intenso ma viene meno rapidamente»). Dante usa  queste notazioni estraendole dal loro contesto socio-psicologico ed inserendole nel quadro più ampio già delineato dalle linee iniziali del <i>Convivio</i>: nonostante tutti gli uomini abbiano come loro fine e loro perfezione il conoscere, nei fatti la grande maggioranza non raggiunge nemmeno lo stadio dell uso di ragione, e rimane, come i bambini, al livello della sensibilità .Ora chi usa  i sensi  non coglie se non  l'aspetto esteriore delle cose («semplicemente di fuori») ed il suo giudizio sarà per forza di cose affrettato e superficiale («onde tosto veggiono tutto ciò che ponno, e giudicano secondo la loro veduta»).  Solo gli occhi della ragione colgono le cose nella loro realtà profonda, caratterizzata da una finalità che le rende buone, («la loro bontade la quale a debito fine è ordinata») andando oltre le apparenze («passano a veder quello», cioè il bene ed il fine che non sono percepibili dai sensi). Che la maggioranza degli uomini, seguendo  i sensi, non viva da uomo è una affermazione comune agli intellettuali universitari, siano essi filosofi o teologi, accompagnata spesso non solo dalla deplorazione, ma anche dall'orgogliosa coscienza di essere l' eccezione. (cfr. il <i>De summo bono</i> di Boezio di Dacia, pp. 371-372  «Et ita omnes homines hodie impedit inordinata concupiscentia a suo summo bono exceptis paucissimis honorandis viris … et isti sunt philosophi qui ponunt vitam suam in studio sapientiae»). Il caso di Dante sembra però diverso. Per molti di coloro che mangiano il pan degli angeli gli altri uomini sono assimilabili a bestie, secondo un adagio attribuito indifferentemente ad Aristotele, Averroè e Seneca ed usatissimo dai magistri in philosophia del XIII secolo «Vae vobis homines qui computati estis in numero bestiarum» (cfr. il <i>De summo bono</i> di Boezio di Dacia,  p. 369, ll. 19-21). Nel <i>Convivio</i>  il paragone è con i fanciulli: come i bambini, non ancora uomini, sono però in potenza a diventarlo, così chi vive secondo i sensi per natura rimane sempre in grado di esercitare pienamente la sua natura razionale  (cfr.  <i>If</i> XXVI 119-120 «fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza»). Il <i>Convivio</i> proprio a questo vuole contribuire.","II 12, 1389 a 5-6",CONCORDANZA STRINGENTE,http://it.dbpedia.org/resource/Retorica_(Aristotele),Rhetorica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PARITADE NELLI VIZIOSI È CAGIONE DI INVIDIA,"che linvidia sia una passione viziosa presente solo tra pari grado è dottrina peculiare della <i>Retorica</i> aristotelica (III  10, 1387 b 24).","III  10, 1387 b 24",CONCORDANZA STRINGENTE,http://it.dbpedia.org/resource/Retorica_(Aristotele),Rhetorica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
COME DICE AGUSTINO,"la citazione di Agostino non è letterale. Il concetto è comunque chiaramente presente nelle <i>Confessioni</i>: «Nemo mundus a peccato coram te, nec infans cuius est unius diei vita super terram» (I vii  11, p. 6)","I vii  11, p. 6 «Nemo mundus a peccato coram te, nec infans cuius est unius diei vita super terram»",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Confessions_(St._Augustine),Confessiones,Agostino,http://dbpedia.org/resource/Augustine_of_Hippo,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
PER VERTÙ,"il termine “virtù”, come dimostrano gli esempi del cavallo e della spada, ha per Dante qui come in seguito un significato più ampio di quello strettamente morale. Esso indica per ciascuna cosa e non solo per luomo la capacità di realizzare al livello massimo tutte le proprie potenzialità e raggiungere il fine cui è ordinata. Lesempio del cavallo “virtuoso” si ritrova sia nell <i>Etica Nicomachea</i> (II  6, 1106 a 19-21) sia nel Commento di Tommaso (I, <i>lectio</i> 10, n. 128  «sed hoc pertinet ad rationem virtutis quod unusquisque habens virtutem, secundum eam bene operetur, sicut virtus equi est secundum quam bene currit»;  II, <i>lectio</i> 6, n. 307  «Similiter etiam virtus equi est quae facit equum bonum, et per quam equus bene operatur opus suum, quod est velociter currere»).","II  6, 1106 a 19-21",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PER VERTÙ,"il termine “virtù”, come dimostrano gli esempi del cavallo e della spada, ha per Dante qui come in seguito un significato più ampio di quello strettamente morale. Esso indica per ciascuna cosa e non solo per luomo la capacità di realizzare al livello massimo tutte le proprie potenzialità e raggiungere il fine cui è ordinata. Lesempio del cavallo “virtuoso” si ritrova sia nell <i>Etica Nicomachea</i> (II  6, 1106 a 19-21) sia nel Commento di Tommaso (I, <i>lectio</i> 10, n. 128  «sed hoc pertinet ad rationem virtutis quod unusquisque habens virtutem, secundum eam bene operetur, sicut virtus equi est secundum quam bene currit»;  II, <i>lectio</i> 6, n. 307  «Similiter etiam virtus equi est quae facit equum bonum, et per quam equus bene operatur opus suum, quod est velociter currere»).","I, lectio 10, n. 128  «sed hoc pertinet ad rationem virtutis quod unusquisque habens virtutem, secundum eam bene operetur, sicut virtus equi est secundum quam bene currit»",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
PER VERTÙ,"il termine “virtù”, come dimostrano gli esempi del cavallo e della spada, ha per Dante qui come in seguito un significato più ampio di quello strettamente morale. Esso indica per ciascuna cosa e non solo per luomo la capacità di realizzare al livello massimo tutte le proprie potenzialità e raggiungere il fine cui è ordinata. Lesempio del cavallo “virtuoso” si ritrova sia nell <i>Etica Nicomachea</i> (II  6, 1106 a 19-21) sia nel Commento di Tommaso (I, <i>lectio</i> 10, n. 128  «sed hoc pertinet ad rationem virtutis quod unusquisque habens virtutem, secundum eam bene operetur, sicut virtus equi est secundum quam bene currit»;  II, <i>lectio</i> 6, n. 307  «Similiter etiam virtus equi est quae facit equum bonum, et per quam equus bene operatur opus suum, quod est velociter currere»).","II, lectio 6, n. 307  «Similiter etiam virtus equi est quae facit equum bonum, et per quam equus bene operatur opus suum, quod est velociter currere»",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
CIASCUNA COSA È VIRTUOSA ... TANTO È PIÙ,"è stato notato come questa frase richiami unaffermazione presente proprio in un testo di linguistica: le <i>Quaestiones supra Prisciano Minori</i> di Gentile da Cingoli, un maestro che ha insegnato a Bologna dal 1290 al 1318 circa:  «in natura … dicitur esse perfectum quod attingit propriam operationem et finem, et quantum magis potest in propriam operationem et finem … tanto dicitur esse perfectius». (cfr. Longoni 1991, pp. 110-111).","«in natura … dicitur esse perfectum quod attingit propriam operationem et finem, et quantum magis potest in propriam operationem et finem … tanto dicitur esse perfectius». (cfr. Longoni 1991, pp. 110-111)",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Quaestiones_supra_Prisciano_Minori,Quaestiones supra Prisciano Minori,Gentile da Cingoli,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Gentile_da_Cingoli,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
IN VITA CONTEMPLATIVA O ATTIVA,"compare qui per la prima volta e quasi per inciso un tema che avrà largo spazio nella trattazione seguente (cfr. per esempio <i>Cv</i> II iv 10). Nella trattazione patristica e monastica attiva è la vita dedicata al servizio dei fratelli, anche attraverso lesercizio di responsabilità e di cariche che rendono necessario un certo tasso di immersione nel “mondo” (i buoni prelati ne sono lincarnazione); <i>contemplativa</i> è invece quella totalmente spesa nella preghiera e nella meditazione della parola divina: la vita del monaco. La prima è raffigurata da Marta, la seconda da Maria. Nellepisodio della accoglienza di Gesù nella casa di Lazzaro, infatti, Marta si preoccupa dei doveri dellospitalità, mentre Maria siede ai piedi dellospite attenta alle sue parole (cfr. <i>Lc</i>. 10, 38-42. Dante si riferirà esplicitamente a questo episodio in <i>Cv</i>  IV xvii 10 ). Alla radice di questa interpretazione e di questa dottrina (certamente non presente nel Vangelo) sta, anche se profondamente modificata, la teoria dei generi di vita elaborata dalla filosofia greca. Con la traduzione, a metà del XIII secolo, dell <i>Etica Nicomachea</i>, questa teoria torna ad essere conosciuta direttamente dai medievali e reagisce a sua volta sul modello teologico. Aristotele aveva distinto tre tipi di vita: una basata sulla ricerca del piacere, una sulla ricerca dellonore che è dovuto alle virtù, una terza dedicata allesercizio della conoscenza pura (cfr. <i>Eth. Nic</i>. I 5, 1095 b 17 sgg.). Ovviamente, come per lo Stagirita, anche per gli intellettuali delle Università la prima era da respingere in assoluto; la terza, quella <i>contemplativa</i> (così infatti era stato reso il termine greco <i>theoretiké</i> nella traduzione latina del testo aristotelico) era, come quella di cui avevano parlato Padri e monaci, la migliore. Lidentità verbale nascondeva però una forte diversità di contenuti: alla meditazione delle “cose” divine rivelate nella Scrittura si sostituiva la contemplazione dellordine razionale del cosmo. Per parte sua la seconda vita era stata identificata con quella attiva. Anchessa peraltro aveva assunto caratteri assai diversi da quelli tradizionali identificandosi, molto laicamente, con lesercizio delle virtù politiche (cfr. <i>Eth. Nic</i>. I  5, 1095 b 29-31 e più ampiamente X 7, 1177 b 6 sgg.), soprattutto della giustizia. In questo senso il primo commentatore del testo aristotelico nella sua interezza, Alberto Magno, parlerà di due felicità collegate a due tipi di vita: quella <i>contemplativa</i>, appunto, e quella politica (cfr. <i>Super Ethica commentum et quaestiones</i> I, <i>lectio</i> 7, p. 33, ll. 1-15) e Dante in questo lo seguirà.","10, 38-42",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Luke,Vangelo di Luca,Luca,http://dbpedia.org/resource/Luke_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
IN VITA CONTEMPLATIVA O ATTIVA,"compare qui per la prima volta e quasi per inciso un tema che avrà largo spazio nella trattazione seguente (cfr. per esempio <i>Cv</i> II iv 10). Nella trattazione patristica e monastica attiva è la vita dedicata al servizio dei fratelli, anche attraverso lesercizio di responsabilità e di cariche che rendono necessario un certo tasso di immersione nel “mondo” (i buoni prelati ne sono lincarnazione); <i>contemplativa</i> è invece quella totalmente spesa nella preghiera e nella meditazione della parola divina: la vita del monaco. La prima è raffigurata da Marta, la seconda da Maria. Nellepisodio della accoglienza di Gesù nella casa di Lazzaro, infatti, Marta si preoccupa dei doveri dellospitalità, mentre Maria siede ai piedi dellospite attenta alle sue parole (cfr. <i>Lc</i>. 10, 38-42. Dante si riferirà esplicitamente a questo episodio in <i>Cv</i>  IV xvii 10 ). Alla radice di questa interpretazione e di questa dottrina (certamente non presente nel Vangelo) sta, anche se profondamente modificata, la teoria dei generi di vita elaborata dalla filosofia greca. Con la traduzione, a metà del XIII secolo, dell <i>Etica Nicomachea</i>, questa teoria torna ad essere conosciuta direttamente dai medievali e reagisce a sua volta sul modello teologico. Aristotele aveva distinto tre tipi di vita: una basata sulla ricerca del piacere, una sulla ricerca dellonore che è dovuto alle virtù, una terza dedicata allesercizio della conoscenza pura (cfr. <i>Eth. Nic</i>. I 5, 1095 b 17 sgg.). Ovviamente, come per lo Stagirita, anche per gli intellettuali delle Università la prima era da respingere in assoluto; la terza, quella <i>contemplativa</i> (così infatti era stato reso il termine greco <i>theoretiké</i> nella traduzione latina del testo aristotelico) era, come quella di cui avevano parlato Padri e monaci, la migliore. Lidentità verbale nascondeva però una forte diversità di contenuti: alla meditazione delle “cose” divine rivelate nella Scrittura si sostituiva la contemplazione dellordine razionale del cosmo. Per parte sua la seconda vita era stata identificata con quella attiva. Anchessa peraltro aveva assunto caratteri assai diversi da quelli tradizionali identificandosi, molto laicamente, con lesercizio delle virtù politiche (cfr. <i>Eth. Nic</i>. I  5, 1095 b 29-31 e più ampiamente X 7, 1177 b 6 sgg.), soprattutto della giustizia. In questo senso il primo commentatore del testo aristotelico nella sua interezza, Alberto Magno, parlerà di due felicità collegate a due tipi di vita: quella <i>contemplativa</i>, appunto, e quella politica (cfr. <i>Super Ethica commentum et quaestiones</i> I, <i>lectio</i> 7, p. 33, ll. 1-15) e Dante in questo lo seguirà.","I 5, 1095 b 17 sgg.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
IN VITA CONTEMPLATIVA O ATTIVA,"compare qui per la prima volta e quasi per inciso un tema che avrà largo spazio nella trattazione seguente (cfr. per esempio <i>Cv</i> II iv 10). Nella trattazione patristica e monastica attiva è la vita dedicata al servizio dei fratelli, anche attraverso lesercizio di responsabilità e di cariche che rendono necessario un certo tasso di immersione nel “mondo” (i buoni prelati ne sono lincarnazione); <i>contemplativa</i> è invece quella totalmente spesa nella preghiera e nella meditazione della parola divina: la vita del monaco. La prima è raffigurata da Marta, la seconda da Maria. Nellepisodio della accoglienza di Gesù nella casa di Lazzaro, infatti, Marta si preoccupa dei doveri dellospitalità, mentre Maria siede ai piedi dellospite attenta alle sue parole (cfr. <i>Lc</i>. 10, 38-42. Dante si riferirà esplicitamente a questo episodio in <i>Cv</i>  IV xvii 10 ). Alla radice di questa interpretazione e di questa dottrina (certamente non presente nel Vangelo) sta, anche se profondamente modificata, la teoria dei generi di vita elaborata dalla filosofia greca. Con la traduzione, a metà del XIII secolo, dell <i>Etica Nicomachea</i>, questa teoria torna ad essere conosciuta direttamente dai medievali e reagisce a sua volta sul modello teologico. Aristotele aveva distinto tre tipi di vita: una basata sulla ricerca del piacere, una sulla ricerca dellonore che è dovuto alle virtù, una terza dedicata allesercizio della conoscenza pura (cfr. <i>Eth. Nic</i>. I 5, 1095 b 17 sgg.). Ovviamente, come per lo Stagirita, anche per gli intellettuali delle Università la prima era da respingere in assoluto; la terza, quella <i>contemplativa</i> (così infatti era stato reso il termine greco <i>theoretiké</i> nella traduzione latina del testo aristotelico) era, come quella di cui avevano parlato Padri e monaci, la migliore. Lidentità verbale nascondeva però una forte diversità di contenuti: alla meditazione delle “cose” divine rivelate nella Scrittura si sostituiva la contemplazione dellordine razionale del cosmo. Per parte sua la seconda vita era stata identificata con quella attiva. Anchessa peraltro aveva assunto caratteri assai diversi da quelli tradizionali identificandosi, molto laicamente, con lesercizio delle virtù politiche (cfr. <i>Eth. Nic</i>. I  5, 1095 b 29-31 e più ampiamente X 7, 1177 b 6 sgg.), soprattutto della giustizia. In questo senso il primo commentatore del testo aristotelico nella sua interezza, Alberto Magno, parlerà di due felicità collegate a due tipi di vita: quella <i>contemplativa</i>, appunto, e quella politica (cfr. <i>Super Ethica commentum et quaestiones</i> I, <i>lectio</i> 7, p. 33, ll. 1-15) e Dante in questo lo seguirà.","I, lectio 7, p. 33, ll. 1-15",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Super_Ethica_commentum_et_quaestiones,Super Ethica commentum et quaestiones,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
LO SERMONE,"il principio generale enunciato al paragrafo precedente viene applicato specificamente al linguaggio. Esso  per natura ha il compito di rendere palese («è ordinato a manifestare») agli altri ciò che la mente internamente concepisce («lo umano concetto» «cose concepute nella mente»), come dice esplicitamente il <i>De vulgari eloquentia</i>  «Si ... perspicaciter consideramus quid cum loquimur intendamus, patet quod nichil aliud quam nostre mentis enucleare aliis conceptum» (I ii 3). Un testo di Tommaso, segnalato nel Commento di <i>Cheneval</i> (cfr. <i>Summa Theologiae</i> I, q. 107, a. 1, <i>respondeo</i>:  «Nihil est … aliud loqui ad alterum quam conceptum mentis alteri manifestare») sembra poter essere la fonte specifica di Dante, sia per il <i>Convivio</i> che per il <i>De vulgari eloquentia</i>. Si tratta comunque di dottrina presente in molti trattati universitari di grammatica, di origine sia parigina che bolognese. Per Parigi cfr. il <i>Tractatus de modis significandi</i> di Boezio di Dacia («Est etiam grammatica necessaria ut per ipsam homo sciat exprimere conceptum intentum per sermonem congruum» ed. Pinborg, p. 22, ll. 46-47); per Bologna le già citate <i>Quaestiones supra Prisciano Minori</i> di Gentile da Cingoli composte probabilmente prima o al massimo negli anni stessi della stesura del <i>Convivio</i> (<i>quaestio</i> 4 «Nomina necessaria sunt ut exprimamus nostros conceptus alteri», ed. Martorelli,  p. 21, ll. 67-68).","I, q. 107, a. 1",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_Theologica,Summa Theologiae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
CON CIÒ SIA COSA CHE LO LATINO,"la maggior capacità del latino rispetto al volgare di esprimere concetti e dottrine viene sottolineata con queste parole dal <i>De regimine principum</i> di Egidio Romano, opera di un universitario diffusissima in ambienti non universitari, tradotta in volgare prima della composizione del <i>Convivio</i>, conosciuta sicuramente da Dante e da lui  citata in <i>Convivio</i> IV xxiv 9  «Videntes philosophi nullum idioma vulgare esse completum et perfectum per quod perfecte exprimere possent naturas rerum et mores hominum et cursus astrorum ... invenerunt sibi quasi proprium idioma, quod dicitur latinum, vel idioma literale, quod constituerunt adeo latum et copiosum ut per ipsum possent omne suos conceptus sufficienter exprimere» (II ii 7, p. 304. Cfr. Alessio 1984)",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_regimine_principum,De regimine principum (Egidio Romano),Egidio Romano,http://dbpedia.org/resource/Giles_of_Rome,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
RESULTA PIACIMENTO,"deriva piacere. La definizione del bello come simmetria ed armonia delle parti ha sicuramente ascendenze agostiniane («congruentia partium» in <i>Epistula</i> III. 4, p. 8.  Cfr. <i>De civitate Dei</i> XXII 19, p. 838) e nel caso specifico delluomo, ciceroniane (<i>De officiis</i>, I, 28, 98 «pulchritudo corporis apta compositione membrorum movet oculos»). Essa peraltro era condivisa dagli autori medievali cui Dante fa riferimento. Cfr. Alberto Magno, <i>Physica</i> VII tr. 1, cap. 7,  p. 531, ll. 39-41 «Est pulcritudo in proportione commensurationis membrorum adinvicem»; Tommaso, <i>In libros Ethicorum expositio</i>, I, <i>lectio</i> 13, n. 159  «Nam in debita commensuratione partium pulchritudo consistit». Il termine «debitamente» sembra indicare un rapporto preferenziale con il testo di Tommaso come vedremo ben conosciuto e spesso utilizzato da Dante (cfr. Marchesi 2001, pp. 87-8). Per quanto riguarda laffermazione secondo cui per far bello un canto le voci devono essere tra loro in rapporti stabiliti dalla teoria musicale («intra sé rispondenti secondo debito dellarte») bisogna ricordare che al tempo di Dante erano diffuse, almeno nella musica sacra, forme di polifonia come gli <i>organa</i> in cui una voce teneva un canto fermo mentre unaltra eseguiva variazioni melismatiche (cfr. <i>Pd</i> VIII 17-18  «… e come voce in voce si discerne / quanduna è ferma, e laltra va  e riede»).","I, 28, 98 «pulchritudo corporis apta compositione membrorum movet oculos»",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/City_of_God_(book),De civitate Dei,Agostino,http://dbpedia.org/resource/Augustine_of_Hippo,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
RESULTA PIACIMENTO,"deriva piacere. La definizione del bello come simmetria ed armonia delle parti ha sicuramente ascendenze agostiniane («congruentia partium» in <i>Epistula</i> III. 4, p. 8.  Cfr. <i>De civitate Dei</i> XXII 19, p. 838) e nel caso specifico delluomo, ciceroniane (<i>De officiis</i>, I, 28, 98 «pulchritudo corporis apta compositione membrorum movet oculos»). Essa peraltro era condivisa dagli autori medievali cui Dante fa riferimento. Cfr. Alberto Magno, <i>Physica</i> VII tr. 1, cap. 7,  p. 531, ll. 39-41 «Est pulcritudo in proportione commensurationis membrorum adinvicem»; Tommaso, <i>In libros Ethicorum expositio</i>, I, <i>lectio</i> 13, n. 159  «Nam in debita commensuratione partium pulchritudo consistit». Il termine «debitamente» sembra indicare un rapporto preferenziale con il testo di Tommaso come vedremo ben conosciuto e spesso utilizzato da Dante (cfr. Marchesi 2001, pp. 87-8). Per quanto riguarda laffermazione secondo cui per far bello un canto le voci devono essere tra loro in rapporti stabiliti dalla teoria musicale («intra sé rispondenti secondo debito dellarte») bisogna ricordare che al tempo di Dante erano diffuse, almeno nella musica sacra, forme di polifonia come gli <i>organa</i> in cui una voce teneva un canto fermo mentre unaltra eseguiva variazioni melismatiche (cfr. <i>Pd</i> VIII 17-18  «… e come voce in voce si discerne / quanduna è ferma, e laltra va  e riede»).","I, 28, 98 «pulchritudo corporis apta compositione membrorum movet oculos»",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/De_Officiis,De officiis,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
RESULTA PIACIMENTO,"deriva piacere. La definizione del bello come simmetria ed armonia delle parti ha sicuramente ascendenze agostiniane («congruentia partium» in <i>Epistula</i> III. 4, p. 8.  Cfr. <i>De civitate Dei</i> XXII 19, p. 838) e nel caso specifico delluomo, ciceroniane (<i>De officiis</i>, I, 28, 98 «pulchritudo corporis apta compositione membrorum movet oculos»). Essa peraltro era condivisa dagli autori medievali cui Dante fa riferimento. Cfr. Alberto Magno, <i>Physica</i> VII tr. 1, cap. 7,  p. 531, ll. 39-41 «Est pulcritudo in proportione commensurationis membrorum adinvicem»; Tommaso, <i>In libros Ethicorum expositio</i>, I, <i>lectio</i> 13, n. 159  «Nam in debita commensuratione partium pulchritudo consistit». Il termine «debitamente» sembra indicare un rapporto preferenziale con il testo di Tommaso come vedremo ben conosciuto e spesso utilizzato da Dante (cfr. Marchesi 2001, pp. 87-8). Per quanto riguarda laffermazione secondo cui per far bello un canto le voci devono essere tra loro in rapporti stabiliti dalla teoria musicale («intra sé rispondenti secondo debito dellarte») bisogna ricordare che al tempo di Dante erano diffuse, almeno nella musica sacra, forme di polifonia come gli <i>organa</i> in cui una voce teneva un canto fermo mentre unaltra eseguiva variazioni melismatiche (cfr. <i>Pd</i> VIII 17-18  «… e come voce in voce si discerne / quanduna è ferma, e laltra va  e riede»).","VII tr. 1, cap. 7,  p. 531, ll. 39-41 «Est pulcritudo in proportione commensurationis membrorum adinvicem»",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Physicorum(Alberto_Magno),Physicorum,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
RESULTA PIACIMENTO,"deriva piacere. La definizione del bello come simmetria ed armonia delle parti ha sicuramente ascendenze agostiniane («congruentia partium» in <i>Epistula</i> III. 4, p. 8.  Cfr. <i>De civitate Dei</i> XXII 19, p. 838) e nel caso specifico delluomo, ciceroniane (<i>De officiis</i>, I, 28, 98 «pulchritudo corporis apta compositione membrorum movet oculos»). Essa peraltro era condivisa dagli autori medievali cui Dante fa riferimento. Cfr. Alberto Magno, <i>Physica</i> VII tr. 1, cap. 7,  p. 531, ll. 39-41 «Est pulcritudo in proportione commensurationis membrorum adinvicem»; Tommaso, <i>In libros Ethicorum expositio</i>, I, <i>lectio</i> 13, n. 159  «Nam in debita commensuratione partium pulchritudo consistit». Il termine «debitamente» sembra indicare un rapporto preferenziale con il testo di Tommaso come vedremo ben conosciuto e spesso utilizzato da Dante (cfr. Marchesi 2001, pp. 87-8). Per quanto riguarda laffermazione secondo cui per far bello un canto le voci devono essere tra loro in rapporti stabiliti dalla teoria musicale («intra sé rispondenti secondo debito dellarte») bisogna ricordare che al tempo di Dante erano diffuse, almeno nella musica sacra, forme di polifonia come gli <i>organa</i> in cui una voce teneva un canto fermo mentre unaltra eseguiva variazioni melismatiche (cfr. <i>Pd</i> VIII 17-18  «… e come voce in voce si discerne / quanduna è ferma, e laltra va  e riede»).","I, lectio 13, n. 159  «Nam in debita commensuratione partium pulchritudo consistit»",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
"PIÙ BELLO, PIÙ VIRTUOSO E PIÙ NOBILE","tutti gli studiosi di Dante hanno sottolineato come il rapporto latino-volgare presente nel <i>Convivio</i> venga rovesciato nel <i>De vulgari eloquentia</i> dove è il volgare ad essere «nobilior» (I i 4-5). Nel <i>De vulgari</i> la priorità temporale, luniversalità e la naturalità del volgare, fanno aggio sulla immutabilità rivendicata al latino dal <i>Convivio</i> di cui, nello scritto linguistico, si sottolinea piuttosto lartificialità (cfr. VE I ix 1). E probabile, ipotizzando una più che verosimile posteriorità del trattato linguistico, che la prospettiva di Dante sia cambiata e che egli «abbia scoperto, sotto lo svantaggio vistoso della instabilità, il pregio nascosto della naturalità.» (Tavoni). Bisogna peraltro sottolineare come nel <i>Convivio</i> la superiorità del latino non consiste esclusivamente nella sua presunta immutabilità. Esso è non solo più nobile, ma più «virtuoso» e più bello, e sotto questo aspetto, quello delle capacità espressive, non si tratta, come nel <i>De vulgari</i>, di un rapporto tra natura  (volgare) e artificio (latino), ma tra semplice uso ed arte. E se è vero che, nella cultura di Dante, la natura è superiore allarte è anche vero, aristotelicamente parlando, che l <i>artifex</i> è superiore al puro empirico (cfr. <i>Metaph</i>. I  1, 981 a 24 sgg.). Qui deve allora  entrare in campo la diversità dei contesti: nel <i>De vulgari</i> il confronto è tra il volgare come genere, anteriore ad ogni sua specificazione storico geografica, e il concetto, pure generale, di lingua “regolata”. Nel <i>Convivio</i> si tratta invece da un lato di un volgare particolare, la lingua del sì, esso stesso specificazione di un particolare “ydioma”, e dallaltro di una particolare “grammatica”, il latino;  il loro  rapporto non è visto in un contesto  di teoria linguistica,  ma  in funzione di uno specifico problema letterario, quello del Commento ad un testo, dove, paradossalmente, la superiorità del latino risulterebbe un ostacolo alla piena fruizione delle canzoni volgari (come dice acutamente Cecil Grayson: «Whatever Dante may say about the greater nobility of the natural vernacular… he leaves no doubt that he regarded the artistic achievement of Latin as superior and as a model of imitation» Grayson 1965, p. 63). Se volessimo risolvere il problema usando una distinzione tipica della cultura delle Scuole potremmo dire che il volgare è più nobile  in assoluto (<i>simpliciter</i>) mentre la “gramatica” lo è sotto certe particolari condizioni (<i>secundum quid</i>). Come dunque giustamente afferma Irène Rosier-Catach, non cè contraddizione tra le affermazioni del <i>Convivio</i> e quelle del <i>De vulgari eloquentia</i>; nei due testi il termine nobile non ha il medesimo referente (cfr. Rosier-Catach 2011b). Infine,  il confronto tra i due mezzi espressivi non rimane qualcosa di astrattamente dato: il compito che Dante si assegna è infatti quello di attuare le possibilità espressive del volgare ancora non attuate, facendolo uscire dal semplice uso,  portandolo allo stesso livello  della “gramatica”  (cfr. <i>Cv</i> I x 13) e trasformandolo nel «sole nuovo che darà luce a coloro che sono in tenebre ed oscuritade» (cfr. <i>Cv</i>  I xiii 12). E sarà qui da notare che anche nel <i>De vulgari</i>, dopo le affermazioni di principio sulla superiorità del volgare come genere, la trattazione è tutta volta alla caccia di un volgare illustre, di un volgare normativo per tutte le varie loquele italiche,  che non risulterà dunque così immediatamente naturale (sul tipo di artificialità del volgare illustre vedi Alessio 1995).","I  1, 981 a 24 sgg.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PERÒ CHE 'L TUTTO LORO,"il tutto di cui gli amici sono parte è un volere e un non volere comune («uno»). Che gli amici siano un anima sola e che essi abbiano un unico volere era stato detto da Aristotele (cfr. <i>Eth. Nic</i>. IX 8, 1168 b 7-8; <i>Rhet</i>. II  4, 1381 a 8-9) e da Cicerone (cfr. <i>De amicitia</i> XVII.61, un testo che Dante, in <i>Cv</i>  II.xii.3 dice esplicitamente di aver letto), ma anche dal <i>Trésor</i> di Brunetto Latini, che però attribuisce il detto a Sallustio («Salustet dit: loffice de ceste vertu est voloir et desvoloir  une meisme chose»  II CIV 1, p. 578).","IX 8, 1168 b 7-8",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PERÒ CHE 'L TUTTO LORO,"il tutto di cui gli amici sono parte è un volere e un non volere comune («uno»). Che gli amici siano un anima sola e che essi abbiano un unico volere era stato detto da Aristotele (cfr. <i>Eth. Nic</i>. IX 8, 1168 b 7-8; <i>Rhet</i>. II  4, 1381 a 8-9) e da Cicerone (cfr. <i>De amicitia</i> XVII.61, un testo che Dante, in <i>Cv</i>  II.xii.3 dice esplicitamente di aver letto), ma anche dal <i>Trésor</i> di Brunetto Latini, che però attribuisce il detto a Sallustio («Salustet dit: loffice de ceste vertu est voloir et desvoloir  une meisme chose»  II CIV 1, p. 578).","II 4, 1381 a 8-9",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PERÒ CHE 'L TUTTO LORO,"il tutto di cui gli amici sono parte è un volere e un non volere comune («uno»). Che gli amici siano un anima sola e che essi abbiano un unico volere era stato detto da Aristotele (cfr. <i>Eth. Nic</i>. IX 8, 1168 b 7-8; <i>Rhet</i>. II  4, 1381 a 8-9) e da Cicerone (cfr. <i>De amicitia</i> XVII.61, un testo che Dante, in <i>Cv</i>  II.xii.3 dice esplicitamente di aver letto), ma anche dal <i>Trésor</i> di Brunetto Latini, che però attribuisce il detto a Sallustio («Salustet dit: loffice de ceste vertu est voloir et desvoloir  une meisme chose»  II CIV 1, p. 578).",XVII.61,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Laelius_de_Amicitia,De amicitia,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
PERÒ CHE 'L TUTTO LORO,"il tutto di cui gli amici sono parte è un volere e un non volere comune («uno»). Che gli amici siano un anima sola e che essi abbiano un unico volere era stato detto da Aristotele (cfr. <i>Eth. Nic</i>. IX 8, 1168 b 7-8; <i>Rhet</i>. II  4, 1381 a 8-9) e da Cicerone (cfr. <i>De amicitia</i> XVII.61, un testo che Dante, in <i>Cv</i>  II.xii.3 dice esplicitamente di aver letto), ma anche dal <i>Trésor</i> di Brunetto Latini, che però attribuisce il detto a Sallustio («Salustet dit: loffice de ceste vertu est voloir et desvoloir  une meisme chose»  II CIV 1, p. 578).",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Tresor,Trésor,Brunetto Latini,http://dbpedia.org/resource/Brunetto_Latini,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
IN GENERE,"in generale, non nella sua specificità.  Che la conoscenza umana inizi, imperfettamente, come percezione non articolata di un tutto ancora confuso (universale, genere) è dottrina presente nella <i>Fisica</i> di Aristotele (I, 1, 184 a 23 sgg.) e nei suoi commentatori medievali. Le parole di Dante sono molto simili a quelle usate da Tommaso nella <i>Summa contra Gentiles</i> « Per similitudinem animalis, per quam cognoscimus aliquid in genere tantum, imperfectiorem cognitionem habemus quam per similitudinem hominis per quam cognoscimus speciem completam: cognosceree enim aliquid secundum genus tantum est cognoscere imperfecte» (II, cap. 98, n. 1837).","I, 1, 184 a 23 sgg.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
IN GENERE,"in generale, non nella sua specificità.  Che la conoscenza umana inizi, imperfettamente, come percezione non articolata di un tutto ancora confuso (universale, genere) è dottrina presente nella <i>Fisica</i> di Aristotele (I, 1, 184 a 23 sgg.) e nei suoi commentatori medievali. Le parole di Dante sono molto simili a quelle usate da Tommaso nella <i>Summa contra Gentiles</i> « Per similitudinem animalis, per quam cognoscimus aliquid in genere tantum, imperfectiorem cognitionem habemus quam per similitudinem hominis per quam cognoscimus speciem completam: cognosceree enim aliquid secundum genus tantum est cognoscere imperfecte» (II, cap. 98, n. 1837).","« Per similitudinem animalis, per quam cognoscimus aliquid in genere tantum, imperfectiorem cognitionem habemus quam per similitudinem hominis per quam cognoscimus speciem completam: cognosceree enim aliquid secundum genus tantum est cognoscere imperfecte» (II, cap. 98, n. 1837)",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_contra_Gentiles,Summa contra Gentiles,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
DA LUNGI,"da lontano. Cfr. il Commento alla <i>Fisica</i> di Tommaso:  «cum aliquis a remotis (da lungi) videtur, prius percipimus ipsum esse corpus quam esse animal, et hoc prius quam quod sit homo, et ultimo quod sit Socrates» (I, <i>lectio</i> 1, n. 11).","I, lectio 1, n. 11",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commentaria_in_octo_libros_Physicorum(Tommaso),Commentaria in octo libros Physicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
SANZA COMANDAMENTO,"senza averne ricevuto lordine. Che latto di obbedienza non debba dipendere dalla volontà di chi obbedisce, ma da quella di chi comanda era stato affermato da Tommaso nella <i>Summa Theologiae</i> (IIa-IIae, q. 104, a. 2, ad 3m).","IIa-IIae, q. 104, a. 2, ad 3m",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_Theologica,Summa Theologiae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
SÌ COME LA NATURA PARTICULARE ... ALLA UNIVERSALE,"non è del tutto chiaro, rimanendo allinterno di questo paragrafo, quale realtà Dante indichi con lespressione «natura universale» qui usata per la prima volta (ma cfr. la nota a <i>Cv</i>  I  i 1). In <i>Cv</i> III.iv.10 la natura universale è identificata con Dio («anzi fece ciò la natura universale, cioè Dio»), ma in <i>Cv</i>  IV.ix.2  il rapporto tra natura universale e Dio non è quello di identità, bensì quello di limitato a limitante: Dio, l'unica realtà infinita, costituisce appunto il suo limite. Nella tradizione filosofica peripatetica il concetto di natura universalis e la sua distinzione da/ relazione con la natura particularis (concetti e distinzione non presenti in  Aristotele) risalgono ad Avicenna (<i>Liber  de philosophia prima sive de scientia divina</i>, VI. 5, vol. II, p. 335): da qui passano sia in Alberto Magno (cfr. <i>Physica</i>  II, tr. 1, cap. 5, vol. I,  pp. 83-84)  che in Tommaso d'Aquino (cfr. <i>Summa Theologiae</i>, Ia-IIae,  q.85,  a. 6, <i>respondeo</i>). Per tutti questi autori la natura universale è un principio che regola in vista di un fine (quindi di un bene) la totalità delle trasformazioni che producono, alterano e distruggono le singole sostanze (le nature particolari);  essa dunque, in qualche modo comanda («gubernat», dice Avicenna; «regit», dice Alberto) le nature particolari. Questo principio si identifica sia per Avicenna, che per Alberto e per Tommaso, con l' azione delle intelligenze celesti che si servono come di strumenti dei cieli e degli astri e sta a fondamento dell' ordinato svolgersi dei mutamenti terrestri. Concetti analoghi vengono espressi da Dante nel primo canto del <i>Paradiso</i>, dove lordine «cui sono accline /tutte nature per diverse sorte» è forma generale delluniverso, segno visibile di Dio e del suo essere Provvidenza (cfr. <i>Pd</i> I 103-120). Mentre l'esempio dei denti sembra essere originale, quello delle cinque dita delle mani è diffusissimo nei testi coevi di filosofia (cfr. Alberto Magno, <i>Physica</i> II, tr. 2, cap. 17, vol. I, p. 125, ll. 26-30); la presenza sporadica di un sextus digitus fa vedere come non sempre la natura particolare sia capace di raggiungere il fine che le è comandato.","VI. 5, vol. II, p. 335",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Liber_de_philosophia_prima_sive_de_scientia_divina,Liber de philosophia prima sive de scientia divina,Avicenna,http://dbpedia.org/resource/Avicenna,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SÌ COME LA NATURA PARTICULARE ... ALLA UNIVERSALE,"non è del tutto chiaro, rimanendo allinterno di questo paragrafo, quale realtà Dante indichi con lespressione «natura universale» qui usata per la prima volta (ma cfr. la nota a <i>Cv</i>  I  i 1). In <i>Cv</i> III.iv.10 la natura universale è identificata con Dio («anzi fece ciò la natura universale, cioè Dio»), ma in <i>Cv</i>  IV.ix.2  il rapporto tra natura universale e Dio non è quello di identità, bensì quello di limitato a limitante: Dio, l'unica realtà infinita, costituisce appunto il suo limite. Nella tradizione filosofica peripatetica il concetto di natura universalis e la sua distinzione da/ relazione con la natura particularis (concetti e distinzione non presenti in  Aristotele) risalgono ad Avicenna (<i>Liber  de philosophia prima sive de scientia divina</i>, VI. 5, vol. II, p. 335): da qui passano sia in Alberto Magno (cfr. <i>Physica</i>  II, tr. 1, cap. 5, vol. I,  pp. 83-84)  che in Tommaso d'Aquino (cfr. <i>Summa Theologiae</i>, Ia-IIae,  q.85,  a. 6, <i>respondeo</i>). Per tutti questi autori la natura universale è un principio che regola in vista di un fine (quindi di un bene) la totalità delle trasformazioni che producono, alterano e distruggono le singole sostanze (le nature particolari);  essa dunque, in qualche modo comanda («gubernat», dice Avicenna; «regit», dice Alberto) le nature particolari. Questo principio si identifica sia per Avicenna, che per Alberto e per Tommaso, con l' azione delle intelligenze celesti che si servono come di strumenti dei cieli e degli astri e sta a fondamento dell' ordinato svolgersi dei mutamenti terrestri. Concetti analoghi vengono espressi da Dante nel primo canto del <i>Paradiso</i>, dove lordine «cui sono accline /tutte nature per diverse sorte» è forma generale delluniverso, segno visibile di Dio e del suo essere Provvidenza (cfr. <i>Pd</i> I 103-120). Mentre l'esempio dei denti sembra essere originale, quello delle cinque dita delle mani è diffusissimo nei testi coevi di filosofia (cfr. Alberto Magno, <i>Physica</i> II, tr. 2, cap. 17, vol. I, p. 125, ll. 26-30); la presenza sporadica di un sextus digitus fa vedere come non sempre la natura particolare sia capace di raggiungere il fine che le è comandato.","Ia-IIae,  q.85,  a. 6",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_Theologica,Summa Theologiae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
SÌ COME LA NATURA PARTICULARE ... ALLA UNIVERSALE,"non è del tutto chiaro, rimanendo allinterno di questo paragrafo, quale realtà Dante indichi con lespressione «natura universale» qui usata per la prima volta (ma cfr. la nota a <i>Cv</i>  I  i 1). In <i>Cv</i> III.iv.10 la natura universale è identificata con Dio («anzi fece ciò la natura universale, cioè Dio»), ma in <i>Cv</i>  IV.ix.2  il rapporto tra natura universale e Dio non è quello di identità, bensì quello di limitato a limitante: Dio, l'unica realtà infinita, costituisce appunto il suo limite. Nella tradizione filosofica peripatetica il concetto di natura universalis e la sua distinzione da/ relazione con la natura particularis (concetti e distinzione non presenti in  Aristotele) risalgono ad Avicenna (<i>Liber  de philosophia prima sive de scientia divina</i>, VI. 5, vol. II, p. 335): da qui passano sia in Alberto Magno (cfr. <i>Physica</i>  II, tr. 1, cap. 5, vol. I,  pp. 83-84)  che in Tommaso d'Aquino (cfr. <i>Summa Theologiae</i>, Ia-IIae,  q.85,  a. 6, <i>respondeo</i>). Per tutti questi autori la natura universale è un principio che regola in vista di un fine (quindi di un bene) la totalità delle trasformazioni che producono, alterano e distruggono le singole sostanze (le nature particolari);  essa dunque, in qualche modo comanda («gubernat», dice Avicenna; «regit», dice Alberto) le nature particolari. Questo principio si identifica sia per Avicenna, che per Alberto e per Tommaso, con l' azione delle intelligenze celesti che si servono come di strumenti dei cieli e degli astri e sta a fondamento dell' ordinato svolgersi dei mutamenti terrestri. Concetti analoghi vengono espressi da Dante nel primo canto del <i>Paradiso</i>, dove lordine «cui sono accline /tutte nature per diverse sorte» è forma generale delluniverso, segno visibile di Dio e del suo essere Provvidenza (cfr. <i>Pd</i> I 103-120). Mentre l'esempio dei denti sembra essere originale, quello delle cinque dita delle mani è diffusissimo nei testi coevi di filosofia (cfr. Alberto Magno, <i>Physica</i> II, tr. 2, cap. 17, vol. I, p. 125, ll. 26-30); la presenza sporadica di un sextus digitus fa vedere come non sempre la natura particolare sia capace di raggiungere il fine che le è comandato.","II, tr. 2, cap. 17, vol. I, p. 125, ll. 26-30",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Physicorum(Alberto_Magno),Physicorum,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
SÌ COME LA NATURA PARTICULARE ... ALLA UNIVERSALE,"non è del tutto chiaro, rimanendo allinterno di questo paragrafo, quale realtà Dante indichi con lespressione «natura universale» qui usata per la prima volta (ma cfr. la nota a <i>Cv</i>  I  i 1). In <i>Cv</i> III.iv.10 la natura universale è identificata con Dio («anzi fece ciò la natura universale, cioè Dio»), ma in <i>Cv</i>  IV.ix.2  il rapporto tra natura universale e Dio non è quello di identità, bensì quello di limitato a limitante: Dio, l'unica realtà infinita, costituisce appunto il suo limite. Nella tradizione filosofica peripatetica il concetto di natura universalis e la sua distinzione da/ relazione con la natura particularis (concetti e distinzione non presenti in  Aristotele) risalgono ad Avicenna (<i>Liber  de philosophia prima sive de scientia divina</i>, VI. 5, vol. II, p. 335): da qui passano sia in Alberto Magno (cfr. <i>Physica</i>  II, tr. 1, cap. 5, vol. I,  pp. 83-84)  che in Tommaso d'Aquino (cfr. <i>Summa Theologiae</i>, Ia-IIae,  q.85,  a. 6, <i>respondeo</i>). Per tutti questi autori la natura universale è un principio che regola in vista di un fine (quindi di un bene) la totalità delle trasformazioni che producono, alterano e distruggono le singole sostanze (le nature particolari);  essa dunque, in qualche modo comanda («gubernat», dice Avicenna; «regit», dice Alberto) le nature particolari. Questo principio si identifica sia per Avicenna, che per Alberto e per Tommaso, con l' azione delle intelligenze celesti che si servono come di strumenti dei cieli e degli astri e sta a fondamento dell' ordinato svolgersi dei mutamenti terrestri. Concetti analoghi vengono espressi da Dante nel primo canto del <i>Paradiso</i>, dove lordine «cui sono accline /tutte nature per diverse sorte» è forma generale delluniverso, segno visibile di Dio e del suo essere Provvidenza (cfr. <i>Pd</i> I 103-120). Mentre l'esempio dei denti sembra essere originale, quello delle cinque dita delle mani è diffusissimo nei testi coevi di filosofia (cfr. Alberto Magno, <i>Physica</i> II, tr. 2, cap. 17, vol. I, p. 125, ll. 26-30); la presenza sporadica di un sextus digitus fa vedere come non sempre la natura particolare sia capace di raggiungere il fine che le è comandato.","II, tr. 1, cap. 5, vol. I,  pp. 83-84",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Physicorum(Alberto_Magno),Physicorum,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
TRANSMUTAZIONE,"traduzione. Piuttosto sorprendente è il giudizio sulla mancanza di musica e di armonia  dei <i>Salmi</i> tradotti in latino, un testo centrale per la teologia e la spiritualità medievali, e soprattutto un testo poetico e musicale quotidianamente salmodiato  nei monasteri, ampiamente usato nella liturgia e sicuramente ascoltato da Dante: le anime che approdano al lido del <i>Purgatorio</i> cantano appunto il salmo 113,  «In exitu Israel de Aegypto» (cfr. <i>Pg</i> II 46-48) che fa parte della liturgia dei vespri della domenica; gli angeli stessi nel Paradiso terrestre intonano alcuni versetti del salmo 30, «In te Domine speravi». (cfr. <i>Pg</i>  XXX  82-84). Il tutto, ovviamente, nella traduzione latina. Con tutta probabilità gioca qui l'autorità del traduttore per eccellenza,  San Girolamo, che, nella prefazione alla versione latina del <i>Chronicon Eusebii</i> (PL XXVII, pp. 36-37) aveva già sottolineato la difficoltà di rendere in un'altra lingua tutto il “decoro” del testo originale, dando come esempio proprio quello di Omero («Quod si cui non videtur linguae gratiam interpretatione mutari, Homerum ad verbum exprimat in latinum») Riguardo ai <i>Salmi</i>, testo poetico e musicale per eccellenza, degno di stare accanto a Orazio e a Pindaro («Quid Psalterio canorius quod in morem nostri Flacci et graeci Pindari, nunc iambo currit, nun alcaico personat, nunc sapphico tumet, nunc semipede ingreditur») egli notava come, letti nella traduzione greca dei Settanta, dessero tutt'altro suono («aliud quiddem sonant»).",,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Psalms,Salmi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
TRANSMUTAZIONE,"traduzione. Piuttosto sorprendente è il giudizio sulla mancanza di musica e di armonia  dei <i>Salmi</i> tradotti in latino, un testo centrale per la teologia e la spiritualità medievali, e soprattutto un testo poetico e musicale quotidianamente salmodiato  nei monasteri, ampiamente usato nella liturgia e sicuramente ascoltato da Dante: le anime che approdano al lido del <i>Purgatorio</i> cantano appunto il salmo 113,  «In exitu Israel de Aegypto» (cfr. <i>Pg</i> II 46-48) che fa parte della liturgia dei vespri della domenica; gli angeli stessi nel Paradiso terrestre intonano alcuni versetti del salmo 30, «In te Domine speravi». (cfr. <i>Pg</i>  XXX  82-84). Il tutto, ovviamente, nella traduzione latina. Con tutta probabilità gioca qui l'autorità del traduttore per eccellenza,  San Girolamo, che, nella prefazione alla versione latina del <i>Chronicon Eusebii</i> (PL XXVII, pp. 36-37) aveva già sottolineato la difficoltà di rendere in un'altra lingua tutto il “decoro” del testo originale, dando come esempio proprio quello di Omero («Quod si cui non videtur linguae gratiam interpretatione mutari, Homerum ad verbum exprimat in latinum») Riguardo ai <i>Salmi</i>, testo poetico e musicale per eccellenza, degno di stare accanto a Orazio e a Pindaro («Quid Psalterio canorius quod in morem nostri Flacci et graeci Pindari, nunc iambo currit, nun alcaico personat, nunc sapphico tumet, nunc semipede ingreditur») egli notava come, letti nella traduzione greca dei Settanta, dessero tutt'altro suono («aliud quiddem sonant»).","PL XXVII, pp. 36-37",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Chronicon_(Jerome),Chronicon,Girolamo,http://dbpedia.org/resource/Jerome,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
PRONTA LIBERALITATE,"liberalità che dona subito, senza riluttanza (commentando appunto il testo dell<i>Etica Nicomachea</i> relativo alla <i>liberalitas</i>, Tommaso aveva scritto che chi la esercita «est promptus ad benefaciendum donando»  IV, <i>lectio</i> 2, n. 670  ).","IV, lectio 2, n. 670",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
COME QUANDO,"come nel caso in cui. Esempi di doni non convenienti alla condizione di chi li riceve sono offerti da Seneca nel <i>De beneficiis</i>: donare a donne o vecchi armi da caccia, libri a contadini, reti da pesca a chi è dedito agli studi (I i 11). Dante ne trova altri, più aderenti alle professioni e alle condizioni sociali del mondo dei suoi lettori (e suo). Gli <i>Aforismi</i> attribuiti ad  Ippocrate (tradotti in latino già dal VI secolo d. C.) e l <i>Ars medica</i> o <i>Ars parva</i> di Galeno (129-201 d. c.), tradotta in latino a partire da una traduzione araba prima da Costantino Africano nell XI secolo e poi da Gerardo da Cremona, nella seconda metà del XII  (<i>Tegni</i> è la translitterazione, corrotta, del termine greco <i>Techne</i>, arte, sottinteso medica. Dante tratta il titolo <i>Tegni</i>, che nei testi medici latini è indeclinabile, come un maschile plurale. Cfr. Nardi 1944 , pp. 53-55) erano i testi su cui nell Università di Bologna si insegnava medicina al tempo di Dante (si correva dietro ad <i>Aforismi</i>, come vien detto in <i>Pd</i>  XI 4-5). Dopo la laurea, rimanevano strumenti indispensabili della pratica medica e facevano parte della biblioteca di ogni professionista affermato (cfr. Ottosson 1984).",I i 11,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/De_Beneficiis,De beneficiis,Seneca,http://dbpedia.org/resource/Seneca_the_Younger,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
COME QUANDO,"come nel caso in cui. Esempi di doni non convenienti alla condizione di chi li riceve sono offerti da Seneca nel <i>De beneficiis</i>: donare a donne o vecchi armi da caccia, libri a contadini, reti da pesca a chi è dedito agli studi (I i 11). Dante ne trova altri, più aderenti alle professioni e alle condizioni sociali del mondo dei suoi lettori (e suo). Gli <i>Aforismi</i> attribuiti ad  Ippocrate (tradotti in latino già dal VI secolo d. C.) e l <i>Ars medica</i> o <i>Ars parva</i> di Galeno (129-201 d. c.), tradotta in latino a partire da una traduzione araba prima da Costantino Africano nell XI secolo e poi da Gerardo da Cremona, nella seconda metà del XII  (<i>Tegni</i> è la translitterazione, corrotta, del termine greco <i>Techne</i>, arte, sottinteso medica. Dante tratta il titolo <i>Tegni</i>, che nei testi medici latini è indeclinabile, come un maschile plurale. Cfr. Nardi 1944 , pp. 53-55) erano i testi su cui nell Università di Bologna si insegnava medicina al tempo di Dante (si correva dietro ad <i>Aforismi</i>, come vien detto in <i>Pd</i>  XI 4-5). Dopo la laurea, rimanevano strumenti indispensabili della pratica medica e facevano parte della biblioteca di ogni professionista affermato (cfr. Ottosson 1984).",,CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Aforismi,Aforismi,Ippocrate,http://dbpedia.org/resource/Hippocrates,http://purl.org/bncf/tid/770,WORK
COME QUANDO,"come nel caso in cui. Esempi di doni non convenienti alla condizione di chi li riceve sono offerti da Seneca nel <i>De beneficiis</i>: donare a donne o vecchi armi da caccia, libri a contadini, reti da pesca a chi è dedito agli studi (I i 11). Dante ne trova altri, più aderenti alle professioni e alle condizioni sociali del mondo dei suoi lettori (e suo). Gli <i>Aforismi</i> attribuiti ad  Ippocrate (tradotti in latino già dal VI secolo d. C.) e l <i>Ars medica</i> o <i>Ars parva</i> di Galeno (129-201 d. c.), tradotta in latino a partire da una traduzione araba prima da Costantino Africano nell XI secolo e poi da Gerardo da Cremona, nella seconda metà del XII  (<i>Tegni</i> è la translitterazione, corrotta, del termine greco <i>Techne</i>, arte, sottinteso medica. Dante tratta il titolo <i>Tegni</i>, che nei testi medici latini è indeclinabile, come un maschile plurale. Cfr. Nardi 1944 , pp. 53-55) erano i testi su cui nell Università di Bologna si insegnava medicina al tempo di Dante (si correva dietro ad <i>Aforismi</i>, come vien detto in <i>Pd</i>  XI 4-5). Dopo la laurea, rimanevano strumenti indispensabili della pratica medica e facevano parte della biblioteca di ogni professionista affermato (cfr. Ottosson 1984).",,CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Ars_Medica,Ars medica,Galeno,http://dbpedia.org/resource/Galen,http://purl.org/bncf/tid/770,WORK
NON TRISTA,"senza tristezza. Che  il  piacere sia connaturato all azione virtuosa è dottrina fondamentale delletica aristotelica, non sempre facilmente conciliabile con la tradizione cristiana. La virtù infatti, per Aristotele, si possiede e si esercita solo dopo che è diventata una seconda natura, quando non si deve più contrastare la passione contraria con una violenza verso se stessi che produce dolore e fatica («tristezza»). Come dice con perfetta chiarezza il Commento di Tommaso all <i>Etica Nicomachea</i>  «ante virtutem facit homo sibi quandam violentiam ad operandum …, et ideo tales operationes habent quandam tristitiam admixtam. Sed post habitum virtutis generatum huiusmodi operationes fiunt delectabiliter» (II, <i>lectio</i> 3, n.265). Questo principio generale viene affermato anche nella trattazione aristotelica della liberalità (cfr. <i>Eth. Nic</i>. IV, 2, 1120 a 26-31 «Quod enim secundum virtutem, delectabile vel non triste» <i>Translatio Grosseteste. Textus Purus</i>, p. 103, l. 20) e ribadito dal Commento di Tommaso con parole che trovano uneco in quelle di  Dante («in omni virtute … actus virtuosus vel est delectabilis, vel saltem est sine tristitia»  IV, <i>lectio</i> 2, n. 667). Causa del piacere («letizia») è lutilità che il dono procura sia a chi dona, per il fatto che dona («per lo donare») sia a chi riceve per il fatto di riceverlo («per lo ricevere»). Si tratta della medesima utilità vista da due differenti angolature; esattamente come nella fisica aristotelica unico è il movimento di ciò che muove e di ciò che è mosso, ma esso rimane nel movente e passa nel mosso, così lutilità rimane nel donatore nel  dare e  passa in chi riceve nel ricevere.","II, lectio 3, n.265",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
NEL DATORE,"chi dona, secondo Dante, deve aver laccortezza («providenza») di donare in modo da mantenere per sé («dalla sua parte») lutilità che consiste nellonestà («onestade»). Nella dottrina tradizionale, che risale al <i>De officiis</i> di Cicerone, la virtù è un bonum <i>honestum</i>; cfr. ad esempio <i>De officiis</i> III, 3, 11 sgg ) e di dare allaltro un bene dal cui uso possa derivare utilità («lutilitade delluso della cosa donata»).  I commentatori hanno giustamente richiamato lattenzione su testi in cui Tommaso distingue latto di chi fa del bene da quello di chi lo riceve. Nel primo caso abbiamo un “actus virtutis” e quindi un “bonum <i>honestum</i>”, nel secondo esclusivamente un “bonum <i>utile</i>”. Rimane il problema dell identificazione piuttosto ardita di <i>honestas</i> e <i>utilitas</i> operata dallespressione «utilitade dellonestade». Nella tradizione cui abbiamo accennato, infatti, <i>honestum</i> ed <i>utile</i> sono distinti, anche se non opposti.  La precisazione successiva («chè sopra ogni utilitade») sembrerebbe dire che l utilitade può riferirsi all onestade in senso solo metaforico. Ma allora tutta largomentazione ne risulta viziata.","III, 3, 11 sgg",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/De_Officiis,De officiis,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
E PERÒ CHE ... UTILE,"il senso è che se un qualcosa è utile  in una  posizione data,  trasportarla in unaltra in cui sarebbe pure egualmente utile è altrettanto da condannare (è «biasimevole») quanto trasportarla in una in cui sarebbe meno utile; facendo così, infatti, avremmo agito senza produrre quel miglioramento che è appunto il fine della virtù, avremmo agito («adoperato»») invano; e questo è un male (per Aristotele l “invano” si ha quando una azione non raggiunge lo scopo per cui è stata intrapresa. Cfr. <i>Phys</i>. II 6, 197 b 22-27).","II 6, 197 b 22-27",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
ABBISOGNI,"abbia bisogno. Che la nostra vita abbia bisogno degli amici è affermato all'inizio dellottavo libro dell <i>Etica Nicomachea</i>  (1155 a 3-6), un testo cui Dante rimanderà esplicitamente in <i>Cv</i> IV xxv 1.",1155 a 3-6,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PERÒ CHE L'UTILITADE ... DONO,"quando il dono sarà materialmente venuto meno, la sua immagine rimarrà nella memoria come l impronta di un sigillo rimane nella cera anche in assenza del sigillo e sarà la sua utilità che ve la avrà impressa. La metafora del sigillo e della cera era stata usata da Alberto Magno proprio per spiegare il permanere di una sensazione nella memoria anche in assenza della cosa che laveva prodotta. Cfr. <i>De memoria et reminiscentia</i>, tr. 1, cap. 4,  pp. 103-104).","tr. 1, cap. 4,  pp. 103-104",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_memoria_et_reminiscentia(Alberto_Magno),De memoria et reminiscentia (Alberto Magno),Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
PER CHE DICE SENECA,"si tratta  di una frase del <i>De beneficiis</i> di Seneca («nulla res carius constat quam quae praecibus empta est»  II i 4) che però, con tutta probabilità, Dante traduce di seconda mano da una citazione presente nella <i>Summa Theologiae</i> di Tommaso («sicut Seneca dicit, nulla res carius emitur quam quae praecibus empta est» IIa-IIae, q. 83, a.2 <i>Utrum si conveniens orare</i>, terzo argomento in contrario)",«nulla res carius constat quam quae praecibus empta est»  II i 4,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/De_Beneficiis,De beneficiis,Seneca,http://dbpedia.org/resource/Seneca_the_Younger,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
PER CHE DICE SENECA,"si tratta  di una frase del <i>De beneficiis</i> di Seneca («nulla res carius constat quam quae praecibus empta est»  II i 4) che però, con tutta probabilità, Dante traduce di seconda mano da una citazione presente nella <i>Summa Theologiae</i> di Tommaso («sicut Seneca dicit, nulla res carius emitur quam quae praecibus empta est» IIa-IIae, q. 83, a.2 <i>Utrum si conveniens orare</i>, terzo argomento in contrario)","«sicut Seneca dicit, nulla res carius emitur quam quae praecibus empta est» IIa-IIae, q. 83, a.2 Utrum si conveniens orare, terzo argomento in contrario",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_Theologica,Summa Theologiae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
PRESTARLA PER PREZZO,"affittarla.  Lesempio del suonatore di cetra richiama un passo dell <i>Etica Nicomachea</i> (I  6, 1098 a 7-12 ) dove Aristotele, ancora una volta reso più chiaro dal Commento di Tommaso, afferma che lattività propria del suonatore di cetra (<i>cytharista</i>) è suonare la cetra, quella del buon suonatore, suonarla bene. Dietro lapparente tautologia è presente la dottrina per cui, per ogni attività o abilità che perfeziona un ente, il fine consiste semplicemente nel suo pieno esercizio. Basandosi su questo Dante si scaglia contro la trasformazione del valore duso in valore di scambio e di ciò che è perfezione interna in merce esterna. Nella sua rapida invettiva sono presenti echi del dibattito, particolarmente vivace tra la fine del XII e per tutto il XIII secolo, se la scienza, che è “donum Dei”, possa essere venduta e comprata  (ovvero il problema del salario ai professori; cfr. Post  Giocarinis - Kay 1955) e della polemica dei teologi e dei professori di filosofia contro le discipline che danno guadagno, le “scientiae lucrativae” come medicina e giurisprudenza  (cfr. ancora <i>Pd</i>  XII 83  «chi dietro a iura, chi dietro ad aforismi sen giva»). Ma il quadro è più vasto ed originale e non si ferma ai luoghi comuni di una polemica interna a gruppi di intellettuali più o meno professionisti. Qui è già presente la consapevolezza della grande trasformazione economica e sociale cominciata con il conio del fiorino doro, e con la consapevolezza, il rifiuto del «maladetto fiore» che Firenze spande per il mondo trasformando ogni cosa in merce (<i>Pd</i>  IX, 126 sgg.). Cfr. <i>Cv</i>  III x 11.","I  6, 1098 a 7-12",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PRESTARLA PER PREZZO,"affittarla.  Lesempio del suonatore di cetra richiama un passo dell <i>Etica Nicomachea</i> (I  6, 1098 a 7-12 ) dove Aristotele, ancora una volta reso più chiaro dal Commento di Tommaso, afferma che lattività propria del suonatore di cetra (<i>cytharista</i>) è suonare la cetra, quella del buon suonatore, suonarla bene. Dietro lapparente tautologia è presente la dottrina per cui, per ogni attività o abilità che perfeziona un ente, il fine consiste semplicemente nel suo pieno esercizio. Basandosi su questo Dante si scaglia contro la trasformazione del valore duso in valore di scambio e di ciò che è perfezione interna in merce esterna. Nella sua rapida invettiva sono presenti echi del dibattito, particolarmente vivace tra la fine del XII e per tutto il XIII secolo, se la scienza, che è “donum Dei”, possa essere venduta e comprata  (ovvero il problema del salario ai professori; cfr. Post  Giocarinis - Kay 1955) e della polemica dei teologi e dei professori di filosofia contro le discipline che danno guadagno, le “scientiae lucrativae” come medicina e giurisprudenza  (cfr. ancora <i>Pd</i>  XII 83  «chi dietro a iura, chi dietro ad aforismi sen giva»). Ma il quadro è più vasto ed originale e non si ferma ai luoghi comuni di una polemica interna a gruppi di intellettuali più o meno professionisti. Qui è già presente la consapevolezza della grande trasformazione economica e sociale cominciata con il conio del fiorino doro, e con la consapevolezza, il rifiuto del «maladetto fiore» che Firenze spande per il mondo trasformando ogni cosa in merce (<i>Pd</i>  IX, 126 sgg.). Cfr. <i>Cv</i>  III x 11.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
MALVAGIA DISUSANZA DEL MONDO,"perversa abitudine universalmente diffusa. “Mondo” non è un termine neutro, ma ha qui una valenza negativa risalente alla contrapposizione del Vangelo di Giovanni (ma anche di alcune lettere di Paolo) tra il regno divino di verità e di giustizia, accolto da pochi, e questo mondo, la maggioranza, che  appunto ha rifiutato e rifiuta verità e giustizia.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_John,Vangelo di Giovanni,Giovanni,http://dbpedia.org/resource/John_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
MALVAGIA DISUSANZA DEL MONDO,"perversa abitudine universalmente diffusa. “Mondo” non è un termine neutro, ma ha qui una valenza negativa risalente alla contrapposizione del Vangelo di Giovanni (ma anche di alcune lettere di Paolo) tra il regno divino di verità e di giustizia, accolto da pochi, e questo mondo, la maggioranza, che  appunto ha rifiutato e rifiuta verità e giustizia.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Pauline_epistles,Lettere di Paolo,Paolo,http://dbpedia.org/resource/Paul_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
UNA RONDINE,"Aristotele  (cfr. <i>Eth Nic</i>. I  7, 1098 a 18-19  «Una enim hirundo ver non facit» <i>Translatio Grosseteste. Textus purus</i>, p. 151, l. 14) utilizza il detto per mostrare come una vita felice, per esser tale, debba esserlo ininterrottamente e non maniera discontinua. Diverso è luso che fa Dante di questa  espressione che doveva esser diventata ormai proverbiale: lesistenza di alcuni “litterati” che possiedono nobiltà vera  è leccezione che conferma la regola. Da questo paragrafo, e da quello precedente risulta che il concetto di nobiltà danimo, ancor prima di essere definito nel suo contenuto, ha già una sua estensione di carattere politico-sociale: hanno nobiltà danimo solo pochi “litterati” e molti “volgari” e tra questi, sembra, tutti i principi, baroni, cavalieri ed altra nobile gente cui è rivolto il Commento delle canzoni.","I  7, 1098 a 18-19  «Una enim hirundo ver non facit» Translatio Grosseteste. Textus purus, p. 151, l. 14",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
NELLO STATUIRE,"Dante traduce, adattandolo alle sue esigenze, un passo del <i>Digesto</i> (I, 4, 2) attribuito a Ulpiano, giurista del II secolo d. C. «In rebus novis constituendis evidens utilitas debet, ut recedatur ab eo iure quod diu aequum visum est» (la massima era già stato citata da Boncompagno da Signa nel prologo alla sua <i>Rhetorica Novissima</i>,  p. 252 b, e da Tommaso nella <i>Summa Theologiae</i> Ia-IIae, q. 97, a. 2, <i>respondeo</i>).","I, 4, 2",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Digest_(Roman_law),Digesta,Ulpiano,http://dbpedia.org/resource/Ulpian,http://purl.org/bncf/tid/5750,WORK
NELLO STATUIRE,"Dante traduce, adattandolo alle sue esigenze, un passo del <i>Digesto</i> (I, 4, 2) attribuito a Ulpiano, giurista del II secolo d. C. «In rebus novis constituendis evidens utilitas debet, ut recedatur ab eo iure quod diu aequum visum est» (la massima era già stato citata da Boncompagno da Signa nel prologo alla sua <i>Rhetorica Novissima</i>,  p. 252 b, e da Tommaso nella <i>Summa Theologiae</i> Ia-IIae, q. 97, a. 2, <i>respondeo</i>).",p. 252 b,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Rhetorica_Novissima,Rhetorica Novissima,Boncompagno da Signa,http://dbpedia.org/resource/Boncompagno_da_Signa,http://purl.org/bncf/tid/4567,WORK
NELLO STATUIRE,"Dante traduce, adattandolo alle sue esigenze, un passo del <i>Digesto</i> (I, 4, 2) attribuito a Ulpiano, giurista del II secolo d. C. «In rebus novis constituendis evidens utilitas debet, ut recedatur ab eo iure quod diu aequum visum est» (la massima era già stato citata da Boncompagno da Signa nel prologo alla sua <i>Rhetorica Novissima</i>,  p. 252 b, e da Tommaso nella <i>Summa Theologiae</i> Ia-IIae, q. 97, a. 2, <i>respondeo</i>).","Ia-IIae, q. 97, a. 2",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_Theologica,Summa Theologiae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
PER GELOSIA DI LUI,"i termini “geloso”, “gelosia” piuttosto che sospetti di infedeltà  indicano, come dice Egidio Romano, un amore particolarmente forte (cfr. <i>De regimine principum</i> I iii 10, p. 181, «zelus nihil est aliud quam quidam amor intensus»): nel caso specifico la preoccupazione costante  che l'amico non abbia a patir danno da un qualsiasi evento esterno al rapporto di amicizia. Questo atteggiamento rende attenti  («fa luomo sollicito») a prevedere e a prevenire  anche mali ipotetici e comunque molto lontani («a lunga providenza»).","I iii 10, p. 181, «zelus nihil est aliud quam quidam amor intensus»",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_regimine_principum,De regimine principum (Egidio Romano),Egidio Romano,http://dbpedia.org/resource/Giles_of_Rome,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
ONDE ... ALTRO,"ho pensato che se avessi composto il Commento in latino, il desiderio di comprendere («intendere») le canzoni avrebbe spinto qualcuno che non conosceva il latino («alcuno illitterato») a farlo tradurre in italiano («avrebbe fatto lo comento latino trasmutare in volgare»). Così ho avuto paura che la traduzione fosse stata fatta («temendo che l volgare non fosse stato posto») da un cattivo traduttore, cioè da chi avrebbe fatto apparire brutto il volgare («lavesse laido fatto parere»); dunque ho provveduto ad usarlo io direttamente («providi io a ponere lui»). Il «Taddeo ipocratista», cioè seguace, ma anche commentatore di Ippocrate, che ha volto in italiano la traduzione latina dell' <i>Etica Nicomachea</i> è Taddeo Alderotti, fiorentino e professore di medicina a Bologna dal 1260 ca fino alla morte nel 1295. La sua fama, sia nell'insegnamento sia nell'esercizio della professione, è attestata da <i>Pd</i>  XII 81-83  dove Taddeo personifica  la medicina, così come Enrico di Susa cardinale vescovo di Ostia incarna il diritto canonico (accomunati per altro entrambi dal giudizio negativo sulle “scientiae lucrativae”: «Non per lo mondo, per cui mo s'affanna / di retro a Ostiense e a Tadeo»). Il testo di cui parla Dante non è quello dell <i>Etica Nicomachea</i> nella sua interezza, bensì un compendio arabo (il cosiddetto <i>Liber Ethicorum</i> o <i>Summa Alexandrinorum</i>) tradotto in latino da Ermanno il Tedesco nel 1243, sicuramente conosciuto ed utilizzato da Dante. Della <i>Summa</i> esistono due versioni in volgare: quella in italiano tramandata sotto il nome di Taddeo Alderotti (ma presente anche nella traduzione italiana del <i>Trésor</i> attribuita a Bono Giamboni) e quella in antico francese inserita nel <i>Trésor</i> di Brunetto Latini. I rapporti tra queste versioni sono problematici. Con tutta probabilità la traduzione di Brunetto dipende da quella di Taddeo (in effetti il testo del <i>Convivio</i> parla di una versione diretta dal latino: «trasmutò lo latino dellEtica»). Entrambe sono posteriori al Commento all <i>Etica Nicomachea</i> di Tommaso dAquino (cfr. Gentili 2005, pp. 41-47. Sul metodo di lavoro di Taddeo vedi Gentili 2006). In ogni caso con Taddeo sembra aver inizio un interesse dei professori di medicina per la filosofia morale che sarà caratteristico delle università medievali italiane.",,CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Volgarizzamento_Etica_Nicomachea,Volgarizzamento dell'Etica Nicomachea,Taddeo Alderotti,http://it.dbpedia.org/resource/Taddeo_Alderotti,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
ONDE ... ALTRO,"ho pensato che se avessi composto il Commento in latino, il desiderio di comprendere («intendere») le canzoni avrebbe spinto qualcuno che non conosceva il latino («alcuno illitterato») a farlo tradurre in italiano («avrebbe fatto lo comento latino trasmutare in volgare»). Così ho avuto paura che la traduzione fosse stata fatta («temendo che l volgare non fosse stato posto») da un cattivo traduttore, cioè da chi avrebbe fatto apparire brutto il volgare («lavesse laido fatto parere»); dunque ho provveduto ad usarlo io direttamente («providi io a ponere lui»). Il «Taddeo ipocratista», cioè seguace, ma anche commentatore di Ippocrate, che ha volto in italiano la traduzione latina dell' <i>Etica Nicomachea</i> è Taddeo Alderotti, fiorentino e professore di medicina a Bologna dal 1260 ca fino alla morte nel 1295. La sua fama, sia nell'insegnamento sia nell'esercizio della professione, è attestata da <i>Pd</i>  XII 81-83  dove Taddeo personifica  la medicina, così come Enrico di Susa cardinale vescovo di Ostia incarna il diritto canonico (accomunati per altro entrambi dal giudizio negativo sulle “scientiae lucrativae”: «Non per lo mondo, per cui mo s'affanna / di retro a Ostiense e a Tadeo»). Il testo di cui parla Dante non è quello dell <i>Etica Nicomachea</i> nella sua interezza, bensì un compendio arabo (il cosiddetto <i>Liber Ethicorum</i> o <i>Summa Alexandrinorum</i>) tradotto in latino da Ermanno il Tedesco nel 1243, sicuramente conosciuto ed utilizzato da Dante. Della <i>Summa</i> esistono due versioni in volgare: quella in italiano tramandata sotto il nome di Taddeo Alderotti (ma presente anche nella traduzione italiana del <i>Trésor</i> attribuita a Bono Giamboni) e quella in antico francese inserita nel <i>Trésor</i> di Brunetto Latini. I rapporti tra queste versioni sono problematici. Con tutta probabilità la traduzione di Brunetto dipende da quella di Taddeo (in effetti il testo del <i>Convivio</i> parla di una versione diretta dal latino: «trasmutò lo latino dellEtica»). Entrambe sono posteriori al Commento all <i>Etica Nicomachea</i> di Tommaso dAquino (cfr. Gentili 2005, pp. 41-47. Sul metodo di lavoro di Taddeo vedi Gentili 2006). In ogni caso con Taddeo sembra aver inizio un interesse dei professori di medicina per la filosofia morale che sarà caratteristico delle università medievali italiane.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Tresor,Trésor,Brunetto Latini,http://dbpedia.org/resource/Brunetto_Latini,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
DELLA PRIMA ... LA DISCREZIONE,"nella dottrina aristotelica il senso della vista ha come suo oggetto proprio i colori (cfr. <i>De an</i>.  II  7, 418 a 26 sgg.). All'inizio della <i>Metafisica</i>, poi, Aristotele noterà come noi preferiamo la vista a tutte le altre sensazioni proprio perché  ci fa conoscere maggiormente la differenza tra le cose (I 1, 980 a 21-27). La metafora dell occhio della ragione ed il paragone con locchio fisico sono  presenti nel Commento di Tommaso all <i>Etica Nicomachea</i>  (III, <i>lectio</i> 13, n. 521), ma attribuiti ad altri e senza che l Aquinate li faccia propri. Sempre nel Commento all' <i>Etica</i>, e più precisamente nel prologo, Dante poteva però leggere che è prerogativa della ragione, e non dei sensi,  «cognoscere ordinem» . La discrezione di cui qui  si parla è appunto una capacità razionale di giudicare distinguendo in base all ordine dei fini.","II  7, 418 a 26 sgg.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DELLA PRIMA ... LA DISCREZIONE,"nella dottrina aristotelica il senso della vista ha come suo oggetto proprio i colori (cfr. <i>De an</i>.  II  7, 418 a 26 sgg.). All'inizio della <i>Metafisica</i>, poi, Aristotele noterà come noi preferiamo la vista a tutte le altre sensazioni proprio perché  ci fa conoscere maggiormente la differenza tra le cose (I 1, 980 a 21-27). La metafora dell occhio della ragione ed il paragone con locchio fisico sono  presenti nel Commento di Tommaso all <i>Etica Nicomachea</i>  (III, <i>lectio</i> 13, n. 521), ma attribuiti ad altri e senza che l Aquinate li faccia propri. Sempre nel Commento all' <i>Etica</i>, e più precisamente nel prologo, Dante poteva però leggere che è prerogativa della ragione, e non dei sensi,  «cognoscere ordinem» . La discrezione di cui qui  si parla è appunto una capacità razionale di giudicare distinguendo in base all ordine dei fini.","I 1, 980 a 21-27",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DELLA PRIMA ... LA DISCREZIONE,"nella dottrina aristotelica il senso della vista ha come suo oggetto proprio i colori (cfr. <i>De an</i>.  II  7, 418 a 26 sgg.). All'inizio della <i>Metafisica</i>, poi, Aristotele noterà come noi preferiamo la vista a tutte le altre sensazioni proprio perché  ci fa conoscere maggiormente la differenza tra le cose (I 1, 980 a 21-27). La metafora dell occhio della ragione ed il paragone con locchio fisico sono  presenti nel Commento di Tommaso all <i>Etica Nicomachea</i>  (III, <i>lectio</i> 13, n. 521), ma attribuiti ad altri e senza che l Aquinate li faccia propri. Sempre nel Commento all' <i>Etica</i>, e più precisamente nel prologo, Dante poteva però leggere che è prerogativa della ragione, e non dei sensi,  «cognoscere ordinem» . La discrezione di cui qui  si parla è appunto una capacità razionale di giudicare distinguendo in base all ordine dei fini.","III, lectio 13, n. 521",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
È SCRITTO,"il riferimento è a <i>Mt</i>, 15, 14  «Caecus autem si caeco ducatum praestet, ambo in foveam cadent», ma la citazione non è letterale.","15, 14",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Matthew,Vangelo di Matteo,Matteo,http://dbpedia.org/resource/Matthew_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
ONDE BOEZIO,"cfr. <i>De consolatione philosophiae</i> III, prosa 6, 6, p. 71:  «Popularem gratiam ne commemoratione quidem dignam puto, quia nec iudicio provenit nec umquam firma perdurat».","III, prosa 6, 6, p. 71:  «Popularem gratiam ne commemoratione quidem dignam puto, quia nec iudicio provenit nec umquam firma perdurat»",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
GRIDA TULLIO,"Tullio esclama: la <i>exclamatio</i>, figura retorica presente nella <i>Rhetorica ad Herennium</i> (IV xv 22) era appunto diventata “gridare” nel <i>Fiore di Rettorica</i> di Bono Giamboni «E un altro ornamento che sappella gridare, il quale si fa con boce di dolore, rammaricandosi dalcuno uomo overo città overo luogo overo altra cosa» (ed. Speroni, p. 13). Allinizio de <i>De finibus bonorum et malorum</i> (I  2, 4 sgg.)  Cicerone, affrontando anticipatamente le critiche cui il suo lavoro di latinizzazione del patrimonio filosofico greco sarebbe andato incontro, difende le capacità espressive del sermo patrius contro coloro che, esaltatori della lingua greca, disprezzano ciò che è scritto in  latino.  I sintagmi «latino romano» e «gramatica greca» e soprattutto la loro opposizione danno origine a qualche problema interpretativo. Sembra infatti che qui Dante opponga una lingua nativa (quasi un “volgare” latino) ad una lingua regolata. Risulta però alquanto improbabile, anche alla luce delle sue affermazioni precedenti sulla sua incorruttibilità che Dante pensi ad un latino in movimento (come abbiamo detto bisognerà aspettare gli umanisti perché si ponga il problema del rapporto lingua scritta-lingua parlata dei Romani). Inoltre, anche se così fosse, il paragone non reggerebbe in quanto il linguaggio preferito al volgare del sì è esso stesso un volgare. Dunque è preferibile non dare troppo peso allespressione “latino-romano” e considerarlo come un sinonimo di latino-grammatica.","I  2, 4 sgg.",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/De_finibus_bonorum_et_malorum,De finibus bonorum et malorum,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
MAGNIFICARE E PARVIFICARE,il farsi grandi ed il farsi piccoli hanno sempre come termine di riferimento («rispetto» dal latino <i>respectus</i> che indica la categoria filosofica della relazione) qualcosa nei cui confronti il magnanimo si sente grande ed il pusillanime piccolo (i termini “magnificare” e “parvificare” sono calchi sia dalla <i>Summa Alexandrinorum</i> che dalla traduzione latina dell <i>Etica Nicomachea</i> del Grossatesta).,traduzione latina dellEtica Nicomachea del Grossatesta,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
CON QUELLA MISURA CHE,"con la stessa misura con cui  In questi paragrafi viene ampiamente utilizzata la terminologia dell <i>Etica Nicomachea</i>. Con “magnanimo” (la traduzione latina aveva reso con <i>magnanimus</i> il corrispondente greco <i>megalopsychos</i>, così come <i>pusillanimus</i> traduceva <i>mikropsychos</i>) il <i>Convivio</i>, introduce nelluso italiano un vocabolo che fino ad allora era stato usato solo dai volgarizzamenti della <i>Summa Alexandrinorum</i>, del <i>De regimine principum</i> di Egidio Romano,  dalla versione italiana del <i>Trésor</i> di Brunetto Latini e che anche in seguito avrà occorrenze assai rare (cfr. Corti 2003, pp. 67-75)  Ma, al di là delluso dei termini, Dante non sa o non vuole cogliere appieno il senso profondo del discorso aristotelico sulla magnanimità: in nessun modo, per Aristotele, il magnanimo giudica gli altri minori di quello che effettivamente sono, ed ancor meno al magnanimo «le sue cose paiono migliori che non sono», come se si trattasse di una valutazione in eccesso, speculare e contraria a quella del pusillanime («e così lo pusillanimo, per contrario …»). Per lo Stagirita il <i>megalopsychos</i> è colui che guarda tutto dallalto, e addirittura tutto disprezza giustamente, perché conscio della propria reale superiorità (cfr. <i>Eth. Nic</i>. IV 3, 1124 a 20; 1124 b 5-6 e Moore, p. 104). Egli stesso è misura delle cose: come dice la <i>Summa Alexandrinorum</i> «Et est quidem <i>magnanimus</i> finis et extremum respectu rebus quibus comparatur». (ed. Marchesi, p. LVII). Se questo testo è stato presente a Dante, come vuole Maria Corti (Corti 2003, p.  123) sulla base della presenza in entrambi del termine <i>respectus</i>-respetto (il testo autentico di Aristotele nella traduzione latina del Grossatesta ha solo «est autem <i>magnanimus</i> magnitudine quidem extremus»), è stato sicuramente male interpretato. Il fatto è che una figura del genere poteva difficilmente ottenere diritto di cittadinanza tra i modelli di virtù cristiane. Allo stesso modo la condanna di chi, pur essendo degno di onore, non vi aspira o lo rifiuta (questo, infatti, per contrasto, è il pusillanime) poteva risultare una condanna della virtuosa umiltà. Né il tentativo di Tommaso di far accettare questi concetti tipicamente greci distinguendo e precisando ebbe pieno successo (Gauthier 1951). Dante ha sicuramente una certa simpatia per i magnanimi: nella <i>Commedia</i> la qualifica è riservata a Virgilio (<i>If</i> II 43) e a Farinata (<i>If</i> X 73); pienamente fondata risulta la tesi sostenuta contemporaneamente da Fiorenzo Forti e Kenelm Forster per cui ciò che accomuna gli spiriti magni del Limbo sarebbe appunto la magnanimità (cfr. Forti 1977, pp. 10-48; Forster 1977, p. 194). Ma se anche la magnanimità è una virtù, si tratta di una virtù quanto mai ambigua (cfr. Marchesi 2001, pp. 103-107, che si riferisce allatteggiamento di Cicerone sempre in bilico fra lammirazione per il magnanimo e la paura dei suoi eccessi).","IV 3, 1124 a 20; 1124 b 5-6 e Moore, p. 104",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
CON QUELLA MISURA CHE,"con la stessa misura con cui  In questi paragrafi viene ampiamente utilizzata la terminologia dell <i>Etica Nicomachea</i>. Con “magnanimo” (la traduzione latina aveva reso con <i>magnanimus</i> il corrispondente greco <i>megalopsychos</i>, così come <i>pusillanimus</i> traduceva <i>mikropsychos</i>) il <i>Convivio</i>, introduce nelluso italiano un vocabolo che fino ad allora era stato usato solo dai volgarizzamenti della <i>Summa Alexandrinorum</i>, del <i>De regimine principum</i> di Egidio Romano,  dalla versione italiana del <i>Trésor</i> di Brunetto Latini e che anche in seguito avrà occorrenze assai rare (cfr. Corti 2003, pp. 67-75)  Ma, al di là delluso dei termini, Dante non sa o non vuole cogliere appieno il senso profondo del discorso aristotelico sulla magnanimità: in nessun modo, per Aristotele, il magnanimo giudica gli altri minori di quello che effettivamente sono, ed ancor meno al magnanimo «le sue cose paiono migliori che non sono», come se si trattasse di una valutazione in eccesso, speculare e contraria a quella del pusillanime («e così lo pusillanimo, per contrario …»). Per lo Stagirita il <i>megalopsychos</i> è colui che guarda tutto dallalto, e addirittura tutto disprezza giustamente, perché conscio della propria reale superiorità (cfr. <i>Eth. Nic</i>. IV 3, 1124 a 20; 1124 b 5-6 e Moore, p. 104). Egli stesso è misura delle cose: come dice la <i>Summa Alexandrinorum</i> «Et est quidem <i>magnanimus</i> finis et extremum respectu rebus quibus comparatur». (ed. Marchesi, p. LVII). Se questo testo è stato presente a Dante, come vuole Maria Corti (Corti 2003, p.  123) sulla base della presenza in entrambi del termine <i>respectus</i>-respetto (il testo autentico di Aristotele nella traduzione latina del Grossatesta ha solo «est autem <i>magnanimus</i> magnitudine quidem extremus»), è stato sicuramente male interpretato. Il fatto è che una figura del genere poteva difficilmente ottenere diritto di cittadinanza tra i modelli di virtù cristiane. Allo stesso modo la condanna di chi, pur essendo degno di onore, non vi aspira o lo rifiuta (questo, infatti, per contrasto, è il pusillanime) poteva risultare una condanna della virtuosa umiltà. Né il tentativo di Tommaso di far accettare questi concetti tipicamente greci distinguendo e precisando ebbe pieno successo (Gauthier 1951). Dante ha sicuramente una certa simpatia per i magnanimi: nella <i>Commedia</i> la qualifica è riservata a Virgilio (<i>If</i> II 43) e a Farinata (<i>If</i> X 73); pienamente fondata risulta la tesi sostenuta contemporaneamente da Fiorenzo Forti e Kenelm Forster per cui ciò che accomuna gli spiriti magni del Limbo sarebbe appunto la magnanimità (cfr. Forti 1977, pp. 10-48; Forster 1977, p. 194). Ma se anche la magnanimità è una virtù, si tratta di una virtù quanto mai ambigua (cfr. Marchesi 2001, pp. 103-107, che si riferisce allatteggiamento di Cicerone sempre in bilico fra lammirazione per il magnanimo e la paura dei suoi eccessi).","«Et est quidem magnanimus finis et extremum respectu rebus quibus comparatur». (ed. Marchesi, p. LVII)",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Summa_Alexandrinorum,Summa Alexandrinorum,Nicola Damasceno,http://dbpedia.org/resource/Nicolaus_of_Damascus,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
"DICO CHE, SÌ COME VEDERE SI PUÒ CHE SCRIVE TULIO","l affermazione che per natura («naturalmente») la vicinanza e la bontà («prossimitade e bontade») fanno nascere («siano cagioni generative») lamicizia, e che il bene  ricevuto («beneficio»), la comunanza di intenti («studio») e una lunga frequentazione tra amici («consuetudine») la fanno crescere («siano cagioni accrescitive») è costruita unendo una espressione di Cicerone tradotta quasi alla lettera (<i>De amicitia</i>, ix 29, «Confirmatur amor et beneficio accepto et studio perspecto et consuetudine adiuncta») con una breve citazione del Commento di Tommaso all <i>Etica Nicomachea</i>  («Ratio dilectionis in omni amicitia cognata est propinquitas unius ad alterum» VIII, lectio 12, n. 1708). In questo secondo caso, però, Dante forza il testo perché Tommaso, e Aristotele, stanno parlando di un particolare tipo di amicizia, quella tra consanguinei (appunto la amicitia cognata) e la «prossimitade» è dunque quella della parentela. Che vera amicizia sia solo quella che si instaura tra i buoni e che gli amici desiderino passare la vita insieme, sono affermazioni ampiamente presenti nell <i>Etica Nicomachea</i>, ma non collegate alla nascita o alla crescita della amicizia. Questo piccolo esempio anticipa ciò di cui ci renderemo conto meglio man mano che procediamo nella lettura del <i>Convivio</i>: Dante utilizza con una certa libertà le sue “auctoritates”, piegandole spesso a conclusioni che sono tutte sue.","ix 29, «Confirmatur amor et beneficio accepto et studio perspecto et consuetudine adiuncta»",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Laelius_de_Amicitia,De amicitia,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
"DICO CHE, SÌ COME VEDERE SI PUÒ CHE SCRIVE TULIO","l affermazione che per natura («naturalmente») la vicinanza e la bontà («prossimitade e bontade») fanno nascere («siano cagioni generative») lamicizia, e che il bene  ricevuto («beneficio»), la comunanza di intenti («studio») e una lunga frequentazione tra amici («consuetudine») la fanno crescere («siano cagioni accrescitive») è costruita unendo una espressione di Cicerone tradotta quasi alla lettera (<i>De amicitia</i>, ix 29, «Confirmatur amor et beneficio accepto et studio perspecto et consuetudine adiuncta») con una breve citazione del Commento di Tommaso all <i>Etica Nicomachea</i>  («Ratio dilectionis in omni amicitia cognata est propinquitas unius ad alterum» VIII, lectio 12, n. 1708). In questo secondo caso, però, Dante forza il testo perché Tommaso, e Aristotele, stanno parlando di un particolare tipo di amicizia, quella tra consanguinei (appunto la amicitia cognata) e la «prossimitade» è dunque quella della parentela. Che vera amicizia sia solo quella che si instaura tra i buoni e che gli amici desiderino passare la vita insieme, sono affermazioni ampiamente presenti nell <i>Etica Nicomachea</i>, ma non collegate alla nascita o alla crescita della amicizia. Questo piccolo esempio anticipa ciò di cui ci renderemo conto meglio man mano che procediamo nella lettura del <i>Convivio</i>: Dante utilizza con una certa libertà le sue “auctoritates”, piegandole spesso a conclusioni che sono tutte sue.","VIII, lectio 12, n. 1708",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
AL MUSICO,"non si tratta dellesecutore vocale o strumentale, ma del teorico, dell <i>artifex</i> che conosce razionalmente i principi della disciplina, sia riguardo ai toni, sia riguardo ai ritmi, sia riguardo alla struttura dei canti e delle stesse produzioni poetiche. Cfr. la <i>Institutio musica</i> di Boezio,  I, c. 34, ed. Friedlein , p. 225, 11-15.","I, c. 34, ed. Friedlein , p. 225, 11-15",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_institutione_musica,De institutione musica,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
E QUESTA È LA GIUSTIZIA,"che la giustizia sia la virtù tipica delluomo («più umana») in quanto radicata esclusivamente nella parte razionale e non, come fortezza  e temperanza rivolta alle facoltà inferiori era stato detto da Alberto Magno nel suo Commento all <i>Etica Nicomachea</i>   «iustitia est in ratione, non secundum quod habet ordinationem ad potentias inferiores … sed secundum quod habet ordinem ad exteriora, et ideo etiam iustitia est magis humana quam aliae duo» (scil. fortitudo et temperantia)  <i>Super Ethica commentum et quaestiones</i> I, <i>lectio</i> 16, vol. I,  p. 86, ll. 69-73). Sul rapporto privilegiato tra giustizia e volontà vedi  il Commento di Tommaso alle prime righe del quinto libro dell <i>Etica Nicomachea</i>  «Et est considerandum quod convenienter Aristotiles notificavit iustitiam per voluntatem, in qua non fiunt passiones … unde est proprium subiectum iustitiae quae non est circa passiones» (V, <i>lectio</i> 1, n. 889).","I, lectio 16, vol. I,  p. 86, ll. 69-73",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Super_Ethica_commentum_et_quaestiones,Super Ethica commentum et quaestiones,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
E QUESTA È LA GIUSTIZIA,"che la giustizia sia la virtù tipica delluomo («più umana») in quanto radicata esclusivamente nella parte razionale e non, come fortezza  e temperanza rivolta alle facoltà inferiori era stato detto da Alberto Magno nel suo Commento all <i>Etica Nicomachea</i>   «iustitia est in ratione, non secundum quod habet ordinationem ad potentias inferiores … sed secundum quod habet ordinem ad exteriora, et ideo etiam iustitia est magis humana quam aliae duo» (scil. fortitudo et temperantia)  <i>Super Ethica commentum et quaestiones</i> I, <i>lectio</i> 16, vol. I,  p. 86, ll. 69-73). Sul rapporto privilegiato tra giustizia e volontà vedi  il Commento di Tommaso alle prime righe del quinto libro dell <i>Etica Nicomachea</i>  «Et est considerandum quod convenienter Aristotiles notificavit iustitiam per voluntatem, in qua non fiunt passiones … unde est proprium subiectum iustitiae quae non est circa passiones» (V, <i>lectio</i> 1, n. 889).","«Et est considerandum quod convenienter Aristotiles notificavit iustitiam per voluntatem, in qua non fiunt passiones … unde est proprium subiectum iustitiae quae non est circa passiones» (V, lectio 1, n. 889)",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
COME DICE LO FILOSOFO NEL QUINTO DELL'ETICA,"nonostante la precisione del rimando (in effetti il quinto libro dell<i>Etica Nicomachea</i> è dedicato alla virtù della giustizia) laffermazione per cui anche una banda di malfattori («ladroni» ha il senso generico di malfattori come il latino <i>latrones</i>) e di ladri («rubatori») ha bisogno di leggi interne per mantenersi coesa (e quindi  rende omaggio involontario alla giustizia) non si trova in Aristotele. Si trova invece nel <i>De officiis</i> di Cicerone (II, 11, 40) da cui è passato  nella sezione del <i>Trésor</i> di Brunetto Latini dedicata alle virtù, nella rubrica appunto della giustizia (II CXI 2,  p. 545), che sembra essere la fonte diretta di Dante (cfr. Marchesi 2001, pp. 92-93). Neppure nel <i>Trésor</i>, per altro, si trova lidea che anche i malfattori amano la giustizia.","II, 11, 40",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/De_Officiis,De officiis,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
COME DICE LO FILOSOFO NEL QUINTO DELL'ETICA,"nonostante la precisione del rimando (in effetti il quinto libro dell<i>Etica Nicomachea</i> è dedicato alla virtù della giustizia) laffermazione per cui anche una banda di malfattori («ladroni» ha il senso generico di malfattori come il latino <i>latrones</i>) e di ladri («rubatori») ha bisogno di leggi interne per mantenersi coesa (e quindi  rende omaggio involontario alla giustizia) non si trova in Aristotele. Si trova invece nel <i>De officiis</i> di Cicerone (II, 11, 40) da cui è passato  nella sezione del <i>Trésor</i> di Brunetto Latini dedicata alle virtù, nella rubrica appunto della giustizia (II CXI 2,  p. 545), che sembra essere la fonte diretta di Dante (cfr. Marchesi 2001, pp. 92-93). Neppure nel <i>Trésor</i>, per altro, si trova lidea che anche i malfattori amano la giustizia.","II CXI 2,  p. 545",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Tresor,Trésor,Brunetto Latini,http://dbpedia.org/resource/Brunetto_Latini,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
COME DICE LO FILOSOFO NEL QUINTO DELL'ETICA,"nonostante la precisione del rimando (in effetti il quinto libro dell<i>Etica Nicomachea</i> è dedicato alla virtù della giustizia) laffermazione per cui anche una banda di malfattori («ladroni» ha il senso generico di malfattori come il latino <i>latrones</i>) e di ladri («rubatori») ha bisogno di leggi interne per mantenersi coesa (e quindi  rende omaggio involontario alla giustizia) non si trova in Aristotele. Si trova invece nel <i>De officiis</i> di Cicerone (II, 11, 40) da cui è passato  nella sezione del <i>Trésor</i> di Brunetto Latini dedicata alle virtù, nella rubrica appunto della giustizia (II CXI 2,  p. 545), che sembra essere la fonte diretta di Dante (cfr. Marchesi 2001, pp. 92-93). Neppure nel <i>Trésor</i>, per altro, si trova lidea che anche i malfattori amano la giustizia.",,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
LO BENE MANIFESTARE DEL CONCETTO,"la capacità di rendere accessibili agli altri i propri contenuti mentali. «Concetto» sta per tutto ciò che viene “concepito” internamente, non solo al livello puramente intellettuale, ma anche emozionale, secondo la dottrina aristotelica del <i>De interpretatione</i>  (cfr. 16 a 2-4  «Sunt ergo ea quae sunt in voce earum quae sunt in anima passionum notae» <i>Translatio</i> <i>Boethii</i>, p.5, ll. 4-6).","cfr. 16 a 2-4  «Sunt ergo ea quae sunt in voce earum quae sunt in anima passionum notae» Translatio Boethii, p.5, ll. 4-6",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/De_Interpretatione,De interpretatione,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PER LA PERFEZIONE,"in vista della perfezione.  Che il fine ultimo sia ciò che è voluto di per se stesso e non in  vista daltro, che esso coincida con il bene e che tutto il resto sia voluto in vista del fine e del bene, dottrina comune al tempo di Dante, era chiaramente affermato proprio allinizio dell <i>Etica Nicomachea</i>: così per la precisazione che il fine ed il bene consistono per ogni ente nella realizzazione delle proprie specifiche capacità, cioè nella sua perfezione. Laffermazione della esistenza di due perfezioni («una prima e una seconda») non presente in Aristotele, deriva invece dal Commento di Tommaso all <i>Etica</i>, dove si distingue una perfectio prima data ad ogni ente dalla sua forma specifica, ed una perfectio secunda et ultima consistente nella sua <i>operatio</i> (I, <i>lectio</i> 10, n. 119). Ora, secondo un adagio sempre ripetuto nei testi filosofici coevi, forma dat esse; dunque la prima lo fa essere. La <i>operatio</i> in cui consiste la perfectio secunda è lattuazione piena delle capacità proprie dellagente; in essa consiste il suo bene, la sua “bontade”; dunque  «la seconda lo fa essere buono»",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PER LA PERFEZIONE,"in vista della perfezione.  Che il fine ultimo sia ciò che è voluto di per se stesso e non in  vista daltro, che esso coincida con il bene e che tutto il resto sia voluto in vista del fine e del bene, dottrina comune al tempo di Dante, era chiaramente affermato proprio allinizio dell <i>Etica Nicomachea</i>: così per la precisazione che il fine ed il bene consistono per ogni ente nella realizzazione delle proprie specifiche capacità, cioè nella sua perfezione. Laffermazione della esistenza di due perfezioni («una prima e una seconda») non presente in Aristotele, deriva invece dal Commento di Tommaso all <i>Etica</i>, dove si distingue una perfectio prima data ad ogni ente dalla sua forma specifica, ed una perfectio secunda et ultima consistente nella sua <i>operatio</i> (I, <i>lectio</i> 10, n. 119). Ora, secondo un adagio sempre ripetuto nei testi filosofici coevi, forma dat esse; dunque la prima lo fa essere. La <i>operatio</i> in cui consiste la perfectio secunda è lattuazione piena delle capacità proprie dellagente; in essa consiste il suo bene, la sua “bontade”; dunque  «la seconda lo fa essere buono»","I, lectio 10, n. 119",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
DISPONITORE DEL FERRO AL FABBRO,"ciò che rende possibile al fabbro lavorare il ferro (la causa disponens di cui parla Tommaso nel Commento alla <i>Fisica</i> II, lectio 5, n. 180).","lectio 5, n. 180",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commentaria_in_octo_libros_Physicorum(Tommaso),Commentaria in octo libros Physicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
STUDIA NATURALMENTE A LA SUA CONSERVAZIONE,"per natura indirizza tutte le sue energie al proprio mantenimento in essere (in latino <i>studere</i> vale impegnarsi, sforzarsi, tendere verso qualcosa). Il concetto deriva direttamente dal <i>De consolatione philosophiae</i> III, prosa 11, 33, p. 90: «dedit enim providentia rebus … ut quoad possunt naturaliter manere desiderent». Per una sua ulteriore utilizzazione cfr. <i>Cv</i> IV xxii.","III, prosa 11, 33, p. 90: «dedit enim providentia rebus … ut quoad possunt naturaliter manere desiderent»",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
"DILIBERANDO, INTERPETRANDO E QUESTIONANDO","deliberare ha un valore tecnico e si riferisce non tanto ad una  indistinta attività di esame e di giudizio, quanto ad un preciso genere  letterario, quello della <i>oratio deliberativa</i> che ha carattere  squisitamente politico e viene usato nelle assemblee e nei consigli delle città italiane nel XIII secolo e oltre; cfr. Brunetto Latini, <i>Rettorica</i> 21 2, p. 21  «E questo modo di causare (cioè la causa diliberativa) è quello che fanno tutto die i signori e le podestà delle genti, che raunano li consillieri per diliberare che ssia da fare sopra alcuna vicenda e che non da fare: e quasi ciascuno dice la sua sentenza, sicché alla fine si prende quella che pare migliore». L interpretare si riferisce invece alla lettura e spiegazione di testi. “Questionare” è poi un verbo derivato dal termine latino  <i>quaestio</i>. La prima di queste tre attività  può essere con certezza  accostata ad un uso del volgare da parte di Dante, membro della classe dirigente del Comune fiorentino, negli anni precedenti la stesura del <i>Convivio</i>. Sappiamo infatti, dai verbali coevi, che egli ha espresso pareri nei diversi  Consigli, nel dicembre del 1295, nel 1296 (giugno) e nel  1297, più volte nei mesi cruciali  del 1301. Per quanto riguarda l interpretare   <i>Inglese</i> ha proposto, sia pure dubitativamente, il riferimento alle prose della <i>Vita Nova</i> in cui viene data una spiegazione alle composizioni poetiche. Dante lo fa mediante la <i>divisio textus</i>: una tecnica tipica della <i>interpretatio</i> universitaria in cui i testi filosofici e medici venivano suddivisi in parti e parti di parti, fino ad arrivare alla unità minima di significato della <i>sententia</i> dellautore. Il caso più evidente mi sembra quello della canzone Donne chavete intelletto damore dove troviamo, accanto ad una articolazione del testo particolarmente complessa, la partizione in “proemio e “trattato”, esattamente come avverrà per il quarto trattato del <i>Convivio</i> (cfr. <i>Cv</i>  IV i 2). Sulla struttura e sull importanza della <i>divisio textus</i> nella <i>Vita Nuova</i>  cfr. DAndrea 1980). Quanto al “questionare”, se con il termine si intendesse (come a prima vista sembrerebbe ovvio) la tecnica tipica del dibattito universitario, laffermazione sarebbe davvero strana. Prima della stesura del <i>Convivio</i> Dante avrà pure partecipato alle dispute dei filosofi, ma certo come uditore e non come protagonista. Solo nellultima parte della sua vita, maestro ormai affermato, potrà disputare e determinare autonomamente una <i>quaestio</i> (la <i>Quaestio de aqua et terra</i>), ma comunque lo farà in latino, come in latino si svolgevano sempre simili <i>performances</i>. Il testo filosofico in volgare edito da Francesca Geymonat sotto il titolo <i>Questioni filosofiche in volgare mediano dei primi del Trecento</i> (Geymonat 2000) non è ricollegabile, nemmeno in maniera mediata, ad alcun atto effettivo di disputa  (più interessanti potrebbero essere i <i>Sillogismi</i> di maestro Giandino da Carmignano,  la cui edizione è stata promessa da Giuseppina Brunetti. Cfr. Brunetti, 2002). Il riferimento più probabile rimane quello alle discussioni politiche e soprattutto ai contrasti damore, siano essi espressi in lettere o canzoni, cui la <i>Rettorica</i> di Brunetto estende il termine di “questione”, anche se non usa mai in questo contesto il verbo “questionare”  (76, 15,  pp. 101-2).","21 2, p. 21",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/La_Rettorica,La Rettorica,Brunetto Latini,http://dbpedia.org/resource/Brunetto_Latini,http://purl.org/bncf/tid/4567,WORK
QUESTO SARÀ QUELLO PANE ORZATO,"il paragrafo conclusivo del primo trattato è tutto intriso di richiami scritturistici: presentando il pane dorzo («orzato») di cui si sazieranno («si satolleranno) a migliaia e di cui ne avanzeranno («me ne soperchieranno») le sporte Dante rimanda consapevolmente («questo sarà quello …» ) al miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci raccontato dal Vangelo di Giovanni (6, 5-14) ; «dare lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade» rimanda al brano messianico di <i>Isaia</i> 9, 2, ripreso in <i>Mt</i> 4, 16. In questo secondo caso è interessante notare come il testo di <i>Isaia</i> parli di tenebre della morte («qui in umbra mortis sedent»). Si tratta in qualche modo di una anticipazione di <i>Cv</i> IV vii 10 sgg. dove Dante sosterrà esplicitamente che chi non usa la ragione, anche se sembra vivo, è in realtà morto (cfr. anche <i>Cv</i> II xv 4). Se è evidente che limmagine del pane, usata fin dallinizio del trattato indica il contenuto del Commento, ci si è chiesti se quella, nuova, del sole e della luce, si riferisca al contenuto o alla veste linguistica del trattato. In realtà risulta difficile, dal punto di vista della novità, scindere le due cose. Il termine «questo», ripetuto due volte, indica abbastanza chiaramente il <i>Convivio</i> nel suo insieme: coloro che sono nelle tenebre  lo sono  per ragioni di lingua; il sole «usato» che non li illumina («che a loro non luce») è lo strumento espressivo normalmente usato per la scienza, cioè il latino. Ma daltro lato luso del volgare e lindividuazione di un pubblico diverso e più ampio comporta anche una nuova organizzazione del sapere che si vuole trasmettere, anche se non proprio un sapere nuovo contenutisticamente (cfr. Imbach 2003, pp. 135-9). Rimane infine il problema di cosa intende Dante parlando del sorgere di un sole nuovo e del tramontare di quello vecchio. Difficile pensare che egli ipotizzasse, dopo la pubblicazione del <i>Convivio</i>, la scomparsa del latino e della scienza dei “litterati:” dando allespressione «là dove» un senso rigorosamente spaziale (e non temporale) la frase potrebbe essere interpretata nel senso di un nuovo sole che sorge ad illuminare quellemisfero dellumanità che il sole normale ha lasciato in ombra (ma il «tramonterà» indica pur sempre un qualcosa che deve avvenire, non un antefatto da modificare).","6, 5-14",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_John,Vangelo di Giovanni,Giovanni,http://dbpedia.org/resource/John_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
QUESTO SARÀ QUELLO PANE ORZATO,"il paragrafo conclusivo del primo trattato è tutto intriso di richiami scritturistici: presentando il pane dorzo («orzato») di cui si sazieranno («si satolleranno) a migliaia e di cui ne avanzeranno («me ne soperchieranno») le sporte Dante rimanda consapevolmente («questo sarà quello …» ) al miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci raccontato dal Vangelo di Giovanni (6, 5-14) ; «dare lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade» rimanda al brano messianico di <i>Isaia</i> 9, 2, ripreso in <i>Mt</i> 4, 16. In questo secondo caso è interessante notare come il testo di <i>Isaia</i> parli di tenebre della morte («qui in umbra mortis sedent»). Si tratta in qualche modo di una anticipazione di <i>Cv</i> IV vii 10 sgg. dove Dante sosterrà esplicitamente che chi non usa la ragione, anche se sembra vivo, è in realtà morto (cfr. anche <i>Cv</i> II xv 4). Se è evidente che limmagine del pane, usata fin dallinizio del trattato indica il contenuto del Commento, ci si è chiesti se quella, nuova, del sole e della luce, si riferisca al contenuto o alla veste linguistica del trattato. In realtà risulta difficile, dal punto di vista della novità, scindere le due cose. Il termine «questo», ripetuto due volte, indica abbastanza chiaramente il <i>Convivio</i> nel suo insieme: coloro che sono nelle tenebre  lo sono  per ragioni di lingua; il sole «usato» che non li illumina («che a loro non luce») è lo strumento espressivo normalmente usato per la scienza, cioè il latino. Ma daltro lato luso del volgare e lindividuazione di un pubblico diverso e più ampio comporta anche una nuova organizzazione del sapere che si vuole trasmettere, anche se non proprio un sapere nuovo contenutisticamente (cfr. Imbach 2003, pp. 135-9). Rimane infine il problema di cosa intende Dante parlando del sorgere di un sole nuovo e del tramontare di quello vecchio. Difficile pensare che egli ipotizzasse, dopo la pubblicazione del <i>Convivio</i>, la scomparsa del latino e della scienza dei “litterati:” dando allespressione «là dove» un senso rigorosamente spaziale (e non temporale) la frase potrebbe essere interpretata nel senso di un nuovo sole che sorge ad illuminare quellemisfero dellumanità che il sole normale ha lasciato in ombra (ma il «tramonterà» indica pur sempre un qualcosa che deve avvenire, non un antefatto da modificare).","4,16",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Matthew,Vangelo di Matteo,Matteo,http://dbpedia.org/resource/Matthew_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
QUESTO SARÀ QUELLO PANE ORZATO,"il paragrafo conclusivo del primo trattato è tutto intriso di richiami scritturistici: presentando il pane dorzo («orzato») di cui si sazieranno («si satolleranno) a migliaia e di cui ne avanzeranno («me ne soperchieranno») le sporte Dante rimanda consapevolmente («questo sarà quello …» ) al miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci raccontato dal Vangelo di Giovanni (6, 5-14) ; «dare lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade» rimanda al brano messianico di <i>Isaia</i> 9, 2, ripreso in <i>Mt</i> 4, 16. In questo secondo caso è interessante notare come il testo di <i>Isaia</i> parli di tenebre della morte («qui in umbra mortis sedent»). Si tratta in qualche modo di una anticipazione di <i>Cv</i> IV vii 10 sgg. dove Dante sosterrà esplicitamente che chi non usa la ragione, anche se sembra vivo, è in realtà morto (cfr. anche <i>Cv</i> II xv 4). Se è evidente che limmagine del pane, usata fin dallinizio del trattato indica il contenuto del Commento, ci si è chiesti se quella, nuova, del sole e della luce, si riferisca al contenuto o alla veste linguistica del trattato. In realtà risulta difficile, dal punto di vista della novità, scindere le due cose. Il termine «questo», ripetuto due volte, indica abbastanza chiaramente il <i>Convivio</i> nel suo insieme: coloro che sono nelle tenebre  lo sono  per ragioni di lingua; il sole «usato» che non li illumina («che a loro non luce») è lo strumento espressivo normalmente usato per la scienza, cioè il latino. Ma daltro lato luso del volgare e lindividuazione di un pubblico diverso e più ampio comporta anche una nuova organizzazione del sapere che si vuole trasmettere, anche se non proprio un sapere nuovo contenutisticamente (cfr. Imbach 2003, pp. 135-9). Rimane infine il problema di cosa intende Dante parlando del sorgere di un sole nuovo e del tramontare di quello vecchio. Difficile pensare che egli ipotizzasse, dopo la pubblicazione del <i>Convivio</i>, la scomparsa del latino e della scienza dei “litterati:” dando allespressione «là dove» un senso rigorosamente spaziale (e non temporale) la frase potrebbe essere interpretata nel senso di un nuovo sole che sorge ad illuminare quellemisfero dellumanità che il sole normale ha lasciato in ombra (ma il «tramonterà» indica pur sempre un qualcosa che deve avvenire, non un antefatto da modificare).",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Isaiah,Libro di Isaia,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
DOMANDA LA MIA NAVE,"chiede alla mia nave'. Alla metafora del banchetto si sovrappone quella della navigazione. La trattazione vera e propria, nel suo inizio, è paragonata all'uscita di un naviglio dal porto per affrontare l'alto mare (entrare in pelago""; cfr. <i>Cv</i> I ix 7); essa è mossa dal vento (""ora"": aura) del desiderio, ma guidata dalla vela innalzata (""drizzata"") della ragione (l'artimone, secondo  Isidoro di Siviglia è una vela che serve non tanto a far muovere quanto a indirizzare la nave. Cfr. <i>Etymologiae</i>  XIX 3, 3, vol.  II, p. 307. Il termine è usato dagli <i>Atti degli Apostoli</i> 27, 40 nella narrazione di un episodio della navigazione di Paolo prigioniero verso Roma). Il viaggio deve comunque concludersi in un approdo sicuro (""salutevole"") che sarà motivo di lode per chi lo avrà raggiunto (""laudevole"" ha significato causativo). L'immagine della navigazione  e dell'approdo per indicare un  percorso intellettuale o più genericamente spirituale è un luogo comune della tradizione. Basterà ricordare il prologo del <i>De beata vita</i> di Agostino (I, i-ii, p. 65). La metafora è applicata specificamente alla produzione di un testo da San  Girolamo, nella prefazione del suo Commento ad Osea, anche se in questo caso il vento è quello dello Spirito Santo  ""Nobis interpretationis vela pandentibus, tu debes illud propheticum dicere: A quattuor ventis caeli veni spiritus, ut celeri cursu …merces  dominicas … ad portus tutissimos perferamus"" (PL 25, p. 905).",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Etymologiae,Etymologiae,Isidoro di Siviglia,http://dbpedia.org/resource/Isidore_of_Seville,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
DOMANDA LA MIA NAVE,"chiede alla mia nave'. Alla metafora del banchetto si sovrappone quella della navigazione. La trattazione vera e propria, nel suo inizio, è paragonata all'uscita di un naviglio dal porto per affrontare l'alto mare (entrare in pelago""; cfr. <i>Cv</i> I ix 7); essa è mossa dal vento (""ora"": aura) del desiderio, ma guidata dalla vela innalzata (""drizzata"") della ragione (l'artimone, secondo  Isidoro di Siviglia è una vela che serve non tanto a far muovere quanto a indirizzare la nave. Cfr. <i>Etymologiae</i>  XIX 3, 3, vol.  II, p. 307. Il termine è usato dagli <i>Atti degli Apostoli</i> 27, 40 nella narrazione di un episodio della navigazione di Paolo prigioniero verso Roma). Il viaggio deve comunque concludersi in un approdo sicuro (""salutevole"") che sarà motivo di lode per chi lo avrà raggiunto (""laudevole"" ha significato causativo). L'immagine della navigazione  e dell'approdo per indicare un  percorso intellettuale o più genericamente spirituale è un luogo comune della tradizione. Basterà ricordare il prologo del <i>De beata vita</i> di Agostino (I, i-ii, p. 65). La metafora è applicata specificamente alla produzione di un testo da San  Girolamo, nella prefazione del suo Commento ad Osea, anche se in questo caso il vento è quello dello Spirito Santo  ""Nobis interpretationis vela pandentibus, tu debes illud propheticum dicere: A quattuor ventis caeli veni spiritus, ut celeri cursu …merces  dominicas … ad portus tutissimos perferamus"" (PL 25, p. 905).","Atti degli Apostoli 27, 40",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Acts_of_the_Apostles,Atti degli Apostoli,Luca,http://dbpedia.org/resource/Luke_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
DOMANDA LA MIA NAVE,"chiede alla mia nave'. Alla metafora del banchetto si sovrappone quella della navigazione. La trattazione vera e propria, nel suo inizio, è paragonata all'uscita di un naviglio dal porto per affrontare l'alto mare (entrare in pelago""; cfr. <i>Cv</i> I ix 7); essa è mossa dal vento (""ora"": aura) del desiderio, ma guidata dalla vela innalzata (""drizzata"") della ragione (l'artimone, secondo  Isidoro di Siviglia è una vela che serve non tanto a far muovere quanto a indirizzare la nave. Cfr. <i>Etymologiae</i>  XIX 3, 3, vol.  II, p. 307. Il termine è usato dagli <i>Atti degli Apostoli</i> 27, 40 nella narrazione di un episodio della navigazione di Paolo prigioniero verso Roma). Il viaggio deve comunque concludersi in un approdo sicuro (""salutevole"") che sarà motivo di lode per chi lo avrà raggiunto (""laudevole"" ha significato causativo). L'immagine della navigazione  e dell'approdo per indicare un  percorso intellettuale o più genericamente spirituale è un luogo comune della tradizione. Basterà ricordare il prologo del <i>De beata vita</i> di Agostino (I, i-ii, p. 65). La metafora è applicata specificamente alla produzione di un testo da San  Girolamo, nella prefazione del suo Commento ad Osea, anche se in questo caso il vento è quello dello Spirito Santo  ""Nobis interpretationis vela pandentibus, tu debes illud propheticum dicere: A quattuor ventis caeli veni spiritus, ut celeri cursu …merces  dominicas … ad portus tutissimos perferamus"" (PL 25, p. 905).","I, i-ii, p. 65",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_beata_vita,De beata vita,Agostino,http://dbpedia.org/resource/Augustine_of_Hippo,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
DOMANDA LA MIA NAVE,"chiede alla mia nave'. Alla metafora del banchetto si sovrappone quella della navigazione. La trattazione vera e propria, nel suo inizio, è paragonata all'uscita di un naviglio dal porto per affrontare l'alto mare (entrare in pelago""; cfr. <i>Cv</i> I ix 7); essa è mossa dal vento (""ora"": aura) del desiderio, ma guidata dalla vela innalzata (""drizzata"") della ragione (l'artimone, secondo  Isidoro di Siviglia è una vela che serve non tanto a far muovere quanto a indirizzare la nave. Cfr. <i>Etymologiae</i>  XIX 3, 3, vol.  II, p. 307. Il termine è usato dagli <i>Atti degli Apostoli</i> 27, 40 nella narrazione di un episodio della navigazione di Paolo prigioniero verso Roma). Il viaggio deve comunque concludersi in un approdo sicuro (""salutevole"") che sarà motivo di lode per chi lo avrà raggiunto (""laudevole"" ha significato causativo). L'immagine della navigazione  e dell'approdo per indicare un  percorso intellettuale o più genericamente spirituale è un luogo comune della tradizione. Basterà ricordare il prologo del <i>De beata vita</i> di Agostino (I, i-ii, p. 65). La metafora è applicata specificamente alla produzione di un testo da San  Girolamo, nella prefazione del suo Commento ad Osea, anche se in questo caso il vento è quello dello Spirito Santo  ""Nobis interpretationis vela pandentibus, tu debes illud propheticum dicere: A quattuor ventis caeli veni spiritus, ut celeri cursu …merces  dominicas … ad portus tutissimos perferamus"" (PL 25, p. 905).","PL 25, p. 905",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commento_a_Osea,Commento a Osea,Girolamo,http://dbpedia.org/resource/Jerome,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/esegesi_biblica_vecchio_testamento,WORK
SÌ COME NEL PRIMO CAPITOLO ...,"in <i>Cv</i> I i 18 Dante aveva anticipato che la spiegazione delle canzoni avrebbe avuto un doppio livello: uno letterale ed uno allegorico. Qui l'affermazione viene ripetuta, ed inquadrata nella dottrina più ampia dei quattro possibili sensi di un testo: il senso letterale, il senso allegorico, il senso morale, il senso anagogico, analizzati nei paragrafi seguenti. L'idea di un molteplice livello su cui gioca l'interpretazione testuale era stata introdotta già da Origene in funzione dell'esegesi della  Bibbia per evitare le difficoltà poste da alcuni passi, se presi alla lettera (per esempio tutte le rappresentazioni antropomorfiche di Dio), ma soprattutto per la convinzione che la parola divina fosse ricca di una molteplicità pressoché inesauribile di sensi. Girolamo, Agostino e Cassiano avevano teorizzato i procedimenti esegetici trasmettendone il modello ad autori dell'Alto Medioevo come Beda e Rabano Mauro. Tra la fine del XII e l'inizio del XIII secolo la dottrina era ormai cristallizzata nello schema dei quattro sensi della Scrittura. Come dice un distico mnemotecnico diffusissimo sotto il nome del grande esegeta Nicolò di Lira: Littera gesta docet, quid credas allegoria / moralis quid agas, quo tendas anagogia"".  Dante sembrerebbe voler estendere questo modello esegetico a tutti i testi (""Le scritture possono intendersi ... ""). La cosa è però assai problematica: per un verso, infatti, questa estensione risulta eccessiva. Dante sa bene che le opere filosofiche, o quelle giuridiche, o quelle mediche non si prestano a simili procedimenti esegetici. Nella cultura universitaria, che si fonda su commenti a questo tipo di testi (alcuni dei quali ben conosciuti a Dante), non c'è posto per l'interpretazione allegorica, o tropologica, o anagogica. Per un altro verso, nel caso specifico, il testo stesso da commentare non risulta di fatto disponibile ai quattro livelli di senso: nell'esegesi della canzone, infatti, solo una volta si farà ricorso alla tropologia e mai alla anagogia e anche in questi paragrafi introduttivi, gli esempi di questi due sensi sono tratti esclusivamente dalla Sacra Scrittura. Ma soprattutto,  le  definizioni qui date di senso letterale ed allegorico non coincidono con quelle correnti nell'esegesi biblica. Dante stesso è cosciente di questa differenza quando afferma subito dopo che per i poeti il senso allegorico è diverso che per i teologi. Definendoli come ""favole"" e ""belle menzogne"" sotto cui si nasconde la verità l'Alighieri sembra voler dire che ai testi dei poeti, e alle sue stesse canzoni, deve applicarsi esclusivamente  l'allegoria 'in dictis' che è indifferente al valore di verità del senso letterale, mentre per un teologo come Tommaso la lettera della Scrittura è comunque vera, e l' allegoria si applica fondamentalmente ai <i>facta</i> (cfr.  A. Strubel 1975; Corti 1993, pp. 128-33). Si è però  notato che per Dante, non solo nella <i>Commedia</i>, ma anche nel <i>Convivio</i>, molte delle composizioni poetiche narrano fatti storicamente veri, anche se suscettibili di interpretazione allegorica (cfr. Scott, 1995; Sarteschi 2003; vedi qui la nota a <i>Convivio</i> II i 15). In ogni modo quando dice di voler ""prendere lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato"" Dante si riallaccia ad una tradizione non biblica di esegesi rivolta al mito, e di conseguenza ai testi poetici che ne erano veicolo. Già in epoca alessandrina essa era stata usata, proprio come nel caso della Bibbia, per interpretare  passi dei poemi omerici in cui il divino era presentato in modi ormai troppo crudamente antropomorfici per la sensibilità dei lettori. Sul finire dell' Antichità questo procedimento era stato teorizzato da Macrobio. Nel Commento al <i>Somnium Scipionis</i> egli  aveva distinto tra <i>fabula</i>, una menzogna che è semplicemente piacevole da ascoltare (""solas aurium delicias profitetur"") e che deve essere tenuta fuori dal sacrario della verità, e <i>narratio fabulosa</i> in cui ""notio sacrarum rerum per quaedam composita et ficta profertur"" (scrittura allegorica) che svela il suo significato profondo solo attraverso una giusta decodificazione (interpretazione allegorica. Cfr. I ii 8-11, pp. 5-6). Il testo di Macrobio aveva trasmesso questa teoria al Medioevo che ne avrebbe fatto uso soprattutto nel XII secolo, con Bernardo Silvestre, Guglielmo di Conches, Alano di Lilla. Questi autori credevano fermamente che sotto l'<i>involucrum</i>, l'<i>integumentum</i> della forma favolosa i poeti, soprattutto Virgilio ed Ovidio, avessero volutamente trasmesso verità sia etiche che fisiche (e comunque filosofiche) ed avevano essi stessi praticato un'esegesi basata su questa convinzione. Alcuni erano consapevoli della differenza tra questo metodo e quello usato dai teologi; come afferma un Commento del XII secolo al <i>De nuptiis Mercurii et Philologiae</i> di Marziano Capella attribuito a Bernardo Silvestre  ""Est allegoria oratio sub historica narratione verum et ab exteriori diversum involvens intellectum, ut de lucta Jacob. Integumentum vero est narratio sub fabulosa narratione verum claudens intellectum, ut de Orpheo ... Allegoria quidem divine pagine, integumentum philosophicae competit"" (ed. Westra, p. 45, ll. 72-78). La nuova cultura universitaria sostenne con Aristotele e contro Platone la necessità che il linguaggio filosofico fosse rigorosamente univoco (un detto diffuso che rimanda ai <i>Topici</i> aristotelici sostiene che ""peccatum est uti metaphoris in problematibus"". Cfr. <i>Top.</i> II, 1, 109 a 27-32)  e dunque guardò con molta diffidenza a questo atteggiamento, considerando la poesia come il grado più basso di conoscenza. Del resto, con un certo tasso di incongruenza, Dante stesso affermerà in <i>Cv</i> IV xiv 15 che delle favole non ci si deve curare quando si disputa filosoficamente.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Postilla_Lettera_ai_Galati,Postilla alla Lettera ai Galati,Nicolò di Lira,http://dbpedia.org/resource/Nicholas_of_Lyra,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/esegesi_biblica_nuovo_testamento,WORK
SÌ COME NEL PRIMO CAPITOLO ...,"in <i>Cv</i> I i 18 Dante aveva anticipato che la spiegazione delle canzoni avrebbe avuto un doppio livello: uno letterale ed uno allegorico. Qui l'affermazione viene ripetuta, ed inquadrata nella dottrina più ampia dei quattro possibili sensi di un testo: il senso letterale, il senso allegorico, il senso morale, il senso anagogico, analizzati nei paragrafi seguenti. L'idea di un molteplice livello su cui gioca l'interpretazione testuale era stata introdotta già da Origene in funzione dell'esegesi della  Bibbia per evitare le difficoltà poste da alcuni passi, se presi alla lettera (per esempio tutte le rappresentazioni antropomorfiche di Dio), ma soprattutto per la convinzione che la parola divina fosse ricca di una molteplicità pressoché inesauribile di sensi. Girolamo, Agostino e Cassiano avevano teorizzato i procedimenti esegetici trasmettendone il modello ad autori dell'Alto Medioevo come Beda e Rabano Mauro. Tra la fine del XII e l'inizio del XIII secolo la dottrina era ormai cristallizzata nello schema dei quattro sensi della Scrittura. Come dice un distico mnemotecnico diffusissimo sotto il nome del grande esegeta Nicolò di Lira: Littera gesta docet, quid credas allegoria / moralis quid agas, quo tendas anagogia"".  Dante sembrerebbe voler estendere questo modello esegetico a tutti i testi (""Le scritture possono intendersi ... ""). La cosa è però assai problematica: per un verso, infatti, questa estensione risulta eccessiva. Dante sa bene che le opere filosofiche, o quelle giuridiche, o quelle mediche non si prestano a simili procedimenti esegetici. Nella cultura universitaria, che si fonda su commenti a questo tipo di testi (alcuni dei quali ben conosciuti a Dante), non c'è posto per l'interpretazione allegorica, o tropologica, o anagogica. Per un altro verso, nel caso specifico, il testo stesso da commentare non risulta di fatto disponibile ai quattro livelli di senso: nell'esegesi della canzone, infatti, solo una volta si farà ricorso alla tropologia e mai alla anagogia e anche in questi paragrafi introduttivi, gli esempi di questi due sensi sono tratti esclusivamente dalla Sacra Scrittura. Ma soprattutto,  le  definizioni qui date di senso letterale ed allegorico non coincidono con quelle correnti nell'esegesi biblica. Dante stesso è cosciente di questa differenza quando afferma subito dopo che per i poeti il senso allegorico è diverso che per i teologi. Definendoli come ""favole"" e ""belle menzogne"" sotto cui si nasconde la verità l'Alighieri sembra voler dire che ai testi dei poeti, e alle sue stesse canzoni, deve applicarsi esclusivamente  l'allegoria 'in dictis' che è indifferente al valore di verità del senso letterale, mentre per un teologo come Tommaso la lettera della Scrittura è comunque vera, e l' allegoria si applica fondamentalmente ai <i>facta</i> (cfr.  A. Strubel 1975; Corti 1993, pp. 128-33). Si è però  notato che per Dante, non solo nella <i>Commedia</i>, ma anche nel <i>Convivio</i>, molte delle composizioni poetiche narrano fatti storicamente veri, anche se suscettibili di interpretazione allegorica (cfr. Scott, 1995; Sarteschi 2003; vedi qui la nota a <i>Convivio</i> II i 15). In ogni modo quando dice di voler ""prendere lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato"" Dante si riallaccia ad una tradizione non biblica di esegesi rivolta al mito, e di conseguenza ai testi poetici che ne erano veicolo. Già in epoca alessandrina essa era stata usata, proprio come nel caso della Bibbia, per interpretare  passi dei poemi omerici in cui il divino era presentato in modi ormai troppo crudamente antropomorfici per la sensibilità dei lettori. Sul finire dell' Antichità questo procedimento era stato teorizzato da Macrobio. Nel Commento al <i>Somnium Scipionis</i> egli  aveva distinto tra <i>fabula</i>, una menzogna che è semplicemente piacevole da ascoltare (""solas aurium delicias profitetur"") e che deve essere tenuta fuori dal sacrario della verità, e <i>narratio fabulosa</i> in cui ""notio sacrarum rerum per quaedam composita et ficta profertur"" (scrittura allegorica) che svela il suo significato profondo solo attraverso una giusta decodificazione (interpretazione allegorica. Cfr. I ii 8-11, pp. 5-6). Il testo di Macrobio aveva trasmesso questa teoria al Medioevo che ne avrebbe fatto uso soprattutto nel XII secolo, con Bernardo Silvestre, Guglielmo di Conches, Alano di Lilla. Questi autori credevano fermamente che sotto l'<i>involucrum</i>, l'<i>integumentum</i> della forma favolosa i poeti, soprattutto Virgilio ed Ovidio, avessero volutamente trasmesso verità sia etiche che fisiche (e comunque filosofiche) ed avevano essi stessi praticato un'esegesi basata su questa convinzione. Alcuni erano consapevoli della differenza tra questo metodo e quello usato dai teologi; come afferma un Commento del XII secolo al <i>De nuptiis Mercurii et Philologiae</i> di Marziano Capella attribuito a Bernardo Silvestre  ""Est allegoria oratio sub historica narratione verum et ab exteriori diversum involvens intellectum, ut de lucta Jacob. Integumentum vero est narratio sub fabulosa narratione verum claudens intellectum, ut de Orpheo ... Allegoria quidem divine pagine, integumentum philosophicae competit"" (ed. Westra, p. 45, ll. 72-78). La nuova cultura universitaria sostenne con Aristotele e contro Platone la necessità che il linguaggio filosofico fosse rigorosamente univoco (un detto diffuso che rimanda ai <i>Topici</i> aristotelici sostiene che ""peccatum est uti metaphoris in problematibus"". Cfr. <i>Top.</i> II, 1, 109 a 27-32)  e dunque guardò con molta diffidenza a questo atteggiamento, considerando la poesia come il grado più basso di conoscenza. Del resto, con un certo tasso di incongruenza, Dante stesso affermerà in <i>Cv</i> IV xiv 15 che delle favole non ci si deve curare quando si disputa filosoficamente.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commentarii_in_Somnium_Scipionis,Commentarii in Somnium Scipionis,Macrobio,http://dbpedia.org/resource/Macrobius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
SÌ COME NEL PRIMO CAPITOLO ...,"in <i>Cv</i> I i 18 Dante aveva anticipato che la spiegazione delle canzoni avrebbe avuto un doppio livello: uno letterale ed uno allegorico. Qui l'affermazione viene ripetuta, ed inquadrata nella dottrina più ampia dei quattro possibili sensi di un testo: il senso letterale, il senso allegorico, il senso morale, il senso anagogico, analizzati nei paragrafi seguenti. L'idea di un molteplice livello su cui gioca l'interpretazione testuale era stata introdotta già da Origene in funzione dell'esegesi della  Bibbia per evitare le difficoltà poste da alcuni passi, se presi alla lettera (per esempio tutte le rappresentazioni antropomorfiche di Dio), ma soprattutto per la convinzione che la parola divina fosse ricca di una molteplicità pressoché inesauribile di sensi. Girolamo, Agostino e Cassiano avevano teorizzato i procedimenti esegetici trasmettendone il modello ad autori dell'Alto Medioevo come Beda e Rabano Mauro. Tra la fine del XII e l'inizio del XIII secolo la dottrina era ormai cristallizzata nello schema dei quattro sensi della Scrittura. Come dice un distico mnemotecnico diffusissimo sotto il nome del grande esegeta Nicolò di Lira: Littera gesta docet, quid credas allegoria / moralis quid agas, quo tendas anagogia"".  Dante sembrerebbe voler estendere questo modello esegetico a tutti i testi (""Le scritture possono intendersi ... ""). La cosa è però assai problematica: per un verso, infatti, questa estensione risulta eccessiva. Dante sa bene che le opere filosofiche, o quelle giuridiche, o quelle mediche non si prestano a simili procedimenti esegetici. Nella cultura universitaria, che si fonda su commenti a questo tipo di testi (alcuni dei quali ben conosciuti a Dante), non c'è posto per l'interpretazione allegorica, o tropologica, o anagogica. Per un altro verso, nel caso specifico, il testo stesso da commentare non risulta di fatto disponibile ai quattro livelli di senso: nell'esegesi della canzone, infatti, solo una volta si farà ricorso alla tropologia e mai alla anagogia e anche in questi paragrafi introduttivi, gli esempi di questi due sensi sono tratti esclusivamente dalla Sacra Scrittura. Ma soprattutto,  le  definizioni qui date di senso letterale ed allegorico non coincidono con quelle correnti nell'esegesi biblica. Dante stesso è cosciente di questa differenza quando afferma subito dopo che per i poeti il senso allegorico è diverso che per i teologi. Definendoli come ""favole"" e ""belle menzogne"" sotto cui si nasconde la verità l'Alighieri sembra voler dire che ai testi dei poeti, e alle sue stesse canzoni, deve applicarsi esclusivamente  l'allegoria 'in dictis' che è indifferente al valore di verità del senso letterale, mentre per un teologo come Tommaso la lettera della Scrittura è comunque vera, e l' allegoria si applica fondamentalmente ai <i>facta</i> (cfr.  A. Strubel 1975; Corti 1993, pp. 128-33). Si è però  notato che per Dante, non solo nella <i>Commedia</i>, ma anche nel <i>Convivio</i>, molte delle composizioni poetiche narrano fatti storicamente veri, anche se suscettibili di interpretazione allegorica (cfr. Scott, 1995; Sarteschi 2003; vedi qui la nota a <i>Convivio</i> II i 15). In ogni modo quando dice di voler ""prendere lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato"" Dante si riallaccia ad una tradizione non biblica di esegesi rivolta al mito, e di conseguenza ai testi poetici che ne erano veicolo. Già in epoca alessandrina essa era stata usata, proprio come nel caso della Bibbia, per interpretare  passi dei poemi omerici in cui il divino era presentato in modi ormai troppo crudamente antropomorfici per la sensibilità dei lettori. Sul finire dell' Antichità questo procedimento era stato teorizzato da Macrobio. Nel Commento al <i>Somnium Scipionis</i> egli  aveva distinto tra <i>fabula</i>, una menzogna che è semplicemente piacevole da ascoltare (""solas aurium delicias profitetur"") e che deve essere tenuta fuori dal sacrario della verità, e <i>narratio fabulosa</i> in cui ""notio sacrarum rerum per quaedam composita et ficta profertur"" (scrittura allegorica) che svela il suo significato profondo solo attraverso una giusta decodificazione (interpretazione allegorica. Cfr. I ii 8-11, pp. 5-6). Il testo di Macrobio aveva trasmesso questa teoria al Medioevo che ne avrebbe fatto uso soprattutto nel XII secolo, con Bernardo Silvestre, Guglielmo di Conches, Alano di Lilla. Questi autori credevano fermamente che sotto l'<i>involucrum</i>, l'<i>integumentum</i> della forma favolosa i poeti, soprattutto Virgilio ed Ovidio, avessero volutamente trasmesso verità sia etiche che fisiche (e comunque filosofiche) ed avevano essi stessi praticato un'esegesi basata su questa convinzione. Alcuni erano consapevoli della differenza tra questo metodo e quello usato dai teologi; come afferma un Commento del XII secolo al <i>De nuptiis Mercurii et Philologiae</i> di Marziano Capella attribuito a Bernardo Silvestre  ""Est allegoria oratio sub historica narratione verum et ab exteriori diversum involvens intellectum, ut de lucta Jacob. Integumentum vero est narratio sub fabulosa narratione verum claudens intellectum, ut de Orpheo ... Allegoria quidem divine pagine, integumentum philosophicae competit"" (ed. Westra, p. 45, ll. 72-78). La nuova cultura universitaria sostenne con Aristotele e contro Platone la necessità che il linguaggio filosofico fosse rigorosamente univoco (un detto diffuso che rimanda ai <i>Topici</i> aristotelici sostiene che ""peccatum est uti metaphoris in problematibus"". Cfr. <i>Top.</i> II, 1, 109 a 27-32)  e dunque guardò con molta diffidenza a questo atteggiamento, considerando la poesia come il grado più basso di conoscenza. Del resto, con un certo tasso di incongruenza, Dante stesso affermerà in <i>Cv</i> IV xiv 15 che delle favole non ci si deve curare quando si disputa filosoficamente.","Est allegoria oratio sub historica narratione verum et ab exteriori diversum involvens intellectum, ut de lucta Jacob. Integumentum vero est narratio sub fabulosa narratione verum claudens intellectum, ut de Orpheo ... Allegoria quidem divine pagine, integumentum philosophicae competit (ed. Westra, p. 45, ll. 72-78)",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commento_De_nuptiis_Mercurii_et_Philologiae,Commento al De nuptiis Mercurii et Philologiae,Bernardo Silvestre,http://dbpedia.org/resource/Bernard_Silvestris,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/poesia_allegorica,WORK
SÌ COME NEL PRIMO CAPITOLO ...,"in <i>Cv</i> I i 18 Dante aveva anticipato che la spiegazione delle canzoni avrebbe avuto un doppio livello: uno letterale ed uno allegorico. Qui l'affermazione viene ripetuta, ed inquadrata nella dottrina più ampia dei quattro possibili sensi di un testo: il senso letterale, il senso allegorico, il senso morale, il senso anagogico, analizzati nei paragrafi seguenti. L'idea di un molteplice livello su cui gioca l'interpretazione testuale era stata introdotta già da Origene in funzione dell'esegesi della  Bibbia per evitare le difficoltà poste da alcuni passi, se presi alla lettera (per esempio tutte le rappresentazioni antropomorfiche di Dio), ma soprattutto per la convinzione che la parola divina fosse ricca di una molteplicità pressoché inesauribile di sensi. Girolamo, Agostino e Cassiano avevano teorizzato i procedimenti esegetici trasmettendone il modello ad autori dell'Alto Medioevo come Beda e Rabano Mauro. Tra la fine del XII e l'inizio del XIII secolo la dottrina era ormai cristallizzata nello schema dei quattro sensi della Scrittura. Come dice un distico mnemotecnico diffusissimo sotto il nome del grande esegeta Nicolò di Lira: Littera gesta docet, quid credas allegoria / moralis quid agas, quo tendas anagogia"".  Dante sembrerebbe voler estendere questo modello esegetico a tutti i testi (""Le scritture possono intendersi ... ""). La cosa è però assai problematica: per un verso, infatti, questa estensione risulta eccessiva. Dante sa bene che le opere filosofiche, o quelle giuridiche, o quelle mediche non si prestano a simili procedimenti esegetici. Nella cultura universitaria, che si fonda su commenti a questo tipo di testi (alcuni dei quali ben conosciuti a Dante), non c'è posto per l'interpretazione allegorica, o tropologica, o anagogica. Per un altro verso, nel caso specifico, il testo stesso da commentare non risulta di fatto disponibile ai quattro livelli di senso: nell'esegesi della canzone, infatti, solo una volta si farà ricorso alla tropologia e mai alla anagogia e anche in questi paragrafi introduttivi, gli esempi di questi due sensi sono tratti esclusivamente dalla Sacra Scrittura. Ma soprattutto,  le  definizioni qui date di senso letterale ed allegorico non coincidono con quelle correnti nell'esegesi biblica. Dante stesso è cosciente di questa differenza quando afferma subito dopo che per i poeti il senso allegorico è diverso che per i teologi. Definendoli come ""favole"" e ""belle menzogne"" sotto cui si nasconde la verità l'Alighieri sembra voler dire che ai testi dei poeti, e alle sue stesse canzoni, deve applicarsi esclusivamente  l'allegoria 'in dictis' che è indifferente al valore di verità del senso letterale, mentre per un teologo come Tommaso la lettera della Scrittura è comunque vera, e l' allegoria si applica fondamentalmente ai <i>facta</i> (cfr.  A. Strubel 1975; Corti 1993, pp. 128-33). Si è però  notato che per Dante, non solo nella <i>Commedia</i>, ma anche nel <i>Convivio</i>, molte delle composizioni poetiche narrano fatti storicamente veri, anche se suscettibili di interpretazione allegorica (cfr. Scott, 1995; Sarteschi 2003; vedi qui la nota a <i>Convivio</i> II i 15). In ogni modo quando dice di voler ""prendere lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato"" Dante si riallaccia ad una tradizione non biblica di esegesi rivolta al mito, e di conseguenza ai testi poetici che ne erano veicolo. Già in epoca alessandrina essa era stata usata, proprio come nel caso della Bibbia, per interpretare  passi dei poemi omerici in cui il divino era presentato in modi ormai troppo crudamente antropomorfici per la sensibilità dei lettori. Sul finire dell' Antichità questo procedimento era stato teorizzato da Macrobio. Nel Commento al <i>Somnium Scipionis</i> egli  aveva distinto tra <i>fabula</i>, una menzogna che è semplicemente piacevole da ascoltare (""solas aurium delicias profitetur"") e che deve essere tenuta fuori dal sacrario della verità, e <i>narratio fabulosa</i> in cui ""notio sacrarum rerum per quaedam composita et ficta profertur"" (scrittura allegorica) che svela il suo significato profondo solo attraverso una giusta decodificazione (interpretazione allegorica. Cfr. I ii 8-11, pp. 5-6). Il testo di Macrobio aveva trasmesso questa teoria al Medioevo che ne avrebbe fatto uso soprattutto nel XII secolo, con Bernardo Silvestre, Guglielmo di Conches, Alano di Lilla. Questi autori credevano fermamente che sotto l'<i>involucrum</i>, l'<i>integumentum</i> della forma favolosa i poeti, soprattutto Virgilio ed Ovidio, avessero volutamente trasmesso verità sia etiche che fisiche (e comunque filosofiche) ed avevano essi stessi praticato un'esegesi basata su questa convinzione. Alcuni erano consapevoli della differenza tra questo metodo e quello usato dai teologi; come afferma un Commento del XII secolo al <i>De nuptiis Mercurii et Philologiae</i> di Marziano Capella attribuito a Bernardo Silvestre  ""Est allegoria oratio sub historica narratione verum et ab exteriori diversum involvens intellectum, ut de lucta Jacob. Integumentum vero est narratio sub fabulosa narratione verum claudens intellectum, ut de Orpheo ... Allegoria quidem divine pagine, integumentum philosophicae competit"" (ed. Westra, p. 45, ll. 72-78). La nuova cultura universitaria sostenne con Aristotele e contro Platone la necessità che il linguaggio filosofico fosse rigorosamente univoco (un detto diffuso che rimanda ai <i>Topici</i> aristotelici sostiene che ""peccatum est uti metaphoris in problematibus"". Cfr. <i>Top.</i> II, 1, 109 a 27-32)  e dunque guardò con molta diffidenza a questo atteggiamento, considerando la poesia come il grado più basso di conoscenza. Del resto, con un certo tasso di incongruenza, Dante stesso affermerà in <i>Cv</i> IV xiv 15 che delle favole non ci si deve curare quando si disputa filosoficamente.",,CONCORDANZA GENERICA,,,Guglielmo di Conches,http://dbpedia.org/resource/William_of_Conches,http://purl.org/bncf/tid/762,CONCEPT
SÌ COME NEL PRIMO CAPITOLO ...,"in <i>Cv</i> I i 18 Dante aveva anticipato che la spiegazione delle canzoni avrebbe avuto un doppio livello: uno letterale ed uno allegorico. Qui l'affermazione viene ripetuta, ed inquadrata nella dottrina più ampia dei quattro possibili sensi di un testo: il senso letterale, il senso allegorico, il senso morale, il senso anagogico, analizzati nei paragrafi seguenti. L'idea di un molteplice livello su cui gioca l'interpretazione testuale era stata introdotta già da Origene in funzione dell'esegesi della  Bibbia per evitare le difficoltà poste da alcuni passi, se presi alla lettera (per esempio tutte le rappresentazioni antropomorfiche di Dio), ma soprattutto per la convinzione che la parola divina fosse ricca di una molteplicità pressoché inesauribile di sensi. Girolamo, Agostino e Cassiano avevano teorizzato i procedimenti esegetici trasmettendone il modello ad autori dell'Alto Medioevo come Beda e Rabano Mauro. Tra la fine del XII e l'inizio del XIII secolo la dottrina era ormai cristallizzata nello schema dei quattro sensi della Scrittura. Come dice un distico mnemotecnico diffusissimo sotto il nome del grande esegeta Nicolò di Lira: Littera gesta docet, quid credas allegoria / moralis quid agas, quo tendas anagogia"".  Dante sembrerebbe voler estendere questo modello esegetico a tutti i testi (""Le scritture possono intendersi ... ""). La cosa è però assai problematica: per un verso, infatti, questa estensione risulta eccessiva. Dante sa bene che le opere filosofiche, o quelle giuridiche, o quelle mediche non si prestano a simili procedimenti esegetici. Nella cultura universitaria, che si fonda su commenti a questo tipo di testi (alcuni dei quali ben conosciuti a Dante), non c'è posto per l'interpretazione allegorica, o tropologica, o anagogica. Per un altro verso, nel caso specifico, il testo stesso da commentare non risulta di fatto disponibile ai quattro livelli di senso: nell'esegesi della canzone, infatti, solo una volta si farà ricorso alla tropologia e mai alla anagogia e anche in questi paragrafi introduttivi, gli esempi di questi due sensi sono tratti esclusivamente dalla Sacra Scrittura. Ma soprattutto,  le  definizioni qui date di senso letterale ed allegorico non coincidono con quelle correnti nell'esegesi biblica. Dante stesso è cosciente di questa differenza quando afferma subito dopo che per i poeti il senso allegorico è diverso che per i teologi. Definendoli come ""favole"" e ""belle menzogne"" sotto cui si nasconde la verità l'Alighieri sembra voler dire che ai testi dei poeti, e alle sue stesse canzoni, deve applicarsi esclusivamente  l'allegoria 'in dictis' che è indifferente al valore di verità del senso letterale, mentre per un teologo come Tommaso la lettera della Scrittura è comunque vera, e l' allegoria si applica fondamentalmente ai <i>facta</i> (cfr.  A. Strubel 1975; Corti 1993, pp. 128-33). Si è però  notato che per Dante, non solo nella <i>Commedia</i>, ma anche nel <i>Convivio</i>, molte delle composizioni poetiche narrano fatti storicamente veri, anche se suscettibili di interpretazione allegorica (cfr. Scott, 1995; Sarteschi 2003; vedi qui la nota a <i>Convivio</i> II i 15). In ogni modo quando dice di voler ""prendere lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato"" Dante si riallaccia ad una tradizione non biblica di esegesi rivolta al mito, e di conseguenza ai testi poetici che ne erano veicolo. Già in epoca alessandrina essa era stata usata, proprio come nel caso della Bibbia, per interpretare  passi dei poemi omerici in cui il divino era presentato in modi ormai troppo crudamente antropomorfici per la sensibilità dei lettori. Sul finire dell' Antichità questo procedimento era stato teorizzato da Macrobio. Nel Commento al <i>Somnium Scipionis</i> egli  aveva distinto tra <i>fabula</i>, una menzogna che è semplicemente piacevole da ascoltare (""solas aurium delicias profitetur"") e che deve essere tenuta fuori dal sacrario della verità, e <i>narratio fabulosa</i> in cui ""notio sacrarum rerum per quaedam composita et ficta profertur"" (scrittura allegorica) che svela il suo significato profondo solo attraverso una giusta decodificazione (interpretazione allegorica. Cfr. I ii 8-11, pp. 5-6). Il testo di Macrobio aveva trasmesso questa teoria al Medioevo che ne avrebbe fatto uso soprattutto nel XII secolo, con Bernardo Silvestre, Guglielmo di Conches, Alano di Lilla. Questi autori credevano fermamente che sotto l'<i>involucrum</i>, l'<i>integumentum</i> della forma favolosa i poeti, soprattutto Virgilio ed Ovidio, avessero volutamente trasmesso verità sia etiche che fisiche (e comunque filosofiche) ed avevano essi stessi praticato un'esegesi basata su questa convinzione. Alcuni erano consapevoli della differenza tra questo metodo e quello usato dai teologi; come afferma un Commento del XII secolo al <i>De nuptiis Mercurii et Philologiae</i> di Marziano Capella attribuito a Bernardo Silvestre  ""Est allegoria oratio sub historica narratione verum et ab exteriori diversum involvens intellectum, ut de lucta Jacob. Integumentum vero est narratio sub fabulosa narratione verum claudens intellectum, ut de Orpheo ... Allegoria quidem divine pagine, integumentum philosophicae competit"" (ed. Westra, p. 45, ll. 72-78). La nuova cultura universitaria sostenne con Aristotele e contro Platone la necessità che il linguaggio filosofico fosse rigorosamente univoco (un detto diffuso che rimanda ai <i>Topici</i> aristotelici sostiene che ""peccatum est uti metaphoris in problematibus"". Cfr. <i>Top.</i> II, 1, 109 a 27-32)  e dunque guardò con molta diffidenza a questo atteggiamento, considerando la poesia come il grado più basso di conoscenza. Del resto, con un certo tasso di incongruenza, Dante stesso affermerà in <i>Cv</i> IV xiv 15 che delle favole non ci si deve curare quando si disputa filosoficamente.",,CONCORDANZA GENERICA,,,Alano di Lilla,http://dbpedia.org/resource/Alain_de_Lille,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/poesia_allegorica,CONCEPT
SÌ COME NEL PRIMO CAPITOLO ...,"in <i>Cv</i> I i 18 Dante aveva anticipato che la spiegazione delle canzoni avrebbe avuto un doppio livello: uno letterale ed uno allegorico. Qui l'affermazione viene ripetuta, ed inquadrata nella dottrina più ampia dei quattro possibili sensi di un testo: il senso letterale, il senso allegorico, il senso morale, il senso anagogico, analizzati nei paragrafi seguenti. L'idea di un molteplice livello su cui gioca l'interpretazione testuale era stata introdotta già da Origene in funzione dell'esegesi della  Bibbia per evitare le difficoltà poste da alcuni passi, se presi alla lettera (per esempio tutte le rappresentazioni antropomorfiche di Dio), ma soprattutto per la convinzione che la parola divina fosse ricca di una molteplicità pressoché inesauribile di sensi. Girolamo, Agostino e Cassiano avevano teorizzato i procedimenti esegetici trasmettendone il modello ad autori dell'Alto Medioevo come Beda e Rabano Mauro. Tra la fine del XII e l'inizio del XIII secolo la dottrina era ormai cristallizzata nello schema dei quattro sensi della Scrittura. Come dice un distico mnemotecnico diffusissimo sotto il nome del grande esegeta Nicolò di Lira: Littera gesta docet, quid credas allegoria / moralis quid agas, quo tendas anagogia"".  Dante sembrerebbe voler estendere questo modello esegetico a tutti i testi (""Le scritture possono intendersi ... ""). La cosa è però assai problematica: per un verso, infatti, questa estensione risulta eccessiva. Dante sa bene che le opere filosofiche, o quelle giuridiche, o quelle mediche non si prestano a simili procedimenti esegetici. Nella cultura universitaria, che si fonda su commenti a questo tipo di testi (alcuni dei quali ben conosciuti a Dante), non c'è posto per l'interpretazione allegorica, o tropologica, o anagogica. Per un altro verso, nel caso specifico, il testo stesso da commentare non risulta di fatto disponibile ai quattro livelli di senso: nell'esegesi della canzone, infatti, solo una volta si farà ricorso alla tropologia e mai alla anagogia e anche in questi paragrafi introduttivi, gli esempi di questi due sensi sono tratti esclusivamente dalla Sacra Scrittura. Ma soprattutto,  le  definizioni qui date di senso letterale ed allegorico non coincidono con quelle correnti nell'esegesi biblica. Dante stesso è cosciente di questa differenza quando afferma subito dopo che per i poeti il senso allegorico è diverso che per i teologi. Definendoli come ""favole"" e ""belle menzogne"" sotto cui si nasconde la verità l'Alighieri sembra voler dire che ai testi dei poeti, e alle sue stesse canzoni, deve applicarsi esclusivamente  l'allegoria 'in dictis' che è indifferente al valore di verità del senso letterale, mentre per un teologo come Tommaso la lettera della Scrittura è comunque vera, e l' allegoria si applica fondamentalmente ai <i>facta</i> (cfr.  A. Strubel 1975; Corti 1993, pp. 128-33). Si è però  notato che per Dante, non solo nella <i>Commedia</i>, ma anche nel <i>Convivio</i>, molte delle composizioni poetiche narrano fatti storicamente veri, anche se suscettibili di interpretazione allegorica (cfr. Scott, 1995; Sarteschi 2003; vedi qui la nota a <i>Convivio</i> II i 15). In ogni modo quando dice di voler ""prendere lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato"" Dante si riallaccia ad una tradizione non biblica di esegesi rivolta al mito, e di conseguenza ai testi poetici che ne erano veicolo. Già in epoca alessandrina essa era stata usata, proprio come nel caso della Bibbia, per interpretare  passi dei poemi omerici in cui il divino era presentato in modi ormai troppo crudamente antropomorfici per la sensibilità dei lettori. Sul finire dell' Antichità questo procedimento era stato teorizzato da Macrobio. Nel Commento al <i>Somnium Scipionis</i> egli  aveva distinto tra <i>fabula</i>, una menzogna che è semplicemente piacevole da ascoltare (""solas aurium delicias profitetur"") e che deve essere tenuta fuori dal sacrario della verità, e <i>narratio fabulosa</i> in cui ""notio sacrarum rerum per quaedam composita et ficta profertur"" (scrittura allegorica) che svela il suo significato profondo solo attraverso una giusta decodificazione (interpretazione allegorica. Cfr. I ii 8-11, pp. 5-6). Il testo di Macrobio aveva trasmesso questa teoria al Medioevo che ne avrebbe fatto uso soprattutto nel XII secolo, con Bernardo Silvestre, Guglielmo di Conches, Alano di Lilla. Questi autori credevano fermamente che sotto l'<i>involucrum</i>, l'<i>integumentum</i> della forma favolosa i poeti, soprattutto Virgilio ed Ovidio, avessero volutamente trasmesso verità sia etiche che fisiche (e comunque filosofiche) ed avevano essi stessi praticato un'esegesi basata su questa convinzione. Alcuni erano consapevoli della differenza tra questo metodo e quello usato dai teologi; come afferma un Commento del XII secolo al <i>De nuptiis Mercurii et Philologiae</i> di Marziano Capella attribuito a Bernardo Silvestre  ""Est allegoria oratio sub historica narratione verum et ab exteriori diversum involvens intellectum, ut de lucta Jacob. Integumentum vero est narratio sub fabulosa narratione verum claudens intellectum, ut de Orpheo ... Allegoria quidem divine pagine, integumentum philosophicae competit"" (ed. Westra, p. 45, ll. 72-78). La nuova cultura universitaria sostenne con Aristotele e contro Platone la necessità che il linguaggio filosofico fosse rigorosamente univoco (un detto diffuso che rimanda ai <i>Topici</i> aristotelici sostiene che ""peccatum est uti metaphoris in problematibus"". Cfr. <i>Top.</i> II, 1, 109 a 27-32)  e dunque guardò con molta diffidenza a questo atteggiamento, considerando la poesia come il grado più basso di conoscenza. Del resto, con un certo tasso di incongruenza, Dante stesso affermerà in <i>Cv</i> IV xiv 15 che delle favole non ci si deve curare quando si disputa filosoficamente.","Est allegoria oratio sub historica narratione verum et ab exteriori diversum involvens intellectum, ut de lucta Jacob. Integumentum vero est narratio sub fabulosa narratione verum claudens intellectum, ut de Orpheo ... Allegoria quidem divine pagine, integumentum philosophicae competit"" (ed. Westra, p. 45, ll. 72-78)""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commento_De_nuptiis_Mercurii_et_Philologiae,Commento al De nuptiis Mercurii et Philologiae,Bernardo Silvestre,http://dbpedia.org/resource/Bernard_Silvestris,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/poesia_allegorica,WORK
SÌ COME NEL PRIMO CAPITOLO ...,"in <i>Cv</i> I i 18 Dante aveva anticipato che la spiegazione delle canzoni avrebbe avuto un doppio livello: uno letterale ed uno allegorico. Qui l'affermazione viene ripetuta, ed inquadrata nella dottrina più ampia dei quattro possibili sensi di un testo: il senso letterale, il senso allegorico, il senso morale, il senso anagogico, analizzati nei paragrafi seguenti. L'idea di un molteplice livello su cui gioca l'interpretazione testuale era stata introdotta già da Origene in funzione dell'esegesi della  Bibbia per evitare le difficoltà poste da alcuni passi, se presi alla lettera (per esempio tutte le rappresentazioni antropomorfiche di Dio), ma soprattutto per la convinzione che la parola divina fosse ricca di una molteplicità pressoché inesauribile di sensi. Girolamo, Agostino e Cassiano avevano teorizzato i procedimenti esegetici trasmettendone il modello ad autori dell'Alto Medioevo come Beda e Rabano Mauro. Tra la fine del XII e l'inizio del XIII secolo la dottrina era ormai cristallizzata nello schema dei quattro sensi della Scrittura. Come dice un distico mnemotecnico diffusissimo sotto il nome del grande esegeta Nicolò di Lira: Littera gesta docet, quid credas allegoria / moralis quid agas, quo tendas anagogia"".  Dante sembrerebbe voler estendere questo modello esegetico a tutti i testi (""Le scritture possono intendersi ... ""). La cosa è però assai problematica: per un verso, infatti, questa estensione risulta eccessiva. Dante sa bene che le opere filosofiche, o quelle giuridiche, o quelle mediche non si prestano a simili procedimenti esegetici. Nella cultura universitaria, che si fonda su commenti a questo tipo di testi (alcuni dei quali ben conosciuti a Dante), non c'è posto per l'interpretazione allegorica, o tropologica, o anagogica. Per un altro verso, nel caso specifico, il testo stesso da commentare non risulta di fatto disponibile ai quattro livelli di senso: nell'esegesi della canzone, infatti, solo una volta si farà ricorso alla tropologia e mai alla anagogia e anche in questi paragrafi introduttivi, gli esempi di questi due sensi sono tratti esclusivamente dalla Sacra Scrittura. Ma soprattutto,  le  definizioni qui date di senso letterale ed allegorico non coincidono con quelle correnti nell'esegesi biblica. Dante stesso è cosciente di questa differenza quando afferma subito dopo che per i poeti il senso allegorico è diverso che per i teologi. Definendoli come ""favole"" e ""belle menzogne"" sotto cui si nasconde la verità l'Alighieri sembra voler dire che ai testi dei poeti, e alle sue stesse canzoni, deve applicarsi esclusivamente  l'allegoria 'in dictis' che è indifferente al valore di verità del senso letterale, mentre per un teologo come Tommaso la lettera della Scrittura è comunque vera, e l' allegoria si applica fondamentalmente ai <i>facta</i> (cfr.  A. Strubel 1975; Corti 1993, pp. 128-33). Si è però  notato che per Dante, non solo nella <i>Commedia</i>, ma anche nel <i>Convivio</i>, molte delle composizioni poetiche narrano fatti storicamente veri, anche se suscettibili di interpretazione allegorica (cfr. Scott, 1995; Sarteschi 2003; vedi qui la nota a <i>Convivio</i> II i 15). In ogni modo quando dice di voler ""prendere lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato"" Dante si riallaccia ad una tradizione non biblica di esegesi rivolta al mito, e di conseguenza ai testi poetici che ne erano veicolo. Già in epoca alessandrina essa era stata usata, proprio come nel caso della Bibbia, per interpretare  passi dei poemi omerici in cui il divino era presentato in modi ormai troppo crudamente antropomorfici per la sensibilità dei lettori. Sul finire dell' Antichità questo procedimento era stato teorizzato da Macrobio. Nel Commento al <i>Somnium Scipionis</i> egli  aveva distinto tra <i>fabula</i>, una menzogna che è semplicemente piacevole da ascoltare (""solas aurium delicias profitetur"") e che deve essere tenuta fuori dal sacrario della verità, e <i>narratio fabulosa</i> in cui ""notio sacrarum rerum per quaedam composita et ficta profertur"" (scrittura allegorica) che svela il suo significato profondo solo attraverso una giusta decodificazione (interpretazione allegorica. Cfr. I ii 8-11, pp. 5-6). Il testo di Macrobio aveva trasmesso questa teoria al Medioevo che ne avrebbe fatto uso soprattutto nel XII secolo, con Bernardo Silvestre, Guglielmo di Conches, Alano di Lilla. Questi autori credevano fermamente che sotto l'<i>involucrum</i>, l'<i>integumentum</i> della forma favolosa i poeti, soprattutto Virgilio ed Ovidio, avessero volutamente trasmesso verità sia etiche che fisiche (e comunque filosofiche) ed avevano essi stessi praticato un'esegesi basata su questa convinzione. Alcuni erano consapevoli della differenza tra questo metodo e quello usato dai teologi; come afferma un Commento del XII secolo al <i>De nuptiis Mercurii et Philologiae</i> di Marziano Capella attribuito a Bernardo Silvestre  ""Est allegoria oratio sub historica narratione verum et ab exteriori diversum involvens intellectum, ut de lucta Jacob. Integumentum vero est narratio sub fabulosa narratione verum claudens intellectum, ut de Orpheo ... Allegoria quidem divine pagine, integumentum philosophicae competit"" (ed. Westra, p. 45, ll. 72-78). La nuova cultura universitaria sostenne con Aristotele e contro Platone la necessità che il linguaggio filosofico fosse rigorosamente univoco (un detto diffuso che rimanda ai <i>Topici</i> aristotelici sostiene che ""peccatum est uti metaphoris in problematibus"". Cfr. <i>Top.</i> II, 1, 109 a 27-32)  e dunque guardò con molta diffidenza a questo atteggiamento, considerando la poesia come il grado più basso di conoscenza. Del resto, con un certo tasso di incongruenza, Dante stesso affermerà in <i>Cv</i> IV xiv 15 che delle favole non ci si deve curare quando si disputa filosoficamente.","peccatum est uti metaphoris in problematibus. Cfr. Top. II, 1, 109 a 27-32",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Topica(Aristotele),Topica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
E QUESTO È QUELLO CHE] SI NASCONDE ... SOTTO BELLA MENZOGNA,"la definizione, assai vicina a quella data dal Commento a Marziano Capella, è egualmente presente in un Commento all' <i>Eneide</i> databile al XII secolo attribuito anch'esso a Bernardo Silvestre (ed. Jones, p. 3, ll. 14-15). Il termine stesso significa letteralmente qualcosa che copre il corpo (manto"" appunto) e a questo insieme di idee sembrano far riferimento i versi di  <i>If</i>  IX  60-3  ""O voi ch'avete li  'ntelletti sani / mirate la dottrina che s'asconde /sotto il velame delli versi strani"" e di <i>Pg</i> VIII  19-21  ""Aguzza qui, lettor, bel gli occhi al vero /ché  'l velo è ora ben tanto sottile, / certo che 'l trapassar dentro è leggiero"" (ma già nella canzone <i>Doglia mi reca</i> Dante aveva affermato ai vv. 57-9 ""ché rado sotto benda / parola oscura giugne all'intelletto"").","ed. Jones, p. 3, ll. 14-15",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commento_Eneide,Commento all'Eneide,Bernardo Silvestre,http://dbpedia.org/resource/Bernard_Silvestris,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/epica_latina_commenti,WORK
SI MOSTERRÀ,"si mostrerà'. Dante, promettendo una più ampia spiegazione del motivo per cui i poeti (che sono anche uomini del sapere, saggi) hanno velato la verità che i loro scritti contengono, si riallaccia implicitamente ad una domanda già presente nel Commento al <i>Somnium Scipionis</i>. Con tutta probabilità anche la risposta sarebbe stata analoga. Per Macrobio i saggi sanno che la natura non ama essere vista nuda, cioè contemplata direttamente da tutti. I suoi segreti sono come i segreti dei culti misterici, devono essere difesi da una divulgazione che li svilirebbe. A questo servono i miti escogitati dai prudentes"" (cfr. <i>In Somnium Scipionis</i> I.ii.17-18, p. 7 ""… sciunt inimicam esse naturae apertam nudamque expositionem sui, quae sicut vulgaribus hominum sensibus intellectum suum vario rerum tegmine operimentoque subtraxit, ita a prudentibus arcana sua voluit per fabulosa tractari"").","I.ii.17-18, p. 7 ""... sciunt inimicam esse naturae apertam nudamque expositionem sui, quae sicut vulgaribus hominum sensibus intellectum suum vario rerum tegmine operimentoque subtraxit, ita a prudentibus arcana sua voluit per fabulosa tractari"").""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commentarii_in_Somnium_Scipionis,Commentarii in Somnium Scipionis,Macrobio,http://dbpedia.org/resource/Macrobius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
CRISTO SALIO LO MONTE ... LI TRE,"l'episodio della trasfigurazione sul monte Tabor in presenza di Pietro, Giacomo e Giovanni è narrato dai tre Vangeli sinottici (cfr. <i>Mt</i> 17, 1-9; <i>Mc</i>  9, 1-9; <i>Lc</i>  9, 28-36).","17, 1-9",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Matthew,Vangelo di Matteo,Matteo,http://dbpedia.org/resource/Matthew_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
CRISTO SALIO LO MONTE ... LI TRE,"l'episodio della trasfigurazione sul monte Tabor in presenza di Pietro, Giacomo e Giovanni è narrato dai tre Vangeli sinottici (cfr. <i>Mt</i> 17, 1-9; <i>Mc</i>  9, 1-9; <i>Lc</i>  9, 28-36).","17, 1-9",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Mark,Vangelo di Marco,Marco,http://dbpedia.org/resource/Mark_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
CRISTO SALIO LO MONTE ... LI TRE,"l'episodio della trasfigurazione sul monte Tabor in presenza di Pietro, Giacomo e Giovanni è narrato dai tre Vangeli sinottici (cfr. <i>Mt</i> 17, 1-9; <i>Mc</i>  9, 1-9; <i>Lc</i>  9, 28-36).","9, 28-36",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Luke,Vangelo di Luca,Luca,http://dbpedia.org/resource/Luke_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
LO QUARTO SENSO SI CHIAMA ANAGOGICO,"l'aggettivo greco <i>anagoghikos</i> significa letteralmente 'ciò che trasporta in alto' (Dante parla di sovrasenso""  traducendo giustamente il prefisso greco <i>ano</i> come <i>super</i>-sopra). Si ricorre al senso anagogico quando si espone oltre la lettera  (""spiritualmente si spone"") un brano delle  Scritture (""una scrittura"") che è certamente vero anche (""eziandio"") nel senso letterale, ma in cui attraverso le cose (""per le cose"") significate dalle parole, rimanda  non più a verità di fede, o a precetti morali, ma alla gloria eterna di Dio e del suo regno ultramondano (""significa dell'etternal gloria  delle superne cose"". L'espressione è un calco di quella usata da Tommaso per definire appunto il senso anagogico. Cfr. <i>Summa Theologiae</i> I, q. 1, a. 10, <i>respondeo</i>). L'esempio è tratto dai due primi versetti del salmo 113, dove si parla dell'uscita di Israele dall'Egitto: benchè (""ancora che"") sia evidente che il fatto è vero letteralmente (""essere vero secondo la lettera sia manifesto"") esso rimanda ad una verità superiore: che l'anima, liberata dal peccato (""nell'uscita dell'anima dal peccato"") diviene santa e liberamente padrona di sé (""libera in sua potestate""). Non per nulla il salmo viene cantato dalle anime traghettate dall'angelo verso la montagna del Purgatorio (cfr. <i>Pg</i> II 45-48). Nella <i>Lettera a Cangrande</i> gli stessi versetti dello stesso salmo verranno interpretati anche secondo i sensi  morale ed anagogico (<i>Epistula</i> XIII 7, 21-22, p. 611). Come nota J. Pépin, il salmo 113 era stato nella storia dell'esegesi biblica uno dei testi più usati per esemplificare i vari sensi della Scrittura (cfr. Pépin 1970, pp.87-8).","Cfr. Summa Theologiae I, q. 1, a. 10",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_Theologica,Summa Theologiae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
LO QUARTO SENSO SI CHIAMA ANAGOGICO,"l'aggettivo greco <i>anagoghikos</i> significa letteralmente 'ciò che trasporta in alto' (Dante parla di sovrasenso""  traducendo giustamente il prefisso greco <i>ano</i> come <i>super</i>-sopra). Si ricorre al senso anagogico quando si espone oltre la lettera  (""spiritualmente si spone"") un brano delle  Scritture (""una scrittura"") che è certamente vero anche (""eziandio"") nel senso letterale, ma in cui attraverso le cose (""per le cose"") significate dalle parole, rimanda  non più a verità di fede, o a precetti morali, ma alla gloria eterna di Dio e del suo regno ultramondano (""significa dell'etternal gloria  delle superne cose"". L'espressione è un calco di quella usata da Tommaso per definire appunto il senso anagogico. Cfr. <i>Summa Theologiae</i> I, q. 1, a. 10, <i>respondeo</i>). L'esempio è tratto dai due primi versetti del salmo 113, dove si parla dell'uscita di Israele dall'Egitto: benchè (""ancora che"") sia evidente che il fatto è vero letteralmente (""essere vero secondo la lettera sia manifesto"") esso rimanda ad una verità superiore: che l'anima, liberata dal peccato (""nell'uscita dell'anima dal peccato"") diviene santa e liberamente padrona di sé (""libera in sua potestate""). Non per nulla il salmo viene cantato dalle anime traghettate dall'angelo verso la montagna del Purgatorio (cfr. <i>Pg</i> II 45-48). Nella <i>Lettera a Cangrande</i> gli stessi versetti dello stesso salmo verranno interpretati anche secondo i sensi  morale ed anagogico (<i>Epistula</i> XIII 7, 21-22, p. 611). Come nota J. Pépin, il salmo 113 era stato nella storia dell'esegesi biblica uno dei testi più usati per esemplificare i vari sensi della Scrittura (cfr. Pépin 1970, pp.87-8).",dai due primi versetti del salmo 113,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Psalms,Salmi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
CANTO DEL PROFETA,"i Salmi erano stati composti, fin dall'inizio, per essere cantati e il re Davide, cui il Medioevo li attribuiva tutti senza problemi, era considerato anche profeta, in quanto si pensava che numerosi brani dei suoi canti"" avessero un carattere decisamente messianico e prefigurassero nascita, morte e resurrezione del Cristo.",,CONCORDANZA GENERICA,http://dbpedia.org/resource/Psalms,Salmi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
DEE ANDARE INNANZI,"deve essere il primo'. La priorità del primo senso sugli altri era dottrina comune a teologi come Alberto Magno e Tommaso (cfr. di Alberto, <i>Summa Theologica</i> <i>sive de mirabili scientia Dei</i> I, tr. I, q. 5, cap. 4  Sensus litteralis prius est et in ipso fundantur tres alii sensus spirituales"", ed. Kübel, p. 21, e di Tommaso, <i>Summa Theologiae</i> I, q. 1, a.10, ad 1m  ""Omnes sensus fundantur super unum, scilicet litteralem, ex quo solo potest trahi argumentum"").","Summa Theologiae I, q. 1, a.10, ad 1m  ""Omnes sensus fundantur super unum, scilicet litteralem, ex quo solo potest trahi argumentum""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_Theologica,Summa Theologiae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
DEE ANDARE INNANZI,"deve essere il primo'. La priorità del primo senso sugli altri era dottrina comune a teologi come Alberto Magno e Tommaso (cfr. di Alberto, <i>Summa Theologica</i> <i>sive de mirabili scientia Dei</i> I, tr. I, q. 5, cap. 4  Sensus litteralis prius est et in ipso fundantur tres alii sensus spirituales"", ed. Kübel, p. 21, e di Tommaso, <i>Summa Theologiae</i> I, q. 1, a.10, ad 1m  ""Omnes sensus fundantur super unum, scilicet litteralem, ex quo solo potest trahi argumentum"").","cfr. di Alberto, Summa Theologica sive de mirabili scientia Dei I, tr. I, q. 5, cap. 4  Sensus litteralis prius est et in ipso fundantur tres alii sensus spirituales"", ed. Kübel, p. 21""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Summa_Theologica_sive_de_mirabili_scientia_Dei,Summa theologica sive de mirabili scientia Dei,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
IN CIASCUNA COSA ...,"in ogni produzione, sia essa opera della natura o dell'arte, è impossibile che si abbia luogo il processo di introduzione della forma (procedere alla forma"") se prima il sostrato che è fondamento della forma (""lo subietto sopra che la forma dee stare"") non si trova nella dovuta disposizione (""sanza prima esser disposto""). Dante applica al caso particolare del rapporto lettera-altri sensi la teoria aristotelica della generazione naturale (di cui quella artificiale è imitazione) come processo in cui una forma si unisce ad una materia precedente che le fa da sostrato (questo è il significato di ""subietto"", dal latino <i>subiectum</i>, esso stesso traduzione del greco <i>ypokeimenon</i>: che sta sotto) .Questo sostrato, che in sé sarebbe pura potenza, in ogni produzione deve assumere quelle effettive caratteristiche (di calore, umidità, durezza etc.) che sole rendono possibile l' unione con quel tipo di forma. Vengono portati due esempi: uno tratto dalla generazione naturale (l'oro), l'altro dalla produzione artificiale (l'arca): ciò che viene strutturato dalla forma dell'oro non può essere una materia qualsiasi: essa è invece il risultato di un lavoro di trasformazione che Dante chiama ""digestione"", in Aristotele termine generico indicante ogni tipo di cottura da parte del calore (cfr. <i>Meteor</i>. IV 2, 379 b 10-380 a 10), applicato specificamente alla produzione dei minerali  da Alberto Magno (cfr. <i>De mineralibus</i>  III, tr. 1, capp.  3 e 5,  pp. 62-66 e la nota di B. Nardi in Nardi 1944, pp .61-65 che si riferisce anche alle teorie alchemiche). Solo quando questo tipo di sostrato sarà pronto e disponibile (""apparecchiata"") si genererà l'oro. In maniera diversa, ma analoga, nel fabbricare un mobile, non basta che il legno sia presente (""apparecchiato""), ma occorre che abbia alcune caratteristiche (""disposto""): ad esempio, esser già ridotto in tavole. Il linguaggio di Dante risulta qui del tutto debitore di quello della cultura universitaria: l'endiadi ""subietto-materia"" è frequentissima negli scritti dei <i>magistri artium</i> parigini, anzi è quasi la cifra di Boezio di Dacia (cfr. <i>De aeternitate mundi</i>, p. 350, ll. 401-402  ""Natura omnem suum effectum facit ex subiecto et materia""). Lo stesso esempio dell' arca (in sé termine del linguaggio quotidiano indicante un mobile tipico dell'arredamento medievale, la cassapanca) si trova spesso usato in contesti filosofici (cfr. ad esempio il Commento di Tommaso alla <i>Metafisica</i> di Aristotele, VIII, <i>lectio</i> 4, n. 1734 o il Commento di Bonaventura al secondo libro delle <i>Sentenze</i>, dist. I, pars I, a. 1, q. 1,  p. 17) ) fin da quando i traduttori della <i>Fisica</i> aristotelica avevano usato <i>archa</i> per rendere in latino il greco <i>kibotion</i> (cfr. ad es. <i>Phys</i>. III 6, 207 a 10. <i>Translatio Vetus</i>, p 128,  l. 13).","cfr. Meteor. IV 2, 379 b 10-380 a 10",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Meteorology_(Aristotle),Meteorologica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
IN CIASCUNA COSA ...,"in ogni produzione, sia essa opera della natura o dell'arte, è impossibile che si abbia luogo il processo di introduzione della forma (procedere alla forma"") se prima il sostrato che è fondamento della forma (""lo subietto sopra che la forma dee stare"") non si trova nella dovuta disposizione (""sanza prima esser disposto""). Dante applica al caso particolare del rapporto lettera-altri sensi la teoria aristotelica della generazione naturale (di cui quella artificiale è imitazione) come processo in cui una forma si unisce ad una materia precedente che le fa da sostrato (questo è il significato di ""subietto"", dal latino <i>subiectum</i>, esso stesso traduzione del greco <i>ypokeimenon</i>: che sta sotto) .Questo sostrato, che in sé sarebbe pura potenza, in ogni produzione deve assumere quelle effettive caratteristiche (di calore, umidità, durezza etc.) che sole rendono possibile l' unione con quel tipo di forma. Vengono portati due esempi: uno tratto dalla generazione naturale (l'oro), l'altro dalla produzione artificiale (l'arca): ciò che viene strutturato dalla forma dell'oro non può essere una materia qualsiasi: essa è invece il risultato di un lavoro di trasformazione che Dante chiama ""digestione"", in Aristotele termine generico indicante ogni tipo di cottura da parte del calore (cfr. <i>Meteor</i>. IV 2, 379 b 10-380 a 10), applicato specificamente alla produzione dei minerali  da Alberto Magno (cfr. <i>De mineralibus</i>  III, tr. 1, capp.  3 e 5,  pp. 62-66 e la nota di B. Nardi in Nardi 1944, pp .61-65 che si riferisce anche alle teorie alchemiche). Solo quando questo tipo di sostrato sarà pronto e disponibile (""apparecchiata"") si genererà l'oro. In maniera diversa, ma analoga, nel fabbricare un mobile, non basta che il legno sia presente (""apparecchiato""), ma occorre che abbia alcune caratteristiche (""disposto""): ad esempio, esser già ridotto in tavole. Il linguaggio di Dante risulta qui del tutto debitore di quello della cultura universitaria: l'endiadi ""subietto-materia"" è frequentissima negli scritti dei <i>magistri artium</i> parigini, anzi è quasi la cifra di Boezio di Dacia (cfr. <i>De aeternitate mundi</i>, p. 350, ll. 401-402  ""Natura omnem suum effectum facit ex subiecto et materia""). Lo stesso esempio dell' arca (in sé termine del linguaggio quotidiano indicante un mobile tipico dell'arredamento medievale, la cassapanca) si trova spesso usato in contesti filosofici (cfr. ad esempio il Commento di Tommaso alla <i>Metafisica</i> di Aristotele, VIII, <i>lectio</i> 4, n. 1734 o il Commento di Bonaventura al secondo libro delle <i>Sentenze</i>, dist. I, pars I, a. 1, q. 1,  p. 17) ) fin da quando i traduttori della <i>Fisica</i> aristotelica avevano usato <i>archa</i> per rendere in latino il greco <i>kibotion</i> (cfr. ad es. <i>Phys</i>. III 6, 207 a 10. <i>Translatio Vetus</i>, p 128,  l. 13).","cfr. De mineralibus  III, tr. 1, capp.  3 e 5,  pp. 62-66",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_mineralibus,De mineralibus,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
IN CIASCUNA COSA ...,"in ogni produzione, sia essa opera della natura o dell'arte, è impossibile che si abbia luogo il processo di introduzione della forma (procedere alla forma"") se prima il sostrato che è fondamento della forma (""lo subietto sopra che la forma dee stare"") non si trova nella dovuta disposizione (""sanza prima esser disposto""). Dante applica al caso particolare del rapporto lettera-altri sensi la teoria aristotelica della generazione naturale (di cui quella artificiale è imitazione) come processo in cui una forma si unisce ad una materia precedente che le fa da sostrato (questo è il significato di ""subietto"", dal latino <i>subiectum</i>, esso stesso traduzione del greco <i>ypokeimenon</i>: che sta sotto) .Questo sostrato, che in sé sarebbe pura potenza, in ogni produzione deve assumere quelle effettive caratteristiche (di calore, umidità, durezza etc.) che sole rendono possibile l' unione con quel tipo di forma. Vengono portati due esempi: uno tratto dalla generazione naturale (l'oro), l'altro dalla produzione artificiale (l'arca): ciò che viene strutturato dalla forma dell'oro non può essere una materia qualsiasi: essa è invece il risultato di un lavoro di trasformazione che Dante chiama ""digestione"", in Aristotele termine generico indicante ogni tipo di cottura da parte del calore (cfr. <i>Meteor</i>. IV 2, 379 b 10-380 a 10), applicato specificamente alla produzione dei minerali  da Alberto Magno (cfr. <i>De mineralibus</i>  III, tr. 1, capp.  3 e 5,  pp. 62-66 e la nota di B. Nardi in Nardi 1944, pp .61-65 che si riferisce anche alle teorie alchemiche). Solo quando questo tipo di sostrato sarà pronto e disponibile (""apparecchiata"") si genererà l'oro. In maniera diversa, ma analoga, nel fabbricare un mobile, non basta che il legno sia presente (""apparecchiato""), ma occorre che abbia alcune caratteristiche (""disposto""): ad esempio, esser già ridotto in tavole. Il linguaggio di Dante risulta qui del tutto debitore di quello della cultura universitaria: l'endiadi ""subietto-materia"" è frequentissima negli scritti dei <i>magistri artium</i> parigini, anzi è quasi la cifra di Boezio di Dacia (cfr. <i>De aeternitate mundi</i>, p. 350, ll. 401-402  ""Natura omnem suum effectum facit ex subiecto et materia""). Lo stesso esempio dell' arca (in sé termine del linguaggio quotidiano indicante un mobile tipico dell'arredamento medievale, la cassapanca) si trova spesso usato in contesti filosofici (cfr. ad esempio il Commento di Tommaso alla <i>Metafisica</i> di Aristotele, VIII, <i>lectio</i> 4, n. 1734 o il Commento di Bonaventura al secondo libro delle <i>Sentenze</i>, dist. I, pars I, a. 1, q. 1,  p. 17) ) fin da quando i traduttori della <i>Fisica</i> aristotelica avevano usato <i>archa</i> per rendere in latino il greco <i>kibotion</i> (cfr. ad es. <i>Phys</i>. III 6, 207 a 10. <i>Translatio Vetus</i>, p 128,  l. 13).","cfr. De aeternitate mundi, p. 350, ll. 401-402  ""Natura omnem suum effectum facit ex subiecto et materia""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_aeternitate_mundi,De aeternitate mundi,Boezio di Dacia,http://dbpedia.org/resource/Boetius_of_Dacia,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
IN CIASCUNA COSA ...,"in ogni produzione, sia essa opera della natura o dell'arte, è impossibile che si abbia luogo il processo di introduzione della forma (procedere alla forma"") se prima il sostrato che è fondamento della forma (""lo subietto sopra che la forma dee stare"") non si trova nella dovuta disposizione (""sanza prima esser disposto""). Dante applica al caso particolare del rapporto lettera-altri sensi la teoria aristotelica della generazione naturale (di cui quella artificiale è imitazione) come processo in cui una forma si unisce ad una materia precedente che le fa da sostrato (questo è il significato di ""subietto"", dal latino <i>subiectum</i>, esso stesso traduzione del greco <i>ypokeimenon</i>: che sta sotto) .Questo sostrato, che in sé sarebbe pura potenza, in ogni produzione deve assumere quelle effettive caratteristiche (di calore, umidità, durezza etc.) che sole rendono possibile l' unione con quel tipo di forma. Vengono portati due esempi: uno tratto dalla generazione naturale (l'oro), l'altro dalla produzione artificiale (l'arca): ciò che viene strutturato dalla forma dell'oro non può essere una materia qualsiasi: essa è invece il risultato di un lavoro di trasformazione che Dante chiama ""digestione"", in Aristotele termine generico indicante ogni tipo di cottura da parte del calore (cfr. <i>Meteor</i>. IV 2, 379 b 10-380 a 10), applicato specificamente alla produzione dei minerali  da Alberto Magno (cfr. <i>De mineralibus</i>  III, tr. 1, capp.  3 e 5,  pp. 62-66 e la nota di B. Nardi in Nardi 1944, pp .61-65 che si riferisce anche alle teorie alchemiche). Solo quando questo tipo di sostrato sarà pronto e disponibile (""apparecchiata"") si genererà l'oro. In maniera diversa, ma analoga, nel fabbricare un mobile, non basta che il legno sia presente (""apparecchiato""), ma occorre che abbia alcune caratteristiche (""disposto""): ad esempio, esser già ridotto in tavole. Il linguaggio di Dante risulta qui del tutto debitore di quello della cultura universitaria: l'endiadi ""subietto-materia"" è frequentissima negli scritti dei <i>magistri artium</i> parigini, anzi è quasi la cifra di Boezio di Dacia (cfr. <i>De aeternitate mundi</i>, p. 350, ll. 401-402  ""Natura omnem suum effectum facit ex subiecto et materia""). Lo stesso esempio dell' arca (in sé termine del linguaggio quotidiano indicante un mobile tipico dell'arredamento medievale, la cassapanca) si trova spesso usato in contesti filosofici (cfr. ad esempio il Commento di Tommaso alla <i>Metafisica</i> di Aristotele, VIII, <i>lectio</i> 4, n. 1734 o il Commento di Bonaventura al secondo libro delle <i>Sentenze</i>, dist. I, pars I, a. 1, q. 1,  p. 17) ) fin da quando i traduttori della <i>Fisica</i> aristotelica avevano usato <i>archa</i> per rendere in latino il greco <i>kibotion</i> (cfr. ad es. <i>Phys</i>. III 6, 207 a 10. <i>Translatio Vetus</i>, p 128,  l. 13).","VIII, lectio 4, n. 1734",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Metaphysicae(Tommaso),Sententia libri Metaphysicae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
IN CIASCUNA COSA ...,"in ogni produzione, sia essa opera della natura o dell'arte, è impossibile che si abbia luogo il processo di introduzione della forma (procedere alla forma"") se prima il sostrato che è fondamento della forma (""lo subietto sopra che la forma dee stare"") non si trova nella dovuta disposizione (""sanza prima esser disposto""). Dante applica al caso particolare del rapporto lettera-altri sensi la teoria aristotelica della generazione naturale (di cui quella artificiale è imitazione) come processo in cui una forma si unisce ad una materia precedente che le fa da sostrato (questo è il significato di ""subietto"", dal latino <i>subiectum</i>, esso stesso traduzione del greco <i>ypokeimenon</i>: che sta sotto) .Questo sostrato, che in sé sarebbe pura potenza, in ogni produzione deve assumere quelle effettive caratteristiche (di calore, umidità, durezza etc.) che sole rendono possibile l' unione con quel tipo di forma. Vengono portati due esempi: uno tratto dalla generazione naturale (l'oro), l'altro dalla produzione artificiale (l'arca): ciò che viene strutturato dalla forma dell'oro non può essere una materia qualsiasi: essa è invece il risultato di un lavoro di trasformazione che Dante chiama ""digestione"", in Aristotele termine generico indicante ogni tipo di cottura da parte del calore (cfr. <i>Meteor</i>. IV 2, 379 b 10-380 a 10), applicato specificamente alla produzione dei minerali  da Alberto Magno (cfr. <i>De mineralibus</i>  III, tr. 1, capp.  3 e 5,  pp. 62-66 e la nota di B. Nardi in Nardi 1944, pp .61-65 che si riferisce anche alle teorie alchemiche). Solo quando questo tipo di sostrato sarà pronto e disponibile (""apparecchiata"") si genererà l'oro. In maniera diversa, ma analoga, nel fabbricare un mobile, non basta che il legno sia presente (""apparecchiato""), ma occorre che abbia alcune caratteristiche (""disposto""): ad esempio, esser già ridotto in tavole. Il linguaggio di Dante risulta qui del tutto debitore di quello della cultura universitaria: l'endiadi ""subietto-materia"" è frequentissima negli scritti dei <i>magistri artium</i> parigini, anzi è quasi la cifra di Boezio di Dacia (cfr. <i>De aeternitate mundi</i>, p. 350, ll. 401-402  ""Natura omnem suum effectum facit ex subiecto et materia""). Lo stesso esempio dell' arca (in sé termine del linguaggio quotidiano indicante un mobile tipico dell'arredamento medievale, la cassapanca) si trova spesso usato in contesti filosofici (cfr. ad esempio il Commento di Tommaso alla <i>Metafisica</i> di Aristotele, VIII, <i>lectio</i> 4, n. 1734 o il Commento di Bonaventura al secondo libro delle <i>Sentenze</i>, dist. I, pars I, a. 1, q. 1,  p. 17) ) fin da quando i traduttori della <i>Fisica</i> aristotelica avevano usato <i>archa</i> per rendere in latino il greco <i>kibotion</i> (cfr. ad es. <i>Phys</i>. III 6, 207 a 10. <i>Translatio Vetus</i>, p 128,  l. 13).","dist. I, pars I, a. 1, q. 1,  p. 17",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commentaria_in_quattuor_libros_sententiaru_Magistri_Petri_Lombardi(Bonaventura),Commentaria in quattuor libros sententiarum,Bonaventura da Bagnoregio,http://dbpedia.org/resource/Bonaventure,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
LO FONDAMENTO,"il fondamento da cui deve iniziare ogni processo produttivo, sia naturale che artificiale, è ovviamente diverso per ogni tipo di produzione. Dei due esempi portati da Dante, quello della casa si ritrova là dove Aristotele parla dei vari significati del termine principio"" (cfr. <i>Metaph</i>.  V 1, 1013 a 4-5  ""Aliud unde primum generatur inexistente, ut ... domus fundamentum"" <i>Recensio Guillelmi</i>, p. 92, 8-9). J. Pépin ha presentato la storia della metafora del senso letterale come fondamento di tutto l'edificio esegetico, da Filone di Alessandria a Tommaso passando per il <i>Didascalicon</i> di Ugo di San Vittore (cfr. Pépin 1970, pp. 92-95). Nel passo già citato della <i>Metafisica</i>, è presente anche un'accenno al fondamento della scienza identificato con i postulati indimostrabili delle dimostrazioni (""Amplius, unde cognoscibilis res primum, et hoc principium dicitur rei, ut demonstrationum suppositiones"" 1013 a 14-16. <i>Recensio Guillelmi</i>, p. 92, ll. 16-18 ). Per Dante, invece, l'edificio della scienza si costruisce sulle dimostrazioni stesse (""con ciò sia cosa che 'l dimostrare sia edificazione di scienza""). Nella premessa maggiore ed in quella minore del sillogismo qui usato da Dante, però, i termini  non hanno il medesimo significato: nella prima  dimostrare è inteso in senso stretto (la scienza si costruisce attraverso sillogismi dimonstrativi), nella seconda la ""litterale demonstrazione"" è  un'esegesi  della lettera del testo piuttosto che una dimostrazione scientifica (nel paragrafo 14, infatti, si parlerà di ""dimostrare i sensi"").","cfr. Metaph.  V 1, 1013 a 4-5  ""Aliud unde primum generatur inexistente, ut ... domus fundamentum"" Recensio Guillelmi, p. 92, 8-9""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
ONDE ... INNATA,"Dante, citandolo espressamente, parafrasa l'inizio della <i>Fisica</i> aristotelica  Necesse ... procedere ex incertioribus nature, nobis autem certioribus, in certiora nature et notiora ... Innata... est ex notioribus nobis via et certioribus in certiora nature et notiora (I, 1, 184 a 16-21. <i>Translatio Vetus</i>,  p. 7, ll. 8-13).","Necesse ... procedere ex incertioribus nature, nobis autem certioribus, in certiora nature et notiora ... Innata... est ex notioribus nobis via et certioribus in certiora nature et notiora (I, 1, 184 a 16-21. Translatio Vetus,  p. 7, ll. 8-13)",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DICO CHE LA STELLA DI VENERE,"l'intervallo di tempo tra la morte di Beatrice (8 giugno 1290) e l'apparizione della 'donna gentile' già ricordata nella <i>Vita Nova</i> (24 sgg.) viene indicato in modo indiretto, attraverso una di quelle complesse immagini astronomiche, anch'esse presenti nella <i>Vita Nova</i> e che tanto spazio avranno nella <i>Commedia</i>: il pianeta Venere due volte (due fiate"") aveva compiuto quella rivoluzione  (""rivolta era in quello suo cerchio"") che la  rende visibile (""la fa parere"")  alla sera, appena dopo il tramonto (""serotina"") e al mattino, poco prima dell'alba (""matutina""). La rivoluzione intorno alla terra descritta dall'astro non si svolge lungo un circolo semplice: nella astronomia tolemaica Venere si muove contemporaneamente secondo due movimenti circolari: il primo, attorno alla terra, lungo un circolo leggermente eccentrico (deferente),  il secondo lungo un circolo più piccolo (epiciclo) che tocca un punto del deferente e che quindi partecipa del moto del deferente (come Dante dirà in <i>Cv</i>  II iii 17-18, la stella si trova materialmente sul ""dosso"" del cerchio piccolo). La combinazione dei due movimenti rende ragione delle complesse posizioni del pianeta che sembra oscillare ora a destra (oriente) ora a sinistra (occidente) del sole sull'eclittica, comparendo poco prima dell'alba (Lucifero) e poco dopo il tramonto (Espero). Il ""cerchio"" di cui qui parla Dante è appunto l'epiciclo e poiché per questa sua specifica rivoluzione Venere impiega  584 giorni, il tempo intercorso sarà stato di 1168 giorni, cioè di tre anni (di cui uno, il 1292, bisestile) e 72 giorni solari. Dante conosceva la durata del periodo di Venere dal <i>Liber aggregationum stellarum</i>, o più semplicemente del <i>Liber aggregationis</i>, composto dall' astronomo arabo Al-Farghani (Alfraganus) nel IX secolo, tradotto in latino nel XII prima da Giovanni Ispano (Johannes Hispalensis) e poi da Gerardo da Cremona. Si tratta di un testo di geografia astronomica che Dante utilizzerà ampiamente per tutto quanto riguarda le misure e le distanze sia astronomiche che specificamente terrestri (cfr. <i>Cv</i> II iii 10; III v 10; IV viii 7 e Toynbee, pp. 64-77).  La scelta, per la datazione, di Venere e del suo periodo è evidentemente collegata alla canzone che si rivolge appunto ai motori del ""bel pianeta che d'amar conforta"" (<i>Pg</i>  I 19).",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Liber_aggregationis,Liber aggregationis,Alfragano,http://dbpedia.org/resource/Ahmad_ibn_Muhammad_ibn_Kath%C4%ABr_al-Fargh%C4%81n%C4%AB,http://purl.org/bncf/tid/7996,WORK
TEMPO ALCUNO E NUDRIMENTO DI PENSIERI,"che l' amore, a differenza della <i>benivolentia</i>, non sia dato tutto in un attimo, ma necessiti di tempo per crescere e raggiungere la perfezione è dottrina sia di Aristotele (cfr. <i>Eth. Nic</i>. IX, 5, 1166 b 34-35 et amacio quidem cum consuetudine, benivolencia autem et ex repentino"". <i>Translatio Grosseteste. Textus purus</i>, ll. 9-10)  che di Tommaso nel suo Commento all' <i>Etica</i>  IX, <i>lectio</i> 5, n. 1823  ""Importat ... amatio ...quemdam vehementem  impetum animi. Non autem consuevit animus statim vehementer ad aliquid moveri, sed paulatim ad maius perducitur""). In essi non troviamo però traccia del ""nutrimento di pensieri"".","cfr. Eth. Nic. IX, 5, 1166 b 34-35 et amacio quidem cum consuetudine, benivolencia autem et ex repentino"". Translatio Grosseteste. Textus purus, ll. 9-10""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
TEMPO ALCUNO E NUDRIMENTO DI PENSIERI,"che l' amore, a differenza della <i>benivolentia</i>, non sia dato tutto in un attimo, ma necessiti di tempo per crescere e raggiungere la perfezione è dottrina sia di Aristotele (cfr. <i>Eth. Nic</i>. IX, 5, 1166 b 34-35 et amacio quidem cum consuetudine, benivolencia autem et ex repentino"". <i>Translatio Grosseteste. Textus purus</i>, ll. 9-10)  che di Tommaso nel suo Commento all' <i>Etica</i>  IX, <i>lectio</i> 5, n. 1823  ""Importat ... amatio ...quemdam vehementem  impetum animi. Non autem consuevit animus statim vehementer ad aliquid moveri, sed paulatim ad maius perducitur""). In essi non troviamo però traccia del ""nutrimento di pensieri"".","Commento all' Etica  IX, lectio 5, n. 1823  ""Importat ... amatio ...quemdam vehementem  impetum animi. Non autem consuevit animus statim vehementer ad aliquid moveri, sed paulatim ad maius perducitur""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
DALLA PARTE [DELLA VISTA],"nella metafora del castello assediato, la parte della vista è il davanti. L'integrazione dalla vista"" dopo ""dalla parte"" è sicuramente da preferire a quella  ""dalla memoria"" proposta dalla edizione Simonelli ed accettata da  <i>Inglese</i> nel suo Commento: non sembra infatti plausibile una memoria protesa sul ""dinanzi"". Anche nelle localizzazioni delle facoltà mentali trasmesse alla cultura latina dall'opera di Avicenna la memoria ""est in posteriore parte cerebri"", mentre l'immaginazione, su cui, insieme alla vista, si fonda la nascita di amore, ""est in fronte, in anteriore parte cerebri"" (cfr. Alberto Magno, <i>De memoria et reminiscentia</i> tr. 1, cap. 1,  p. 99). Già nella canzone <i>La dispietata mente</i> Dante aveva scritto ""<i>La dispietata mente</i> (=memoria), che pur mira / di retro al tempo che se n'è andato / da l'un de' lati mi combatte il core"". Più difficile il caso di ""comento quello che"" testo trasmesso da tutta tradizione manoscritta: per l'inaccettabile ""comento""  numerose sono state le proposte di correzione, da  'comente' (dialettale, per ""come"": come quello che, lezione accettata dal Commento <i>Inglese</i>) a 'com'era' (Simonelli) fino all'edizione Brambilla Ageno che suggerisce di leggere l'intera espressione come 'comendante quella'. Nessuna mi sembra soddisfacente in quanto tutte sembrano attribuire al pensiero nutrito dalla memoria l'atto di impedire ""a dare dietro il volto"" (di mantenersi cioè volti verso il passato ) che invece può essere opera solo del pensiero nutrito dalla vista. Accolgo dunque la proposta ""contro quello"" del Commento <i>Busnelli</i> che rende abbastanza coerente la metafora militare: il pensiero assediante riceveva continuamente rinforzi dalla vista (""lo soccorso dinanzi""), il pensiero assediato dalla memoria, ma il combattimento era impari perché il primo poteva ricevere rinforzi in maniera indefinita e in misura sempre maggiore; il secondo (""l'altro"") non poteva farlo proprio perché in lotta contro un avversario capace di impedirgli di volgere l'attenzione dal presente al passato.","tr. 1, cap. 1,  p. 99",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_memoria_et_reminiscentia(Alberto_Magno),De memoria et reminiscentia (Alberto Magno),Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
IN QUELLO DELLI ANIMALI,"calco dal latino 'in illo' (sottinteso: <i>libro</i>). Si rimanda qui  ad un celebre passo del <i>De partibus animalium</i> I, 5, 644 b 31-35 (nella trasmissione araba del <i>Corpus aristotelicum</i> e quindi nella traduzione latina di Michele Scoto i trattati della <i>Historia animalium</i>, del <i>De partibus animalium</i> e del <i>De generatione animalium</i>  erano stati  riuniti sotto un solo titolo, il <i>De animalibus</i>, appunto)  Hec quidem enim , etsi secundum modicum attingamus, tamen … delectabilius quam que apud nos omnia, quemadmodum et amatorum quamcumque et modicam particulam considerare delectabilius est quam multa alia et magna per certitudinem videre"". Il brano era già stato ampiamente utilizzato nella produzione filosofica e teologica del XIII secolo; per questo concorderei con Boyde nel ritenere che Dante lo citi di seconda mano, attraverso la parafrasi che Tommaso ne fa  nella <i>Summa contra Gentiles</i> I, cap. 5, n. 32:  ""Unde in XI de Animalibus dicit quod quamvis parum sit quod de substantiis superioribus percipimus, tamen illud modicum est magis amatum et desideratum omni cognitione quam de substantiis inferioribus habemus"" (Boyde 1984, p. 103, nota 35).","I, 5, 644 b 31-35",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_partibus_animalium,De animalibus (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
IN QUELLO DELLI ANIMALI,"calco dal latino 'in illo' (sottinteso: <i>libro</i>). Si rimanda qui  ad un celebre passo del <i>De partibus animalium</i> I, 5, 644 b 31-35 (nella trasmissione araba del <i>Corpus aristotelicum</i> e quindi nella traduzione latina di Michele Scoto i trattati della <i>Historia animalium</i>, del <i>De partibus animalium</i> e del <i>De generatione animalium</i>  erano stati  riuniti sotto un solo titolo, il <i>De animalibus</i>, appunto)  Hec quidem enim , etsi secundum modicum attingamus, tamen … delectabilius quam que apud nos omnia, quemadmodum et amatorum quamcumque et modicam particulam considerare delectabilius est quam multa alia et magna per certitudinem videre"". Il brano era già stato ampiamente utilizzato nella produzione filosofica e teologica del XIII secolo; per questo concorderei con Boyde nel ritenere che Dante lo citi di seconda mano, attraverso la parafrasi che Tommaso ne fa  nella <i>Summa contra Gentiles</i> I, cap. 5, n. 32:  ""Unde in XI de Animalibus dicit quod quamvis parum sit quod de substantiis superioribus percipimus, tamen illud modicum est magis amatum et desideratum omni cognitione quam de substantiis inferioribus habemus"" (Boyde 1984, p. 103, nota 35).","I, cap. 5, n. 32:  ""Unde in XI de Animalibus dicit quod quamvis parum sit quod de substantiis superioribus percipimus, tamen illud modicum est magis amatum et desideratum omni cognitione quam de substantiis inferioribus habemus""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_contra_Gentiles,Summa contra Gentiles,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
NEL SECONDO ... DE' LIBRI NATURALI,"il <i>De caelo</i> (che nella tradizione araba è intitolato <i>De caelo et mundo</i>) nella classificazione delle scienze naturali, e quindi dei libri corrispondenti, (i <i>Libri naturales</i>) era  appunto il secondo, dopo la <i>Fisica</i> in senso stretto e prima del De generatione.",,CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_caelo,De caelo,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SENTENZA COSÌ ERRONEA,"opinione errata'. Gli errori aristotelici segnalati da Dante non si trovano letteralmente nel testo citato. Ad essi fanno invece riferimento i commenti  di Averroè e di Alberto Magno, sottolineando come essi siano dipesi da quelli degli astronomi contemporanei dello Stagirita. Cfr. Averroè, <i>De caelo et mundo</i> II, c. 58, f. 137 F  Hoc significat, quod astrologi dixerunt in suo tempore, quod sol erat supra lunam et Venus et Mercurius supra solem""; Alberto Magno, <i>De caelo et mundo</i> II, tr. 3, cap. 11, p. 166, ll. 15-22 ""Et de numero quidem omnes antiqui usque ad tempora Ptolomaei consensisse videntur, quod spherae fuerint octo quarum superior sit sphaera stellarum fixarum et secunda Saturni, et tertia Iovis, et quarta Martis, quinta autem Veneris et sexta Mercurii, et septima solis et octava lunae"" (in questo caso i cieli sono numerati a partire dal più esterno)","II, c. 58, f. 137 F  Hoc significat, quod astrologi dixerunt in suo tempore, quod sol erat supra lunam et Venus et Mercurius supra solem""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_caelo_et_mundo(Averroè),De caelo et mundo,Averroè,http://dbpedia.org/resource/Averroes,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SENTENZA COSÌ ERRONEA,"opinione errata'. Gli errori aristotelici segnalati da Dante non si trovano letteralmente nel testo citato. Ad essi fanno invece riferimento i commenti  di Averroè e di Alberto Magno, sottolineando come essi siano dipesi da quelli degli astronomi contemporanei dello Stagirita. Cfr. Averroè, <i>De caelo et mundo</i> II, c. 58, f. 137 F  Hoc significat, quod astrologi dixerunt in suo tempore, quod sol erat supra lunam et Venus et Mercurius supra solem""; Alberto Magno, <i>De caelo et mundo</i> II, tr. 3, cap. 11, p. 166, ll. 15-22 ""Et de numero quidem omnes antiqui usque ad tempora Ptolomaei consensisse videntur, quod spherae fuerint octo quarum superior sit sphaera stellarum fixarum et secunda Saturni, et tertia Iovis, et quarta Martis, quinta autem Veneris et sexta Mercurii, et septima solis et octava lunae"" (in questo caso i cieli sono numerati a partire dal più esterno)","II, tr. 3, cap. 11, p. 166, ll. 15-22 ""Et de numero quidem omnes antiqui usque ad tempora Ptolomaei consensisse videntur, quod spherae fuerint octo quarum superior sit sphaera stellarum fixarum et secunda Saturni, et tertia Iovis, et quarta Martis, quinta autem Veneris et sexta Mercurii, et septima solis et octava lunae"" """,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_Coelo_et_Mundo(Alberto_Magno),De coelo et mundo,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
DOVE MOSTRA ... PARLARE,"'dove mostra chiaramente di essersi limitato a seguire il parere degli altri (cioè degli astronomi)  quando aveva avuto bisogno di parlare di astronomia'. Cfr. <i>Metaph</i>. XII 8, 1073 b 2-8 dove Aristotele si affida effettivamente all'astronomia per quanto riguarda la determinazione del numero dei movimenti celesti (e quindi dei cieli), affermando però che essi sono in numero assai maggiore dei corpi mossi, ed assegnando ad ogni astro un determinato numero di sfere che nel totale supera di molto quello di otto. Nella semplificazione operata da Dante (ed in genere dai non specialisti di astronomia) il sistema di sfere collegate ad ogni pianeta costituisce un'unità (il cielo di ...). Per una consapevolezza del problema vedi però il paragrafo 17 di questo capitolo. Che la verità venga in genere trovata solo dopo una storia di tentativi erronei, ma meritori, è dottrina di Aristotele (cfr. <i>Metaph</i>. II 1, 993 b 11-19) che qui viene applicata alle dottrine stesse dello Stagirita.",,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
TOLOMEO ... PUOSE,"la correzione apportata da Tolomeo ad Aristotele ha come punto di partenza una più accurata osservazione astronomica  per cui il cielo delle stelle fisse risulta soggetto ad altri movimenti oltre quello di rotazione diurna da oriente ad occidente (accorgendosi che l'ottava  spera si movea per più movimenti""). Dante non specifica qui quali siano questi movimenti limitandosi a notare che Tolomeo aveva visto come il cerchio descritto dall'ottava sfera non coincidesse perfettamente (""veggendo lo cerchio suo partire"") con quello di una rotazione diurna semplice (""dallo diritto cerchio che volge tutto da oriente ad occidente""). Si tratta di un movimento assai lento (un grado ogni cento anni) lungo l'eclittica, da occidente ad oriente (analogo quindi a quello dei pianeti), ipotizzato per spiegare il fenomeno della precessione degli equinozi (cfr. il Commento di Tommaso al <i>De caelo</i> II, <i>lectio</i> 17, n. 457 "" Est autem hic considerandum quod tempore Aristotelis nondum erat deprehensus motus stellarum fixarum, quas Ptolomaeus ponit  moveri ab occidente in orientem super polos Zodiaci quibuslibet centum annis gradu uno, ita quod tota revolutio earum compleatur in triginta sex millibus annorum"". Di esso Dante parlerà più esplicitamente in <i>Cv</i> II xiv 1). L'esistenza di questo ulteriore movimento fece ipotizzare da parte di Tolomeo l'esistenza di un altro cielo esterno (""fuori"") a quello delle stelle fisse (""lo Stellato""). Che il grande astronomo di età imperiale avesse corretto Aristotele per quanto riguarda il numero dei cieli era opinione sostenuta già da Averroè (cfr. <i>De caelo et mundo</i>  II, c. 67,  ed. cit,  f. 144 D) e condivisa da Alberto Magno (cfr. <i>De caelo et mundo</i>  II, tr.3, cap.2, pp. 166-167) ma i passi portati dai commenti di <i>Vasoli</i> e di <i>Ricklin</i> non presentano specifici riscontri testuali con le affermazioni del <i>Convivio</i>. In realtà Tolomeo, così come lo leggeva Alberto approvandone la soluzione, aggiungeva non uno, ma due cieli:  il primo che spiegasse il movimento delle stelle da occidente ad oriente, il secondo che spiegasse il loro volgersi diurno da oriente ad occidente.  Dante, che, come vedremo, interpreterà  il sistema di Tolomeo come un sistema fisico, attribuisce una motivazione filosofica alla correzione da lui apportata (""costretto dalli principi di filosofia""). In questo egli concorda di nuovo con Alberto: cfr. <i>De caelo et mundo</i>  II, tr. 3,  cap. 11, pp. 166-167 ""Ptolemaei autem sententia, secundum quod ego possum intelligere, est quod decem sint orbes caelorum, et ratio sua physica est, non mathematica. Supponit enim id quo probatum est in secundo Philosophiae primae Aristotelis, quod videlicet omne quod est in multis per rationem unam existens in illis est in aliquo priore illis quod est causa omnium illorum"". Ma la motivazione filosofica specifica presentata dal <i>Convivio</i>, che necessariamente il primo mobile deve essere semplicissimo (e quindi avere un solo movimento) è attribuita da Alberto non a Tolomeo, bensì ad Alpetragio, cioè all'astronomo andaluso Al-Bitruji, autore del <i>De motibus caelorum</i> (tradotto due volte in latino da Michele Scoto nel 1217 e da Kalonymus ibn David nel 1258).  Alpetragio, per altro, viene presentato come sostenitore dell'esistenza di nove sfere (Cfr. <i>De coelo et mundo</i>, loc. cit.). Con tutta probabilità Dante, che conosceva direttamente la parafrasi di Alberto (cfr. la nota a <i>Cv</i> II iii 6) ha contaminato i due testi e del resto anche Averroè aveva attribuito a Tolomeo l'aggiunta di un solo cielo a quelli aristotelici, il nono appunto. Come nota il Nardi (cfr. Nardi 1967, pp. 155-6) la necessità che il primo mobile, cioè il cielo ultimo che contiene tutti gli altri trasmettendo loro il moto diurno, sia semplicissimo è riconducibile in generale all'assioma neoplatonico che pone il semplice prima del complesso, l'uno prima del molteplice; ma se semplicissimo vuol dire qui dotato di un solo movimento si tratta di una esigenza propria anche della <i>Fisica</i> aristotelica: il movimento circolare del cielo mosso dal Motore primo deve essere  uniforme ed unico (cfr. <i>Phys</i>. VIII 10, 259 a 1 sgg .).","II, c. 67,  ed. cit,  f. 144 D",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_caelo_et_mundo(Averroè),De caelo et mundo,Averroè,http://dbpedia.org/resource/Averroes,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
TOLOMEO ... PUOSE,"la correzione apportata da Tolomeo ad Aristotele ha come punto di partenza una più accurata osservazione astronomica  per cui il cielo delle stelle fisse risulta soggetto ad altri movimenti oltre quello di rotazione diurna da oriente ad occidente (accorgendosi che l'ottava  spera si movea per più movimenti""). Dante non specifica qui quali siano questi movimenti limitandosi a notare che Tolomeo aveva visto come il cerchio descritto dall'ottava sfera non coincidesse perfettamente (""veggendo lo cerchio suo partire"") con quello di una rotazione diurna semplice (""dallo diritto cerchio che volge tutto da oriente ad occidente""). Si tratta di un movimento assai lento (un grado ogni cento anni) lungo l'eclittica, da occidente ad oriente (analogo quindi a quello dei pianeti), ipotizzato per spiegare il fenomeno della precessione degli equinozi (cfr. il Commento di Tommaso al <i>De caelo</i> II, <i>lectio</i> 17, n. 457 "" Est autem hic considerandum quod tempore Aristotelis nondum erat deprehensus motus stellarum fixarum, quas Ptolomaeus ponit  moveri ab occidente in orientem super polos Zodiaci quibuslibet centum annis gradu uno, ita quod tota revolutio earum compleatur in triginta sex millibus annorum"". Di esso Dante parlerà più esplicitamente in <i>Cv</i> II xiv 1). L'esistenza di questo ulteriore movimento fece ipotizzare da parte di Tolomeo l'esistenza di un altro cielo esterno (""fuori"") a quello delle stelle fisse (""lo Stellato""). Che il grande astronomo di età imperiale avesse corretto Aristotele per quanto riguarda il numero dei cieli era opinione sostenuta già da Averroè (cfr. <i>De caelo et mundo</i>  II, c. 67,  ed. cit,  f. 144 D) e condivisa da Alberto Magno (cfr. <i>De caelo et mundo</i>  II, tr.3, cap.2, pp. 166-167) ma i passi portati dai commenti di <i>Vasoli</i> e di <i>Ricklin</i> non presentano specifici riscontri testuali con le affermazioni del <i>Convivio</i>. In realtà Tolomeo, così come lo leggeva Alberto approvandone la soluzione, aggiungeva non uno, ma due cieli:  il primo che spiegasse il movimento delle stelle da occidente ad oriente, il secondo che spiegasse il loro volgersi diurno da oriente ad occidente.  Dante, che, come vedremo, interpreterà  il sistema di Tolomeo come un sistema fisico, attribuisce una motivazione filosofica alla correzione da lui apportata (""costretto dalli principi di filosofia""). In questo egli concorda di nuovo con Alberto: cfr. <i>De caelo et mundo</i>  II, tr. 3,  cap. 11, pp. 166-167 ""Ptolemaei autem sententia, secundum quod ego possum intelligere, est quod decem sint orbes caelorum, et ratio sua physica est, non mathematica. Supponit enim id quo probatum est in secundo Philosophiae primae Aristotelis, quod videlicet omne quod est in multis per rationem unam existens in illis est in aliquo priore illis quod est causa omnium illorum"". Ma la motivazione filosofica specifica presentata dal <i>Convivio</i>, che necessariamente il primo mobile deve essere semplicissimo (e quindi avere un solo movimento) è attribuita da Alberto non a Tolomeo, bensì ad Alpetragio, cioè all'astronomo andaluso Al-Bitruji, autore del <i>De motibus caelorum</i> (tradotto due volte in latino da Michele Scoto nel 1217 e da Kalonymus ibn David nel 1258).  Alpetragio, per altro, viene presentato come sostenitore dell'esistenza di nove sfere (Cfr. <i>De coelo et mundo</i>, loc. cit.). Con tutta probabilità Dante, che conosceva direttamente la parafrasi di Alberto (cfr. la nota a <i>Cv</i> II iii 6) ha contaminato i due testi e del resto anche Averroè aveva attribuito a Tolomeo l'aggiunta di un solo cielo a quelli aristotelici, il nono appunto. Come nota il Nardi (cfr. Nardi 1967, pp. 155-6) la necessità che il primo mobile, cioè il cielo ultimo che contiene tutti gli altri trasmettendo loro il moto diurno, sia semplicissimo è riconducibile in generale all'assioma neoplatonico che pone il semplice prima del complesso, l'uno prima del molteplice; ma se semplicissimo vuol dire qui dotato di un solo movimento si tratta di una esigenza propria anche della <i>Fisica</i> aristotelica: il movimento circolare del cielo mosso dal Motore primo deve essere  uniforme ed unico (cfr. <i>Phys</i>. VIII 10, 259 a 1 sgg .).","II, tr.3, cap.2, pp. 166-167",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_Coelo_et_Mundo(Alberto_Magno),De coelo et mundo,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
TOLOMEO ... PUOSE,"la correzione apportata da Tolomeo ad Aristotele ha come punto di partenza una più accurata osservazione astronomica  per cui il cielo delle stelle fisse risulta soggetto ad altri movimenti oltre quello di rotazione diurna da oriente ad occidente (accorgendosi che l'ottava  spera si movea per più movimenti""). Dante non specifica qui quali siano questi movimenti limitandosi a notare che Tolomeo aveva visto come il cerchio descritto dall'ottava sfera non coincidesse perfettamente (""veggendo lo cerchio suo partire"") con quello di una rotazione diurna semplice (""dallo diritto cerchio che volge tutto da oriente ad occidente""). Si tratta di un movimento assai lento (un grado ogni cento anni) lungo l'eclittica, da occidente ad oriente (analogo quindi a quello dei pianeti), ipotizzato per spiegare il fenomeno della precessione degli equinozi (cfr. il Commento di Tommaso al <i>De caelo</i> II, <i>lectio</i> 17, n. 457 "" Est autem hic considerandum quod tempore Aristotelis nondum erat deprehensus motus stellarum fixarum, quas Ptolomaeus ponit  moveri ab occidente in orientem super polos Zodiaci quibuslibet centum annis gradu uno, ita quod tota revolutio earum compleatur in triginta sex millibus annorum"". Di esso Dante parlerà più esplicitamente in <i>Cv</i> II xiv 1). L'esistenza di questo ulteriore movimento fece ipotizzare da parte di Tolomeo l'esistenza di un altro cielo esterno (""fuori"") a quello delle stelle fisse (""lo Stellato""). Che il grande astronomo di età imperiale avesse corretto Aristotele per quanto riguarda il numero dei cieli era opinione sostenuta già da Averroè (cfr. <i>De caelo et mundo</i>  II, c. 67,  ed. cit,  f. 144 D) e condivisa da Alberto Magno (cfr. <i>De caelo et mundo</i>  II, tr.3, cap.2, pp. 166-167) ma i passi portati dai commenti di <i>Vasoli</i> e di <i>Ricklin</i> non presentano specifici riscontri testuali con le affermazioni del <i>Convivio</i>. In realtà Tolomeo, così come lo leggeva Alberto approvandone la soluzione, aggiungeva non uno, ma due cieli:  il primo che spiegasse il movimento delle stelle da occidente ad oriente, il secondo che spiegasse il loro volgersi diurno da oriente ad occidente.  Dante, che, come vedremo, interpreterà  il sistema di Tolomeo come un sistema fisico, attribuisce una motivazione filosofica alla correzione da lui apportata (""costretto dalli principi di filosofia""). In questo egli concorda di nuovo con Alberto: cfr. <i>De caelo et mundo</i>  II, tr. 3,  cap. 11, pp. 166-167 ""Ptolemaei autem sententia, secundum quod ego possum intelligere, est quod decem sint orbes caelorum, et ratio sua physica est, non mathematica. Supponit enim id quo probatum est in secundo Philosophiae primae Aristotelis, quod videlicet omne quod est in multis per rationem unam existens in illis est in aliquo priore illis quod est causa omnium illorum"". Ma la motivazione filosofica specifica presentata dal <i>Convivio</i>, che necessariamente il primo mobile deve essere semplicissimo (e quindi avere un solo movimento) è attribuita da Alberto non a Tolomeo, bensì ad Alpetragio, cioè all'astronomo andaluso Al-Bitruji, autore del <i>De motibus caelorum</i> (tradotto due volte in latino da Michele Scoto nel 1217 e da Kalonymus ibn David nel 1258).  Alpetragio, per altro, viene presentato come sostenitore dell'esistenza di nove sfere (Cfr. <i>De coelo et mundo</i>, loc. cit.). Con tutta probabilità Dante, che conosceva direttamente la parafrasi di Alberto (cfr. la nota a <i>Cv</i> II iii 6) ha contaminato i due testi e del resto anche Averroè aveva attribuito a Tolomeo l'aggiunta di un solo cielo a quelli aristotelici, il nono appunto. Come nota il Nardi (cfr. Nardi 1967, pp. 155-6) la necessità che il primo mobile, cioè il cielo ultimo che contiene tutti gli altri trasmettendo loro il moto diurno, sia semplicissimo è riconducibile in generale all'assioma neoplatonico che pone il semplice prima del complesso, l'uno prima del molteplice; ma se semplicissimo vuol dire qui dotato di un solo movimento si tratta di una esigenza propria anche della <i>Fisica</i> aristotelica: il movimento circolare del cielo mosso dal Motore primo deve essere  uniforme ed unico (cfr. <i>Phys</i>. VIII 10, 259 a 1 sgg .).","II, lectio 17, n. 457 "" Est autem hic considerandum quod tempore Aristotelis nondum erat deprehensus motus stellarum fixarum, quas Ptolomaeus ponit  moveri ab occidente in orientem super polos Zodiaci quibuslibet centum annis gradu uno, ita quod tota revolutio earum compleatur in triginta sex millibus annorum""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/In_libros_Aristotelis_De_caelo_et_mundo_expositio(Tommaso),In libros Aristotelis De caelo et mundo expositio,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
TOLOMEO ... PUOSE,"la correzione apportata da Tolomeo ad Aristotele ha come punto di partenza una più accurata osservazione astronomica  per cui il cielo delle stelle fisse risulta soggetto ad altri movimenti oltre quello di rotazione diurna da oriente ad occidente (accorgendosi che l'ottava  spera si movea per più movimenti""). Dante non specifica qui quali siano questi movimenti limitandosi a notare che Tolomeo aveva visto come il cerchio descritto dall'ottava sfera non coincidesse perfettamente (""veggendo lo cerchio suo partire"") con quello di una rotazione diurna semplice (""dallo diritto cerchio che volge tutto da oriente ad occidente""). Si tratta di un movimento assai lento (un grado ogni cento anni) lungo l'eclittica, da occidente ad oriente (analogo quindi a quello dei pianeti), ipotizzato per spiegare il fenomeno della precessione degli equinozi (cfr. il Commento di Tommaso al <i>De caelo</i> II, <i>lectio</i> 17, n. 457 "" Est autem hic considerandum quod tempore Aristotelis nondum erat deprehensus motus stellarum fixarum, quas Ptolomaeus ponit  moveri ab occidente in orientem super polos Zodiaci quibuslibet centum annis gradu uno, ita quod tota revolutio earum compleatur in triginta sex millibus annorum"". Di esso Dante parlerà più esplicitamente in <i>Cv</i> II xiv 1). L'esistenza di questo ulteriore movimento fece ipotizzare da parte di Tolomeo l'esistenza di un altro cielo esterno (""fuori"") a quello delle stelle fisse (""lo Stellato""). Che il grande astronomo di età imperiale avesse corretto Aristotele per quanto riguarda il numero dei cieli era opinione sostenuta già da Averroè (cfr. <i>De caelo et mundo</i>  II, c. 67,  ed. cit,  f. 144 D) e condivisa da Alberto Magno (cfr. <i>De caelo et mundo</i>  II, tr.3, cap.2, pp. 166-167) ma i passi portati dai commenti di <i>Vasoli</i> e di <i>Ricklin</i> non presentano specifici riscontri testuali con le affermazioni del <i>Convivio</i>. In realtà Tolomeo, così come lo leggeva Alberto approvandone la soluzione, aggiungeva non uno, ma due cieli:  il primo che spiegasse il movimento delle stelle da occidente ad oriente, il secondo che spiegasse il loro volgersi diurno da oriente ad occidente.  Dante, che, come vedremo, interpreterà  il sistema di Tolomeo come un sistema fisico, attribuisce una motivazione filosofica alla correzione da lui apportata (""costretto dalli principi di filosofia""). In questo egli concorda di nuovo con Alberto: cfr. <i>De caelo et mundo</i>  II, tr. 3,  cap. 11, pp. 166-167 ""Ptolemaei autem sententia, secundum quod ego possum intelligere, est quod decem sint orbes caelorum, et ratio sua physica est, non mathematica. Supponit enim id quo probatum est in secundo Philosophiae primae Aristotelis, quod videlicet omne quod est in multis per rationem unam existens in illis est in aliquo priore illis quod est causa omnium illorum"". Ma la motivazione filosofica specifica presentata dal <i>Convivio</i>, che necessariamente il primo mobile deve essere semplicissimo (e quindi avere un solo movimento) è attribuita da Alberto non a Tolomeo, bensì ad Alpetragio, cioè all'astronomo andaluso Al-Bitruji, autore del <i>De motibus caelorum</i> (tradotto due volte in latino da Michele Scoto nel 1217 e da Kalonymus ibn David nel 1258).  Alpetragio, per altro, viene presentato come sostenitore dell'esistenza di nove sfere (Cfr. <i>De coelo et mundo</i>, loc. cit.). Con tutta probabilità Dante, che conosceva direttamente la parafrasi di Alberto (cfr. la nota a <i>Cv</i> II iii 6) ha contaminato i due testi e del resto anche Averroè aveva attribuito a Tolomeo l'aggiunta di un solo cielo a quelli aristotelici, il nono appunto. Come nota il Nardi (cfr. Nardi 1967, pp. 155-6) la necessità che il primo mobile, cioè il cielo ultimo che contiene tutti gli altri trasmettendo loro il moto diurno, sia semplicissimo è riconducibile in generale all'assioma neoplatonico che pone il semplice prima del complesso, l'uno prima del molteplice; ma se semplicissimo vuol dire qui dotato di un solo movimento si tratta di una esigenza propria anche della <i>Fisica</i> aristotelica: il movimento circolare del cielo mosso dal Motore primo deve essere  uniforme ed unico (cfr. <i>Phys</i>. VIII 10, 259 a 1 sgg .).","VIII 10, 259 a 1 sgg .",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
LO SITO ... RAGIONEVOLMENTE È VEDUTO,"la posizione reciproca (sito"") dei nove cieli,  numero  ora comunemente accettato (""secondo che si tiene"") dalla astronomia e dalla filosofia (in questo caso dalla filosofia naturale), è stata decisa in maniera chiara (""manifesto e diterminato"") e questo grazie alla scienza ottica (""perspettiva""), all'aritmetica (""arismetrica"") e alla geometria che lo hanno colto (""veduto"") sia attraverso l'osservazione sensibile, sia attraverso una dimostrazione razionale (l'endiadi ""sensibilmente e ragionevolmente"" anticipa in qualche modo le 'necessarie dimostrazioni' e le 'sensate esperienze' di Galileo. Ma già Alberto Magno, nella parafrasi della <i>Metafisica</i>  XI (= XII), tr. 2, cap.. 22,  p. 501, ll. 45-48  aveva scritto ""Astrologia ... tale motus ex tribus investigat, ex visu videlicet et ratione et instrumentis""). Il termine ""perspettiva"" è un calco del corrispondente latino <i>perspectiva</i> che a sua volta rende il greco <i>optiké</i>, la nostra ottica appunto. Già considerata da Aristotele come una scienza mista di matematica e di fisica, e quindi la più adatta a combinare esperienza e dimostrazione razionale (cfr. <i>An. Post</i>. I  7, 75 b 14-17;  <i>Phys</i>. II  2, 194 a 7-12) era stata sviluppata  da Tolomeo e nel mondo dell'Islam aveva registrato sostanziali progressi con trattati come il <i>De radiis</i> di Al-Kindi e il <i>De aspectibus</i> di Alhazen  (testi tutti tradotti in latino verso la fine del XII secolo). Nel XIII secolo autori latini come Witelo (uno scienziato polacco attivo in Italia presso la corte papale), e Giovanni Pecham (un francescano, prima maestro di teologia a Parigi e poi arcivescovo di Canterbury) avevano a loro volta composto trattati di <i>perspectiva</i> che esponevano una teoria dei raggi  visuali e in genere di quelli  luminosi  (leggi della riflessione e della rifrazione) su cui si basavano le misurazioni trigonometriche delle distanze degli astri dalla terra e fra loro. La ""perspettiva"" inoltre conteneva anche una teoria fisica della sensazione visiva, mutuata da Aristotele, ed una sua spiegazione in termini fisiologici derivata da Galeno. Sulle caratteristiche di questa scienza al tempo di Dante e sul diverso posto che i <i>perspectivisti</i> e gli aristotelici puri le assegnavano nel sistema del sapere vedi Gilson 2000.","XI (= XII), tr. 2, cap.. 22,  p. 501, ll. 45-48. ""Astrologia ... tale motus ex tribus investigat, ex visu videlicet et ratione et instrumentis""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Metaphysicorum(Alberto_Magno),Metaphysicorum,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
LO SITO ... RAGIONEVOLMENTE È VEDUTO,"la posizione reciproca (sito"") dei nove cieli,  numero  ora comunemente accettato (""secondo che si tiene"") dalla astronomia e dalla filosofia (in questo caso dalla filosofia naturale), è stata decisa in maniera chiara (""manifesto e diterminato"") e questo grazie alla scienza ottica (""perspettiva""), all'aritmetica (""arismetrica"") e alla geometria che lo hanno colto (""veduto"") sia attraverso l'osservazione sensibile, sia attraverso una dimostrazione razionale (l'endiadi ""sensibilmente e ragionevolmente"" anticipa in qualche modo le 'necessarie dimostrazioni' e le 'sensate esperienze' di Galileo. Ma già Alberto Magno, nella parafrasi della <i>Metafisica</i>  XI (= XII), tr. 2, cap.. 22,  p. 501, ll. 45-48  aveva scritto ""Astrologia ... tale motus ex tribus investigat, ex visu videlicet et ratione et instrumentis""). Il termine ""perspettiva"" è un calco del corrispondente latino <i>perspectiva</i> che a sua volta rende il greco <i>optiké</i>, la nostra ottica appunto. Già considerata da Aristotele come una scienza mista di matematica e di fisica, e quindi la più adatta a combinare esperienza e dimostrazione razionale (cfr. <i>An. Post</i>. I  7, 75 b 14-17;  <i>Phys</i>. II  2, 194 a 7-12) era stata sviluppata  da Tolomeo e nel mondo dell'Islam aveva registrato sostanziali progressi con trattati come il <i>De radiis</i> di Al-Kindi e il <i>De aspectibus</i> di Alhazen  (testi tutti tradotti in latino verso la fine del XII secolo). Nel XIII secolo autori latini come Witelo (uno scienziato polacco attivo in Italia presso la corte papale), e Giovanni Pecham (un francescano, prima maestro di teologia a Parigi e poi arcivescovo di Canterbury) avevano a loro volta composto trattati di <i>perspectiva</i> che esponevano una teoria dei raggi  visuali e in genere di quelli  luminosi  (leggi della riflessione e della rifrazione) su cui si basavano le misurazioni trigonometriche delle distanze degli astri dalla terra e fra loro. La ""perspettiva"" inoltre conteneva anche una teoria fisica della sensazione visiva, mutuata da Aristotele, ed una sua spiegazione in termini fisiologici derivata da Galeno. Sulle caratteristiche di questa scienza al tempo di Dante e sul diverso posto che i <i>perspectivisti</i> e gli aristotelici puri le assegnavano nel sistema del sapere vedi Gilson 2000.","II  2, 194 a 7-12",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
LO SITO ... RAGIONEVOLMENTE È VEDUTO,"la posizione reciproca (sito"") dei nove cieli,  numero  ora comunemente accettato (""secondo che si tiene"") dalla astronomia e dalla filosofia (in questo caso dalla filosofia naturale), è stata decisa in maniera chiara (""manifesto e diterminato"") e questo grazie alla scienza ottica (""perspettiva""), all'aritmetica (""arismetrica"") e alla geometria che lo hanno colto (""veduto"") sia attraverso l'osservazione sensibile, sia attraverso una dimostrazione razionale (l'endiadi ""sensibilmente e ragionevolmente"" anticipa in qualche modo le 'necessarie dimostrazioni' e le 'sensate esperienze' di Galileo. Ma già Alberto Magno, nella parafrasi della <i>Metafisica</i>  XI (= XII), tr. 2, cap.. 22,  p. 501, ll. 45-48  aveva scritto ""Astrologia ... tale motus ex tribus investigat, ex visu videlicet et ratione et instrumentis""). Il termine ""perspettiva"" è un calco del corrispondente latino <i>perspectiva</i> che a sua volta rende il greco <i>optiké</i>, la nostra ottica appunto. Già considerata da Aristotele come una scienza mista di matematica e di fisica, e quindi la più adatta a combinare esperienza e dimostrazione razionale (cfr. <i>An. Post</i>. I  7, 75 b 14-17;  <i>Phys</i>. II  2, 194 a 7-12) era stata sviluppata  da Tolomeo e nel mondo dell'Islam aveva registrato sostanziali progressi con trattati come il <i>De radiis</i> di Al-Kindi e il <i>De aspectibus</i> di Alhazen  (testi tutti tradotti in latino verso la fine del XII secolo). Nel XIII secolo autori latini come Witelo (uno scienziato polacco attivo in Italia presso la corte papale), e Giovanni Pecham (un francescano, prima maestro di teologia a Parigi e poi arcivescovo di Canterbury) avevano a loro volta composto trattati di <i>perspectiva</i> che esponevano una teoria dei raggi  visuali e in genere di quelli  luminosi  (leggi della riflessione e della rifrazione) su cui si basavano le misurazioni trigonometriche delle distanze degli astri dalla terra e fra loro. La ""perspettiva"" inoltre conteneva anche una teoria fisica della sensazione visiva, mutuata da Aristotele, ed una sua spiegazione in termini fisiologici derivata da Galeno. Sulle caratteristiche di questa scienza al tempo di Dante e sul diverso posto che i <i>perspectivisti</i> e gli aristotelici puri le assegnavano nel sistema del sapere vedi Gilson 2000.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Analytica_posteriora,Analytica posteriora,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PER ALTRE ESPERIENZE ... VERSO OCCIDENTE,"Dante fornisce due esempi di osservazioni del cielo che dimostrano come il cielo della luna sia inferiore sia a quello del sole che a quello di Marte. La seconda è riferita correttamente allo stesso Aristotele che ne parla appunto in <i>De caelo</i> II 12, 292 a 3-6. Ma il testo di Dante, che pure ha dei punti precisi di contatto con la traduzione latina del testo aristotelico  (lunam...vidimus... subintrantem ... astrum Martis"") presuppone la conoscenza del Commento di Alberto Magno seguito praticamente alla lettera per una parte non presente in Aristotele (cfr. <i>De caelo et mundo</i> II, tr. 3, cap. 13, p. 171, ll. 56-57  ""Et oriebatur Mars ex parte illuminati in luna versus occidentem"").","II 12, 292 a 3-6",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_caelo,De caelo,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PER ALTRE ESPERIENZE ... VERSO OCCIDENTE,"Dante fornisce due esempi di osservazioni del cielo che dimostrano come il cielo della luna sia inferiore sia a quello del sole che a quello di Marte. La seconda è riferita correttamente allo stesso Aristotele che ne parla appunto in <i>De caelo</i> II 12, 292 a 3-6. Ma il testo di Dante, che pure ha dei punti precisi di contatto con la traduzione latina del testo aristotelico  (lunam...vidimus... subintrantem ... astrum Martis"") presuppone la conoscenza del Commento di Alberto Magno seguito praticamente alla lettera per una parte non presente in Aristotele (cfr. <i>De caelo et mundo</i> II, tr. 3, cap. 13, p. 171, ll. 56-57  ""Et oriebatur Mars ex parte illuminati in luna versus occidentem"").","II, tr. 3, cap. 13, p. 171, ll. 56-57  ""Et oriebatur Mars ex parte illuminati in luna versus occidentem""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_Coelo_et_Mundo(Alberto_Magno),De coelo et mundo,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
QUELLO CHE NON È SENSIBILE,"il nono cielo, essendo insieme a tutti gli altri di materia trasparente come il cristallo, ma a differenza degli altri non recando infisso alcun astro non può essere percepito dal senso della vista. La sua esistenza è fondata sulla necessità di postulare un movimento perfettamente unico ed uniforme. Il diafano"", nella dottrina aristotelica della sensazione visiva, è la proprietà fondamentale di  un mezzo, come l'aria o l'acqua, che rimane invisibile fino a quando la luce  non l'abbia attuato attraverso un colore (cfr. <i>De an</i>.  II 7, 418 a 4-13).","II 7, 418 a 4-13",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PONGONO LO CIELO EMPIREO,"sostengono l'esistenza del cielo Empireo' (pongono"" è un calco del latino universitario 'ponunt'). Introducendo come decimo cielo l'Empireo Dante utilizza una cosmologia diversa e per alcuni aspetti anche opposta a quella aristotelica. Nel <i>De caelo</i> (II, 7) Aristotele aveva polemizzato contro chi sosteneva la natura ignea dei cieli: l' Empireo invece, come dice il suo nome (""che è a dire"": vale a dire), è fatto di fuoco. I cieli della cosmologia aristotelica sono tutti caratterizzati dal movimento: l'Empireo invece è immobile (""pongono esso essere immobile""). La natura e le proprietà che Dante assegna a questo cielo appartengono alla tradizione patristica: dalla presenza nel racconto genesiaco di due cieli, quello creato 'in principio' e quello prodotto solo il secondo giorno (il <i>firmamentum</i>), si era dedotta l'esistenza, al di sopra del cielo in cui erano stati posti i due ""luminari"" e le stelle, di un cielo superiore, invisibile ed immobile. Nell' Alto Medioevo  Beda il Venerabile aveva dato forma compiuta a questa esegesi (cfr. <i>Commento al Genesi</i>, p. 10) affermando che esso, fin dalla creazione, è stato la dimora di Dio (""E quieto e pacifico è lo luogo di quella somma Deitade"") e delle schiere angeliche (""Questo loco è di spiriti beati...""). Infine, la <i>Glossa ordinaria</i> (PL 113, p. 68) affermando che esso si dice ""Empyreus, id est igneus ... "" aveva precisato  che ciò ""non ab ardore sed a splendore dicitur"" (""che è a dire cielo di fiamma o vero luminoso""). Tutti gli autori del XII secolo, fino alle Sentenze di Pier Lombardo, avrebbero ripreso con minime variazioni una simile dottrina (Fioravanti 1998). Dante sembra consapevole che esistenza e caratteristiche dell'Empireo sono un dato di fede, non suscettibile di rigoroso accertamento razionale (""Veramente ... li cattolici pongono""). Era stata la posizione di teologi ""aristotelici"" come Alberto Magno e Tommaso. Il primo aveva detto che l'Empireo ""nec sensu nec ratione manifestatur"" e che quindi era rimasto ignoto ai filosofi (cfr. <i>Summa de creaturis</i> I <i>De quattuor coequaevis</i>  tr. III, q. 12, a. 3, p. 423); e il secondo aveva precisato che proprio per questo il decimo cielo  ""non naturali ratione, sed auctoritate est habitum"" (cfr. <i>In IIm Sententiarum</i>, dist. 2, q. 2, a. 1 <i>Utrum caelum empyreum sit corpus</i>, <i>respondeo</i>). L'autorità che supplisce alla mancanza di prove è per Dante quella della Chiesa: ""secondo che la Santa Chiesa vuole, che non può dire menzogna"". D'altra parte, però, egli non solo include questo decimo cielo nel suo sistema del mondo, ma cerca di spiegare il rapporto tra la sua quiete ed il moto velocissimo del Cristallino usando concetti aristotelici. L' Empireo infatti è ""quieto"" perché nel suo insieme e in ciascuna sua parte ha da sempre raggiunto ciò che la sua struttura desidera (""per avere in sé, secondo ciascuna parte, ciò che la sua materia vuole""), cioè Dio.  Avere Dio presente significa infatti la fine di ogni desiderio, e quindi di ogni movimento. Cfr. <i>Pd</i>  XXXIII 46-48  ""E io ch'al fine di tutt'i desii / appropinquava, sì com'io dovea, / l'ardor del desiderio in me finii"" (l'espressione ""la sua materia vuole"" è peraltro strana. Di un appetito della materia, e tanto meno della materia dei cieli, Dante non parla mai altrove. Potremmo congetturare, fin dall'archetipo, un errore di lettura: ""materia"" al posto di ""natura"". Si tratta di due parole che nei testi filosofici medievali sono spesso scambiate l'una per l'altra a motivo di una fortissima somiglianza nella grafia abbreviata). Questa spiegazione della immobilità dell'Empireo risale, come ha dimostrato il Nardi (Nardi 1944., pp. 67-68) a Michele Scoto e a Guglielmo d'Alvernia. Le parti del Cristallino (""il nono cielo"") che è contiguo all'Empireo senza intermediari (""immediato a quello"") desiderano a loro volta esser unite ad ognuna delle parti di ""quel divinissimo ciel quieto"", e a causa di questo ardente desiderio (""per lo ferventissimo appetito"") il nono cielo si muove circolarmente  (""si rivolve"") entro il decimo con una velocità quasi incalcolabile (""incomprensibile""). Il desiderio di perfezione è quindi la causa per cui il primo Mobile ha un movimento più veloce di ogni altro corpo (""è cagione al Primo Mobile per avere velocissimo movimento""). Già Aristotele, accennando brevemente ad un Principio Primo che non muove, come gli altri motori, mediante contatto, bensì attirando a sé come oggetto di desiderio (cfr. <i>Metaph</i>. XII  7, 1072 b 3-4) aveva implicitamente individuato in questo rapporto la causa del movimento eterno dei cieli ed  Averroè lo avevano affermato con chiarezza, il primo nella sua <i>Metafisica</i> (""cuius principium, scil. motus, est desiderium assimilandi bonitati ultimae ... secundum possibilitatem suam"" <i>Liber de philosophia prima sive scientia divina</i> IX, 2, vol. II, p. 459) il secondo nel suo Commento al cap. 7 di <i>Metaph</i>. XI (= XII ""Primum caelum movetur ab isto motore secundum desiderium ut assimiletur ei secundum suum posse, sicut amans movetur ut assimiletur suo amato, alia autem corpora caelestia moventur secundum desiderium ad motum primi corporis"" c.37, f. 320 H-I). Il movimento del primo cielo è dunque causato dal desiderio di raggiungere la perfezione e di assimilarsi alla quiete del Primo Principio, esattamente come per Dante è causato dal desiderio di assimilarsi alla quiete del cielo empireo (che, a sua volta, è immobile perché luogo-non luogo di Dio, Motore immobile). L'accenno dantesco alle 'parti' non è casuale: il movimento del cielo, infatti, non implica in senso stretto un mutamento di luogo: esso riguarda non il tutto, ma le parti che occupano  l'una il luogo dell'altra 'secundum successionem'. Infine il desiderio di armonizzare la cosmologia aristotelica con la 'fides catholica' risulta  dalla convinzione che anche lo Stagirita, se bene interpretato  (""a chi bene lo 'ntende""), affermerebbe che esiste un decimo cielo, luogo di Dio e degli angeli (""pare ciò sentire""). Dante, con tutta probabilità, ha in mente un passo del terzo capitolo del primo libro del <i>De caelo</i> (270 b 5-9) dove Aristotele porta a sostegno della sua teoria dell'immutabilità del cielo il fatto che  tutti coloro che credono negli Dei, sia Greci che Barbari, pongono la loro dimora nella parte superiore dell'universo (la traduzione dall'arabo di Gerardo da Cremona, assai lontana dalla lettera del testo greco, dava al passo una coloritura decisamente religiosa: ""Omnes enim homines conveniunt in hoc quod hoc corpus gloriosum primum est locus spirituum"". Cfr. Averroes, <i>In libros De caelo</i> <i>et mundo</i>, f. 16 I. Vedi anche la nota a <i>Cv</i> II iv 3)  I brani dove lo Stagirita utilizza le comuni credenze religiose o le teorie dei poeti teologi come anticipazione mitica e quindi in un qualche senso conferma delle sue tesi  sul divino (cfr. ad es.  <i>Metaph</i>.  XII  8, 1074 b 1-14 ) si erano già prestati ad una interpretazione 'in bonam partem' da parte di intellettuali (anche teologi) desiderosi di conciliare la propria fede con la filosofia.","II, 7",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_caelo,De caelo,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PONGONO LO CIELO EMPIREO,"sostengono l'esistenza del cielo Empireo' (pongono"" è un calco del latino universitario 'ponunt'). Introducendo come decimo cielo l'Empireo Dante utilizza una cosmologia diversa e per alcuni aspetti anche opposta a quella aristotelica. Nel <i>De caelo</i> (II, 7) Aristotele aveva polemizzato contro chi sosteneva la natura ignea dei cieli: l' Empireo invece, come dice il suo nome (""che è a dire"": vale a dire), è fatto di fuoco. I cieli della cosmologia aristotelica sono tutti caratterizzati dal movimento: l'Empireo invece è immobile (""pongono esso essere immobile""). La natura e le proprietà che Dante assegna a questo cielo appartengono alla tradizione patristica: dalla presenza nel racconto genesiaco di due cieli, quello creato 'in principio' e quello prodotto solo il secondo giorno (il <i>firmamentum</i>), si era dedotta l'esistenza, al di sopra del cielo in cui erano stati posti i due ""luminari"" e le stelle, di un cielo superiore, invisibile ed immobile. Nell' Alto Medioevo  Beda il Venerabile aveva dato forma compiuta a questa esegesi (cfr. <i>Commento al Genesi</i>, p. 10) affermando che esso, fin dalla creazione, è stato la dimora di Dio (""E quieto e pacifico è lo luogo di quella somma Deitade"") e delle schiere angeliche (""Questo loco è di spiriti beati...""). Infine, la <i>Glossa ordinaria</i> (PL 113, p. 68) affermando che esso si dice ""Empyreus, id est igneus ... "" aveva precisato  che ciò ""non ab ardore sed a splendore dicitur"" (""che è a dire cielo di fiamma o vero luminoso""). Tutti gli autori del XII secolo, fino alle Sentenze di Pier Lombardo, avrebbero ripreso con minime variazioni una simile dottrina (Fioravanti 1998). Dante sembra consapevole che esistenza e caratteristiche dell'Empireo sono un dato di fede, non suscettibile di rigoroso accertamento razionale (""Veramente ... li cattolici pongono""). Era stata la posizione di teologi ""aristotelici"" come Alberto Magno e Tommaso. Il primo aveva detto che l'Empireo ""nec sensu nec ratione manifestatur"" e che quindi era rimasto ignoto ai filosofi (cfr. <i>Summa de creaturis</i> I <i>De quattuor coequaevis</i>  tr. III, q. 12, a. 3, p. 423); e il secondo aveva precisato che proprio per questo il decimo cielo  ""non naturali ratione, sed auctoritate est habitum"" (cfr. <i>In IIm Sententiarum</i>, dist. 2, q. 2, a. 1 <i>Utrum caelum empyreum sit corpus</i>, <i>respondeo</i>). L'autorità che supplisce alla mancanza di prove è per Dante quella della Chiesa: ""secondo che la Santa Chiesa vuole, che non può dire menzogna"". D'altra parte, però, egli non solo include questo decimo cielo nel suo sistema del mondo, ma cerca di spiegare il rapporto tra la sua quiete ed il moto velocissimo del Cristallino usando concetti aristotelici. L' Empireo infatti è ""quieto"" perché nel suo insieme e in ciascuna sua parte ha da sempre raggiunto ciò che la sua struttura desidera (""per avere in sé, secondo ciascuna parte, ciò che la sua materia vuole""), cioè Dio.  Avere Dio presente significa infatti la fine di ogni desiderio, e quindi di ogni movimento. Cfr. <i>Pd</i>  XXXIII 46-48  ""E io ch'al fine di tutt'i desii / appropinquava, sì com'io dovea, / l'ardor del desiderio in me finii"" (l'espressione ""la sua materia vuole"" è peraltro strana. Di un appetito della materia, e tanto meno della materia dei cieli, Dante non parla mai altrove. Potremmo congetturare, fin dall'archetipo, un errore di lettura: ""materia"" al posto di ""natura"". Si tratta di due parole che nei testi filosofici medievali sono spesso scambiate l'una per l'altra a motivo di una fortissima somiglianza nella grafia abbreviata). Questa spiegazione della immobilità dell'Empireo risale, come ha dimostrato il Nardi (Nardi 1944., pp. 67-68) a Michele Scoto e a Guglielmo d'Alvernia. Le parti del Cristallino (""il nono cielo"") che è contiguo all'Empireo senza intermediari (""immediato a quello"") desiderano a loro volta esser unite ad ognuna delle parti di ""quel divinissimo ciel quieto"", e a causa di questo ardente desiderio (""per lo ferventissimo appetito"") il nono cielo si muove circolarmente  (""si rivolve"") entro il decimo con una velocità quasi incalcolabile (""incomprensibile""). Il desiderio di perfezione è quindi la causa per cui il primo Mobile ha un movimento più veloce di ogni altro corpo (""è cagione al Primo Mobile per avere velocissimo movimento""). Già Aristotele, accennando brevemente ad un Principio Primo che non muove, come gli altri motori, mediante contatto, bensì attirando a sé come oggetto di desiderio (cfr. <i>Metaph</i>. XII  7, 1072 b 3-4) aveva implicitamente individuato in questo rapporto la causa del movimento eterno dei cieli ed  Averroè lo avevano affermato con chiarezza, il primo nella sua <i>Metafisica</i> (""cuius principium, scil. motus, est desiderium assimilandi bonitati ultimae ... secundum possibilitatem suam"" <i>Liber de philosophia prima sive scientia divina</i> IX, 2, vol. II, p. 459) il secondo nel suo Commento al cap. 7 di <i>Metaph</i>. XI (= XII ""Primum caelum movetur ab isto motore secundum desiderium ut assimiletur ei secundum suum posse, sicut amans movetur ut assimiletur suo amato, alia autem corpora caelestia moventur secundum desiderium ad motum primi corporis"" c.37, f. 320 H-I). Il movimento del primo cielo è dunque causato dal desiderio di raggiungere la perfezione e di assimilarsi alla quiete del Primo Principio, esattamente come per Dante è causato dal desiderio di assimilarsi alla quiete del cielo empireo (che, a sua volta, è immobile perché luogo-non luogo di Dio, Motore immobile). L'accenno dantesco alle 'parti' non è casuale: il movimento del cielo, infatti, non implica in senso stretto un mutamento di luogo: esso riguarda non il tutto, ma le parti che occupano  l'una il luogo dell'altra 'secundum successionem'. Infine il desiderio di armonizzare la cosmologia aristotelica con la 'fides catholica' risulta  dalla convinzione che anche lo Stagirita, se bene interpretato  (""a chi bene lo 'ntende""), affermerebbe che esiste un decimo cielo, luogo di Dio e degli angeli (""pare ciò sentire""). Dante, con tutta probabilità, ha in mente un passo del terzo capitolo del primo libro del <i>De caelo</i> (270 b 5-9) dove Aristotele porta a sostegno della sua teoria dell'immutabilità del cielo il fatto che  tutti coloro che credono negli Dei, sia Greci che Barbari, pongono la loro dimora nella parte superiore dell'universo (la traduzione dall'arabo di Gerardo da Cremona, assai lontana dalla lettera del testo greco, dava al passo una coloritura decisamente religiosa: ""Omnes enim homines conveniunt in hoc quod hoc corpus gloriosum primum est locus spirituum"". Cfr. Averroes, <i>In libros De caelo</i> <i>et mundo</i>, f. 16 I. Vedi anche la nota a <i>Cv</i> II iv 3)  I brani dove lo Stagirita utilizza le comuni credenze religiose o le teorie dei poeti teologi come anticipazione mitica e quindi in un qualche senso conferma delle sue tesi  sul divino (cfr. ad es.  <i>Metaph</i>.  XII  8, 1074 b 1-14 ) si erano già prestati ad una interpretazione 'in bonam partem' da parte di intellettuali (anche teologi) desiderosi di conciliare la propria fede con la filosofia.","tr. III, q. 12, a. 3, p. 423",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Summa_de_creaturis,Summa de creaturis,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
PONGONO LO CIELO EMPIREO,"sostengono l'esistenza del cielo Empireo' (pongono"" è un calco del latino universitario 'ponunt'). Introducendo come decimo cielo l'Empireo Dante utilizza una cosmologia diversa e per alcuni aspetti anche opposta a quella aristotelica. Nel <i>De caelo</i> (II, 7) Aristotele aveva polemizzato contro chi sosteneva la natura ignea dei cieli: l' Empireo invece, come dice il suo nome (""che è a dire"": vale a dire), è fatto di fuoco. I cieli della cosmologia aristotelica sono tutti caratterizzati dal movimento: l'Empireo invece è immobile (""pongono esso essere immobile""). La natura e le proprietà che Dante assegna a questo cielo appartengono alla tradizione patristica: dalla presenza nel racconto genesiaco di due cieli, quello creato 'in principio' e quello prodotto solo il secondo giorno (il <i>firmamentum</i>), si era dedotta l'esistenza, al di sopra del cielo in cui erano stati posti i due ""luminari"" e le stelle, di un cielo superiore, invisibile ed immobile. Nell' Alto Medioevo  Beda il Venerabile aveva dato forma compiuta a questa esegesi (cfr. <i>Commento al Genesi</i>, p. 10) affermando che esso, fin dalla creazione, è stato la dimora di Dio (""E quieto e pacifico è lo luogo di quella somma Deitade"") e delle schiere angeliche (""Questo loco è di spiriti beati...""). Infine, la <i>Glossa ordinaria</i> (PL 113, p. 68) affermando che esso si dice ""Empyreus, id est igneus ... "" aveva precisato  che ciò ""non ab ardore sed a splendore dicitur"" (""che è a dire cielo di fiamma o vero luminoso""). Tutti gli autori del XII secolo, fino alle Sentenze di Pier Lombardo, avrebbero ripreso con minime variazioni una simile dottrina (Fioravanti 1998). Dante sembra consapevole che esistenza e caratteristiche dell'Empireo sono un dato di fede, non suscettibile di rigoroso accertamento razionale (""Veramente ... li cattolici pongono""). Era stata la posizione di teologi ""aristotelici"" come Alberto Magno e Tommaso. Il primo aveva detto che l'Empireo ""nec sensu nec ratione manifestatur"" e che quindi era rimasto ignoto ai filosofi (cfr. <i>Summa de creaturis</i> I <i>De quattuor coequaevis</i>  tr. III, q. 12, a. 3, p. 423); e il secondo aveva precisato che proprio per questo il decimo cielo  ""non naturali ratione, sed auctoritate est habitum"" (cfr. <i>In IIm Sententiarum</i>, dist. 2, q. 2, a. 1 <i>Utrum caelum empyreum sit corpus</i>, <i>respondeo</i>). L'autorità che supplisce alla mancanza di prove è per Dante quella della Chiesa: ""secondo che la Santa Chiesa vuole, che non può dire menzogna"". D'altra parte, però, egli non solo include questo decimo cielo nel suo sistema del mondo, ma cerca di spiegare il rapporto tra la sua quiete ed il moto velocissimo del Cristallino usando concetti aristotelici. L' Empireo infatti è ""quieto"" perché nel suo insieme e in ciascuna sua parte ha da sempre raggiunto ciò che la sua struttura desidera (""per avere in sé, secondo ciascuna parte, ciò che la sua materia vuole""), cioè Dio.  Avere Dio presente significa infatti la fine di ogni desiderio, e quindi di ogni movimento. Cfr. <i>Pd</i>  XXXIII 46-48  ""E io ch'al fine di tutt'i desii / appropinquava, sì com'io dovea, / l'ardor del desiderio in me finii"" (l'espressione ""la sua materia vuole"" è peraltro strana. Di un appetito della materia, e tanto meno della materia dei cieli, Dante non parla mai altrove. Potremmo congetturare, fin dall'archetipo, un errore di lettura: ""materia"" al posto di ""natura"". Si tratta di due parole che nei testi filosofici medievali sono spesso scambiate l'una per l'altra a motivo di una fortissima somiglianza nella grafia abbreviata). Questa spiegazione della immobilità dell'Empireo risale, come ha dimostrato il Nardi (Nardi 1944., pp. 67-68) a Michele Scoto e a Guglielmo d'Alvernia. Le parti del Cristallino (""il nono cielo"") che è contiguo all'Empireo senza intermediari (""immediato a quello"") desiderano a loro volta esser unite ad ognuna delle parti di ""quel divinissimo ciel quieto"", e a causa di questo ardente desiderio (""per lo ferventissimo appetito"") il nono cielo si muove circolarmente  (""si rivolve"") entro il decimo con una velocità quasi incalcolabile (""incomprensibile""). Il desiderio di perfezione è quindi la causa per cui il primo Mobile ha un movimento più veloce di ogni altro corpo (""è cagione al Primo Mobile per avere velocissimo movimento""). Già Aristotele, accennando brevemente ad un Principio Primo che non muove, come gli altri motori, mediante contatto, bensì attirando a sé come oggetto di desiderio (cfr. <i>Metaph</i>. XII  7, 1072 b 3-4) aveva implicitamente individuato in questo rapporto la causa del movimento eterno dei cieli ed  Averroè lo avevano affermato con chiarezza, il primo nella sua <i>Metafisica</i> (""cuius principium, scil. motus, est desiderium assimilandi bonitati ultimae ... secundum possibilitatem suam"" <i>Liber de philosophia prima sive scientia divina</i> IX, 2, vol. II, p. 459) il secondo nel suo Commento al cap. 7 di <i>Metaph</i>. XI (= XII ""Primum caelum movetur ab isto motore secundum desiderium ut assimiletur ei secundum suum posse, sicut amans movetur ut assimiletur suo amato, alia autem corpora caelestia moventur secundum desiderium ad motum primi corporis"" c.37, f. 320 H-I). Il movimento del primo cielo è dunque causato dal desiderio di raggiungere la perfezione e di assimilarsi alla quiete del Primo Principio, esattamente come per Dante è causato dal desiderio di assimilarsi alla quiete del cielo empireo (che, a sua volta, è immobile perché luogo-non luogo di Dio, Motore immobile). L'accenno dantesco alle 'parti' non è casuale: il movimento del cielo, infatti, non implica in senso stretto un mutamento di luogo: esso riguarda non il tutto, ma le parti che occupano  l'una il luogo dell'altra 'secundum successionem'. Infine il desiderio di armonizzare la cosmologia aristotelica con la 'fides catholica' risulta  dalla convinzione che anche lo Stagirita, se bene interpretato  (""a chi bene lo 'ntende""), affermerebbe che esiste un decimo cielo, luogo di Dio e degli angeli (""pare ciò sentire""). Dante, con tutta probabilità, ha in mente un passo del terzo capitolo del primo libro del <i>De caelo</i> (270 b 5-9) dove Aristotele porta a sostegno della sua teoria dell'immutabilità del cielo il fatto che  tutti coloro che credono negli Dei, sia Greci che Barbari, pongono la loro dimora nella parte superiore dell'universo (la traduzione dall'arabo di Gerardo da Cremona, assai lontana dalla lettera del testo greco, dava al passo una coloritura decisamente religiosa: ""Omnes enim homines conveniunt in hoc quod hoc corpus gloriosum primum est locus spirituum"". Cfr. Averroes, <i>In libros De caelo</i> <i>et mundo</i>, f. 16 I. Vedi anche la nota a <i>Cv</i> II iv 3)  I brani dove lo Stagirita utilizza le comuni credenze religiose o le teorie dei poeti teologi come anticipazione mitica e quindi in un qualche senso conferma delle sue tesi  sul divino (cfr. ad es.  <i>Metaph</i>.  XII  8, 1074 b 1-14 ) si erano già prestati ad una interpretazione 'in bonam partem' da parte di intellettuali (anche teologi) desiderosi di conciliare la propria fede con la filosofia.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Summa_de_quatuor_coequaevis_et_de_homine,Summa de quatuor coequaevis et de homine,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
PONGONO LO CIELO EMPIREO,"sostengono l'esistenza del cielo Empireo' (pongono"" è un calco del latino universitario 'ponunt'). Introducendo come decimo cielo l'Empireo Dante utilizza una cosmologia diversa e per alcuni aspetti anche opposta a quella aristotelica. Nel <i>De caelo</i> (II, 7) Aristotele aveva polemizzato contro chi sosteneva la natura ignea dei cieli: l' Empireo invece, come dice il suo nome (""che è a dire"": vale a dire), è fatto di fuoco. I cieli della cosmologia aristotelica sono tutti caratterizzati dal movimento: l'Empireo invece è immobile (""pongono esso essere immobile""). La natura e le proprietà che Dante assegna a questo cielo appartengono alla tradizione patristica: dalla presenza nel racconto genesiaco di due cieli, quello creato 'in principio' e quello prodotto solo il secondo giorno (il <i>firmamentum</i>), si era dedotta l'esistenza, al di sopra del cielo in cui erano stati posti i due ""luminari"" e le stelle, di un cielo superiore, invisibile ed immobile. Nell' Alto Medioevo  Beda il Venerabile aveva dato forma compiuta a questa esegesi (cfr. <i>Commento al Genesi</i>, p. 10) affermando che esso, fin dalla creazione, è stato la dimora di Dio (""E quieto e pacifico è lo luogo di quella somma Deitade"") e delle schiere angeliche (""Questo loco è di spiriti beati...""). Infine, la <i>Glossa ordinaria</i> (PL 113, p. 68) affermando che esso si dice ""Empyreus, id est igneus ... "" aveva precisato  che ciò ""non ab ardore sed a splendore dicitur"" (""che è a dire cielo di fiamma o vero luminoso""). Tutti gli autori del XII secolo, fino alle Sentenze di Pier Lombardo, avrebbero ripreso con minime variazioni una simile dottrina (Fioravanti 1998). Dante sembra consapevole che esistenza e caratteristiche dell'Empireo sono un dato di fede, non suscettibile di rigoroso accertamento razionale (""Veramente ... li cattolici pongono""). Era stata la posizione di teologi ""aristotelici"" come Alberto Magno e Tommaso. Il primo aveva detto che l'Empireo ""nec sensu nec ratione manifestatur"" e che quindi era rimasto ignoto ai filosofi (cfr. <i>Summa de creaturis</i> I <i>De quattuor coequaevis</i>  tr. III, q. 12, a. 3, p. 423); e il secondo aveva precisato che proprio per questo il decimo cielo  ""non naturali ratione, sed auctoritate est habitum"" (cfr. <i>In IIm Sententiarum</i>, dist. 2, q. 2, a. 1 <i>Utrum caelum empyreum sit corpus</i>, <i>respondeo</i>). L'autorità che supplisce alla mancanza di prove è per Dante quella della Chiesa: ""secondo che la Santa Chiesa vuole, che non può dire menzogna"". D'altra parte, però, egli non solo include questo decimo cielo nel suo sistema del mondo, ma cerca di spiegare il rapporto tra la sua quiete ed il moto velocissimo del Cristallino usando concetti aristotelici. L' Empireo infatti è ""quieto"" perché nel suo insieme e in ciascuna sua parte ha da sempre raggiunto ciò che la sua struttura desidera (""per avere in sé, secondo ciascuna parte, ciò che la sua materia vuole""), cioè Dio.  Avere Dio presente significa infatti la fine di ogni desiderio, e quindi di ogni movimento. Cfr. <i>Pd</i>  XXXIII 46-48  ""E io ch'al fine di tutt'i desii / appropinquava, sì com'io dovea, / l'ardor del desiderio in me finii"" (l'espressione ""la sua materia vuole"" è peraltro strana. Di un appetito della materia, e tanto meno della materia dei cieli, Dante non parla mai altrove. Potremmo congetturare, fin dall'archetipo, un errore di lettura: ""materia"" al posto di ""natura"". Si tratta di due parole che nei testi filosofici medievali sono spesso scambiate l'una per l'altra a motivo di una fortissima somiglianza nella grafia abbreviata). Questa spiegazione della immobilità dell'Empireo risale, come ha dimostrato il Nardi (Nardi 1944., pp. 67-68) a Michele Scoto e a Guglielmo d'Alvernia. Le parti del Cristallino (""il nono cielo"") che è contiguo all'Empireo senza intermediari (""immediato a quello"") desiderano a loro volta esser unite ad ognuna delle parti di ""quel divinissimo ciel quieto"", e a causa di questo ardente desiderio (""per lo ferventissimo appetito"") il nono cielo si muove circolarmente  (""si rivolve"") entro il decimo con una velocità quasi incalcolabile (""incomprensibile""). Il desiderio di perfezione è quindi la causa per cui il primo Mobile ha un movimento più veloce di ogni altro corpo (""è cagione al Primo Mobile per avere velocissimo movimento""). Già Aristotele, accennando brevemente ad un Principio Primo che non muove, come gli altri motori, mediante contatto, bensì attirando a sé come oggetto di desiderio (cfr. <i>Metaph</i>. XII  7, 1072 b 3-4) aveva implicitamente individuato in questo rapporto la causa del movimento eterno dei cieli ed  Averroè lo avevano affermato con chiarezza, il primo nella sua <i>Metafisica</i> (""cuius principium, scil. motus, est desiderium assimilandi bonitati ultimae ... secundum possibilitatem suam"" <i>Liber de philosophia prima sive scientia divina</i> IX, 2, vol. II, p. 459) il secondo nel suo Commento al cap. 7 di <i>Metaph</i>. XI (= XII ""Primum caelum movetur ab isto motore secundum desiderium ut assimiletur ei secundum suum posse, sicut amans movetur ut assimiletur suo amato, alia autem corpora caelestia moventur secundum desiderium ad motum primi corporis"" c.37, f. 320 H-I). Il movimento del primo cielo è dunque causato dal desiderio di raggiungere la perfezione e di assimilarsi alla quiete del Primo Principio, esattamente come per Dante è causato dal desiderio di assimilarsi alla quiete del cielo empireo (che, a sua volta, è immobile perché luogo-non luogo di Dio, Motore immobile). L'accenno dantesco alle 'parti' non è casuale: il movimento del cielo, infatti, non implica in senso stretto un mutamento di luogo: esso riguarda non il tutto, ma le parti che occupano  l'una il luogo dell'altra 'secundum successionem'. Infine il desiderio di armonizzare la cosmologia aristotelica con la 'fides catholica' risulta  dalla convinzione che anche lo Stagirita, se bene interpretato  (""a chi bene lo 'ntende""), affermerebbe che esiste un decimo cielo, luogo di Dio e degli angeli (""pare ciò sentire""). Dante, con tutta probabilità, ha in mente un passo del terzo capitolo del primo libro del <i>De caelo</i> (270 b 5-9) dove Aristotele porta a sostegno della sua teoria dell'immutabilità del cielo il fatto che  tutti coloro che credono negli Dei, sia Greci che Barbari, pongono la loro dimora nella parte superiore dell'universo (la traduzione dall'arabo di Gerardo da Cremona, assai lontana dalla lettera del testo greco, dava al passo una coloritura decisamente religiosa: ""Omnes enim homines conveniunt in hoc quod hoc corpus gloriosum primum est locus spirituum"". Cfr. Averroes, <i>In libros De caelo</i> <i>et mundo</i>, f. 16 I. Vedi anche la nota a <i>Cv</i> II iv 3)  I brani dove lo Stagirita utilizza le comuni credenze religiose o le teorie dei poeti teologi come anticipazione mitica e quindi in un qualche senso conferma delle sue tesi  sul divino (cfr. ad es.  <i>Metaph</i>.  XII  8, 1074 b 1-14 ) si erano già prestati ad una interpretazione 'in bonam partem' da parte di intellettuali (anche teologi) desiderosi di conciliare la propria fede con la filosofia.","dist. 2, q. 2, a. 1 Utrum caelum empyreum sit corpus, respondeo",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Scriptum_super_sententiis,Scriptum super Sententiis,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
PONGONO LO CIELO EMPIREO,"sostengono l'esistenza del cielo Empireo' (pongono"" è un calco del latino universitario 'ponunt'). Introducendo come decimo cielo l'Empireo Dante utilizza una cosmologia diversa e per alcuni aspetti anche opposta a quella aristotelica. Nel <i>De caelo</i> (II, 7) Aristotele aveva polemizzato contro chi sosteneva la natura ignea dei cieli: l' Empireo invece, come dice il suo nome (""che è a dire"": vale a dire), è fatto di fuoco. I cieli della cosmologia aristotelica sono tutti caratterizzati dal movimento: l'Empireo invece è immobile (""pongono esso essere immobile""). La natura e le proprietà che Dante assegna a questo cielo appartengono alla tradizione patristica: dalla presenza nel racconto genesiaco di due cieli, quello creato 'in principio' e quello prodotto solo il secondo giorno (il <i>firmamentum</i>), si era dedotta l'esistenza, al di sopra del cielo in cui erano stati posti i due ""luminari"" e le stelle, di un cielo superiore, invisibile ed immobile. Nell' Alto Medioevo  Beda il Venerabile aveva dato forma compiuta a questa esegesi (cfr. <i>Commento al Genesi</i>, p. 10) affermando che esso, fin dalla creazione, è stato la dimora di Dio (""E quieto e pacifico è lo luogo di quella somma Deitade"") e delle schiere angeliche (""Questo loco è di spiriti beati...""). Infine, la <i>Glossa ordinaria</i> (PL 113, p. 68) affermando che esso si dice ""Empyreus, id est igneus ... "" aveva precisato  che ciò ""non ab ardore sed a splendore dicitur"" (""che è a dire cielo di fiamma o vero luminoso""). Tutti gli autori del XII secolo, fino alle Sentenze di Pier Lombardo, avrebbero ripreso con minime variazioni una simile dottrina (Fioravanti 1998). Dante sembra consapevole che esistenza e caratteristiche dell'Empireo sono un dato di fede, non suscettibile di rigoroso accertamento razionale (""Veramente ... li cattolici pongono""). Era stata la posizione di teologi ""aristotelici"" come Alberto Magno e Tommaso. Il primo aveva detto che l'Empireo ""nec sensu nec ratione manifestatur"" e che quindi era rimasto ignoto ai filosofi (cfr. <i>Summa de creaturis</i> I <i>De quattuor coequaevis</i>  tr. III, q. 12, a. 3, p. 423); e il secondo aveva precisato che proprio per questo il decimo cielo  ""non naturali ratione, sed auctoritate est habitum"" (cfr. <i>In IIm Sententiarum</i>, dist. 2, q. 2, a. 1 <i>Utrum caelum empyreum sit corpus</i>, <i>respondeo</i>). L'autorità che supplisce alla mancanza di prove è per Dante quella della Chiesa: ""secondo che la Santa Chiesa vuole, che non può dire menzogna"". D'altra parte, però, egli non solo include questo decimo cielo nel suo sistema del mondo, ma cerca di spiegare il rapporto tra la sua quiete ed il moto velocissimo del Cristallino usando concetti aristotelici. L' Empireo infatti è ""quieto"" perché nel suo insieme e in ciascuna sua parte ha da sempre raggiunto ciò che la sua struttura desidera (""per avere in sé, secondo ciascuna parte, ciò che la sua materia vuole""), cioè Dio.  Avere Dio presente significa infatti la fine di ogni desiderio, e quindi di ogni movimento. Cfr. <i>Pd</i>  XXXIII 46-48  ""E io ch'al fine di tutt'i desii / appropinquava, sì com'io dovea, / l'ardor del desiderio in me finii"" (l'espressione ""la sua materia vuole"" è peraltro strana. Di un appetito della materia, e tanto meno della materia dei cieli, Dante non parla mai altrove. Potremmo congetturare, fin dall'archetipo, un errore di lettura: ""materia"" al posto di ""natura"". Si tratta di due parole che nei testi filosofici medievali sono spesso scambiate l'una per l'altra a motivo di una fortissima somiglianza nella grafia abbreviata). Questa spiegazione della immobilità dell'Empireo risale, come ha dimostrato il Nardi (Nardi 1944., pp. 67-68) a Michele Scoto e a Guglielmo d'Alvernia. Le parti del Cristallino (""il nono cielo"") che è contiguo all'Empireo senza intermediari (""immediato a quello"") desiderano a loro volta esser unite ad ognuna delle parti di ""quel divinissimo ciel quieto"", e a causa di questo ardente desiderio (""per lo ferventissimo appetito"") il nono cielo si muove circolarmente  (""si rivolve"") entro il decimo con una velocità quasi incalcolabile (""incomprensibile""). Il desiderio di perfezione è quindi la causa per cui il primo Mobile ha un movimento più veloce di ogni altro corpo (""è cagione al Primo Mobile per avere velocissimo movimento""). Già Aristotele, accennando brevemente ad un Principio Primo che non muove, come gli altri motori, mediante contatto, bensì attirando a sé come oggetto di desiderio (cfr. <i>Metaph</i>. XII  7, 1072 b 3-4) aveva implicitamente individuato in questo rapporto la causa del movimento eterno dei cieli ed  Averroè lo avevano affermato con chiarezza, il primo nella sua <i>Metafisica</i> (""cuius principium, scil. motus, est desiderium assimilandi bonitati ultimae ... secundum possibilitatem suam"" <i>Liber de philosophia prima sive scientia divina</i> IX, 2, vol. II, p. 459) il secondo nel suo Commento al cap. 7 di <i>Metaph</i>. XI (= XII ""Primum caelum movetur ab isto motore secundum desiderium ut assimiletur ei secundum suum posse, sicut amans movetur ut assimiletur suo amato, alia autem corpora caelestia moventur secundum desiderium ad motum primi corporis"" c.37, f. 320 H-I). Il movimento del primo cielo è dunque causato dal desiderio di raggiungere la perfezione e di assimilarsi alla quiete del Primo Principio, esattamente come per Dante è causato dal desiderio di assimilarsi alla quiete del cielo empireo (che, a sua volta, è immobile perché luogo-non luogo di Dio, Motore immobile). L'accenno dantesco alle 'parti' non è casuale: il movimento del cielo, infatti, non implica in senso stretto un mutamento di luogo: esso riguarda non il tutto, ma le parti che occupano  l'una il luogo dell'altra 'secundum successionem'. Infine il desiderio di armonizzare la cosmologia aristotelica con la 'fides catholica' risulta  dalla convinzione che anche lo Stagirita, se bene interpretato  (""a chi bene lo 'ntende""), affermerebbe che esiste un decimo cielo, luogo di Dio e degli angeli (""pare ciò sentire""). Dante, con tutta probabilità, ha in mente un passo del terzo capitolo del primo libro del <i>De caelo</i> (270 b 5-9) dove Aristotele porta a sostegno della sua teoria dell'immutabilità del cielo il fatto che  tutti coloro che credono negli Dei, sia Greci che Barbari, pongono la loro dimora nella parte superiore dell'universo (la traduzione dall'arabo di Gerardo da Cremona, assai lontana dalla lettera del testo greco, dava al passo una coloritura decisamente religiosa: ""Omnes enim homines conveniunt in hoc quod hoc corpus gloriosum primum est locus spirituum"". Cfr. Averroes, <i>In libros De caelo</i> <i>et mundo</i>, f. 16 I. Vedi anche la nota a <i>Cv</i> II iv 3)  I brani dove lo Stagirita utilizza le comuni credenze religiose o le teorie dei poeti teologi come anticipazione mitica e quindi in un qualche senso conferma delle sue tesi  sul divino (cfr. ad es.  <i>Metaph</i>.  XII  8, 1074 b 1-14 ) si erano già prestati ad una interpretazione 'in bonam partem' da parte di intellettuali (anche teologi) desiderosi di conciliare la propria fede con la filosofia.","XII  8, 1074 b 1-14",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PONGONO LO CIELO EMPIREO,"sostengono l'esistenza del cielo Empireo' (pongono"" è un calco del latino universitario 'ponunt'). Introducendo come decimo cielo l'Empireo Dante utilizza una cosmologia diversa e per alcuni aspetti anche opposta a quella aristotelica. Nel <i>De caelo</i> (II, 7) Aristotele aveva polemizzato contro chi sosteneva la natura ignea dei cieli: l' Empireo invece, come dice il suo nome (""che è a dire"": vale a dire), è fatto di fuoco. I cieli della cosmologia aristotelica sono tutti caratterizzati dal movimento: l'Empireo invece è immobile (""pongono esso essere immobile""). La natura e le proprietà che Dante assegna a questo cielo appartengono alla tradizione patristica: dalla presenza nel racconto genesiaco di due cieli, quello creato 'in principio' e quello prodotto solo il secondo giorno (il <i>firmamentum</i>), si era dedotta l'esistenza, al di sopra del cielo in cui erano stati posti i due ""luminari"" e le stelle, di un cielo superiore, invisibile ed immobile. Nell' Alto Medioevo  Beda il Venerabile aveva dato forma compiuta a questa esegesi (cfr. <i>Commento al Genesi</i>, p. 10) affermando che esso, fin dalla creazione, è stato la dimora di Dio (""E quieto e pacifico è lo luogo di quella somma Deitade"") e delle schiere angeliche (""Questo loco è di spiriti beati...""). Infine, la <i>Glossa ordinaria</i> (PL 113, p. 68) affermando che esso si dice ""Empyreus, id est igneus ... "" aveva precisato  che ciò ""non ab ardore sed a splendore dicitur"" (""che è a dire cielo di fiamma o vero luminoso""). Tutti gli autori del XII secolo, fino alle Sentenze di Pier Lombardo, avrebbero ripreso con minime variazioni una simile dottrina (Fioravanti 1998). Dante sembra consapevole che esistenza e caratteristiche dell'Empireo sono un dato di fede, non suscettibile di rigoroso accertamento razionale (""Veramente ... li cattolici pongono""). Era stata la posizione di teologi ""aristotelici"" come Alberto Magno e Tommaso. Il primo aveva detto che l'Empireo ""nec sensu nec ratione manifestatur"" e che quindi era rimasto ignoto ai filosofi (cfr. <i>Summa de creaturis</i> I <i>De quattuor coequaevis</i>  tr. III, q. 12, a. 3, p. 423); e il secondo aveva precisato che proprio per questo il decimo cielo  ""non naturali ratione, sed auctoritate est habitum"" (cfr. <i>In IIm Sententiarum</i>, dist. 2, q. 2, a. 1 <i>Utrum caelum empyreum sit corpus</i>, <i>respondeo</i>). L'autorità che supplisce alla mancanza di prove è per Dante quella della Chiesa: ""secondo che la Santa Chiesa vuole, che non può dire menzogna"". D'altra parte, però, egli non solo include questo decimo cielo nel suo sistema del mondo, ma cerca di spiegare il rapporto tra la sua quiete ed il moto velocissimo del Cristallino usando concetti aristotelici. L' Empireo infatti è ""quieto"" perché nel suo insieme e in ciascuna sua parte ha da sempre raggiunto ciò che la sua struttura desidera (""per avere in sé, secondo ciascuna parte, ciò che la sua materia vuole""), cioè Dio.  Avere Dio presente significa infatti la fine di ogni desiderio, e quindi di ogni movimento. Cfr. <i>Pd</i>  XXXIII 46-48  ""E io ch'al fine di tutt'i desii / appropinquava, sì com'io dovea, / l'ardor del desiderio in me finii"" (l'espressione ""la sua materia vuole"" è peraltro strana. Di un appetito della materia, e tanto meno della materia dei cieli, Dante non parla mai altrove. Potremmo congetturare, fin dall'archetipo, un errore di lettura: ""materia"" al posto di ""natura"". Si tratta di due parole che nei testi filosofici medievali sono spesso scambiate l'una per l'altra a motivo di una fortissima somiglianza nella grafia abbreviata). Questa spiegazione della immobilità dell'Empireo risale, come ha dimostrato il Nardi (Nardi 1944., pp. 67-68) a Michele Scoto e a Guglielmo d'Alvernia. Le parti del Cristallino (""il nono cielo"") che è contiguo all'Empireo senza intermediari (""immediato a quello"") desiderano a loro volta esser unite ad ognuna delle parti di ""quel divinissimo ciel quieto"", e a causa di questo ardente desiderio (""per lo ferventissimo appetito"") il nono cielo si muove circolarmente  (""si rivolve"") entro il decimo con una velocità quasi incalcolabile (""incomprensibile""). Il desiderio di perfezione è quindi la causa per cui il primo Mobile ha un movimento più veloce di ogni altro corpo (""è cagione al Primo Mobile per avere velocissimo movimento""). Già Aristotele, accennando brevemente ad un Principio Primo che non muove, come gli altri motori, mediante contatto, bensì attirando a sé come oggetto di desiderio (cfr. <i>Metaph</i>. XII  7, 1072 b 3-4) aveva implicitamente individuato in questo rapporto la causa del movimento eterno dei cieli ed  Averroè lo avevano affermato con chiarezza, il primo nella sua <i>Metafisica</i> (""cuius principium, scil. motus, est desiderium assimilandi bonitati ultimae ... secundum possibilitatem suam"" <i>Liber de philosophia prima sive scientia divina</i> IX, 2, vol. II, p. 459) il secondo nel suo Commento al cap. 7 di <i>Metaph</i>. XI (= XII ""Primum caelum movetur ab isto motore secundum desiderium ut assimiletur ei secundum suum posse, sicut amans movetur ut assimiletur suo amato, alia autem corpora caelestia moventur secundum desiderium ad motum primi corporis"" c.37, f. 320 H-I). Il movimento del primo cielo è dunque causato dal desiderio di raggiungere la perfezione e di assimilarsi alla quiete del Primo Principio, esattamente come per Dante è causato dal desiderio di assimilarsi alla quiete del cielo empireo (che, a sua volta, è immobile perché luogo-non luogo di Dio, Motore immobile). L'accenno dantesco alle 'parti' non è casuale: il movimento del cielo, infatti, non implica in senso stretto un mutamento di luogo: esso riguarda non il tutto, ma le parti che occupano  l'una il luogo dell'altra 'secundum successionem'. Infine il desiderio di armonizzare la cosmologia aristotelica con la 'fides catholica' risulta  dalla convinzione che anche lo Stagirita, se bene interpretato  (""a chi bene lo 'ntende""), affermerebbe che esiste un decimo cielo, luogo di Dio e degli angeli (""pare ciò sentire""). Dante, con tutta probabilità, ha in mente un passo del terzo capitolo del primo libro del <i>De caelo</i> (270 b 5-9) dove Aristotele porta a sostegno della sua teoria dell'immutabilità del cielo il fatto che  tutti coloro che credono negli Dei, sia Greci che Barbari, pongono la loro dimora nella parte superiore dell'universo (la traduzione dall'arabo di Gerardo da Cremona, assai lontana dalla lettera del testo greco, dava al passo una coloritura decisamente religiosa: ""Omnes enim homines conveniunt in hoc quod hoc corpus gloriosum primum est locus spirituum"". Cfr. Averroes, <i>In libros De caelo</i> <i>et mundo</i>, f. 16 I. Vedi anche la nota a <i>Cv</i> II iv 3)  I brani dove lo Stagirita utilizza le comuni credenze religiose o le teorie dei poeti teologi come anticipazione mitica e quindi in un qualche senso conferma delle sue tesi  sul divino (cfr. ad es.  <i>Metaph</i>.  XII  8, 1074 b 1-14 ) si erano già prestati ad una interpretazione 'in bonam partem' da parte di intellettuali (anche teologi) desiderosi di conciliare la propria fede con la filosofia.","Metaph. XI (= XII ""Primum caelum movetur ab isto motore secundum desiderium ut assimiletur ei secundum suum posse, sicut amans movetur ut assimiletur suo amato, alia autem corpora caelestia moventur secundum desiderium ad motum primi corporis"" c.37, f. 320 H-I)""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commento_alla_Metafisica(Averroè),Commento alla Metafisica,Averroè,http://dbpedia.org/resource/Averroes,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PONGONO LO CIELO EMPIREO,"sostengono l'esistenza del cielo Empireo' (pongono"" è un calco del latino universitario 'ponunt'). Introducendo come decimo cielo l'Empireo Dante utilizza una cosmologia diversa e per alcuni aspetti anche opposta a quella aristotelica. Nel <i>De caelo</i> (II, 7) Aristotele aveva polemizzato contro chi sosteneva la natura ignea dei cieli: l' Empireo invece, come dice il suo nome (""che è a dire"": vale a dire), è fatto di fuoco. I cieli della cosmologia aristotelica sono tutti caratterizzati dal movimento: l'Empireo invece è immobile (""pongono esso essere immobile""). La natura e le proprietà che Dante assegna a questo cielo appartengono alla tradizione patristica: dalla presenza nel racconto genesiaco di due cieli, quello creato 'in principio' e quello prodotto solo il secondo giorno (il <i>firmamentum</i>), si era dedotta l'esistenza, al di sopra del cielo in cui erano stati posti i due ""luminari"" e le stelle, di un cielo superiore, invisibile ed immobile. Nell' Alto Medioevo  Beda il Venerabile aveva dato forma compiuta a questa esegesi (cfr. <i>Commento al Genesi</i>, p. 10) affermando che esso, fin dalla creazione, è stato la dimora di Dio (""E quieto e pacifico è lo luogo di quella somma Deitade"") e delle schiere angeliche (""Questo loco è di spiriti beati...""). Infine, la <i>Glossa ordinaria</i> (PL 113, p. 68) affermando che esso si dice ""Empyreus, id est igneus ... "" aveva precisato  che ciò ""non ab ardore sed a splendore dicitur"" (""che è a dire cielo di fiamma o vero luminoso""). Tutti gli autori del XII secolo, fino alle Sentenze di Pier Lombardo, avrebbero ripreso con minime variazioni una simile dottrina (Fioravanti 1998). Dante sembra consapevole che esistenza e caratteristiche dell'Empireo sono un dato di fede, non suscettibile di rigoroso accertamento razionale (""Veramente ... li cattolici pongono""). Era stata la posizione di teologi ""aristotelici"" come Alberto Magno e Tommaso. Il primo aveva detto che l'Empireo ""nec sensu nec ratione manifestatur"" e che quindi era rimasto ignoto ai filosofi (cfr. <i>Summa de creaturis</i> I <i>De quattuor coequaevis</i>  tr. III, q. 12, a. 3, p. 423); e il secondo aveva precisato che proprio per questo il decimo cielo  ""non naturali ratione, sed auctoritate est habitum"" (cfr. <i>In IIm Sententiarum</i>, dist. 2, q. 2, a. 1 <i>Utrum caelum empyreum sit corpus</i>, <i>respondeo</i>). L'autorità che supplisce alla mancanza di prove è per Dante quella della Chiesa: ""secondo che la Santa Chiesa vuole, che non può dire menzogna"". D'altra parte, però, egli non solo include questo decimo cielo nel suo sistema del mondo, ma cerca di spiegare il rapporto tra la sua quiete ed il moto velocissimo del Cristallino usando concetti aristotelici. L' Empireo infatti è ""quieto"" perché nel suo insieme e in ciascuna sua parte ha da sempre raggiunto ciò che la sua struttura desidera (""per avere in sé, secondo ciascuna parte, ciò che la sua materia vuole""), cioè Dio.  Avere Dio presente significa infatti la fine di ogni desiderio, e quindi di ogni movimento. Cfr. <i>Pd</i>  XXXIII 46-48  ""E io ch'al fine di tutt'i desii / appropinquava, sì com'io dovea, / l'ardor del desiderio in me finii"" (l'espressione ""la sua materia vuole"" è peraltro strana. Di un appetito della materia, e tanto meno della materia dei cieli, Dante non parla mai altrove. Potremmo congetturare, fin dall'archetipo, un errore di lettura: ""materia"" al posto di ""natura"". Si tratta di due parole che nei testi filosofici medievali sono spesso scambiate l'una per l'altra a motivo di una fortissima somiglianza nella grafia abbreviata). Questa spiegazione della immobilità dell'Empireo risale, come ha dimostrato il Nardi (Nardi 1944., pp. 67-68) a Michele Scoto e a Guglielmo d'Alvernia. Le parti del Cristallino (""il nono cielo"") che è contiguo all'Empireo senza intermediari (""immediato a quello"") desiderano a loro volta esser unite ad ognuna delle parti di ""quel divinissimo ciel quieto"", e a causa di questo ardente desiderio (""per lo ferventissimo appetito"") il nono cielo si muove circolarmente  (""si rivolve"") entro il decimo con una velocità quasi incalcolabile (""incomprensibile""). Il desiderio di perfezione è quindi la causa per cui il primo Mobile ha un movimento più veloce di ogni altro corpo (""è cagione al Primo Mobile per avere velocissimo movimento""). Già Aristotele, accennando brevemente ad un Principio Primo che non muove, come gli altri motori, mediante contatto, bensì attirando a sé come oggetto di desiderio (cfr. <i>Metaph</i>. XII  7, 1072 b 3-4) aveva implicitamente individuato in questo rapporto la causa del movimento eterno dei cieli ed  Averroè lo avevano affermato con chiarezza, il primo nella sua <i>Metafisica</i> (""cuius principium, scil. motus, est desiderium assimilandi bonitati ultimae ... secundum possibilitatem suam"" <i>Liber de philosophia prima sive scientia divina</i> IX, 2, vol. II, p. 459) il secondo nel suo Commento al cap. 7 di <i>Metaph</i>. XI (= XII ""Primum caelum movetur ab isto motore secundum desiderium ut assimiletur ei secundum suum posse, sicut amans movetur ut assimiletur suo amato, alia autem corpora caelestia moventur secundum desiderium ad motum primi corporis"" c.37, f. 320 H-I). Il movimento del primo cielo è dunque causato dal desiderio di raggiungere la perfezione e di assimilarsi alla quiete del Primo Principio, esattamente come per Dante è causato dal desiderio di assimilarsi alla quiete del cielo empireo (che, a sua volta, è immobile perché luogo-non luogo di Dio, Motore immobile). L'accenno dantesco alle 'parti' non è casuale: il movimento del cielo, infatti, non implica in senso stretto un mutamento di luogo: esso riguarda non il tutto, ma le parti che occupano  l'una il luogo dell'altra 'secundum successionem'. Infine il desiderio di armonizzare la cosmologia aristotelica con la 'fides catholica' risulta  dalla convinzione che anche lo Stagirita, se bene interpretato  (""a chi bene lo 'ntende""), affermerebbe che esiste un decimo cielo, luogo di Dio e degli angeli (""pare ciò sentire""). Dante, con tutta probabilità, ha in mente un passo del terzo capitolo del primo libro del <i>De caelo</i> (270 b 5-9) dove Aristotele porta a sostegno della sua teoria dell'immutabilità del cielo il fatto che  tutti coloro che credono negli Dei, sia Greci che Barbari, pongono la loro dimora nella parte superiore dell'universo (la traduzione dall'arabo di Gerardo da Cremona, assai lontana dalla lettera del testo greco, dava al passo una coloritura decisamente religiosa: ""Omnes enim homines conveniunt in hoc quod hoc corpus gloriosum primum est locus spirituum"". Cfr. Averroes, <i>In libros De caelo</i> <i>et mundo</i>, f. 16 I. Vedi anche la nota a <i>Cv</i> II iv 3)  I brani dove lo Stagirita utilizza le comuni credenze religiose o le teorie dei poeti teologi come anticipazione mitica e quindi in un qualche senso conferma delle sue tesi  sul divino (cfr. ad es.  <i>Metaph</i>.  XII  8, 1074 b 1-14 ) si erano già prestati ad una interpretazione 'in bonam partem' da parte di intellettuali (anche teologi) desiderosi di conciliare la propria fede con la filosofia.","Commento al Genesi, p. 10",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commento_alla_Genesi,Commento alla Genesi,Beda il Venerabile,http://dbpedia.org/resource/Bede,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/esegesi_biblica_vecchio_testamento,WORK
ED ESSO NON È IN LUOGO,"secondo la definizione aristotelica luogo è ciò che contiene un corpo o più precisamente il limite di un corpo che ne contiene un altro (cfr. <i>Phys</i>. IV 4, 212 a 3-7). L'Empireo, dunque, essendo il limite ultimo, è il luogo dell'universo, ma non è esso stesso in un luogo","IV 4, 212 a 3-7",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
FORMATO FU SOLO ...,"la non localizzazione dell'Empireo sembra qui anticipare la negazione di ogni sua fisicità: come <i>Pd</i>  XXVII 109-110  (e questo cielo non ha altro dove / che la mente divina"") esso è visto come una produzione esclusivamente mentale, di una prima mente divina (nel grandioso dizionario medievale, le <i>Derivationes Magnae</i> di Uguccione da Pisa, Dante poteva leggere ""noys , id est mens, et componitur cum protos, quod est primum, et dicitur hec protonoe-es, quasi protonoe, id est prima nois, id est mens divina"" s.v. <i>Noys</i>, N 61, 1, p. 849). Cfr.","noys , id est mens, et componitur cum protos, quod est primum, et dicitur hec protonoe-es, quasi protonoe, id est prima nois, id est mens divina s.v. Noys, N 61, 1, p. 849",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Derivationes_Magnae,Derivationes Magnae,Uguccione da Pisa,http://dbpedia.org/resource/Huguccio,http://purl.org/bncf/tid/9228,WORK
QUESTA È QUELLA MAGNIFICENZA ...,"se la dizione questa magnificenza""  viene riferita alla Mente divina, come vorrebbe un approccio strettamente grammaticale, la citazione del <i>Salmo</i> 8, 2 (""elevata est magnificentia tua super caelos"") sottolineerebbe la trascendenza divina rispetto anche all'Empireo, e in questo senso il versetto era stato utilizzato da Tommaso d'Aquino (<i>Summa Theologiae</i> III, q. 57, a. 4). Ma Dante aveva poco prima definito il decimo cielo proprio come il ""luogo della somma Deitade"". Dunque, da un punto di vista logico, sembrerebbe possibile riferire l'espressione all' Empireo stesso, che è l'oggetto reale del discorso, e vedere l'uso del <i>Salmo</i> come inteso a sottolineare la sua incommensurabilità con gli altri cieli. Non sono dunque completamente d'accordo con quegli studiosi che vedono, all'altezza del <i>Convivio</i>, una concezione dell'Empireo come cielo materiale, superata di colpo nella <i>Commedia</i>  (vedi Nardi 1967 e ultimamente Ottaviani 2004, pp. 50 sgg.)","Salmo 8, 2",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Psalms,Salmi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
QUESTA È QUELLA MAGNIFICENZA ...,"se la dizione questa magnificenza""  viene riferita alla Mente divina, come vorrebbe un approccio strettamente grammaticale, la citazione del <i>Salmo</i> 8, 2 (""elevata est magnificentia tua super caelos"") sottolineerebbe la trascendenza divina rispetto anche all'Empireo, e in questo senso il versetto era stato utilizzato da Tommaso d'Aquino (<i>Summa Theologiae</i> III, q. 57, a. 4). Ma Dante aveva poco prima definito il decimo cielo proprio come il ""luogo della somma Deitade"". Dunque, da un punto di vista logico, sembrerebbe possibile riferire l'espressione all' Empireo stesso, che è l'oggetto reale del discorso, e vedere l'uso del <i>Salmo</i> come inteso a sottolineare la sua incommensurabilità con gli altri cieli. Non sono dunque completamente d'accordo con quegli studiosi che vedono, all'altezza del <i>Convivio</i>, una concezione dell'Empireo come cielo materiale, superata di colpo nella <i>Commedia</i>  (vedi Nardi 1967 e ultimamente Ottaviani 2004, pp. 50 sgg.)","III, q. 57, a. 4",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_Theologica,Summa Theologiae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
CIASCUNO CIELO ... ALCUNO RESPETTO,"tutti e nove i cieli mobili sono dotati di due poli. Nei cieli inferiori al Cristallino essi sono fissi  per quanto riguarda il movimento diurno (fermi quanto a sé""): si muovono però accidentalmente in quanto trasportati dal movimento di rivoluzione lungo l'eclittica. Nel Cristallino, invece, sono  immobili da tutti i punti di vista (""non mutabili secondo alcun rispetto""). Inoltre in ogni sfera celeste è individuabile un cerchio, l'equatore, che in ogni momento del movimento circolare (""in ciascuna parte della sua rivoluzione"") è egualmente distante dai due poli (""igualmente ... rimoto dall'uno polo e dall'altro"") come  può vedere sperimentalmente (""sensibilmente"") chi fa girare una mela o un altro oggetto rotondo (""chi volge un pomo o altra cosa ritonda""). Lungo l'equatore la velocità del cielo (""rattezza nel muovere"") è ovviamente massima, e, per ogni sua parte, diminuisce (""è più tarda"") man mano che se ne allontana e si avvicina ai poli. Questo perché lo spazio percorso girando intorno al centro dell'universo (""la sua revoluzione"") diventa  minore, ma deve essere necessariamente percorso nel medesimo tempo di quello maggiore (""conviene essere in uno medesimo tempo, di necessitade, con la maggiore""). Sulla possibile dipendenza di questo testo dal <i>Liber aggregationis</i> di Alfragano cfr. Toynbee, pp. 64-65.","Toynbee, pp. 64-65",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Liber_aggregationis,Liber aggregationis,Alfragano,http://dbpedia.org/resource/Ahmad_ibn_Muhammad_ibn_Kath%C4%ABr_al-Fargh%C4%81n%C4%AB,http://purl.org/bncf/tid/7996,WORK
E IN SUL DOSSO ...,"al cielo ed alla stella di Venere vengono applicati i principi precedentemente esposti: l'astro, essendo la parte più nobile, sarà  come incastonato sulla superficie esterna (dosso"") della sua sfera in un punto della linea equatoriale. Dante afferma però che Venere non è posta direttamente sull'equatore della sfera che la muove da oriente ad occidente, bensì sull'equatore di una sfera più piccola che, si muove con un movimento circolare suo proprio  (""una speretta che per sé medesima in esso cielo si volge"") sul dosso della sfera più grande ed è dotata delle medesime caratteristiche (poli, equatore...) Egli accetta così la dottrina tolemaica degli epicicli  (""lo cerchio della quale gli astrologi chiamano epiciclo""). Ma per Tolomeo gli epicicli sono costruzioni puramente geometriche bidimensionali che servono a render conto dei moti complessi dei pianeti, non spiegati  a sufficienza da un modello di sfere concentriche. Lo stesso Alberto Magno, quando definisce l'epiciclo, ne parla come di un <i>circulus</i> che non può essere indagato attraverso argomenti fisici (cfr. <i>De caelo et mundo</i> II, tr. 3, cap. 11, p. 166, ll. 3-13) e così fa Ristoro d'Arezzo nella sua <i>Composizione del mondo</i> I xii 3, p. 18  ""Ciascheduno di questi cerchi porta un altro cerchietto lo quale è chiamato epiciclo"". Per Dante si tratta invece di ""sfere"" e ""sferette"", cioè di corpi fisici che si collocano (e si muovono) non su di un piano, ma in uno spazio tridimensionale. Nel suo Commento al XII libro della Metafisica Averroè aveva sostenuto che il modello di Tolomeo, costruito solo per 'salvare i fenomeni' e calcolare le posizioni degli astri, era insostenibile dal punto di vista delle leggi della fisica, intendi della fisica aristotelica (cfr. c. 45: ""Eccentricum enim aut epicyclum dicere est extra naturam; epicyclus autem impossibile est ut sit omnino""  ""Astrologia autem huius temporis nihil est in esse, sed est conveniens computationi"", f.  329 G, M). D'altra parte il modello di sfere concentriche riproposto da uno stretto aristotelico come l'astronomo Al-Bitruji (Alpetragius), conosciuto e citato da Dante in <i>Cv</i> III ii 5, risultava troppo approssimativo proprio riguardo al calcolo. Dante, non consapevole del conflitto altamente tecnico tra astronomi-fisici ed astronomi puramente matematici, unifica i due sistemi (e d'altra parte ancor oggi si parla in modo improprio del sistema aristotelico-tolemaico). Per una breve ed essenziale illustrazione del problema cfr. Hugonnard-Roche 1998, pp. 89-109.","II, tr. 3, cap. 11, p. 166, ll. 3-13",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_Coelo_et_Mundo(Alberto_Magno),De coelo et mundo,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
E IN SUL DOSSO ...,"al cielo ed alla stella di Venere vengono applicati i principi precedentemente esposti: l'astro, essendo la parte più nobile, sarà  come incastonato sulla superficie esterna (dosso"") della sua sfera in un punto della linea equatoriale. Dante afferma però che Venere non è posta direttamente sull'equatore della sfera che la muove da oriente ad occidente, bensì sull'equatore di una sfera più piccola che, si muove con un movimento circolare suo proprio  (""una speretta che per sé medesima in esso cielo si volge"") sul dosso della sfera più grande ed è dotata delle medesime caratteristiche (poli, equatore...) Egli accetta così la dottrina tolemaica degli epicicli  (""lo cerchio della quale gli astrologi chiamano epiciclo""). Ma per Tolomeo gli epicicli sono costruzioni puramente geometriche bidimensionali che servono a render conto dei moti complessi dei pianeti, non spiegati  a sufficienza da un modello di sfere concentriche. Lo stesso Alberto Magno, quando definisce l'epiciclo, ne parla come di un <i>circulus</i> che non può essere indagato attraverso argomenti fisici (cfr. <i>De caelo et mundo</i> II, tr. 3, cap. 11, p. 166, ll. 3-13) e così fa Ristoro d'Arezzo nella sua <i>Composizione del mondo</i> I xii 3, p. 18  ""Ciascheduno di questi cerchi porta un altro cerchietto lo quale è chiamato epiciclo"". Per Dante si tratta invece di ""sfere"" e ""sferette"", cioè di corpi fisici che si collocano (e si muovono) non su di un piano, ma in uno spazio tridimensionale. Nel suo Commento al XII libro della Metafisica Averroè aveva sostenuto che il modello di Tolomeo, costruito solo per 'salvare i fenomeni' e calcolare le posizioni degli astri, era insostenibile dal punto di vista delle leggi della fisica, intendi della fisica aristotelica (cfr. c. 45: ""Eccentricum enim aut epicyclum dicere est extra naturam; epicyclus autem impossibile est ut sit omnino""  ""Astrologia autem huius temporis nihil est in esse, sed est conveniens computationi"", f.  329 G, M). D'altra parte il modello di sfere concentriche riproposto da uno stretto aristotelico come l'astronomo Al-Bitruji (Alpetragius), conosciuto e citato da Dante in <i>Cv</i> III ii 5, risultava troppo approssimativo proprio riguardo al calcolo. Dante, non consapevole del conflitto altamente tecnico tra astronomi-fisici ed astronomi puramente matematici, unifica i due sistemi (e d'altra parte ancor oggi si parla in modo improprio del sistema aristotelico-tolemaico). Per una breve ed essenziale illustrazione del problema cfr. Hugonnard-Roche 1998, pp. 89-109.","xii 3, p. 18  ""Ciascheduno di questi cerchi porta un altro cerchietto lo quale è chiamato epiciclo""",CONCORDANZA GENERICA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/La_composizione_del_mondo,La composizione del mondo colle sue cascioni,Restoro d'Arezzo,http://it.dbpedia.org/resource/Restoro_d'Arezzo,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
E IN SUL DOSSO ...,"al cielo ed alla stella di Venere vengono applicati i principi precedentemente esposti: l'astro, essendo la parte più nobile, sarà  come incastonato sulla superficie esterna (dosso"") della sua sfera in un punto della linea equatoriale. Dante afferma però che Venere non è posta direttamente sull'equatore della sfera che la muove da oriente ad occidente, bensì sull'equatore di una sfera più piccola che, si muove con un movimento circolare suo proprio  (""una speretta che per sé medesima in esso cielo si volge"") sul dosso della sfera più grande ed è dotata delle medesime caratteristiche (poli, equatore...) Egli accetta così la dottrina tolemaica degli epicicli  (""lo cerchio della quale gli astrologi chiamano epiciclo""). Ma per Tolomeo gli epicicli sono costruzioni puramente geometriche bidimensionali che servono a render conto dei moti complessi dei pianeti, non spiegati  a sufficienza da un modello di sfere concentriche. Lo stesso Alberto Magno, quando definisce l'epiciclo, ne parla come di un <i>circulus</i> che non può essere indagato attraverso argomenti fisici (cfr. <i>De caelo et mundo</i> II, tr. 3, cap. 11, p. 166, ll. 3-13) e così fa Ristoro d'Arezzo nella sua <i>Composizione del mondo</i> I xii 3, p. 18  ""Ciascheduno di questi cerchi porta un altro cerchietto lo quale è chiamato epiciclo"". Per Dante si tratta invece di ""sfere"" e ""sferette"", cioè di corpi fisici che si collocano (e si muovono) non su di un piano, ma in uno spazio tridimensionale. Nel suo Commento al XII libro della Metafisica Averroè aveva sostenuto che il modello di Tolomeo, costruito solo per 'salvare i fenomeni' e calcolare le posizioni degli astri, era insostenibile dal punto di vista delle leggi della fisica, intendi della fisica aristotelica (cfr. c. 45: ""Eccentricum enim aut epicyclum dicere est extra naturam; epicyclus autem impossibile est ut sit omnino""  ""Astrologia autem huius temporis nihil est in esse, sed est conveniens computationi"", f.  329 G, M). D'altra parte il modello di sfere concentriche riproposto da uno stretto aristotelico come l'astronomo Al-Bitruji (Alpetragius), conosciuto e citato da Dante in <i>Cv</i> III ii 5, risultava troppo approssimativo proprio riguardo al calcolo. Dante, non consapevole del conflitto altamente tecnico tra astronomi-fisici ed astronomi puramente matematici, unifica i due sistemi (e d'altra parte ancor oggi si parla in modo improprio del sistema aristotelico-tolemaico). Per una breve ed essenziale illustrazione del problema cfr. Hugonnard-Roche 1998, pp. 89-109.","cfr. c. 45: ""Eccentricum enim aut epicyclum dicere est extra naturam; epicyclus autem impossibile est ut sit omnino""  ""Astrologia autem huius temporis nihil est in esse, sed est conveniens computationi"", f.  329 G, M""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commento_alla_Metafisica(Averroè),Commento alla Metafisica,Averroè,http://dbpedia.org/resource/Averroes,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
LI MOVITORI DI QUELLI [CIELI],"dopo aver CITAZIONE ESPLICITAto quale sia questo terzo cielo di cui parla la <i>Canzone</i> e averne mostrato la struttura fisica, Dante parla della natura e del numero delle entità che lo muovono. Tutti  sono  d'accordo sulla natura dei motori (movitori"") del cielo di Venere (e di  tutti gli altri cieli): si tratta di sostanze immateriali (""separate dalla materia""), vale a dire intelligenze pure, che la maggioranza degli uomini, non esperti di filosofia (""la volgare gente"") identifica con gli angeli. Come vedremo nei paragrafi seguenti, la diversità di opinione (""diversi diversamente hanno sentito"") riguarda essenzialmente la loro funzione ed il loro numero. Per Aristotele  incorporeità e pensiero puro sono in primo luogo le caratteristiche del Motore immobile-Principio primo (cfr. <i>Metaph</i>. XII 7, 1072 b 18-25, 1073 a 3-7), ma per analogia esse si trasferiscono anche ai motori degli altri cieli (cfr. <i>Metaph</i>.  XII  8, 1073 a 36-38) .Il termine <i>intelligentia</i>, non presente in Aristotele (che usa piuttosto quello di <i>substantia separata</i>), era stato usato nelle traduzioni latine di Al-Ghazali, Avicenna (cfr. <i>Liber de philosophia prima sive scientia divina</i> IX,  4, vol. II, pp. 476 sgg.) ed Averroè. Al tempo di Dante si trattava di dottrina comune. Il fatto che l'identificazione sostanze separate-angeli sia attribuita alla ""volgare gente"" accomuna Dante ad Alberto Magno (cfr. ad esempio <i>Metaphysica</i>  XI , tr. 2, cap. 10, vol. II, p. 495, ll. 55-56 ""et has intelligentias secundum vulgus angelos vocant"";  <i>In secundum librum Sententiarum</i>, dist. 3, a. 3, p. 64 ""Dicit Avicenna quod intelligentiae sunt quas populus ... angelos vocat""). Anche Averroè nel  Commento al <i>De caelo</i> I, c. 22,  f. 17 H, aveva scritto  ""Omnes gentes que concedunt Deum esse conveniunt in hoc, quod caelum est locus Dei et aliorum spirituum qui vulgariter dicuntur Angeli"". Ma mentre Alberto in più luoghi respinge decisamente l'identificazione (cfr. <i>In secundum Sententiarum, loc. cit</i>.  pp. 64b - 66a; <i>Problemata determinata</i>, q. 2,  p. 48, ll. 26-36), Dante la accetta pienamente, anzi considera la dottrina cristiana sugli angeli come un necessario correttivo alle manchevolezze della trattazione puramente filosofica. In questo caso la verità è stata finalmente trovata (""avvegna che la veritade sia trovata"") in grazia non della pura ragione, ma della rivelazione di Cristo. Riguardo alla identificazione delle intelligenze separate con gli angeli i teologi medievali non furono comunque concordi; cfr. Bemrose 1983.","IX,  4, vol. II, pp. 476 sgg.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Liber_de_philosophia_prima_sive_de_scientia_divina,Liber de philosophia prima sive de scientia divina,Avicenna,http://dbpedia.org/resource/Avicenna,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
LI MOVITORI DI QUELLI [CIELI],"dopo aver CITAZIONE ESPLICITAto quale sia questo terzo cielo di cui parla la <i>Canzone</i> e averne mostrato la struttura fisica, Dante parla della natura e del numero delle entità che lo muovono. Tutti  sono  d'accordo sulla natura dei motori (movitori"") del cielo di Venere (e di  tutti gli altri cieli): si tratta di sostanze immateriali (""separate dalla materia""), vale a dire intelligenze pure, che la maggioranza degli uomini, non esperti di filosofia (""la volgare gente"") identifica con gli angeli. Come vedremo nei paragrafi seguenti, la diversità di opinione (""diversi diversamente hanno sentito"") riguarda essenzialmente la loro funzione ed il loro numero. Per Aristotele  incorporeità e pensiero puro sono in primo luogo le caratteristiche del Motore immobile-Principio primo (cfr. <i>Metaph</i>. XII 7, 1072 b 18-25, 1073 a 3-7), ma per analogia esse si trasferiscono anche ai motori degli altri cieli (cfr. <i>Metaph</i>.  XII  8, 1073 a 36-38) .Il termine <i>intelligentia</i>, non presente in Aristotele (che usa piuttosto quello di <i>substantia separata</i>), era stato usato nelle traduzioni latine di Al-Ghazali, Avicenna (cfr. <i>Liber de philosophia prima sive scientia divina</i> IX,  4, vol. II, pp. 476 sgg.) ed Averroè. Al tempo di Dante si trattava di dottrina comune. Il fatto che l'identificazione sostanze separate-angeli sia attribuita alla ""volgare gente"" accomuna Dante ad Alberto Magno (cfr. ad esempio <i>Metaphysica</i>  XI , tr. 2, cap. 10, vol. II, p. 495, ll. 55-56 ""et has intelligentias secundum vulgus angelos vocant"";  <i>In secundum librum Sententiarum</i>, dist. 3, a. 3, p. 64 ""Dicit Avicenna quod intelligentiae sunt quas populus ... angelos vocat""). Anche Averroè nel  Commento al <i>De caelo</i> I, c. 22,  f. 17 H, aveva scritto  ""Omnes gentes que concedunt Deum esse conveniunt in hoc, quod caelum est locus Dei et aliorum spirituum qui vulgariter dicuntur Angeli"". Ma mentre Alberto in più luoghi respinge decisamente l'identificazione (cfr. <i>In secundum Sententiarum, loc. cit</i>.  pp. 64b - 66a; <i>Problemata determinata</i>, q. 2,  p. 48, ll. 26-36), Dante la accetta pienamente, anzi considera la dottrina cristiana sugli angeli come un necessario correttivo alle manchevolezze della trattazione puramente filosofica. In questo caso la verità è stata finalmente trovata (""avvegna che la veritade sia trovata"") in grazia non della pura ragione, ma della rivelazione di Cristo. Riguardo alla identificazione delle intelligenze separate con gli angeli i teologi medievali non furono comunque concordi; cfr. Bemrose 1983.","XII  8, 1073 a 36-38",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
LI MOVITORI DI QUELLI [CIELI],"dopo aver CITAZIONE ESPLICITAto quale sia questo terzo cielo di cui parla la <i>Canzone</i> e averne mostrato la struttura fisica, Dante parla della natura e del numero delle entità che lo muovono. Tutti  sono  d'accordo sulla natura dei motori (movitori"") del cielo di Venere (e di  tutti gli altri cieli): si tratta di sostanze immateriali (""separate dalla materia""), vale a dire intelligenze pure, che la maggioranza degli uomini, non esperti di filosofia (""la volgare gente"") identifica con gli angeli. Come vedremo nei paragrafi seguenti, la diversità di opinione (""diversi diversamente hanno sentito"") riguarda essenzialmente la loro funzione ed il loro numero. Per Aristotele  incorporeità e pensiero puro sono in primo luogo le caratteristiche del Motore immobile-Principio primo (cfr. <i>Metaph</i>. XII 7, 1072 b 18-25, 1073 a 3-7), ma per analogia esse si trasferiscono anche ai motori degli altri cieli (cfr. <i>Metaph</i>.  XII  8, 1073 a 36-38) .Il termine <i>intelligentia</i>, non presente in Aristotele (che usa piuttosto quello di <i>substantia separata</i>), era stato usato nelle traduzioni latine di Al-Ghazali, Avicenna (cfr. <i>Liber de philosophia prima sive scientia divina</i> IX,  4, vol. II, pp. 476 sgg.) ed Averroè. Al tempo di Dante si trattava di dottrina comune. Il fatto che l'identificazione sostanze separate-angeli sia attribuita alla ""volgare gente"" accomuna Dante ad Alberto Magno (cfr. ad esempio <i>Metaphysica</i>  XI , tr. 2, cap. 10, vol. II, p. 495, ll. 55-56 ""et has intelligentias secundum vulgus angelos vocant"";  <i>In secundum librum Sententiarum</i>, dist. 3, a. 3, p. 64 ""Dicit Avicenna quod intelligentiae sunt quas populus ... angelos vocat""). Anche Averroè nel  Commento al <i>De caelo</i> I, c. 22,  f. 17 H, aveva scritto  ""Omnes gentes que concedunt Deum esse conveniunt in hoc, quod caelum est locus Dei et aliorum spirituum qui vulgariter dicuntur Angeli"". Ma mentre Alberto in più luoghi respinge decisamente l'identificazione (cfr. <i>In secundum Sententiarum, loc. cit</i>.  pp. 64b - 66a; <i>Problemata determinata</i>, q. 2,  p. 48, ll. 26-36), Dante la accetta pienamente, anzi considera la dottrina cristiana sugli angeli come un necessario correttivo alle manchevolezze della trattazione puramente filosofica. In questo caso la verità è stata finalmente trovata (""avvegna che la veritade sia trovata"") in grazia non della pura ragione, ma della rivelazione di Cristo. Riguardo alla identificazione delle intelligenze separate con gli angeli i teologi medievali non furono comunque concordi; cfr. Bemrose 1983.","XII 7, 1072 b 18-25, 1073 a 3-7",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
LI MOVITORI DI QUELLI [CIELI],"dopo aver CITAZIONE ESPLICITAto quale sia questo terzo cielo di cui parla la <i>Canzone</i> e averne mostrato la struttura fisica, Dante parla della natura e del numero delle entità che lo muovono. Tutti  sono  d'accordo sulla natura dei motori (movitori"") del cielo di Venere (e di  tutti gli altri cieli): si tratta di sostanze immateriali (""separate dalla materia""), vale a dire intelligenze pure, che la maggioranza degli uomini, non esperti di filosofia (""la volgare gente"") identifica con gli angeli. Come vedremo nei paragrafi seguenti, la diversità di opinione (""diversi diversamente hanno sentito"") riguarda essenzialmente la loro funzione ed il loro numero. Per Aristotele  incorporeità e pensiero puro sono in primo luogo le caratteristiche del Motore immobile-Principio primo (cfr. <i>Metaph</i>. XII 7, 1072 b 18-25, 1073 a 3-7), ma per analogia esse si trasferiscono anche ai motori degli altri cieli (cfr. <i>Metaph</i>.  XII  8, 1073 a 36-38) .Il termine <i>intelligentia</i>, non presente in Aristotele (che usa piuttosto quello di <i>substantia separata</i>), era stato usato nelle traduzioni latine di Al-Ghazali, Avicenna (cfr. <i>Liber de philosophia prima sive scientia divina</i> IX,  4, vol. II, pp. 476 sgg.) ed Averroè. Al tempo di Dante si trattava di dottrina comune. Il fatto che l'identificazione sostanze separate-angeli sia attribuita alla ""volgare gente"" accomuna Dante ad Alberto Magno (cfr. ad esempio <i>Metaphysica</i>  XI , tr. 2, cap. 10, vol. II, p. 495, ll. 55-56 ""et has intelligentias secundum vulgus angelos vocant"";  <i>In secundum librum Sententiarum</i>, dist. 3, a. 3, p. 64 ""Dicit Avicenna quod intelligentiae sunt quas populus ... angelos vocat""). Anche Averroè nel  Commento al <i>De caelo</i> I, c. 22,  f. 17 H, aveva scritto  ""Omnes gentes que concedunt Deum esse conveniunt in hoc, quod caelum est locus Dei et aliorum spirituum qui vulgariter dicuntur Angeli"". Ma mentre Alberto in più luoghi respinge decisamente l'identificazione (cfr. <i>In secundum Sententiarum, loc. cit</i>.  pp. 64b - 66a; <i>Problemata determinata</i>, q. 2,  p. 48, ll. 26-36), Dante la accetta pienamente, anzi considera la dottrina cristiana sugli angeli come un necessario correttivo alle manchevolezze della trattazione puramente filosofica. In questo caso la verità è stata finalmente trovata (""avvegna che la veritade sia trovata"") in grazia non della pura ragione, ma della rivelazione di Cristo. Riguardo alla identificazione delle intelligenze separate con gli angeli i teologi medievali non furono comunque concordi; cfr. Bemrose 1983.","I, c. 22,  f. 17 H",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commento_De_caelo_et_mundo(Averroè),Commento al De caelo,Averroè,http://dbpedia.org/resource/Averroes,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
LI MOVITORI DI QUELLI [CIELI],"dopo aver CITAZIONE ESPLICITAto quale sia questo terzo cielo di cui parla la <i>Canzone</i> e averne mostrato la struttura fisica, Dante parla della natura e del numero delle entità che lo muovono. Tutti  sono  d'accordo sulla natura dei motori (movitori"") del cielo di Venere (e di  tutti gli altri cieli): si tratta di sostanze immateriali (""separate dalla materia""), vale a dire intelligenze pure, che la maggioranza degli uomini, non esperti di filosofia (""la volgare gente"") identifica con gli angeli. Come vedremo nei paragrafi seguenti, la diversità di opinione (""diversi diversamente hanno sentito"") riguarda essenzialmente la loro funzione ed il loro numero. Per Aristotele  incorporeità e pensiero puro sono in primo luogo le caratteristiche del Motore immobile-Principio primo (cfr. <i>Metaph</i>. XII 7, 1072 b 18-25, 1073 a 3-7), ma per analogia esse si trasferiscono anche ai motori degli altri cieli (cfr. <i>Metaph</i>.  XII  8, 1073 a 36-38) .Il termine <i>intelligentia</i>, non presente in Aristotele (che usa piuttosto quello di <i>substantia separata</i>), era stato usato nelle traduzioni latine di Al-Ghazali, Avicenna (cfr. <i>Liber de philosophia prima sive scientia divina</i> IX,  4, vol. II, pp. 476 sgg.) ed Averroè. Al tempo di Dante si trattava di dottrina comune. Il fatto che l'identificazione sostanze separate-angeli sia attribuita alla ""volgare gente"" accomuna Dante ad Alberto Magno (cfr. ad esempio <i>Metaphysica</i>  XI , tr. 2, cap. 10, vol. II, p. 495, ll. 55-56 ""et has intelligentias secundum vulgus angelos vocant"";  <i>In secundum librum Sententiarum</i>, dist. 3, a. 3, p. 64 ""Dicit Avicenna quod intelligentiae sunt quas populus ... angelos vocat""). Anche Averroè nel  Commento al <i>De caelo</i> I, c. 22,  f. 17 H, aveva scritto  ""Omnes gentes que concedunt Deum esse conveniunt in hoc, quod caelum est locus Dei et aliorum spirituum qui vulgariter dicuntur Angeli"". Ma mentre Alberto in più luoghi respinge decisamente l'identificazione (cfr. <i>In secundum Sententiarum, loc. cit</i>.  pp. 64b - 66a; <i>Problemata determinata</i>, q. 2,  p. 48, ll. 26-36), Dante la accetta pienamente, anzi considera la dottrina cristiana sugli angeli come un necessario correttivo alle manchevolezze della trattazione puramente filosofica. In questo caso la verità è stata finalmente trovata (""avvegna che la veritade sia trovata"") in grazia non della pura ragione, ma della rivelazione di Cristo. Riguardo alla identificazione delle intelligenze separate con gli angeli i teologi medievali non furono comunque concordi; cfr. Bemrose 1983.",loc. cit.  pp. 64b - 66a,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commentario_alle_Sentenze_di_Pietro_Lombardo_(Alberto_Magno),Commentario alle Sentenze di Pietro Lombardo,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
FURONO CERTI FILOSOFI...,"la prima scuola filosofica, di cui fa parte Aristotele, ha sostenuto che il numero delle sostanze separate equivale a quello dei movimenti circolari celesti (essere  tante quante circulazioni fossero nelli cieli e non più""); questo perché se ce ne fossero delle altre esse non avrebbero una attività propria (""sanza operazione""), e quindi da sempre (""etternalmente"") non avrebbero avuto alcuna ragione di esistere (""sarebbero state indarno"", cioè invano) perché in loro l'essenza si identifica con l'attività (""con ciò sia cosa che loro essere sia loro operazione""). Effettivamente nel libro XII della <i>Metafisica</i> Aristotele determina il numero delle sostanze separate in base al numero dei movimenti celesti (cfr. <i>Metaph.</i>  XII 8, 1074 a 15sgg.). Nel suo Commento Averroè argomenta che se ne esistessero altre, esse sarebbero <i>ociosae</i>, cioè prive di attività, il che equivale a dire che esisterebbero inutilmente (<i>frustra</i>, termine cui corrisponde appunto  ""indarno""), e questo è impossibile perché la natura non produce niente se non in vista di uno scopo (cfr. <i>Metaph.</i>, XI = XII, c. 44, f.  327 H; vedi anche <i>Phys.</i>  II, c. 75, f. 75 M). Pure ad Averroè è attribuibile la dottrina per cui la <i>substantia</i> e la <i>perfectio</i> delle sostanze separate consiste nel produrre il movimento dei cieli  (ivi, c. 36, f. 318 K). Tutti coloro che nel XIII secolo hanno sostenuto la piena coincidenza tra essere ed operazione nelle sostanze separate, hanno identificato quest'ultima in primo luogo con l'attività del pensare e infatti anche per Dante esse muovono i cieli ""intendendo"". Il luogo del <i>De caelo</i> in cui Aristotele sembrerebbe ammettere, sia pure incidentalmente (""incidentemente""), l'esistenza di sostanze separate non collegate al movimento dei cieli è probabilmente I 9, 279 a 19-22 in cui si parla di entità che, al di là dell'ultima sfera del cosmo, al di fuori dello spazio e del tempo, trascorrono tutta l'eternità in una vita ottima e pienamente sufficiente a se stessa. Nella <i>Summa theologica sive de mirabili scientia Dei</i> Alberto aveva già interpretato questo passo come un accenno all'esistenza dell' Empireo, luogo degli angeli e dei beati: ""Dicendum quod caelum quod Sancti vocant aqueum vel crystallinum et Philosophi vocant uniforme in  lumine ... est caelum nonum et est super caelum octavum quod dicitur stellatum sive firmamentum, et est illud de quo dicit Aristoteles in II De caelo et mundo quod extra caelum nihil est, nec locus nec tempus, sed vita beata quae est extra ipsum non sicut in loco vel in tempore, sed sicut in obiecto. Extra enim illud est caelum empyreum, in quo obicit se Deus beatis ad contemplandum et fruendum immediate"" (<i>Pars Secunda</i>, tr. 11, q. 52, membrum 2  <i>Utrum caelum cristallinum sit mobile an immobile</i>,  p. 554). Per parte sua Tommaso nel Commento al <i>De caelo</i> (I, <i>lectio</i> 21, n. 214) sostiene contro Alessandro di  Afrodisia che la condizione di vita descritta da Aristotele non si può riferire ai corpi celesti ma solo a Dio ed alle sostanze separate nel loro insieme, che sono 'al di là' del movimento dell'ultimo cielo in quanto lo contengono e con esso contengono tutto il cosmo. Da queste affermazioni sembra derivare (anche se l'Aquinate non lo dice esplicitamente) che l'insieme delle sostanze separate dotate di vita perfetta fuori del tempo e dello spazio sia più vasto di quello delle intelligenze motrici dei cieli, ma non viene mai fatto cenno all' Empireo.","XII 8, 1074 a 15sgg.",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
FURONO CERTI FILOSOFI...,"la prima scuola filosofica, di cui fa parte Aristotele, ha sostenuto che il numero delle sostanze separate equivale a quello dei movimenti circolari celesti (essere  tante quante circulazioni fossero nelli cieli e non più""); questo perché se ce ne fossero delle altre esse non avrebbero una attività propria (""sanza operazione""), e quindi da sempre (""etternalmente"") non avrebbero avuto alcuna ragione di esistere (""sarebbero state indarno"", cioè invano) perché in loro l'essenza si identifica con l'attività (""con ciò sia cosa che loro essere sia loro operazione""). Effettivamente nel libro XII della <i>Metafisica</i> Aristotele determina il numero delle sostanze separate in base al numero dei movimenti celesti (cfr. <i>Metaph.</i>  XII 8, 1074 a 15sgg.). Nel suo Commento Averroè argomenta che se ne esistessero altre, esse sarebbero <i>ociosae</i>, cioè prive di attività, il che equivale a dire che esisterebbero inutilmente (<i>frustra</i>, termine cui corrisponde appunto  ""indarno""), e questo è impossibile perché la natura non produce niente se non in vista di uno scopo (cfr. <i>Metaph.</i>, XI = XII, c. 44, f.  327 H; vedi anche <i>Phys.</i>  II, c. 75, f. 75 M). Pure ad Averroè è attribuibile la dottrina per cui la <i>substantia</i> e la <i>perfectio</i> delle sostanze separate consiste nel produrre il movimento dei cieli  (ivi, c. 36, f. 318 K). Tutti coloro che nel XIII secolo hanno sostenuto la piena coincidenza tra essere ed operazione nelle sostanze separate, hanno identificato quest'ultima in primo luogo con l'attività del pensare e infatti anche per Dante esse muovono i cieli ""intendendo"". Il luogo del <i>De caelo</i> in cui Aristotele sembrerebbe ammettere, sia pure incidentalmente (""incidentemente""), l'esistenza di sostanze separate non collegate al movimento dei cieli è probabilmente I 9, 279 a 19-22 in cui si parla di entità che, al di là dell'ultima sfera del cosmo, al di fuori dello spazio e del tempo, trascorrono tutta l'eternità in una vita ottima e pienamente sufficiente a se stessa. Nella <i>Summa theologica sive de mirabili scientia Dei</i> Alberto aveva già interpretato questo passo come un accenno all'esistenza dell' Empireo, luogo degli angeli e dei beati: ""Dicendum quod caelum quod Sancti vocant aqueum vel crystallinum et Philosophi vocant uniforme in  lumine ... est caelum nonum et est super caelum octavum quod dicitur stellatum sive firmamentum, et est illud de quo dicit Aristoteles in II De caelo et mundo quod extra caelum nihil est, nec locus nec tempus, sed vita beata quae est extra ipsum non sicut in loco vel in tempore, sed sicut in obiecto. Extra enim illud est caelum empyreum, in quo obicit se Deus beatis ad contemplandum et fruendum immediate"" (<i>Pars Secunda</i>, tr. 11, q. 52, membrum 2  <i>Utrum caelum cristallinum sit mobile an immobile</i>,  p. 554). Per parte sua Tommaso nel Commento al <i>De caelo</i> (I, <i>lectio</i> 21, n. 214) sostiene contro Alessandro di  Afrodisia che la condizione di vita descritta da Aristotele non si può riferire ai corpi celesti ma solo a Dio ed alle sostanze separate nel loro insieme, che sono 'al di là' del movimento dell'ultimo cielo in quanto lo contengono e con esso contengono tutto il cosmo. Da queste affermazioni sembra derivare (anche se l'Aquinate non lo dice esplicitamente) che l'insieme delle sostanze separate dotate di vita perfetta fuori del tempo e dello spazio sia più vasto di quello delle intelligenze motrici dei cieli, ma non viene mai fatto cenno all' Empireo.","II, c. 75, f. 75 M",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
FURONO CERTI FILOSOFI...,"la prima scuola filosofica, di cui fa parte Aristotele, ha sostenuto che il numero delle sostanze separate equivale a quello dei movimenti circolari celesti (essere  tante quante circulazioni fossero nelli cieli e non più""); questo perché se ce ne fossero delle altre esse non avrebbero una attività propria (""sanza operazione""), e quindi da sempre (""etternalmente"") non avrebbero avuto alcuna ragione di esistere (""sarebbero state indarno"", cioè invano) perché in loro l'essenza si identifica con l'attività (""con ciò sia cosa che loro essere sia loro operazione""). Effettivamente nel libro XII della <i>Metafisica</i> Aristotele determina il numero delle sostanze separate in base al numero dei movimenti celesti (cfr. <i>Metaph.</i>  XII 8, 1074 a 15sgg.). Nel suo Commento Averroè argomenta che se ne esistessero altre, esse sarebbero <i>ociosae</i>, cioè prive di attività, il che equivale a dire che esisterebbero inutilmente (<i>frustra</i>, termine cui corrisponde appunto  ""indarno""), e questo è impossibile perché la natura non produce niente se non in vista di uno scopo (cfr. <i>Metaph.</i>, XI = XII, c. 44, f.  327 H; vedi anche <i>Phys.</i>  II, c. 75, f. 75 M). Pure ad Averroè è attribuibile la dottrina per cui la <i>substantia</i> e la <i>perfectio</i> delle sostanze separate consiste nel produrre il movimento dei cieli  (ivi, c. 36, f. 318 K). Tutti coloro che nel XIII secolo hanno sostenuto la piena coincidenza tra essere ed operazione nelle sostanze separate, hanno identificato quest'ultima in primo luogo con l'attività del pensare e infatti anche per Dante esse muovono i cieli ""intendendo"". Il luogo del <i>De caelo</i> in cui Aristotele sembrerebbe ammettere, sia pure incidentalmente (""incidentemente""), l'esistenza di sostanze separate non collegate al movimento dei cieli è probabilmente I 9, 279 a 19-22 in cui si parla di entità che, al di là dell'ultima sfera del cosmo, al di fuori dello spazio e del tempo, trascorrono tutta l'eternità in una vita ottima e pienamente sufficiente a se stessa. Nella <i>Summa theologica sive de mirabili scientia Dei</i> Alberto aveva già interpretato questo passo come un accenno all'esistenza dell' Empireo, luogo degli angeli e dei beati: ""Dicendum quod caelum quod Sancti vocant aqueum vel crystallinum et Philosophi vocant uniforme in  lumine ... est caelum nonum et est super caelum octavum quod dicitur stellatum sive firmamentum, et est illud de quo dicit Aristoteles in II De caelo et mundo quod extra caelum nihil est, nec locus nec tempus, sed vita beata quae est extra ipsum non sicut in loco vel in tempore, sed sicut in obiecto. Extra enim illud est caelum empyreum, in quo obicit se Deus beatis ad contemplandum et fruendum immediate"" (<i>Pars Secunda</i>, tr. 11, q. 52, membrum 2  <i>Utrum caelum cristallinum sit mobile an immobile</i>,  p. 554). Per parte sua Tommaso nel Commento al <i>De caelo</i> (I, <i>lectio</i> 21, n. 214) sostiene contro Alessandro di  Afrodisia che la condizione di vita descritta da Aristotele non si può riferire ai corpi celesti ma solo a Dio ed alle sostanze separate nel loro insieme, che sono 'al di là' del movimento dell'ultimo cielo in quanto lo contengono e con esso contengono tutto il cosmo. Da queste affermazioni sembra derivare (anche se l'Aquinate non lo dice esplicitamente) che l'insieme delle sostanze separate dotate di vita perfetta fuori del tempo e dello spazio sia più vasto di quello delle intelligenze motrici dei cieli, ma non viene mai fatto cenno all' Empireo.","I 9, 279 a 19-22",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_caelo,De caelo,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
FURONO CERTI FILOSOFI...,"la prima scuola filosofica, di cui fa parte Aristotele, ha sostenuto che il numero delle sostanze separate equivale a quello dei movimenti circolari celesti (essere  tante quante circulazioni fossero nelli cieli e non più""); questo perché se ce ne fossero delle altre esse non avrebbero una attività propria (""sanza operazione""), e quindi da sempre (""etternalmente"") non avrebbero avuto alcuna ragione di esistere (""sarebbero state indarno"", cioè invano) perché in loro l'essenza si identifica con l'attività (""con ciò sia cosa che loro essere sia loro operazione""). Effettivamente nel libro XII della <i>Metafisica</i> Aristotele determina il numero delle sostanze separate in base al numero dei movimenti celesti (cfr. <i>Metaph.</i>  XII 8, 1074 a 15sgg.). Nel suo Commento Averroè argomenta che se ne esistessero altre, esse sarebbero <i>ociosae</i>, cioè prive di attività, il che equivale a dire che esisterebbero inutilmente (<i>frustra</i>, termine cui corrisponde appunto  ""indarno""), e questo è impossibile perché la natura non produce niente se non in vista di uno scopo (cfr. <i>Metaph.</i>, XI = XII, c. 44, f.  327 H; vedi anche <i>Phys.</i>  II, c. 75, f. 75 M). Pure ad Averroè è attribuibile la dottrina per cui la <i>substantia</i> e la <i>perfectio</i> delle sostanze separate consiste nel produrre il movimento dei cieli  (ivi, c. 36, f. 318 K). Tutti coloro che nel XIII secolo hanno sostenuto la piena coincidenza tra essere ed operazione nelle sostanze separate, hanno identificato quest'ultima in primo luogo con l'attività del pensare e infatti anche per Dante esse muovono i cieli ""intendendo"". Il luogo del <i>De caelo</i> in cui Aristotele sembrerebbe ammettere, sia pure incidentalmente (""incidentemente""), l'esistenza di sostanze separate non collegate al movimento dei cieli è probabilmente I 9, 279 a 19-22 in cui si parla di entità che, al di là dell'ultima sfera del cosmo, al di fuori dello spazio e del tempo, trascorrono tutta l'eternità in una vita ottima e pienamente sufficiente a se stessa. Nella <i>Summa theologica sive de mirabili scientia Dei</i> Alberto aveva già interpretato questo passo come un accenno all'esistenza dell' Empireo, luogo degli angeli e dei beati: ""Dicendum quod caelum quod Sancti vocant aqueum vel crystallinum et Philosophi vocant uniforme in  lumine ... est caelum nonum et est super caelum octavum quod dicitur stellatum sive firmamentum, et est illud de quo dicit Aristoteles in II De caelo et mundo quod extra caelum nihil est, nec locus nec tempus, sed vita beata quae est extra ipsum non sicut in loco vel in tempore, sed sicut in obiecto. Extra enim illud est caelum empyreum, in quo obicit se Deus beatis ad contemplandum et fruendum immediate"" (<i>Pars Secunda</i>, tr. 11, q. 52, membrum 2  <i>Utrum caelum cristallinum sit mobile an immobile</i>,  p. 554). Per parte sua Tommaso nel Commento al <i>De caelo</i> (I, <i>lectio</i> 21, n. 214) sostiene contro Alessandro di  Afrodisia che la condizione di vita descritta da Aristotele non si può riferire ai corpi celesti ma solo a Dio ed alle sostanze separate nel loro insieme, che sono 'al di là' del movimento dell'ultimo cielo in quanto lo contengono e con esso contengono tutto il cosmo. Da queste affermazioni sembra derivare (anche se l'Aquinate non lo dice esplicitamente) che l'insieme delle sostanze separate dotate di vita perfetta fuori del tempo e dello spazio sia più vasto di quello delle intelligenze motrici dei cieli, ma non viene mai fatto cenno all' Empireo.","Dicendum quod caelum quod Sancti vocant aqueum vel crystallinum et Philosophi vocant uniforme in  lumine ... est caelum nonum et est super caelum octavum quod dicitur stellatum sive firmamentum, et est illud de quo dicit Aristoteles in II De caelo et mundo quod extra caelum nihil est, nec locus nec tempus, sed vita beata quae est extra ipsum non sicut in loco vel in tempore, sed sicut in obiecto. Extra enim illud est caelum empyreum, in quo obicit se Deus beatis ad contemplandum et fruendum immediate (Pars Secunda, tr. 11, q. 52, membrum 2  Utrum caelum cristallinum sit mobile an immobile,  p. 554)",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Summa_Theologica_sive_de_mirabili_scientia_Dei,Summa theologica sive de mirabili scientia Dei,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
FURONO CERTI FILOSOFI...,"la prima scuola filosofica, di cui fa parte Aristotele, ha sostenuto che il numero delle sostanze separate equivale a quello dei movimenti circolari celesti (essere  tante quante circulazioni fossero nelli cieli e non più""); questo perché se ce ne fossero delle altre esse non avrebbero una attività propria (""sanza operazione""), e quindi da sempre (""etternalmente"") non avrebbero avuto alcuna ragione di esistere (""sarebbero state indarno"", cioè invano) perché in loro l'essenza si identifica con l'attività (""con ciò sia cosa che loro essere sia loro operazione""). Effettivamente nel libro XII della <i>Metafisica</i> Aristotele determina il numero delle sostanze separate in base al numero dei movimenti celesti (cfr. <i>Metaph.</i>  XII 8, 1074 a 15sgg.). Nel suo Commento Averroè argomenta che se ne esistessero altre, esse sarebbero <i>ociosae</i>, cioè prive di attività, il che equivale a dire che esisterebbero inutilmente (<i>frustra</i>, termine cui corrisponde appunto  ""indarno""), e questo è impossibile perché la natura non produce niente se non in vista di uno scopo (cfr. <i>Metaph.</i>, XI = XII, c. 44, f.  327 H; vedi anche <i>Phys.</i>  II, c. 75, f. 75 M). Pure ad Averroè è attribuibile la dottrina per cui la <i>substantia</i> e la <i>perfectio</i> delle sostanze separate consiste nel produrre il movimento dei cieli  (ivi, c. 36, f. 318 K). Tutti coloro che nel XIII secolo hanno sostenuto la piena coincidenza tra essere ed operazione nelle sostanze separate, hanno identificato quest'ultima in primo luogo con l'attività del pensare e infatti anche per Dante esse muovono i cieli ""intendendo"". Il luogo del <i>De caelo</i> in cui Aristotele sembrerebbe ammettere, sia pure incidentalmente (""incidentemente""), l'esistenza di sostanze separate non collegate al movimento dei cieli è probabilmente I 9, 279 a 19-22 in cui si parla di entità che, al di là dell'ultima sfera del cosmo, al di fuori dello spazio e del tempo, trascorrono tutta l'eternità in una vita ottima e pienamente sufficiente a se stessa. Nella <i>Summa theologica sive de mirabili scientia Dei</i> Alberto aveva già interpretato questo passo come un accenno all'esistenza dell' Empireo, luogo degli angeli e dei beati: ""Dicendum quod caelum quod Sancti vocant aqueum vel crystallinum et Philosophi vocant uniforme in  lumine ... est caelum nonum et est super caelum octavum quod dicitur stellatum sive firmamentum, et est illud de quo dicit Aristoteles in II De caelo et mundo quod extra caelum nihil est, nec locus nec tempus, sed vita beata quae est extra ipsum non sicut in loco vel in tempore, sed sicut in obiecto. Extra enim illud est caelum empyreum, in quo obicit se Deus beatis ad contemplandum et fruendum immediate"" (<i>Pars Secunda</i>, tr. 11, q. 52, membrum 2  <i>Utrum caelum cristallinum sit mobile an immobile</i>,  p. 554). Per parte sua Tommaso nel Commento al <i>De caelo</i> (I, <i>lectio</i> 21, n. 214) sostiene contro Alessandro di  Afrodisia che la condizione di vita descritta da Aristotele non si può riferire ai corpi celesti ma solo a Dio ed alle sostanze separate nel loro insieme, che sono 'al di là' del movimento dell'ultimo cielo in quanto lo contengono e con esso contengono tutto il cosmo. Da queste affermazioni sembra derivare (anche se l'Aquinate non lo dice esplicitamente) che l'insieme delle sostanze separate dotate di vita perfetta fuori del tempo e dello spazio sia più vasto di quello delle intelligenze motrici dei cieli, ma non viene mai fatto cenno all' Empireo.","I, lectio 21, n. 214",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/In_libros_Aristotelis_De_caelo_et_mundo_expositio(Tommaso),In libros Aristotelis De caelo et mundo expositio,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
SPEZIE,"specie'. I brevi cenni, quasi manualistici, relativi alla posizione di Platone sono tutti derivabili dai testi in cui Aristotele riassume ed interpreta le dottrine del suo maestro. Questo vale per l'assimilazione delle idee di Platone a sostanze separate (cfr. <i>Metaph</i>. XII  3, 1071b 14-16) e il Commento di Tommaso, <i>lectio</i> 5, n. 2493), per la restrizione del numero delle idee a quello delle specie (escludendo quindi idee degli individui; cfr. <i>Metaph</i>. XII 3, 1070 a 18-19), per la loro estensione  agli enti geometrici (le larghezze""; cfr. <i>De an</i>. I 2, 404 b 20-21), per la loro capacità di produrre, come esemplari, individui della propria specie (""generatrici dell'altre cose ed essempli""; cfr. <i>Metaph</i>. I, 9, 991 b 3-42). Che le intelligenze separate siano produttrici dei cieli cui presiedono  (""generatrici di quelli"") non è invece dottrina di Aristotele, bensì di Avicenna (cfr. <i>Liber de philosophia prima sive scientia divina</i>  IX, 4, vol. II, p. 483), respinta da Averroè (cfr. <i>Metaphysica</i>  XI = XII, c.44, f. 327 H-K) ma ripresa  da Alberto Magno nel <i>De causis et processu universitatis</i>  I, tr. 4, cap. 8,  pp. 55-58).","XII  3, 1071b 14-16",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SPEZIE,"specie'. I brevi cenni, quasi manualistici, relativi alla posizione di Platone sono tutti derivabili dai testi in cui Aristotele riassume ed interpreta le dottrine del suo maestro. Questo vale per l'assimilazione delle idee di Platone a sostanze separate (cfr. <i>Metaph</i>. XII  3, 1071b 14-16) e il Commento di Tommaso, <i>lectio</i> 5, n. 2493), per la restrizione del numero delle idee a quello delle specie (escludendo quindi idee degli individui; cfr. <i>Metaph</i>. XII 3, 1070 a 18-19), per la loro estensione  agli enti geometrici (le larghezze""; cfr. <i>De an</i>. I 2, 404 b 20-21), per la loro capacità di produrre, come esemplari, individui della propria specie (""generatrici dell'altre cose ed essempli""; cfr. <i>Metaph</i>. I, 9, 991 b 3-42). Che le intelligenze separate siano produttrici dei cieli cui presiedono  (""generatrici di quelli"") non è invece dottrina di Aristotele, bensì di Avicenna (cfr. <i>Liber de philosophia prima sive scientia divina</i>  IX, 4, vol. II, p. 483), respinta da Averroè (cfr. <i>Metaphysica</i>  XI = XII, c.44, f. 327 H-K) ma ripresa  da Alberto Magno nel <i>De causis et processu universitatis</i>  I, tr. 4, cap. 8,  pp. 55-58).","lectio 5, n. 2493",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Metaphysicae(Tommaso),Sententia libri Metaphysicae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
SPEZIE,"specie'. I brevi cenni, quasi manualistici, relativi alla posizione di Platone sono tutti derivabili dai testi in cui Aristotele riassume ed interpreta le dottrine del suo maestro. Questo vale per l'assimilazione delle idee di Platone a sostanze separate (cfr. <i>Metaph</i>. XII  3, 1071b 14-16) e il Commento di Tommaso, <i>lectio</i> 5, n. 2493), per la restrizione del numero delle idee a quello delle specie (escludendo quindi idee degli individui; cfr. <i>Metaph</i>. XII 3, 1070 a 18-19), per la loro estensione  agli enti geometrici (le larghezze""; cfr. <i>De an</i>. I 2, 404 b 20-21), per la loro capacità di produrre, come esemplari, individui della propria specie (""generatrici dell'altre cose ed essempli""; cfr. <i>Metaph</i>. I, 9, 991 b 3-42). Che le intelligenze separate siano produttrici dei cieli cui presiedono  (""generatrici di quelli"") non è invece dottrina di Aristotele, bensì di Avicenna (cfr. <i>Liber de philosophia prima sive scientia divina</i>  IX, 4, vol. II, p. 483), respinta da Averroè (cfr. <i>Metaphysica</i>  XI = XII, c.44, f. 327 H-K) ma ripresa  da Alberto Magno nel <i>De causis et processu universitatis</i>  I, tr. 4, cap. 8,  pp. 55-58).","I 2, 404 b 20-21",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SPEZIE,"specie'. I brevi cenni, quasi manualistici, relativi alla posizione di Platone sono tutti derivabili dai testi in cui Aristotele riassume ed interpreta le dottrine del suo maestro. Questo vale per l'assimilazione delle idee di Platone a sostanze separate (cfr. <i>Metaph</i>. XII  3, 1071b 14-16) e il Commento di Tommaso, <i>lectio</i> 5, n. 2493), per la restrizione del numero delle idee a quello delle specie (escludendo quindi idee degli individui; cfr. <i>Metaph</i>. XII 3, 1070 a 18-19), per la loro estensione  agli enti geometrici (le larghezze""; cfr. <i>De an</i>. I 2, 404 b 20-21), per la loro capacità di produrre, come esemplari, individui della propria specie (""generatrici dell'altre cose ed essempli""; cfr. <i>Metaph</i>. I, 9, 991 b 3-42). Che le intelligenze separate siano produttrici dei cieli cui presiedono  (""generatrici di quelli"") non è invece dottrina di Aristotele, bensì di Avicenna (cfr. <i>Liber de philosophia prima sive scientia divina</i>  IX, 4, vol. II, p. 483), respinta da Averroè (cfr. <i>Metaphysica</i>  XI = XII, c.44, f. 327 H-K) ma ripresa  da Alberto Magno nel <i>De causis et processu universitatis</i>  I, tr. 4, cap. 8,  pp. 55-58).","IX, 4, vol. II, p. 483",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Liber_de_philosophia_prima_sive_de_scientia_divina,Liber de philosophia prima sive de scientia divina,Avicenna,http://dbpedia.org/resource/Avicenna,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SPEZIE,"specie'. I brevi cenni, quasi manualistici, relativi alla posizione di Platone sono tutti derivabili dai testi in cui Aristotele riassume ed interpreta le dottrine del suo maestro. Questo vale per l'assimilazione delle idee di Platone a sostanze separate (cfr. <i>Metaph</i>. XII  3, 1071b 14-16) e il Commento di Tommaso, <i>lectio</i> 5, n. 2493), per la restrizione del numero delle idee a quello delle specie (escludendo quindi idee degli individui; cfr. <i>Metaph</i>. XII 3, 1070 a 18-19), per la loro estensione  agli enti geometrici (le larghezze""; cfr. <i>De an</i>. I 2, 404 b 20-21), per la loro capacità di produrre, come esemplari, individui della propria specie (""generatrici dell'altre cose ed essempli""; cfr. <i>Metaph</i>. I, 9, 991 b 3-42). Che le intelligenze separate siano produttrici dei cieli cui presiedono  (""generatrici di quelli"") non è invece dottrina di Aristotele, bensì di Avicenna (cfr. <i>Liber de philosophia prima sive scientia divina</i>  IX, 4, vol. II, p. 483), respinta da Averroè (cfr. <i>Metaphysica</i>  XI = XII, c.44, f. 327 H-K) ma ripresa  da Alberto Magno nel <i>De causis et processu universitatis</i>  I, tr. 4, cap. 8,  pp. 55-58).","I, tr. 4, cap. 8,  pp. 55-58",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_causis_et_processu_universitatis,De causis et processu universitatis,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
AVVEGNA CHE ... COME PLATO,"nonostante non attribuissero loro lo stesso significato filosofico delle idee di Platone'. Da alcuni autori l'identificazione tra Dei e Forme veniva attribuita allo stesso Platone (cfr. Sigieri di Brabante, <i>Quaestiones in librum De causis</i>, quaestio 17, <i>Utrum positis ideis quaelibet earum esset Deus aliquis</i>, p. 76). Questa posizione poteva trovare un fondamento nel famoso brano del <i>Timeo</i> in cui il Demiurgo affida agli Dei secondi"" il compito di iniziare il processo della generazione (cfr. <i>Timeo</i> 41 CD, nella traduzione latina di Calcidio, ed. Waszink, p. 36), ripetutamente citato, per esempio, da Alberto Magno. Che invece fossero stati i miti divini a prefigurare la verità filosofica relativa alle sostanze separate (cui, come abbiamo visto, egli equiparava le idee platoniche) era l' opinione di Aristotele (cfr. <i>Metaph</i>.  XII 8, 1074 a 38-b 13) ed è un principio ermeneutico di Tommaso, ogni volta che trova il termine ""dei"" nel testo aristotelico, quello di trascriverlo nel registro delle sostanze separate. Dante avrebbe ben potuto contaminare le due prospettive.  Gli dei cui si riferiscono sia Platone che Aristotele sono però quelli che presiedono ai sette pianeti, gli stessi ai quali lo stesso Dante accenna in <i>Pd</i>  IV 61-3 (""questo principio, male inteso, torse / già tutto il  mondo quasi, sì che Giove, Mercurio e Marte a nominar trascorse""); quelli qui citati  (Giunone, Minerva, Cerere e Vulcano) non hanno invece alcuna controparte astronomico-astrologica. Dante sembra usare un modello risalente agli Stoici, ma largamente accettato dagli interpreti medievali della mitologia antica: gli dei sono personificazioni di forze e processi naturali: Vulcano del fuoco, Cerere delle messi etc . Sulla originalità di questa utilizzazione degli dei olimpici e sulla sua presenza anche nella <i>Commedia</i> sono pienamente valide le penetranti osservazioni di Paul Renucci  (Renucci 1954, pp. 82, 197-8). Vedi anche Bemrose 1983 , pp. 117 sgg.","XII 8, 1074 a 38-b 13",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DEA DI POTENZA,"l'insolita definizione può avere come spiegazione i versi dell' <i>Eneide</i> II, 437  in cui Giunone viene definita domina potens"" (cfr. Brambilla Ageno 1986).","II, 437",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Aeneid,Aeneis,Virgilio,http://dbpedia.org/resource/Virgil,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
E ANCO SI MANIFESTA IN MOLTI NOMI,"il luogo detto 'casa di Marte' a Firenze ed il mitico fiume sotterraneo della Diana a Siena sono esempi di toponomastica medievale che avevano mantenuto un ricordo degli antichi dei e che potevano essere conosciuti da Dante (cfr. G. Villani, <i>Nuova</i> <i>Chronica</i> II, 5;  III, 1, vol. I, pp. 68, 98; <i>Pg</i>  XIII 153).",II 5,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nova_Cronica,Nova Cronica,Giovanni Villani,http://dbpedia.org/resource/Giovanni_Villani,http://purl.org/bncf/tid/9645,WORK
E ANCO SI MANIFESTA IN MOLTI NOMI,"il luogo detto 'casa di Marte' a Firenze ed il mitico fiume sotterraneo della Diana a Siena sono esempi di toponomastica medievale che avevano mantenuto un ricordo degli antichi dei e che potevano essere conosciuti da Dante (cfr. G. Villani, <i>Nuova</i> <i>Chronica</i> II, 5;  III, 1, vol. I, pp. 68, 98; <i>Pg</i>  XIII 153).","III, 1, vol. I, pp. 68",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nova_Cronica,Nova Cronica,Giovanni Villani,http://dbpedia.org/resource/Giovanni_Villani,http://purl.org/bncf/tid/9645,WORK
E NON È CONTRA QUELLO,"Dante risponde ad una possibile obiezione basata su di un passo dell' <i>Etica Nicomachea</i> (X 8, 1178 b 25-26) in cui Aristotele parla, al plurale, della vita speculativa degli dei, identificati da Tommaso nel suo Commento con le sostanze separate che muovono i cieli (Diis enim, id est substantiis separatis, quia habent solam intellectualem vitam, tota eorum vita est bona""  X, <i>lectio</i> 12, n. 2125), e sembra dire che solo quella appartenga loro (""convegna pure""). Dante risponde così: anche se è vero che solo la vita di contemplazione è loro propria (""come  pure la speculativa convenga loro""), tuttavia, per alcune di esse, dall'attività di pensare deriva come effetto il movimento circolare dei cieli (""pure alla speculazione di certe segue la circulazione del cielo""); esso, come abbiamo già visto, regola l'universo (""è governo del mondo""); quest'ultimo può dunque paragonarsi ad una collettività politica bene ordinata (""è quasi una ordinata civilitade"") che è presente come fine nel pensiero dei motori celesti  (""intesa nella speculazione delli motori"". Per il termine ""civilitade"" cfr. la nota a <i>Cv</i> IV  iv 1). Una CITAZIONE ESPLICITA analogia tra l'universo e una comunità politica e tra le sostanze separate e una classe di governo è presente  in Averroè, <i>Metaphysica</i> XI (= XII), c. 44, f. 328 A-C. La risposta di Dante, comunque,  contrasta con quanto affermato  poco prima, e cioè che alcune sostanze separate esercitano solo l' attività di governo del mondo ed altre solo quella del pensiero puro.","X 8, 1178 b 25-26",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
E NON È CONTRA QUELLO,"Dante risponde ad una possibile obiezione basata su di un passo dell' <i>Etica Nicomachea</i> (X 8, 1178 b 25-26) in cui Aristotele parla, al plurale, della vita speculativa degli dei, identificati da Tommaso nel suo Commento con le sostanze separate che muovono i cieli (Diis enim, id est substantiis separatis, quia habent solam intellectualem vitam, tota eorum vita est bona""  X, <i>lectio</i> 12, n. 2125), e sembra dire che solo quella appartenga loro (""convegna pure""). Dante risponde così: anche se è vero che solo la vita di contemplazione è loro propria (""come  pure la speculativa convenga loro""), tuttavia, per alcune di esse, dall'attività di pensare deriva come effetto il movimento circolare dei cieli (""pure alla speculazione di certe segue la circulazione del cielo""); esso, come abbiamo già visto, regola l'universo (""è governo del mondo""); quest'ultimo può dunque paragonarsi ad una collettività politica bene ordinata (""è quasi una ordinata civilitade"") che è presente come fine nel pensiero dei motori celesti  (""intesa nella speculazione delli motori"". Per il termine ""civilitade"" cfr. la nota a <i>Cv</i> IV  iv 1). Una CITAZIONE ESPLICITA analogia tra l'universo e una comunità politica e tra le sostanze separate e una classe di governo è presente  in Averroè, <i>Metaphysica</i> XI (= XII), c. 44, f. 328 A-C. La risposta di Dante, comunque,  contrasta con quanto affermato  poco prima, e cioè che alcune sostanze separate esercitano solo l' attività di governo del mondo ed altre solo quella del pensiero puro.","X, lectio 12, n. 2125",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
E NON È CONTRA QUELLO,"Dante risponde ad una possibile obiezione basata su di un passo dell' <i>Etica Nicomachea</i> (X 8, 1178 b 25-26) in cui Aristotele parla, al plurale, della vita speculativa degli dei, identificati da Tommaso nel suo Commento con le sostanze separate che muovono i cieli (Diis enim, id est substantiis separatis, quia habent solam intellectualem vitam, tota eorum vita est bona""  X, <i>lectio</i> 12, n. 2125), e sembra dire che solo quella appartenga loro (""convegna pure""). Dante risponde così: anche se è vero che solo la vita di contemplazione è loro propria (""come  pure la speculativa convenga loro""), tuttavia, per alcune di esse, dall'attività di pensare deriva come effetto il movimento circolare dei cieli (""pure alla speculazione di certe segue la circulazione del cielo""); esso, come abbiamo già visto, regola l'universo (""è governo del mondo""); quest'ultimo può dunque paragonarsi ad una collettività politica bene ordinata (""è quasi una ordinata civilitade"") che è presente come fine nel pensiero dei motori celesti  (""intesa nella speculazione delli motori"". Per il termine ""civilitade"" cfr. la nota a <i>Cv</i> IV  iv 1). Una CITAZIONE ESPLICITA analogia tra l'universo e una comunità politica e tra le sostanze separate e una classe di governo è presente  in Averroè, <i>Metaphysica</i> XI (= XII), c. 44, f. 328 A-C. La risposta di Dante, comunque,  contrasta con quanto affermato  poco prima, e cioè che alcune sostanze separate esercitano solo l' attività di governo del mondo ed altre solo quella del pensiero puro.","X 8, 1178 b 25-26",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commento_alla_Metafisica(Averroè),Commento alla Metafisica,Averroè,http://dbpedia.org/resource/Averroes,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
L'ALTRA RAGIONE ...,"il secondo argomento è ancor più generale del primo: il principio per cui nessun effetto è maggiore della sua causa (cagione""), in quanto essa non può trasfondervi più di quanto non sia la sua capacità produttiva (""poi che la cagione non può dare quello che non ha"") viene applicato al rapporto tra l'intelletto divino, che è produttore della totalità delle cose, e l'intelletto umano che ne è per così dire un prodotto privilegiato (""massimamente dell'intelletto umano""): chiaramente dunque quest'ultimo non può sopravanzare (""soperchiare"") il primo; anzi ne è superato in maniera infinita (il termine ""improporzionalmente"" indica in maniera implicita l'infinità dell'intelletto divino: infatti, come dice Aristotele in <i>De caelo</i> I 6, 274 a 7, tra finito ed infinito non è possibile alcuna proporzione ). Se dunque abbiamo capito attraverso le argomentazioni precedenti (""per le ragioni di sopra ... intendiamo"") che Dio avrebbe potuto (""possuto"") creare un numero quasi infinito (""innumerabile quasi"") di intelligenze, risulta evidente che Dio effettivamente ne ha create un numero maggiore di quelle che muovono i cieli (""questo avere fatto maggiore numero""). L'argomento, oltre ad essere generalissimo, è anche di non facile interpretazione: esso si presenta come un passaggio dal <i>posse</i> all' <i>esse</i> e sembra presupporre in qualche modo un principio di pienezza (tutto quello che Dio poteva produrre, lo ha effettivamente prodotto). Non risulta però chiaro quale funzione abbia la tesi della improporzionalità tra intelletto divino ed intelletto umano e soprattutto le ""ragioni di sopra"" avevano argomentato a favore non della possibilità, ma della effettiva esistenza di un numero più alto di Intelligenze. Sui limiti dell'argomentazione di Dante cfr. Nardi 1992, pp. 60-2.","I 6, 274 a 7",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_caelo,De caelo,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
NÉ SI MARAVIGLI,"Dante riconosce il carattere solo probabile e non strettamente dimostrativo delle sue  argomentazioni. Nessuno se ne deve meravigliare perché. questo dipende dalla natura della realtà che si vuole conoscere. Ora, per quanto riguarda le sostanze separate, noi  possiamo affermare che esse esistono (affermar loro essere"") ma contemporaneamente (""medesimamente"") dobbiamo limitarci alla ammirazione della loro altissima natura (""loro eccellenza""), senza poterla conoscere poiché  supera le nostre capacità di comprensione (""soverchia gli occhi della mente umana"". Da un punto di vista strettamente sintattico le affermazioni delle proposizioni dipendenti dalla prima dovrebbero essere riferite a ""queste e altre ragioni"". In realtà esse hanno come soggetto sottinteso le Intelligenze-angeli. Cfr. Porro 2006, p. 315) Come Dante preciserà in <i>Cv</i> II xiv 8 e III iv 9 in maniera sicura noi conosciamo solo l'esistenza delle Intelligenze, dimostrata a partire dai loro effetti (i movimenti dei cieli, appunto), mentre poco o niente ci è accessibile della loro essenza. Non per nulla nel secondo libro della <i>Metafisica</i> (cap. 1, 993 b 9-11) Aristotele,  riguardo alla nostra conoscenza delle realtà immateriali, istituisce il famosissimo paragone tra l'intelletto umano e l'occhio di un animale notturno che voglia vedere il sole (il termine greco <i>nykteris</i> è stato reso nelle varie traduzioni latine medievali con termini diversi,  <i>noctua</i>, <i>vespertilio</i> oppure <i>nicticorax</i>, ma <i>vespertilio</i>-pipistrello è quello che ha avuto maggiore diffusione )","cap. 1, 993 b 9-11",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SÌ COME AFFERMA,"Dante porta come esempio quello di chi, nonostante abbia gli occhi chiusi,  può egualmente dire che l'aria è luminosa perché un minimo di splendore dei raggi solari passa  attraverso le pupille trapelando dalla palpebra (passa per le pupille del palpastrello"") Nonostante la vicinanza della citazione del secondo libro della <i>Metafisica</i> abbia portato editori e commentatori a scegliere tra le varianti testuali il più facile ""vipistrello"" al posto di ""palpastrello"", la proposta della Ageno è resa del tutto plausibile dal contesto. Infatti il poco di splendore che permette di affermare la luminosità dell'aria anche a chi tiene gli occhi chiusi trapela nelle sue pupille, non in quelle di un non meglio identificato pipistrello. Ovviamente gli occhi sono ""gli occhi intellettuali"": il poco di luce percepibile sono le conclusioni raggiunte dalle ""ragioni non dimostrative"". Infine gli occhi della mente sono come ciechi finché (""mentre che"") sono impediti (""legati"") dalla sensibilità corporea (""per gli organi del nostro corpo""). Che la conoscenza umana abbia come punto di partenza e come limite la sensazione è dottrina aristotelica. La convinzione che il corpo sia un ostacolo che impedisce la conoscenza delle realtà soprasensibili, raggiungibili solo quando l'anima riesce a liberarsene (momentaneamente, come nei sogni e nelle visioni, definitivamente dopo la morte) risale invece a Platone. Si tratta di una dottrina ripresa da Avicenna (""anima impedita est in corpore et ex corpore, et ... in multis eget corpore, sed corpus elongat eam a dignioribus suis perfectionibus ...; cum autem aufertur de anima nostra ispa aggravatio et impedimentum, tunc intelligentia animae de his est melior quam habet anima et quae est purior et delectabilior"" <i>Liber de anima seu sextus de naturalibus</i>,  V 5,  pp. 131-132, ll. 7-16 e pp. 132-133, ll. 24-28). Lo schema continua a funzionare in quasi tutti i pensatori latini, anche in chi, come Tommaso accetta in pieno la noetica aristotelica (cfr. <i>Quaestio disputata de anima</i>, art 15:  ""Nec … dubium est quin per motus corporeos et occupationem sensuum anima impediatur a receptione influxus substantiarum separatarum, unde dormientibus et alienatis a sensibus quaedam revelationes fiunt quae non accidunt sensu utentibus""). La definizione del corpo come carcere dell'anima richiama però un platonismo piuttosto estremo (quello del <i>Fedone</i>)  e non mi sembra compaia negli stessi termini né in Tommaso né in Alberto (cfr. nota a <i>Cv</i>. III ii 14). La troviamo invece nella prefazione di  alla traduzione latina del <i>De pomo sive de morte Aristotelis</i>, un testo in cui lo Stagirita, in punto di morte, si esprime attraverso concetti decisamente platonici (in <i>Aristotelis librorum deperditorum fragmenta</i>, ed. Gigon, p. 54b).  Dante poteva leggere qualcosa di simile anche nella Scrittura, e precisamente in <i>Sap</i>. 9, 15 ""Corpus enim quod corrumpitur aggravat animam et terrena inhabitatio deprimit sensum multa cogitantem"",  un brano che, in contesto assai simile, Boncompagno da Signa mette in bocca proprio all'anima: ""Ego... sum de angeli natura creata et tu factum de terra, immo de limo et fece terrestri. Te mecum idem esse fateris? Scirem quidem preterita, presentia et futura, si tua non essem putredine sordidata. Nam corpus, quod corrumpitur, aggravat animam et deprimit terrena inhabitatio sensum plurima cogitantem, et tu dicis: Sum idem cum illa. "" (<i>Amicitia</i> , ed. Nathan, p. 47)","V 5,  pp. 131-132, ll. 7-16 e pp. 132-133, ll. 24-28",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Liber_de_anima_seu_sextus_de_naturalibus,Liber de anima seu sextus de naturalibus,Avicenna,http://dbpedia.org/resource/Avicenna,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SÌ COME AFFERMA,"Dante porta come esempio quello di chi, nonostante abbia gli occhi chiusi,  può egualmente dire che l'aria è luminosa perché un minimo di splendore dei raggi solari passa  attraverso le pupille trapelando dalla palpebra (passa per le pupille del palpastrello"") Nonostante la vicinanza della citazione del secondo libro della <i>Metafisica</i> abbia portato editori e commentatori a scegliere tra le varianti testuali il più facile ""vipistrello"" al posto di ""palpastrello"", la proposta della Ageno è resa del tutto plausibile dal contesto. Infatti il poco di splendore che permette di affermare la luminosità dell'aria anche a chi tiene gli occhi chiusi trapela nelle sue pupille, non in quelle di un non meglio identificato pipistrello. Ovviamente gli occhi sono ""gli occhi intellettuali"": il poco di luce percepibile sono le conclusioni raggiunte dalle ""ragioni non dimostrative"". Infine gli occhi della mente sono come ciechi finché (""mentre che"") sono impediti (""legati"") dalla sensibilità corporea (""per gli organi del nostro corpo""). Che la conoscenza umana abbia come punto di partenza e come limite la sensazione è dottrina aristotelica. La convinzione che il corpo sia un ostacolo che impedisce la conoscenza delle realtà soprasensibili, raggiungibili solo quando l'anima riesce a liberarsene (momentaneamente, come nei sogni e nelle visioni, definitivamente dopo la morte) risale invece a Platone. Si tratta di una dottrina ripresa da Avicenna (""anima impedita est in corpore et ex corpore, et ... in multis eget corpore, sed corpus elongat eam a dignioribus suis perfectionibus ...; cum autem aufertur de anima nostra ispa aggravatio et impedimentum, tunc intelligentia animae de his est melior quam habet anima et quae est purior et delectabilior"" <i>Liber de anima seu sextus de naturalibus</i>,  V 5,  pp. 131-132, ll. 7-16 e pp. 132-133, ll. 24-28). Lo schema continua a funzionare in quasi tutti i pensatori latini, anche in chi, come Tommaso accetta in pieno la noetica aristotelica (cfr. <i>Quaestio disputata de anima</i>, art 15:  ""Nec … dubium est quin per motus corporeos et occupationem sensuum anima impediatur a receptione influxus substantiarum separatarum, unde dormientibus et alienatis a sensibus quaedam revelationes fiunt quae non accidunt sensu utentibus""). La definizione del corpo come carcere dell'anima richiama però un platonismo piuttosto estremo (quello del <i>Fedone</i>)  e non mi sembra compaia negli stessi termini né in Tommaso né in Alberto (cfr. nota a <i>Cv</i>. III ii 14). La troviamo invece nella prefazione di  alla traduzione latina del <i>De pomo sive de morte Aristotelis</i>, un testo in cui lo Stagirita, in punto di morte, si esprime attraverso concetti decisamente platonici (in <i>Aristotelis librorum deperditorum fragmenta</i>, ed. Gigon, p. 54b).  Dante poteva leggere qualcosa di simile anche nella Scrittura, e precisamente in <i>Sap</i>. 9, 15 ""Corpus enim quod corrumpitur aggravat animam et terrena inhabitatio deprimit sensum multa cogitantem"",  un brano che, in contesto assai simile, Boncompagno da Signa mette in bocca proprio all'anima: ""Ego... sum de angeli natura creata et tu factum de terra, immo de limo et fece terrestri. Te mecum idem esse fateris? Scirem quidem preterita, presentia et futura, si tua non essem putredine sordidata. Nam corpus, quod corrumpitur, aggravat animam et deprimit terrena inhabitatio sensum plurima cogitantem, et tu dicis: Sum idem cum illa. "" (<i>Amicitia</i> , ed. Nathan, p. 47)","V 5,  pp. 131-132, ll. 7-16 e pp. 132-133, ll. 24-28",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Liber_de_anima_seu_sextus_de_naturalibus,Liber de anima seu sextus de naturalibus,Avicenna,http://dbpedia.org/resource/Avicenna,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SÌ COME AFFERMA,"Dante porta come esempio quello di chi, nonostante abbia gli occhi chiusi,  può egualmente dire che l'aria è luminosa perché un minimo di splendore dei raggi solari passa  attraverso le pupille trapelando dalla palpebra (passa per le pupille del palpastrello"") Nonostante la vicinanza della citazione del secondo libro della <i>Metafisica</i> abbia portato editori e commentatori a scegliere tra le varianti testuali il più facile ""vipistrello"" al posto di ""palpastrello"", la proposta della Ageno è resa del tutto plausibile dal contesto. Infatti il poco di splendore che permette di affermare la luminosità dell'aria anche a chi tiene gli occhi chiusi trapela nelle sue pupille, non in quelle di un non meglio identificato pipistrello. Ovviamente gli occhi sono ""gli occhi intellettuali"": il poco di luce percepibile sono le conclusioni raggiunte dalle ""ragioni non dimostrative"". Infine gli occhi della mente sono come ciechi finché (""mentre che"") sono impediti (""legati"") dalla sensibilità corporea (""per gli organi del nostro corpo""). Che la conoscenza umana abbia come punto di partenza e come limite la sensazione è dottrina aristotelica. La convinzione che il corpo sia un ostacolo che impedisce la conoscenza delle realtà soprasensibili, raggiungibili solo quando l'anima riesce a liberarsene (momentaneamente, come nei sogni e nelle visioni, definitivamente dopo la morte) risale invece a Platone. Si tratta di una dottrina ripresa da Avicenna (""anima impedita est in corpore et ex corpore, et ... in multis eget corpore, sed corpus elongat eam a dignioribus suis perfectionibus ...; cum autem aufertur de anima nostra ispa aggravatio et impedimentum, tunc intelligentia animae de his est melior quam habet anima et quae est purior et delectabilior"" <i>Liber de anima seu sextus de naturalibus</i>,  V 5,  pp. 131-132, ll. 7-16 e pp. 132-133, ll. 24-28). Lo schema continua a funzionare in quasi tutti i pensatori latini, anche in chi, come Tommaso accetta in pieno la noetica aristotelica (cfr. <i>Quaestio disputata de anima</i>, art 15:  ""Nec … dubium est quin per motus corporeos et occupationem sensuum anima impediatur a receptione influxus substantiarum separatarum, unde dormientibus et alienatis a sensibus quaedam revelationes fiunt quae non accidunt sensu utentibus""). La definizione del corpo come carcere dell'anima richiama però un platonismo piuttosto estremo (quello del <i>Fedone</i>)  e non mi sembra compaia negli stessi termini né in Tommaso né in Alberto (cfr. nota a <i>Cv</i>. III ii 14). La troviamo invece nella prefazione di  alla traduzione latina del <i>De pomo sive de morte Aristotelis</i>, un testo in cui lo Stagirita, in punto di morte, si esprime attraverso concetti decisamente platonici (in <i>Aristotelis librorum deperditorum fragmenta</i>, ed. Gigon, p. 54b).  Dante poteva leggere qualcosa di simile anche nella Scrittura, e precisamente in <i>Sap</i>. 9, 15 ""Corpus enim quod corrumpitur aggravat animam et terrena inhabitatio deprimit sensum multa cogitantem"",  un brano che, in contesto assai simile, Boncompagno da Signa mette in bocca proprio all'anima: ""Ego... sum de angeli natura creata et tu factum de terra, immo de limo et fece terrestri. Te mecum idem esse fateris? Scirem quidem preterita, presentia et futura, si tua non essem putredine sordidata. Nam corpus, quod corrumpitur, aggravat animam et deprimit terrena inhabitatio sensum plurima cogitantem, et tu dicis: Sum idem cum illa. "" (<i>Amicitia</i> , ed. Nathan, p. 47)",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Phaedo,Fedone,Platone,http://dbpedia.org/resource/Plato,http://purl.org/bncf/tid/8332,WORK
SÌ COME AFFERMA,"Dante porta come esempio quello di chi, nonostante abbia gli occhi chiusi,  può egualmente dire che l'aria è luminosa perché un minimo di splendore dei raggi solari passa  attraverso le pupille trapelando dalla palpebra (passa per le pupille del palpastrello"") Nonostante la vicinanza della citazione del secondo libro della <i>Metafisica</i> abbia portato editori e commentatori a scegliere tra le varianti testuali il più facile ""vipistrello"" al posto di ""palpastrello"", la proposta della Ageno è resa del tutto plausibile dal contesto. Infatti il poco di splendore che permette di affermare la luminosità dell'aria anche a chi tiene gli occhi chiusi trapela nelle sue pupille, non in quelle di un non meglio identificato pipistrello. Ovviamente gli occhi sono ""gli occhi intellettuali"": il poco di luce percepibile sono le conclusioni raggiunte dalle ""ragioni non dimostrative"". Infine gli occhi della mente sono come ciechi finché (""mentre che"") sono impediti (""legati"") dalla sensibilità corporea (""per gli organi del nostro corpo""). Che la conoscenza umana abbia come punto di partenza e come limite la sensazione è dottrina aristotelica. La convinzione che il corpo sia un ostacolo che impedisce la conoscenza delle realtà soprasensibili, raggiungibili solo quando l'anima riesce a liberarsene (momentaneamente, come nei sogni e nelle visioni, definitivamente dopo la morte) risale invece a Platone. Si tratta di una dottrina ripresa da Avicenna (""anima impedita est in corpore et ex corpore, et ... in multis eget corpore, sed corpus elongat eam a dignioribus suis perfectionibus ...; cum autem aufertur de anima nostra ispa aggravatio et impedimentum, tunc intelligentia animae de his est melior quam habet anima et quae est purior et delectabilior"" <i>Liber de anima seu sextus de naturalibus</i>,  V 5,  pp. 131-132, ll. 7-16 e pp. 132-133, ll. 24-28). Lo schema continua a funzionare in quasi tutti i pensatori latini, anche in chi, come Tommaso accetta in pieno la noetica aristotelica (cfr. <i>Quaestio disputata de anima</i>, art 15:  ""Nec … dubium est quin per motus corporeos et occupationem sensuum anima impediatur a receptione influxus substantiarum separatarum, unde dormientibus et alienatis a sensibus quaedam revelationes fiunt quae non accidunt sensu utentibus""). La definizione del corpo come carcere dell'anima richiama però un platonismo piuttosto estremo (quello del <i>Fedone</i>)  e non mi sembra compaia negli stessi termini né in Tommaso né in Alberto (cfr. nota a <i>Cv</i>. III ii 14). La troviamo invece nella prefazione di  alla traduzione latina del <i>De pomo sive de morte Aristotelis</i>, un testo in cui lo Stagirita, in punto di morte, si esprime attraverso concetti decisamente platonici (in <i>Aristotelis librorum deperditorum fragmenta</i>, ed. Gigon, p. 54b).  Dante poteva leggere qualcosa di simile anche nella Scrittura, e precisamente in <i>Sap</i>. 9, 15 ""Corpus enim quod corrumpitur aggravat animam et terrena inhabitatio deprimit sensum multa cogitantem"",  un brano che, in contesto assai simile, Boncompagno da Signa mette in bocca proprio all'anima: ""Ego... sum de angeli natura creata et tu factum de terra, immo de limo et fece terrestri. Te mecum idem esse fateris? Scirem quidem preterita, presentia et futura, si tua non essem putredine sordidata. Nam corpus, quod corrumpitur, aggravat animam et deprimit terrena inhabitatio sensum plurima cogitantem, et tu dicis: Sum idem cum illa. "" (<i>Amicitia</i> , ed. Nathan, p. 47)","art 15:  ""Nec ... dubium est quin per motus corporeos et occupationem sensuum anima impediatur a receptione influxus substantiarum separatarum, unde dormientibus et alienatis a sensibus quaedam revelationes fiunt quae non accidunt sensu utentibus""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Quaestio_disputata_de_anima,Quaestio disputata de anima,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
SÌ COME AFFERMA,"Dante porta come esempio quello di chi, nonostante abbia gli occhi chiusi,  può egualmente dire che l'aria è luminosa perché un minimo di splendore dei raggi solari passa  attraverso le pupille trapelando dalla palpebra (passa per le pupille del palpastrello"") Nonostante la vicinanza della citazione del secondo libro della <i>Metafisica</i> abbia portato editori e commentatori a scegliere tra le varianti testuali il più facile ""vipistrello"" al posto di ""palpastrello"", la proposta della Ageno è resa del tutto plausibile dal contesto. Infatti il poco di splendore che permette di affermare la luminosità dell'aria anche a chi tiene gli occhi chiusi trapela nelle sue pupille, non in quelle di un non meglio identificato pipistrello. Ovviamente gli occhi sono ""gli occhi intellettuali"": il poco di luce percepibile sono le conclusioni raggiunte dalle ""ragioni non dimostrative"". Infine gli occhi della mente sono come ciechi finché (""mentre che"") sono impediti (""legati"") dalla sensibilità corporea (""per gli organi del nostro corpo""). Che la conoscenza umana abbia come punto di partenza e come limite la sensazione è dottrina aristotelica. La convinzione che il corpo sia un ostacolo che impedisce la conoscenza delle realtà soprasensibili, raggiungibili solo quando l'anima riesce a liberarsene (momentaneamente, come nei sogni e nelle visioni, definitivamente dopo la morte) risale invece a Platone. Si tratta di una dottrina ripresa da Avicenna (""anima impedita est in corpore et ex corpore, et ... in multis eget corpore, sed corpus elongat eam a dignioribus suis perfectionibus ...; cum autem aufertur de anima nostra ispa aggravatio et impedimentum, tunc intelligentia animae de his est melior quam habet anima et quae est purior et delectabilior"" <i>Liber de anima seu sextus de naturalibus</i>,  V 5,  pp. 131-132, ll. 7-16 e pp. 132-133, ll. 24-28). Lo schema continua a funzionare in quasi tutti i pensatori latini, anche in chi, come Tommaso accetta in pieno la noetica aristotelica (cfr. <i>Quaestio disputata de anima</i>, art 15:  ""Nec … dubium est quin per motus corporeos et occupationem sensuum anima impediatur a receptione influxus substantiarum separatarum, unde dormientibus et alienatis a sensibus quaedam revelationes fiunt quae non accidunt sensu utentibus""). La definizione del corpo come carcere dell'anima richiama però un platonismo piuttosto estremo (quello del <i>Fedone</i>)  e non mi sembra compaia negli stessi termini né in Tommaso né in Alberto (cfr. nota a <i>Cv</i>. III ii 14). La troviamo invece nella prefazione di  alla traduzione latina del <i>De pomo sive de morte Aristotelis</i>, un testo in cui lo Stagirita, in punto di morte, si esprime attraverso concetti decisamente platonici (in <i>Aristotelis librorum deperditorum fragmenta</i>, ed. Gigon, p. 54b).  Dante poteva leggere qualcosa di simile anche nella Scrittura, e precisamente in <i>Sap</i>. 9, 15 ""Corpus enim quod corrumpitur aggravat animam et terrena inhabitatio deprimit sensum multa cogitantem"",  un brano che, in contesto assai simile, Boncompagno da Signa mette in bocca proprio all'anima: ""Ego... sum de angeli natura creata et tu factum de terra, immo de limo et fece terrestri. Te mecum idem esse fateris? Scirem quidem preterita, presentia et futura, si tua non essem putredine sordidata. Nam corpus, quod corrumpitur, aggravat animam et deprimit terrena inhabitatio sensum plurima cogitantem, et tu dicis: Sum idem cum illa. "" (<i>Amicitia</i> , ed. Nathan, p. 47)","9, 15",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Wisdom,Sapienza,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
SÌ COME AFFERMA,"Dante porta come esempio quello di chi, nonostante abbia gli occhi chiusi,  può egualmente dire che l'aria è luminosa perché un minimo di splendore dei raggi solari passa  attraverso le pupille trapelando dalla palpebra (passa per le pupille del palpastrello"") Nonostante la vicinanza della citazione del secondo libro della <i>Metafisica</i> abbia portato editori e commentatori a scegliere tra le varianti testuali il più facile ""vipistrello"" al posto di ""palpastrello"", la proposta della Ageno è resa del tutto plausibile dal contesto. Infatti il poco di splendore che permette di affermare la luminosità dell'aria anche a chi tiene gli occhi chiusi trapela nelle sue pupille, non in quelle di un non meglio identificato pipistrello. Ovviamente gli occhi sono ""gli occhi intellettuali"": il poco di luce percepibile sono le conclusioni raggiunte dalle ""ragioni non dimostrative"". Infine gli occhi della mente sono come ciechi finché (""mentre che"") sono impediti (""legati"") dalla sensibilità corporea (""per gli organi del nostro corpo""). Che la conoscenza umana abbia come punto di partenza e come limite la sensazione è dottrina aristotelica. La convinzione che il corpo sia un ostacolo che impedisce la conoscenza delle realtà soprasensibili, raggiungibili solo quando l'anima riesce a liberarsene (momentaneamente, come nei sogni e nelle visioni, definitivamente dopo la morte) risale invece a Platone. Si tratta di una dottrina ripresa da Avicenna (""anima impedita est in corpore et ex corpore, et ... in multis eget corpore, sed corpus elongat eam a dignioribus suis perfectionibus ...; cum autem aufertur de anima nostra ispa aggravatio et impedimentum, tunc intelligentia animae de his est melior quam habet anima et quae est purior et delectabilior"" <i>Liber de anima seu sextus de naturalibus</i>,  V 5,  pp. 131-132, ll. 7-16 e pp. 132-133, ll. 24-28). Lo schema continua a funzionare in quasi tutti i pensatori latini, anche in chi, come Tommaso accetta in pieno la noetica aristotelica (cfr. <i>Quaestio disputata de anima</i>, art 15:  ""Nec … dubium est quin per motus corporeos et occupationem sensuum anima impediatur a receptione influxus substantiarum separatarum, unde dormientibus et alienatis a sensibus quaedam revelationes fiunt quae non accidunt sensu utentibus""). La definizione del corpo come carcere dell'anima richiama però un platonismo piuttosto estremo (quello del <i>Fedone</i>)  e non mi sembra compaia negli stessi termini né in Tommaso né in Alberto (cfr. nota a <i>Cv</i>. III ii 14). La troviamo invece nella prefazione di  alla traduzione latina del <i>De pomo sive de morte Aristotelis</i>, un testo in cui lo Stagirita, in punto di morte, si esprime attraverso concetti decisamente platonici (in <i>Aristotelis librorum deperditorum fragmenta</i>, ed. Gigon, p. 54b).  Dante poteva leggere qualcosa di simile anche nella Scrittura, e precisamente in <i>Sap</i>. 9, 15 ""Corpus enim quod corrumpitur aggravat animam et terrena inhabitatio deprimit sensum multa cogitantem"",  un brano che, in contesto assai simile, Boncompagno da Signa mette in bocca proprio all'anima: ""Ego... sum de angeli natura creata et tu factum de terra, immo de limo et fece terrestri. Te mecum idem esse fateris? Scirem quidem preterita, presentia et futura, si tua non essem putredine sordidata. Nam corpus, quod corrumpitur, aggravat animam et deprimit terrena inhabitatio sensum plurima cogitantem, et tu dicis: Sum idem cum illa. "" (<i>Amicitia</i> , ed. Nathan, p. 47)","ed. Nathan, p. 47",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Liber_Amicitiae,Liber Amicitiae,Boncompagno da Signa,http://dbpedia.org/resource/Boncompagno_da_Signa,http://purl.org/bncf/tid/4567,WORK
"DETTO È CHE, PER DIFETTO D'AMAESTRAMENTO","dopo aver cercato di ovviare con le sue argomentazioni al difetto di ragione"", Dante affronta ora il tema del ""difetto di ammaestramento"", cioè della assenza della rivelazione divina che ha impedito ai pagani una piena conoscenza della natura delle sostanze angeliche. A questa particolare materia Dante applica un modello generale già enunciato dalle lettere paoline, quello della progressività della rivelazione divina. All'interno della storia della salvezza, l'ammaestramento relativo agli angeli è iniziato parzialmente (""in parte"") con gli israeliti, istruiti dai profeti, come dice la lettera agli Ebrei (attribuita ovviamente all'Apostolo per eccellenza, Paolo; Dante traduce, con lievi mutamenti il versetto primo del primo capitolo ""multifariam multisque modis olim Deus loquens patribus in prophetis""). Il processo si è compiuto per noi con Cristo, venuto direttamente da Dio (""ma noi semo di ciò ammaestrati da colui che venne da quello"" cfr. <i>Jo</i>. 17, 28 ""veni a Patre..."" ) lui che ha creato (""fece"") e mantiene in essere (""conserva"") le creature spirituali (e quindi le conosce perfettamente).","versetto primo del primo capitolo ""multifariam multisque modis olim Deus loquens patribus in prophetis""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Epistle_to_the_Hebrews,Epistula ad Hebraeos,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
FIGLIA DI IOACCHINO E D'ADAM,"figlia di Giovacchino e discendente come noi tutti, eccetto Cristo, da Adamo'. I nomi dei genitori di Maria (Giovacchino ed Anna) non compaiono nei vangeli canonici, bensì risalgono ad una tradizione diffusa da Girolamo e poi universalmente accettata, presente anche nel testo base per l'insegnamento della teologia, le <i>Sententiae</i> di Pier Lombardo.",,CONCORDANZA GENERICA,,,Girolamo,http://dbpedia.org/resource/Jerome,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/esegesi_biblica,CONCEPT
FIGLIA DI IOACCHINO E D'ADAM,"figlia di Giovacchino e discendente come noi tutti, eccetto Cristo, da Adamo'. I nomi dei genitori di Maria (Giovacchino ed Anna) non compaiono nei vangeli canonici, bensì risalgono ad una tradizione diffusa da Girolamo e poi universalmente accettata, presente anche nel testo base per l'insegnamento della teologia, le <i>Sententiae</i> di Pier Lombardo.",,CONCORDANZA GENERICA,http://dbpedia.org/resource/Sentences,Sententiae,Pietro Lombardo,http://dbpedia.org/resource/Pietro_Lombardo,http://purl.org/bncf/tid/1546,WORK
LO QUAL FU LUCE,"Dante fonde due versetti del prologo del Vangelo di Giovanni : 1, 5  lux in tenebris lucet"" e 1, 9 ""erat lux vera quae illuminat omnem hominem"".","1, 5 "" lux in tenebris lucet""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_John,Vangelo di Giovanni,Giovanni,http://dbpedia.org/resource/John_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
LO QUAL FU LUCE,"Dante fonde due versetti del prologo del Vangelo di Giovanni : 1, 5  lux in tenebris lucet"" e 1, 9 ""erat lux vera quae illuminat omnem hominem"".","1, 9 ""erat lux vera quae illuminat omnem hominem""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_John,Vangelo di Giovanni,Giovanni,http://dbpedia.org/resource/John_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
DI TREDICI ANNI,"come nel caso del nome dei genitori di Maria, così anche in quello della sua età al momento dell'annunciazione i Vangeli (nel caso specifico Luca) non dicono niente. Dante attinge da una tradizione che faceva oscillare gli anni tra i dodici e i quattordici.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Luke,Vangelo di Luca,Luca,http://dbpedia.org/resource/Luke_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
QUESTO NOSTRO SALVATORE ... MOLTE LEGIONI D'ANGELI,"si riferisce a quanto detto da Gesù a chi, nell' orto degli Ulivi, aveva cercato di difenderlo usando la spada (cfr. <i>Mt</i> 26, 53).",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Matthew,Vangelo di Matteo,Matteo,http://dbpedia.org/resource/Matthew_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
QUESTI NON NEGÒ ... SERVISSERO,"si riferisce all'episodio della seconda tentazione nel deserto, quando Satana esorta Cristo a gettarsi dal pinnacolo del Tempio perché si adempia quanto detto dal  Salmo Angelis tuis mandavit de te, et in manibus tollent te"" (cfr. <i>Mt</i> 4, 6-11). La risposta di Gesù effettivamente non nega che l'affermazione del versetto sia vera, ma nel contesto della disputa ne respinge l'uso che Satana vuol farne. Solo nella conclusione dell'episodio delle tentazioni, però, e non nelle parole del demonio, appare il termine ""ministrare"" : ""et ecce angeli accesserunt, et ministrabant ei"".",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Matthew,Vangelo di Matteo,Matteo,http://dbpedia.org/resource/Matthew_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
LA SUA SPOSA ... SANTA ECCLESIA,"nel Medioevo  una linea esegetica interpretava l'amato e l'amata del <i>Cantico dei Cantici</i> come figure di Cristo e della sua Chiesa (cfr. Bernardo di Chiaravalle, <i>Sermones in Cantica</i>, PL 178, p. 788. La metafora nuziale era già stata adoperata da Paolo nella Lettera agli Efesini 5, 25-32). Con tutta la tradizione  Dante attribuisce il <i>Cantico</i> a Salomone, citando e traducendo il versetto 5 del cap. 8:  Quae est ista quae ascendit de deserto, deliciis affluens (""piena delle cose che dilettano""), innixa super dilectum suum?"".","versetto 5 del cap. 8:  Quae est ista quae ascendit de deserto, deliciis affluens (""piena delle cose che dilettano""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Song_of_Songs,Cantico dei cantici,Salomone,http://dbpedia.org/resource/Solomon,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
LA SUA SPOSA ... SANTA ECCLESIA,"nel Medioevo  una linea esegetica interpretava l'amato e l'amata del <i>Cantico dei Cantici</i> come figure di Cristo e della sua Chiesa (cfr. Bernardo di Chiaravalle, <i>Sermones in Cantica</i>, PL 178, p. 788. La metafora nuziale era già stata adoperata da Paolo nella Lettera agli Efesini 5, 25-32). Con tutta la tradizione  Dante attribuisce il <i>Cantico</i> a Salomone, citando e traducendo il versetto 5 del cap. 8:  Quae est ista quae ascendit de deserto, deliciis affluens (""piena delle cose che dilettano""), innixa super dilectum suum?"".","PL 178, p. 788",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sermones_super_Cantica_Canticorum,Sermones super Cantica Canticorum,Bernardo di Chiaravalle,http://dbpedia.org/resource/Bernard_of_Clairvaux,http://purl.org/bncf/tid/1546,WORK
LA SUA SPOSA ... SANTA ECCLESIA,"nel Medioevo  una linea esegetica interpretava l'amato e l'amata del <i>Cantico dei Cantici</i> come figure di Cristo e della sua Chiesa (cfr. Bernardo di Chiaravalle, <i>Sermones in Cantica</i>, PL 178, p. 788. La metafora nuziale era già stata adoperata da Paolo nella Lettera agli Efesini 5, 25-32). Con tutta la tradizione  Dante attribuisce il <i>Cantico</i> a Salomone, citando e traducendo il versetto 5 del cap. 8:  Quae est ista quae ascendit de deserto, deliciis affluens (""piena delle cose che dilettano""), innixa super dilectum suum?"".","5, 25-32",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Epistle_to_the_Ephesians,Epistola ad Ephesios,Paolo,http://dbpedia.org/resource/Paul_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
CHE È A DIRE,"che equivale a dire'.  Principati santi"" corrisponde in effetti al greco  <i>hierai archai</i>, santi poteri, attraverso la mediazione del latino (cfr. Tommaso, <i>Summa contra Gentiles</i> III, cap. 80, n. 2548  ""hierarchiae, id est sacri principatus""). La affermazione di una ""quasi innumerabilità"" degli angeli trova appoggi nella Scrittura (cfr. Dan. 7, 10), ma la loro distinzione in tre gruppi di tre schiere gerarchicamente ordinate è creazione ecclesiatica non anteriore al VI secolo dopo Cristo.","III, cap. 80, n. 2548  ""hierarchiae, id est sacri principatus""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_contra_Gentiles,Summa contra Gentiles,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
CHE È A DIRE,"che equivale a dire'.  Principati santi"" corrisponde in effetti al greco  <i>hierai archai</i>, santi poteri, attraverso la mediazione del latino (cfr. Tommaso, <i>Summa contra Gentiles</i> III, cap. 80, n. 2548  ""hierarchiae, id est sacri principatus""). La affermazione di una ""quasi innumerabilità"" degli angeli trova appoggi nella Scrittura (cfr. Dan. 7, 10), ma la loro distinzione in tre gruppi di tre schiere gerarchicamente ordinate è creazione ecclesiatica non anteriore al VI secolo dopo Cristo.","7, 10",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Daniel,Libro di Daniele,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
LO PRIMO È QUELLO DELLI ANGELI,"l' ordine ascendente delle schiere angeliche  (quanto al nostro salire a loro altezza"", cioè dal basso in alto) rispecchia quello presentato da  Gregorio Magno nei <i>Moralia in Iob</i> XXXII, c. 23 (PL 76, p. 665). In realtà nelle <i>Homiliae in  Evangelia</i>  II, xxxiv 7-10 (PL 76, p. 1249 sgg. Gregorio fornisce un altro schema, quasi identico a quello di Dionigi). Nella <i>Divina Commedia</i> Dante accoglierà invece l'ordine presente nel capitolo sesto del <i>De coelesti hierarchia</i> dello pseudo Dionigi Areopagita: Angeli, Arcangeli, Principati, Potestà, Virtù, Dominazioni, Troni, Cherubini, Serafini. Il modello di Dionigi risultò più autorevole in quanto lo si riteneva derivato dalla diretta testimonianza di Paolo che nella seconda Lettera ai Corinzi 12, 1-4  aveva detto di essere stato ""rapito"" in  Paradiso.. Di Paolo l'anonimo compositore del <i>De coelesti hierarchia</i>  si presentava  come discepolo e poteva farlo in quanto gli <i>Atti degli Apostoli</i> 17, 34 raccontavano di come tra i pochi convertiti ateniesi dell'apostolo ci fosse stato un Dionigi giudice dell'Areopago. Cfr. <i>Pd</i>  XXVIII 136-8 ""E se tanto segreto ver proferse / mortale in terra non voglio ch'ammiri / ché chi 'l vide quassù, gliel scoperse""  (cfr. ""lo primo secreto che ne mostrò"" del paragrafo 4. Dunque la Santa Chiesa è veramente ""secretaria"" delle verità divine). Quanto a Gregorio anch'egli dopo la morte, in Paradiso, sarebbe stato testimone 'de visu' della verità di questa diversa classificazione. Cfr. <i>Pd</i>  XXVIII, 133 sgg.  ""Ma Gregorio da lui (scil. Dionigi) poi si divise / onde sì tosto come l'occhio aperse / in questo ciel, di se medesmo rise"".  Nell' uso del modello di Gregorio Dante sembra dipendere dal <i>Trésor</i> di Brunetto Latini  (I XII 5, p. 26). Quando nel cielo di Venere  Carlo Martello citerà proprio la canzone <i>Voi ch'intendendo il terzo ciel movete</i>, Dante, commetterà un piccolo falso, facendo dire al principe angioino che essa era  rivolta ai Principati,  in modo da retrocedere all'altezza del <i>Convivio</i> la sua accettazione del modello angelologico dell' Areopagita (cfr. <i>Pd</i> VIII 34-7). Su tutta la questione vedi un documentatissimo contributo di Agostino Pertusi (Pertusi 1988) che fornisce una tavola comparativa dei diversi modi di ordinamento delle schiere angeliche, da cui risulta che lo schema di Gregorio era stato usato anche nelle <i>Etymologiae</i> di Isidoro di Siviglia. Risulta comunque strano il ricorso a Gregorio dato che, guardando i mosaici del suo bel San Giovanni e leggendo le raffigurazioni delle gerarchie angeliche da sinistra a destra e da destra a sinistra, rispetto alla figura del Cristo, Dante avrebbe potuto vedere proprio l'ordine stabilito da Dionigi (cfr. Wilkins 1927).","XXXII, c. 23 (PL 76, p. 665)",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Moralia_in_Iob,Moralia in Iob,Gregorio Magno,http://dbpedia.org/resource/Pope_Gregory_I,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/esegesi_biblica_vecchio_testamento,WORK
LO PRIMO È QUELLO DELLI ANGELI,"l' ordine ascendente delle schiere angeliche  (quanto al nostro salire a loro altezza"", cioè dal basso in alto) rispecchia quello presentato da  Gregorio Magno nei <i>Moralia in Iob</i> XXXII, c. 23 (PL 76, p. 665). In realtà nelle <i>Homiliae in  Evangelia</i>  II, xxxiv 7-10 (PL 76, p. 1249 sgg. Gregorio fornisce un altro schema, quasi identico a quello di Dionigi). Nella <i>Divina Commedia</i> Dante accoglierà invece l'ordine presente nel capitolo sesto del <i>De coelesti hierarchia</i> dello pseudo Dionigi Areopagita: Angeli, Arcangeli, Principati, Potestà, Virtù, Dominazioni, Troni, Cherubini, Serafini. Il modello di Dionigi risultò più autorevole in quanto lo si riteneva derivato dalla diretta testimonianza di Paolo che nella seconda Lettera ai Corinzi 12, 1-4  aveva detto di essere stato ""rapito"" in  Paradiso.. Di Paolo l'anonimo compositore del <i>De coelesti hierarchia</i>  si presentava  come discepolo e poteva farlo in quanto gli <i>Atti degli Apostoli</i> 17, 34 raccontavano di come tra i pochi convertiti ateniesi dell'apostolo ci fosse stato un Dionigi giudice dell'Areopago. Cfr. <i>Pd</i>  XXVIII 136-8 ""E se tanto segreto ver proferse / mortale in terra non voglio ch'ammiri / ché chi 'l vide quassù, gliel scoperse""  (cfr. ""lo primo secreto che ne mostrò"" del paragrafo 4. Dunque la Santa Chiesa è veramente ""secretaria"" delle verità divine). Quanto a Gregorio anch'egli dopo la morte, in Paradiso, sarebbe stato testimone 'de visu' della verità di questa diversa classificazione. Cfr. <i>Pd</i>  XXVIII, 133 sgg.  ""Ma Gregorio da lui (scil. Dionigi) poi si divise / onde sì tosto come l'occhio aperse / in questo ciel, di se medesmo rise"".  Nell' uso del modello di Gregorio Dante sembra dipendere dal <i>Trésor</i> di Brunetto Latini  (I XII 5, p. 26). Quando nel cielo di Venere  Carlo Martello citerà proprio la canzone <i>Voi ch'intendendo il terzo ciel movete</i>, Dante, commetterà un piccolo falso, facendo dire al principe angioino che essa era  rivolta ai Principati,  in modo da retrocedere all'altezza del <i>Convivio</i> la sua accettazione del modello angelologico dell' Areopagita (cfr. <i>Pd</i> VIII 34-7). Su tutta la questione vedi un documentatissimo contributo di Agostino Pertusi (Pertusi 1988) che fornisce una tavola comparativa dei diversi modi di ordinamento delle schiere angeliche, da cui risulta che lo schema di Gregorio era stato usato anche nelle <i>Etymologiae</i> di Isidoro di Siviglia. Risulta comunque strano il ricorso a Gregorio dato che, guardando i mosaici del suo bel San Giovanni e leggendo le raffigurazioni delle gerarchie angeliche da sinistra a destra e da destra a sinistra, rispetto alla figura del Cristo, Dante avrebbe potuto vedere proprio l'ordine stabilito da Dionigi (cfr. Wilkins 1927).","II, xxxiv 7-10 (PL 76, p. 1249 sgg.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Homiliae_in_Evangelia,Homiliae in Evangelia,Gregorio Magno,http://dbpedia.org/resource/Pope_Gregory_I,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
LO PRIMO È QUELLO DELLI ANGELI,"l' ordine ascendente delle schiere angeliche  (quanto al nostro salire a loro altezza"", cioè dal basso in alto) rispecchia quello presentato da  Gregorio Magno nei <i>Moralia in Iob</i> XXXII, c. 23 (PL 76, p. 665). In realtà nelle <i>Homiliae in  Evangelia</i>  II, xxxiv 7-10 (PL 76, p. 1249 sgg. Gregorio fornisce un altro schema, quasi identico a quello di Dionigi). Nella <i>Divina Commedia</i> Dante accoglierà invece l'ordine presente nel capitolo sesto del <i>De coelesti hierarchia</i> dello pseudo Dionigi Areopagita: Angeli, Arcangeli, Principati, Potestà, Virtù, Dominazioni, Troni, Cherubini, Serafini. Il modello di Dionigi risultò più autorevole in quanto lo si riteneva derivato dalla diretta testimonianza di Paolo che nella seconda Lettera ai Corinzi 12, 1-4  aveva detto di essere stato ""rapito"" in  Paradiso.. Di Paolo l'anonimo compositore del <i>De coelesti hierarchia</i>  si presentava  come discepolo e poteva farlo in quanto gli <i>Atti degli Apostoli</i> 17, 34 raccontavano di come tra i pochi convertiti ateniesi dell'apostolo ci fosse stato un Dionigi giudice dell'Areopago. Cfr. <i>Pd</i>  XXVIII 136-8 ""E se tanto segreto ver proferse / mortale in terra non voglio ch'ammiri / ché chi 'l vide quassù, gliel scoperse""  (cfr. ""lo primo secreto che ne mostrò"" del paragrafo 4. Dunque la Santa Chiesa è veramente ""secretaria"" delle verità divine). Quanto a Gregorio anch'egli dopo la morte, in Paradiso, sarebbe stato testimone 'de visu' della verità di questa diversa classificazione. Cfr. <i>Pd</i>  XXVIII, 133 sgg.  ""Ma Gregorio da lui (scil. Dionigi) poi si divise / onde sì tosto come l'occhio aperse / in questo ciel, di se medesmo rise"".  Nell' uso del modello di Gregorio Dante sembra dipendere dal <i>Trésor</i> di Brunetto Latini  (I XII 5, p. 26). Quando nel cielo di Venere  Carlo Martello citerà proprio la canzone <i>Voi ch'intendendo il terzo ciel movete</i>, Dante, commetterà un piccolo falso, facendo dire al principe angioino che essa era  rivolta ai Principati,  in modo da retrocedere all'altezza del <i>Convivio</i> la sua accettazione del modello angelologico dell' Areopagita (cfr. <i>Pd</i> VIII 34-7). Su tutta la questione vedi un documentatissimo contributo di Agostino Pertusi (Pertusi 1988) che fornisce una tavola comparativa dei diversi modi di ordinamento delle schiere angeliche, da cui risulta che lo schema di Gregorio era stato usato anche nelle <i>Etymologiae</i> di Isidoro di Siviglia. Risulta comunque strano il ricorso a Gregorio dato che, guardando i mosaici del suo bel San Giovanni e leggendo le raffigurazioni delle gerarchie angeliche da sinistra a destra e da destra a sinistra, rispetto alla figura del Cristo, Dante avrebbe potuto vedere proprio l'ordine stabilito da Dionigi (cfr. Wilkins 1927).","I XII 5, p. 26",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Tresor,Trésor,Brunetto Latini,http://dbpedia.org/resource/Brunetto_Latini,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
LO PRIMO È QUELLO DELLI ANGELI,"l' ordine ascendente delle schiere angeliche  (quanto al nostro salire a loro altezza"", cioè dal basso in alto) rispecchia quello presentato da  Gregorio Magno nei <i>Moralia in Iob</i> XXXII, c. 23 (PL 76, p. 665). In realtà nelle <i>Homiliae in  Evangelia</i>  II, xxxiv 7-10 (PL 76, p. 1249 sgg. Gregorio fornisce un altro schema, quasi identico a quello di Dionigi). Nella <i>Divina Commedia</i> Dante accoglierà invece l'ordine presente nel capitolo sesto del <i>De coelesti hierarchia</i> dello pseudo Dionigi Areopagita: Angeli, Arcangeli, Principati, Potestà, Virtù, Dominazioni, Troni, Cherubini, Serafini. Il modello di Dionigi risultò più autorevole in quanto lo si riteneva derivato dalla diretta testimonianza di Paolo che nella seconda Lettera ai Corinzi 12, 1-4  aveva detto di essere stato ""rapito"" in  Paradiso.. Di Paolo l'anonimo compositore del <i>De coelesti hierarchia</i>  si presentava  come discepolo e poteva farlo in quanto gli <i>Atti degli Apostoli</i> 17, 34 raccontavano di come tra i pochi convertiti ateniesi dell'apostolo ci fosse stato un Dionigi giudice dell'Areopago. Cfr. <i>Pd</i>  XXVIII 136-8 ""E se tanto segreto ver proferse / mortale in terra non voglio ch'ammiri / ché chi 'l vide quassù, gliel scoperse""  (cfr. ""lo primo secreto che ne mostrò"" del paragrafo 4. Dunque la Santa Chiesa è veramente ""secretaria"" delle verità divine). Quanto a Gregorio anch'egli dopo la morte, in Paradiso, sarebbe stato testimone 'de visu' della verità di questa diversa classificazione. Cfr. <i>Pd</i>  XXVIII, 133 sgg.  ""Ma Gregorio da lui (scil. Dionigi) poi si divise / onde sì tosto come l'occhio aperse / in questo ciel, di se medesmo rise"".  Nell' uso del modello di Gregorio Dante sembra dipendere dal <i>Trésor</i> di Brunetto Latini  (I XII 5, p. 26). Quando nel cielo di Venere  Carlo Martello citerà proprio la canzone <i>Voi ch'intendendo il terzo ciel movete</i>, Dante, commetterà un piccolo falso, facendo dire al principe angioino che essa era  rivolta ai Principati,  in modo da retrocedere all'altezza del <i>Convivio</i> la sua accettazione del modello angelologico dell' Areopagita (cfr. <i>Pd</i> VIII 34-7). Su tutta la questione vedi un documentatissimo contributo di Agostino Pertusi (Pertusi 1988) che fornisce una tavola comparativa dei diversi modi di ordinamento delle schiere angeliche, da cui risulta che lo schema di Gregorio era stato usato anche nelle <i>Etymologiae</i> di Isidoro di Siviglia. Risulta comunque strano il ricorso a Gregorio dato che, guardando i mosaici del suo bel San Giovanni e leggendo le raffigurazioni delle gerarchie angeliche da sinistra a destra e da destra a sinistra, rispetto alla figura del Cristo, Dante avrebbe potuto vedere proprio l'ordine stabilito da Dionigi (cfr. Wilkins 1927).",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Etymologiae,Etymologiae,Isidoro di Siviglia,http://dbpedia.org/resource/Isidore_of_Seville,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
E CON CIÒ SIA COSA CHE CIASCUNA PERSONA ...,"anche il numero e la partizione degli ordini angelici all'interno delle tre gerarchie obbedisce ad una logica trinitaria dato che (con ciò sia cosa che"") la conoscenza di ognuna delle tre persone assume a sua volta tre forme (""triplicemente si possa considerare"").  La contemplazione del Padre, infatti, può essere o assoluta (""non avendo rispetto se non ad esso""), o nel suo rapporto di  distinzione (""come da lui si parte"") e di unità (""come con lui sé unisce"") con il Figlio, o nella relazione con lo Spirito Santo in quanto, come dice il credo niceno-costantinopolitano ""ex Patre procedit"" (""secondo che da lui procede""). Applicando questo schema alle altre due persone della Trinità (nella versione latina del Credo, a differenza di quella greca, lo Spirito Santo non procede solo dal Padre, ma anche dal Figlio) ricaviamo appunto nove ordini, tre per ognuna delle tre gerarchie. Un collegamento tra le tre gerarchie angeliche e la Trinità era stato operato da San  Bonaventura: anche in questo caso ad ognuna di esse erano stati attribuiti tre ordini individuati dal triplice rapporto con ogni sigola persona della Trinità, vista in se stessa e nella relazione simmetrica con le altre due; cfr. <i>Collationes in Hexaemeron</i>  XXI, 20, PL 76, p. 434: ""ordo respondens Patri secundum quod est in seipso ... secundum quod est in Filio ... secundum quod est in Spiritu Sancto ; ordo respondens Filio secundum quod est in Patre ... secundum quod est in seipso ... secundum quod est in Spiritu Sancto; ordo respondens Spiritui Sancto secundum quod est in Patre ... secundum quod est in Filio ... secundum quod est in seipso"". Ma i nomi degli ordini attribuiti ad ognuno di questi nove rapporti sono diversi da quelli di Dante (che li individua solo per la prima terna): i Troni in relazione al Padre in se stesso, i Cherubini in relazione al Padre in quanto è nel Figlio, i Serafini in relazione al Padre in quanto è nello Spirito Santo (come si vede Bonaventura segue la classificazione dello pseudo-Dionigi e non quella di Gregorio Magno).","XXI, 20, PL 76, p. 434: ""ordo respondens Patri secundum quod est in seipso ... secundum quod est in Filio ... secundum quod est in Spiritu Sancto ; ordo respondens Filio secundum quod est in Patre ... secundum quod est in seipso ... secundum quod est in Spiritu Sancto; ordo respondens Spiritui Sancto secundum quod est in Patre ... secundum quod est in Filio ... secundum quod est in seipso""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Collationes_in_Hexaemeron,Collationes in Hexaemeron,Bonaventura da Bagnoregio,http://dbpedia.org/resource/Bonaventure,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
E NON È QUI DA TACERE UNA PAROLA,"e a questo punto non bisogna passare sotto silenzio una cosa'. In questo breve inciso Dante ricorda la caduta di una parte degli angeli (si perderono alquanti"") immediatamente dopo la loro creazione (""tosto che furono creati""). Per quanto riguarda il numero, quello fornito da Dante (""forse in numero della decima parte"") è da riallacciare ad una interpretazione allegorica della parabola delle dieci dracme (cfr. <i>Lc</i> 15, 8-9) data da Gregorio Magno: la moneta perduta simboleggia quella decima parte del numero complessivo degli eletti che è caduta e ha dovuto essere 'restaurata' (cfr. <i>Homiliae</i> <i>in Evangelia</i> II xxxiv 6, 1249). Per quanto riguarda l'intervallo tra la creazione e la caduta degli angeli ribelli il <i>Convivio</i> è molto vicino, anche testualmente, a Tommaso (<i>Summa Theologiae</i> I, q. 63, a. 6, <i>respondeo</i> ""Opinio probabilior et Sanctorum dictis magis consona est quod statim post instans suae creationis diabolus peccaverit""). Cfr. <i>Pd</i> XXIX 49-51 ""Né giugnerìesi, numerando, al venti / sì tosto, come delli angeli parte /turbò il suggetto de' vostri elementi"".","II xxxiv 6, 1249",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Homiliae_in_Evangelia,Homiliae in Evangelia,Gregorio Magno,http://dbpedia.org/resource/Pope_Gregory_I,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
E NON È QUI DA TACERE UNA PAROLA,"e a questo punto non bisogna passare sotto silenzio una cosa'. In questo breve inciso Dante ricorda la caduta di una parte degli angeli (si perderono alquanti"") immediatamente dopo la loro creazione (""tosto che furono creati""). Per quanto riguarda il numero, quello fornito da Dante (""forse in numero della decima parte"") è da riallacciare ad una interpretazione allegorica della parabola delle dieci dracme (cfr. <i>Lc</i> 15, 8-9) data da Gregorio Magno: la moneta perduta simboleggia quella decima parte del numero complessivo degli eletti che è caduta e ha dovuto essere 'restaurata' (cfr. <i>Homiliae</i> <i>in Evangelia</i> II xxxiv 6, 1249). Per quanto riguarda l'intervallo tra la creazione e la caduta degli angeli ribelli il <i>Convivio</i> è molto vicino, anche testualmente, a Tommaso (<i>Summa Theologiae</i> I, q. 63, a. 6, <i>respondeo</i> ""Opinio probabilior et Sanctorum dictis magis consona est quod statim post instans suae creationis diabolus peccaverit""). Cfr. <i>Pd</i> XXIX 49-51 ""Né giugnerìesi, numerando, al venti / sì tosto, come delli angeli parte /turbò il suggetto de' vostri elementi"".","II xxxiv 6, 1249",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_Theologica,Summa Theologiae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
E NON È QUI DA TACERE UNA PAROLA,"e a questo punto non bisogna passare sotto silenzio una cosa'. In questo breve inciso Dante ricorda la caduta di una parte degli angeli (si perderono alquanti"") immediatamente dopo la loro creazione (""tosto che furono creati""). Per quanto riguarda il numero, quello fornito da Dante (""forse in numero della decima parte"") è da riallacciare ad una interpretazione allegorica della parabola delle dieci dracme (cfr. <i>Lc</i> 15, 8-9) data da Gregorio Magno: la moneta perduta simboleggia quella decima parte del numero complessivo degli eletti che è caduta e ha dovuto essere 'restaurata' (cfr. <i>Homiliae</i> <i>in Evangelia</i> II xxxiv 6, 1249). Per quanto riguarda l'intervallo tra la creazione e la caduta degli angeli ribelli il <i>Convivio</i> è molto vicino, anche testualmente, a Tommaso (<i>Summa Theologiae</i> I, q. 63, a. 6, <i>respondeo</i> ""Opinio probabilior et Sanctorum dictis magis consona est quod statim post instans suae creationis diabolus peccaverit""). Cfr. <i>Pd</i> XXIX 49-51 ""Né giugnerìesi, numerando, al venti / sì tosto, come delli angeli parte /turbò il suggetto de' vostri elementi"".","15, 8-9",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Luke,Vangelo di Luca,Luca,http://dbpedia.org/resource/Luke_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
ALLA QUALE RESTAURARE,"per rimediare alla cui caduta'. Un collegamento tra ribellione e caduta di Lucifero e creazione dell'uomo era stato istituito da Agostino (cfr. <i>De civitate Dei</i> XXII 1, p. 807: Deus ... de mortali progenie ... tantum populum gratia sua colligit, ut inde subpleat et instauret partem quae lapsa est angelorum"") e da  Gregorio Magno, sempre nella interpretazione della parabola delle dracme (cfr. <i>Homiliae in Evangelia</i>, loc. cit. ""Decem ... drachmas habuit mulier, quia novem sunt ordines Angelorum, sed ut compleretur electorum numerus homo decimus est creatus, qui a conditore suo nec post culpam periit"".). Anselmo d'Aosta, però, aveva sostenuto che la seconda non poteva esser considerata semplicemente in funzione della prima e quindi ad essa posteriore (<i>Cur Deus homo</i>  I xviii, pp. 76 sgg.); con questa precisazione la dottrina della <i>restauratio</i> della caduta degli angeli da parte degli uomini predestinati al Paradiso era stata accolta nelle <i>Sentenze</i> di Pier Lombardo, II, <i>dist</i>. I, cap. 5, vol. I ii, p. 334 ""De homine quoque in Scriptura interdum reperitur quod factus sit propter reparationem angelicae ruinae. Quod non ita est intelligendum quasi non fuisset homo factus si non peccasset Angelus, sed quia inter alias causas, ut praecipuas, haec etiam nonnulla existit""). Dante, affermando che l'uomo fu creato in un secondo momento (""poi""), sembra invece aderire alla forma meno ortodossa di questa credenza (cfr. Nardi 1985, pp. 250-53. Vedi anche <i>Pd</i>  XXX 130-132, dove Beatrice, mostrando a Dante la candida rosa e gli scanni su cui siedono i beati, precisa che ormai il numero perfetto dei beati sta per essere raggiunto: ""Vedi nostra città quant'ella gira :/ vedi li nostri scanni sì ripieni / che poca gente più ci si disira"").","XXII 1, p. 807: Deus ... de mortali progenie ... tantum populum gratia sua colligit, ut inde subpleat et instauret partem quae lapsa est angelorum""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/City_of_God_(book),De civitate Dei,Agostino,http://dbpedia.org/resource/Augustine_of_Hippo,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
ALLA QUALE RESTAURARE,"per rimediare alla cui caduta'. Un collegamento tra ribellione e caduta di Lucifero e creazione dell'uomo era stato istituito da Agostino (cfr. <i>De civitate Dei</i> XXII 1, p. 807: Deus ... de mortali progenie ... tantum populum gratia sua colligit, ut inde subpleat et instauret partem quae lapsa est angelorum"") e da  Gregorio Magno, sempre nella interpretazione della parabola delle dracme (cfr. <i>Homiliae in Evangelia</i>, loc. cit. ""Decem ... drachmas habuit mulier, quia novem sunt ordines Angelorum, sed ut compleretur electorum numerus homo decimus est creatus, qui a conditore suo nec post culpam periit"".). Anselmo d'Aosta, però, aveva sostenuto che la seconda non poteva esser considerata semplicemente in funzione della prima e quindi ad essa posteriore (<i>Cur Deus homo</i>  I xviii, pp. 76 sgg.); con questa precisazione la dottrina della <i>restauratio</i> della caduta degli angeli da parte degli uomini predestinati al Paradiso era stata accolta nelle <i>Sentenze</i> di Pier Lombardo, II, <i>dist</i>. I, cap. 5, vol. I ii, p. 334 ""De homine quoque in Scriptura interdum reperitur quod factus sit propter reparationem angelicae ruinae. Quod non ita est intelligendum quasi non fuisset homo factus si non peccasset Angelus, sed quia inter alias causas, ut praecipuas, haec etiam nonnulla existit""). Dante, affermando che l'uomo fu creato in un secondo momento (""poi""), sembra invece aderire alla forma meno ortodossa di questa credenza (cfr. Nardi 1985, pp. 250-53. Vedi anche <i>Pd</i>  XXX 130-132, dove Beatrice, mostrando a Dante la candida rosa e gli scanni su cui siedono i beati, precisa che ormai il numero perfetto dei beati sta per essere raggiunto: ""Vedi nostra città quant'ella gira :/ vedi li nostri scanni sì ripieni / che poca gente più ci si disira"").","""Decem ... drachmas habuit mulier, quia novem sunt ordines Angelorum, sed ut compleretur electorum numerus homo decimus est creatus, qui a conditore suo nec post culpam periit"".""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Homiliae_in_Evangelia,Homiliae in Evangelia,Gregorio Magno,http://dbpedia.org/resource/Pope_Gregory_I,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
LI NUMERI ...,"Dante afferma che le verità sugli angeli rivelate dalla Scrittura e insegnate dalla Chiesa non contrastano con la cosmologia aristotelica delle Intelligenze celesti, anzi le forniscono il quadro complessivo di riferimento: i nove ordini angelici spiegano (narrano"") l'esistenza dei nove cieli soggetti a movimento mentre il decimo (l'Empireo) sta a significare l'unità e l'immobilità (""stabilitade"") di Dio che qui è sia l'Imperatore dell'Universo che il Primo Motore immobile di Aristotele.",,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Psalms,Salmi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
NEL PRIMO DELLO ENEIDA,"Dante traduce i versi 664-5 del primo libro <i>dell'Eneide</i> (nate, meae vires ... solus / nate patris summi qui tela typhoea temnis"") concordando ""patris summi"" con ""nate"" (""figlio del sommo padre"") invece che con ""tela"" (i dardi del sommo padre) e quindi attribuendo questi ultimi al gigante Tifeo (""cioè quello gigante""). Il senso del brano virgiliano ne viene ovviamente stravolto. Si è peraltro ipotizzato che si tratti di uno stravolgimento consapevole:  facendo di Amore il figlio del Sommo Padre, un figlio per di più che non teme i dardi infernali, Dante  gli avrebbe conferito un valore figurale e cristologico. Cfr. Brugnoli 2002.","664-5 del primo libro dell'Eneide (nate, meae vires ... solus / nate patris summi qui tela typhoea temnis""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Aeneid,Aeneis,Virgilio,http://dbpedia.org/resource/Virgil,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
"OVIDIO, NEL QUINTO DI METAMORPHOSEOS","cfr. <i>Metamorfosi</i>, V, 365  Arma manusque meae, mea, nate, potentia"".  Come nel caso di ""Eneidos"" (cfr. <i>Cv</i> III xi 16) e di ""Tebaidos"" (cfr. <i>Cv</i> III xi 16) il volgare di Dante trasforma in sostantivo maschile un genitivo femminile alla greca retto in latino da un ""liber"" spesso sottinteso ('in libro Metamorfoseos').  Vedi però <i>Cv</i>  IV xxv 6, 8  ""nel libro primo di Tebe","V, 365  ""Arma manusque meae, mea, nate, potentia""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Metamorphoses,Metamorphoseon libri XV,Ovidio,http://dbpedia.org/resource/Ovid,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
SECONDO CHE NEL LIBRO ....DELLI ASTROLOGI,"seguendo il compendio delle migliori prove astronomiche presente nel Libro dell'Aggregazione'. Si tratta, come abbiamo già visto (cfr. <i>Cv</i> II ii 2) del  <i>Liber aggregationis</i> qui nominativamente citato, dove  Alfragano sostiene che a  Venere, Marte, Giove e Saturno vanno attribuiti tre movimenti: cursus qui videtur in orbe signorum  uniuscuiusque harum stellarum ... aggregatur ex tribus motibus tantum, videlicet motu stellae in orbe revolutionis, et motu centri revolutionis in orbe egredientis centri et motu omnium spaerarum aequali motui stellarum fixarum"" (cap. XIV,  pp. 124-5). Dante interpreta correttamente il primo come il movimento di Venere nel suo epiciclo e il secondo come il movimento per cui Venere e l'epiciclo insieme si muovono circolarmente intorno ad un punto (""l'altro secondo che lo epiciclo si muove con tutto lo cielo""); in questo caso, però, egli omette di precisare che la rivoluzione avviene  intorno ad un centro che non coincide con il centro dell'universo (il ""motus egredientis centri"" di Alfragano, in termini tecnici il deferente) ed aggiunge la precisazione che questo avviene in sintonia con l'epiciclo del sole. Con il terzo movimento Venere, insieme agli altri pianeti, segue quello del cielo delle stelle fisse (""lo terzo secondo che tutto quello cielo si muove seguendo lo movimento della stellata spera""). Sempre seguendo (ma anche precisando) il testo di Alfragano, Dante, memore di quanto detto sopra (cfr. <i>Cv</i> II iii 5) articola il terzo movimento in due: quello, lentissimo, con cui il cielo delle stelle fisse si muove da occidente ad oriente un grado ogni cento anni e quello, velocissimo, con cui si muove da oriente ad occidente una volta ogni giorno astronomico (""ogni die naturale una fiata""). Mentre per il primo non sembrano esserci dubbi, per il secondo  Dante  afferma di non  sapere se esso sia causato da uno specifico motore (""se esso è da intelletto alcuno"") o da un trascinamento (""rapina"") puramente meccanico esercitato dal movimento del primo Mobile, cioè il nono cielo, o, con altro nome il Cristallino. Solo Dio lo sa e quindi sarebbe segno di arroganza intellettuale optare per una delle due soluzioni (""presuntuoso a decidere""; cfr. <i>Cv</i> III iv 10. In <i>Pd</i> XXVIII 70, invece, usando proprio il  verbo ""rapire"", Dante farà sua la seconda ipotesi, quella del resto comunemente accettata). In conclusione i movimenti a cui corrispondono con certezza altrettanti motori (""a questi tre movimenti sono tre movitori"") sono tre. Tra filosofi ed astrologi Dante sceglie dunque la soluzione dei secondi, sia pure con una importante correzione, e cioè l'eliminazione del deferente: la distinzione tra un orbe il cui centro coincide perfettamente con il centro dell'universo e un altro che ha un centro non coincidente con il primo e sul quale il pianeta appare effettivamente muoversi è infatti difficilmente  conciliabile con il modello fisico del mondo che Dante ha qui in mente ed avrà anche nella <i>Commedia</i>.","cap. XIV,  pp. 124-5",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Liber_aggregationis,Liber aggregationis,Alfragano,http://dbpedia.org/resource/Ahmad_ibn_Muhammad_ibn_Kath%C4%ABr_al-Fargh%C4%81n%C4%AB,http://purl.org/bncf/tid/7996,WORK
PER TATTO DI VERTÙ,"il testo è dottrinalmente insostenibile dato che il contatto (tatto"") è precisamente il modo con cui interagiscono le realtà corporee. Non sarebbe quindi fuori luogo tornare alla lezione ""per tanto di virtù"" attestata dal ramo principale della tradizione manoscritta, e considerare il ""per tatto"" presente in un solo manoscritto come correzione (erronea) di copista. Né è da escludere, come altra possibilità, che ""per tatto"", seguito da una lacuna, debba essere collegato a ""corporalmente"", come sua specificazione: ""non corporalmente per tatto [ ma per ***] di virtù"". Alberto Magno aveva impiegato in proposito l'immagine della forma presente nell'anima che muove la mano dell'artigiano in vista della produzione di un oggetto (<i>Metaphysica</i>  XI = XII, tr. 2, cap. 13, p. 500, ll. 70-74).","XI = XII, tr. 2, cap. 13, p. 500, ll. 70-74",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Metaphysicorum(Alberto_Magno),Metaphysicorum,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
COME LI RETTORICI SANNO,"i rettorici"", come in <i>Cv</i> I.ii.3, sono gli autori di testi di retorica conosciuti ed usati dal Medioevo. Nella frase seguente, infatti, Dante cita la <i>Rhetorica ad Herennium</i> pur senza nominarla  esplicitamente.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Rhetorica_ad_Herennium,Rhetorica ad Herennium,,,http://purl.org/bncf/tid/4567,WORK
PROMETTERE DI DIRE NUOVE E GRANDISSIME COSE,"cfr. <i>Rhetorica ad Herennium</i> I  4  6 Auditores attentos habebimus si pollicebimur nos de rebus magnis, novis, inusitatis verba facturos"".","I  4  6 Auditores attentos habebimus si pollicebimur nos de rebus magnis, novis, inusitatis verba facturos",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Rhetorica_ad_Herennium,Rhetorica ad Herennium,,,http://purl.org/bncf/tid/4567,WORK
CHE CI HA DI SPAZIO,"che  è lungo'. Se dunque il raggio terrestre è misurato in 3250 miglia la distanza di Venere dalla terra sarà qualcosa di più di 542.750 miglia. Le misure derivano dal già citato <i>Liber aggregationis</i> di Alfragano, che al cap XXI, p. 146, dà la distanza in assoluto, lasciando sottintesa la misura del moltiplicando Et propinquior longitudo Veneris est 167 aequalis medietati diametri terrae quod est 542 et 750 miliaria"" (cfr. Toynbee, p. 66). Dante, viceversa, lascia al lettore il calcolo fornendogli la lunghezza del raggio terrestre, ricavata peraltro sempre dal testo di Alfragano che nel cap. VIII aveva dato la misura del diametro. La distanza così calcolata (circa settecentomila  chilometri, visto che il miglio corrisponde circa a 1450 metri ) è decisamente inferiore a quella effettiva. Nonostante questo essa non poteva non colpire la fantasia dei lettori, e di Dante stesso. Anche il cosmo chiuso e finito dei medievali albergava lontananze che facevano apparire la terra come una ""aiuola"", come ""l'infima lacuna dell'universo"" (cfr. <i>Pd</i>  XXII 153; XXXIII 22-3).","cap XXI, p. 146",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Liber_aggregationis,Liber aggregationis,Alfragano,http://dbpedia.org/resource/Ahmad_ibn_Muhammad_ibn_Kath%C4%ABr_al-Fargh%C4%81n%C4%AB,http://purl.org/bncf/tid/7996,WORK
COME DICE,"cfr.  <i>De consolatione philosophiae</i>  IV, prosa 3, 19, p. 111). In realtà Boezio collega la vita asinina non all'assenza della ragione, ma alla pigrizia e all'insensibilità, in una descrizione dei malvagi in cui ad ogni vizio o insieme di vizi corrisponde un animale, interpretazione allegorica del mito di Circe.","IV, prosa 3, 19, p. 111",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
'SOAVE' È TANTO QUANTO,"il termine soave ha lo stesso significato di'.  L'accostamento dell'aggettivo <i>suavis</i> al participio passato del verbo <i>suadeo</i> può essere stato suggerito a Dante dalle <i>Derivationes</i> di Uguccione da Pisa per cui <i>suadere</i> equivale a suavia dare (s.v. <i>Sueo</i>, S 210, 2, p. 1121); cfr. <i>Pd</i>  XXXI 49 Vedea visi a carità suadi"".",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Derivationes_Magnae,Derivationes Magnae,Uguccione da Pisa,http://dbpedia.org/resource/Huguccio,http://purl.org/bncf/tid/9228,WORK
A QUESTA QUESTIONE SI PUÒ... RISPONDERE ...,"Per Dante il dubbio è risolvibile facilmente (leggiermente"": senza sforzo): gli angeli del cielo di Venere possono produrre e mantenere (""salvare"") il loro effetto solo in quelle realtà che possono fungere da sostrato all'azione del cielo che essi  muovono (""in quei subietti che sono sottoposti alla loro circulazione""); essi dunque tenderanno a trasferirlo da ciò che non è più soggetto alla loro attività (""quella parte che è fuori di loro podestade"") a ciò che lo è ancora o lo diventa (""in quella che v'è dentro""); le anime separate dal corpo dopo la morte  (""partite da questa vita"") non lo sono più, mentre quelle che vivificano un corpo lo sono ancora. Dunque, è la conclusione implicita, l'amore di Beatrice, ormai beata in cielo, non viene mantenuto, mentre viene acceso un altro amore per una donna che è ancora in vita. La risposta di Dante merita qualche riflessione. In primo luogo il ragionamento non sembra corretto: l'effetto d'amore, infatti, si è prodotto in Dante, che è ancora ben vivo e soggetto al movimento del terzo cielo, non in Beatrice. Ma soprattutto colpisce una trattazione dell'effetto d'amore come di un dato fisico oggettivo. Già nel terzo paragrafo di questo capitolo era intervenuto il modello dell'alternarsi necessario di generazioni e corruzioni. Qui esso viene ripreso e rafforzato con il riferimento alla natura umana che, come ogni altra specie, mantiene la sua struttura (la ""forma umana"") attraverso una successione continua di generanti e di generati  (""trasmuta la sua conservazione di padre in figlio"") poiché non può mantenerla, come suo effetto, in un solo individuo per un periodo infinito (""non può in esso padre perpetualmente cotal suo effetto salvare""). La dottrina è aristotelica (cfr. <i>De an</i>. II, 4, 415 b 3-7). Ripresa  da Averroè (cfr.  <i>De anima</i> II, tc. 34, p. 182, ll. 51-56) era ormai al tempo di Dante una formula vulgata  (cfr. le <i>Auctoritates Aristotelis</i>,  p. 179, n. 58  ""Nihil de numero corruptibilium contingit idem numero manere semper, tamen potest unum permanere in specie per generationem""). Dante però, applicandola all'azione degli Angeli -motori di Venere, fa dell'amore un prodotto  di cause naturali e come tale costante, al di là delle variazioni individuali, al di là degli amori, diremmo, ""soggettivi"".  In questo modello l'astro, e chi lo muove, raggia indifferentemente ogni tipo di amore (anche quello ""folle"" di <i>Pd</i> VIII 1-3): nel loro succedersi i singoli amori non alterano l'unità specifica dell'effetto più di quanto i singoli generati diversifichino l'unità della specie umana. Come ha giustamente notato Claudio Giunta commentando nel vol. I la canzone <i>Amor che movi tua virtù da cielo</i> Amore per Dante è qualcosa di più del dio della tradizione lirica: è una forza cosmica che pervade tutto l'universo, ""per lo qual tutto il mondo si travaglia""; proprio nel <i>Convivio</i> si affermerà che ogni realtà, corpi semplici, minerali, vegetali, animali, è mossa da un suo ""speziale amore"" (III iii 2 sgg.), guidato da un ""amore universale"" (cfr. Cv. III viii 13).  Ma se è vero che alle radici di questo modo di pensare agisce un modello neoplatonico (impressionante è il raffronto che Giunta fa tra la canzone suddetta e il metro nono del  libro terzo del <i>De consolatione Philosophiae</i> ) è anche vero che, sulla scia di Alberto Magno, Dante lo ha ritrascritto in termini rigorosamente peripatetici. Amore è una forza cosmica nel senso strettamente fisico: agisce solo attraverso un mezzo corporeo (i cieli) e produce il suo effetto sulle anime solo attraverso le strutture corporee; sull'anima separata dal corpo ed ormai ""divina"" esso non ha più potere né si vede come si possano rivolgere domande o preghiere (cosa che Dante ha fatto nella canzone) a chi agisce secondo leggi del tutto impersonali; l'individuo stesso, in quanto unione di anima e di corpo  (""l'anima col corpo congiunti"") viene qui definito come effetto naturale (""effetto di quella"", cioè della natura umana): viene così dato fondamento all'affermazione precedente per cui l'anima unita al corpo è soggetta alla ""circulazione"" dei cieli causata dai loro motori. Solo dopo la morte (""poi ch'è partita"") essa  dura eterna (""perpetualmente"") rivelando la sua vera natura che è più alta di quella umana.","II, 4, 415 b 3-7",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
A QUESTA QUESTIONE SI PUÒ... RISPONDERE ...,"Per Dante il dubbio è risolvibile facilmente (leggiermente"": senza sforzo): gli angeli del cielo di Venere possono produrre e mantenere (""salvare"") il loro effetto solo in quelle realtà che possono fungere da sostrato all'azione del cielo che essi  muovono (""in quei subietti che sono sottoposti alla loro circulazione""); essi dunque tenderanno a trasferirlo da ciò che non è più soggetto alla loro attività (""quella parte che è fuori di loro podestade"") a ciò che lo è ancora o lo diventa (""in quella che v'è dentro""); le anime separate dal corpo dopo la morte  (""partite da questa vita"") non lo sono più, mentre quelle che vivificano un corpo lo sono ancora. Dunque, è la conclusione implicita, l'amore di Beatrice, ormai beata in cielo, non viene mantenuto, mentre viene acceso un altro amore per una donna che è ancora in vita. La risposta di Dante merita qualche riflessione. In primo luogo il ragionamento non sembra corretto: l'effetto d'amore, infatti, si è prodotto in Dante, che è ancora ben vivo e soggetto al movimento del terzo cielo, non in Beatrice. Ma soprattutto colpisce una trattazione dell'effetto d'amore come di un dato fisico oggettivo. Già nel terzo paragrafo di questo capitolo era intervenuto il modello dell'alternarsi necessario di generazioni e corruzioni. Qui esso viene ripreso e rafforzato con il riferimento alla natura umana che, come ogni altra specie, mantiene la sua struttura (la ""forma umana"") attraverso una successione continua di generanti e di generati  (""trasmuta la sua conservazione di padre in figlio"") poiché non può mantenerla, come suo effetto, in un solo individuo per un periodo infinito (""non può in esso padre perpetualmente cotal suo effetto salvare""). La dottrina è aristotelica (cfr. <i>De an</i>. II, 4, 415 b 3-7). Ripresa  da Averroè (cfr.  <i>De anima</i> II, tc. 34, p. 182, ll. 51-56) era ormai al tempo di Dante una formula vulgata  (cfr. le <i>Auctoritates Aristotelis</i>,  p. 179, n. 58  ""Nihil de numero corruptibilium contingit idem numero manere semper, tamen potest unum permanere in specie per generationem""). Dante però, applicandola all'azione degli Angeli -motori di Venere, fa dell'amore un prodotto  di cause naturali e come tale costante, al di là delle variazioni individuali, al di là degli amori, diremmo, ""soggettivi"".  In questo modello l'astro, e chi lo muove, raggia indifferentemente ogni tipo di amore (anche quello ""folle"" di <i>Pd</i> VIII 1-3): nel loro succedersi i singoli amori non alterano l'unità specifica dell'effetto più di quanto i singoli generati diversifichino l'unità della specie umana. Come ha giustamente notato Claudio Giunta commentando nel vol. I la canzone <i>Amor che movi tua virtù da cielo</i> Amore per Dante è qualcosa di più del dio della tradizione lirica: è una forza cosmica che pervade tutto l'universo, ""per lo qual tutto il mondo si travaglia""; proprio nel <i>Convivio</i> si affermerà che ogni realtà, corpi semplici, minerali, vegetali, animali, è mossa da un suo ""speziale amore"" (III iii 2 sgg.), guidato da un ""amore universale"" (cfr. Cv. III viii 13).  Ma se è vero che alle radici di questo modo di pensare agisce un modello neoplatonico (impressionante è il raffronto che Giunta fa tra la canzone suddetta e il metro nono del  libro terzo del <i>De consolatione Philosophiae</i> ) è anche vero che, sulla scia di Alberto Magno, Dante lo ha ritrascritto in termini rigorosamente peripatetici. Amore è una forza cosmica nel senso strettamente fisico: agisce solo attraverso un mezzo corporeo (i cieli) e produce il suo effetto sulle anime solo attraverso le strutture corporee; sull'anima separata dal corpo ed ormai ""divina"" esso non ha più potere né si vede come si possano rivolgere domande o preghiere (cosa che Dante ha fatto nella canzone) a chi agisce secondo leggi del tutto impersonali; l'individuo stesso, in quanto unione di anima e di corpo  (""l'anima col corpo congiunti"") viene qui definito come effetto naturale (""effetto di quella"", cioè della natura umana): viene così dato fondamento all'affermazione precedente per cui l'anima unita al corpo è soggetta alla ""circulazione"" dei cieli causata dai loro motori. Solo dopo la morte (""poi ch'è partita"") essa  dura eterna (""perpetualmente"") rivelando la sua vera natura che è più alta di quella umana.","II, tc. 34, p. 182, ll. 51-56",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commento_al_De_anima(Averroè),Commento al De anima,Averroè,http://dbpedia.org/resource/Averroes,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
A QUESTA QUESTIONE SI PUÒ... RISPONDERE ...,"Per Dante il dubbio è risolvibile facilmente (leggiermente"": senza sforzo): gli angeli del cielo di Venere possono produrre e mantenere (""salvare"") il loro effetto solo in quelle realtà che possono fungere da sostrato all'azione del cielo che essi  muovono (""in quei subietti che sono sottoposti alla loro circulazione""); essi dunque tenderanno a trasferirlo da ciò che non è più soggetto alla loro attività (""quella parte che è fuori di loro podestade"") a ciò che lo è ancora o lo diventa (""in quella che v'è dentro""); le anime separate dal corpo dopo la morte  (""partite da questa vita"") non lo sono più, mentre quelle che vivificano un corpo lo sono ancora. Dunque, è la conclusione implicita, l'amore di Beatrice, ormai beata in cielo, non viene mantenuto, mentre viene acceso un altro amore per una donna che è ancora in vita. La risposta di Dante merita qualche riflessione. In primo luogo il ragionamento non sembra corretto: l'effetto d'amore, infatti, si è prodotto in Dante, che è ancora ben vivo e soggetto al movimento del terzo cielo, non in Beatrice. Ma soprattutto colpisce una trattazione dell'effetto d'amore come di un dato fisico oggettivo. Già nel terzo paragrafo di questo capitolo era intervenuto il modello dell'alternarsi necessario di generazioni e corruzioni. Qui esso viene ripreso e rafforzato con il riferimento alla natura umana che, come ogni altra specie, mantiene la sua struttura (la ""forma umana"") attraverso una successione continua di generanti e di generati  (""trasmuta la sua conservazione di padre in figlio"") poiché non può mantenerla, come suo effetto, in un solo individuo per un periodo infinito (""non può in esso padre perpetualmente cotal suo effetto salvare""). La dottrina è aristotelica (cfr. <i>De an</i>. II, 4, 415 b 3-7). Ripresa  da Averroè (cfr.  <i>De anima</i> II, tc. 34, p. 182, ll. 51-56) era ormai al tempo di Dante una formula vulgata  (cfr. le <i>Auctoritates Aristotelis</i>,  p. 179, n. 58  ""Nihil de numero corruptibilium contingit idem numero manere semper, tamen potest unum permanere in specie per generationem""). Dante però, applicandola all'azione degli Angeli -motori di Venere, fa dell'amore un prodotto  di cause naturali e come tale costante, al di là delle variazioni individuali, al di là degli amori, diremmo, ""soggettivi"".  In questo modello l'astro, e chi lo muove, raggia indifferentemente ogni tipo di amore (anche quello ""folle"" di <i>Pd</i> VIII 1-3): nel loro succedersi i singoli amori non alterano l'unità specifica dell'effetto più di quanto i singoli generati diversifichino l'unità della specie umana. Come ha giustamente notato Claudio Giunta commentando nel vol. I la canzone <i>Amor che movi tua virtù da cielo</i> Amore per Dante è qualcosa di più del dio della tradizione lirica: è una forza cosmica che pervade tutto l'universo, ""per lo qual tutto il mondo si travaglia""; proprio nel <i>Convivio</i> si affermerà che ogni realtà, corpi semplici, minerali, vegetali, animali, è mossa da un suo ""speziale amore"" (III iii 2 sgg.), guidato da un ""amore universale"" (cfr. Cv. III viii 13).  Ma se è vero che alle radici di questo modo di pensare agisce un modello neoplatonico (impressionante è il raffronto che Giunta fa tra la canzone suddetta e il metro nono del  libro terzo del <i>De consolatione Philosophiae</i> ) è anche vero che, sulla scia di Alberto Magno, Dante lo ha ritrascritto in termini rigorosamente peripatetici. Amore è una forza cosmica nel senso strettamente fisico: agisce solo attraverso un mezzo corporeo (i cieli) e produce il suo effetto sulle anime solo attraverso le strutture corporee; sull'anima separata dal corpo ed ormai ""divina"" esso non ha più potere né si vede come si possano rivolgere domande o preghiere (cosa che Dante ha fatto nella canzone) a chi agisce secondo leggi del tutto impersonali; l'individuo stesso, in quanto unione di anima e di corpo  (""l'anima col corpo congiunti"") viene qui definito come effetto naturale (""effetto di quella"", cioè della natura umana): viene così dato fondamento all'affermazione precedente per cui l'anima unita al corpo è soggetta alla ""circulazione"" dei cieli causata dai loro motori. Solo dopo la morte (""poi ch'è partita"") essa  dura eterna (""perpetualmente"") rivelando la sua vera natura che è più alta di quella umana.","p. 179, n. 58  ""Nihil de numero corruptibilium contingit idem numero manere semper, tamen potest unum permanere in specie per generationem""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Auctoritates_Aristotelis,Auctoritates Aristotelis,Johannes de Fonte,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Johannes_de_Fonte,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
FARÒ UNA DIGRESSIONE,"come il <i>dubium</i> così la <i>digressio</i> è un procedimento tipico dell'esegesi universitaria di testi filosofico-scientifici, più precisamente delle parafrasi di Alberto Magno agli scritti aristotelici.",,CONCORDANZA GENERICA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Parafrasi_scritti_aristotelici(Alberto_Magno),Parafrasi agli scritti aristotelici,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,CONCEPT
PARTE ALCUNA PERPETUALE,"almeno una parte che dura in eterno'. Il termine perpetuo"" (lat. <i>perpetuus</i>), che anche nella sua forma avverbiale (""perpetuamente"") Dante ha già usato più volte, ha sia in teologia che in filosofia, un valore tecnico per indicare una durata che ha un inizio, ma non ha una fine. Dietro all'affermazione del <i>Convivio</i> (""se noi rivolgiamo tutte le scritture de' filosofi"") è probabilmente presente un testo del <i>De natura et origine animae</i> dove Alberto Magno afferma che tutte le scuole filosofiche, pur nella loro diversità, sono concordi nell'affermare che l'anima umana sopravvive oltre la morte: Alberto estende questa convinzione anche agli Epicurei (<i>De natura et origine animae</i>, tr. 2, cap. 13,  p. 36, ll. 5-8, 43-52 ""Omnium Epicureorum opinione habetur quod anima immortalis est et secundum ea quae in corpore gessit, felicitatem vel infelicitatem habebit""; ""Ex his igitur ... iam aliquis concipere poterit quod tam Peripatetici ... quam Stoici ... quam etiam Epicurei ... concorditer ab ipsa coacti veritate animam post dissolutionem corporis immortaliter vivere perpetuo tradiderunt""). E' dunque probabile che, al livello del <i>Convivio</i>, Dante non avesse ancora  motivo di collocare tra i dannati, come capofila e come seguaci dell'eresia per eccellenza, <i>Epicuro</i> e gli ""epicuri che l'anima col corpo morta fanno"" (<i>If</i> X 14-15. Cfr. Lucchesi 1987). Bisogna però dire che nel Commento al <i>De anima</i> (II, tr. 1, cap. 8,  p. 76, ll. 17-19) lo stesso Alberto  aveva attribuito agli Epicurei la dottrina della mortalità dell'intelletto con parole molto simili a quelle della <i>Commedia</i>: ""Et ideo falsum est quod dixerunt Epicurei, intellectum extingui corpore extincto"". Sulle motivazioni del doppio atteggiamento di Dante nei confronti dell'epicureismo del tutto persuasive sono le osservazioni di Giorgio Stabile curatore della voce <i>Epicuro</i> per l'Enciclopedia Dantesca,  riprodotta ora con lievissime modifiche in Stabile 2007, pp.  317-327.","tr. 2, cap. 13,  p. 36, ll. 5-8, 43-52 ""Omnium Epicureorum opinione habetur quod anima immortalis est et secundum ea quae in corpore gessit, felicitatem vel infelicitatem habebit""; ""Ex his igitur ... iam aliquis concipere poterit quod tam Peripatetici ... quam Stoici ... quam etiam Epicurei ... concorditer ab ipsa coacti veritate animam post dissolutionem corporis immortaliter vivere perpetuo tradiderunt""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_natura_et_origine_animae,De natura et origine animae,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
PARTE ALCUNA PERPETUALE,"almeno una parte che dura in eterno'. Il termine perpetuo"" (lat. <i>perpetuus</i>), che anche nella sua forma avverbiale (""perpetuamente"") Dante ha già usato più volte, ha sia in teologia che in filosofia, un valore tecnico per indicare una durata che ha un inizio, ma non ha una fine. Dietro all'affermazione del <i>Convivio</i> (""se noi rivolgiamo tutte le scritture de' filosofi"") è probabilmente presente un testo del <i>De natura et origine animae</i> dove Alberto Magno afferma che tutte le scuole filosofiche, pur nella loro diversità, sono concordi nell'affermare che l'anima umana sopravvive oltre la morte: Alberto estende questa convinzione anche agli Epicurei (<i>De natura et origine animae</i>, tr. 2, cap. 13,  p. 36, ll. 5-8, 43-52 ""Omnium Epicureorum opinione habetur quod anima immortalis est et secundum ea quae in corpore gessit, felicitatem vel infelicitatem habebit""; ""Ex his igitur ... iam aliquis concipere poterit quod tam Peripatetici ... quam Stoici ... quam etiam Epicurei ... concorditer ab ipsa coacti veritate animam post dissolutionem corporis immortaliter vivere perpetuo tradiderunt""). E' dunque probabile che, al livello del <i>Convivio</i>, Dante non avesse ancora  motivo di collocare tra i dannati, come capofila e come seguaci dell'eresia per eccellenza, <i>Epicuro</i> e gli ""epicuri che l'anima col corpo morta fanno"" (<i>If</i> X 14-15. Cfr. Lucchesi 1987). Bisogna però dire che nel Commento al <i>De anima</i> (II, tr. 1, cap. 8,  p. 76, ll. 17-19) lo stesso Alberto  aveva attribuito agli Epicurei la dottrina della mortalità dell'intelletto con parole molto simili a quelle della <i>Commedia</i>: ""Et ideo falsum est quod dixerunt Epicurei, intellectum extingui corpore extincto"". Sulle motivazioni del doppio atteggiamento di Dante nei confronti dell'epicureismo del tutto persuasive sono le osservazioni di Giorgio Stabile curatore della voce <i>Epicuro</i> per l'Enciclopedia Dantesca,  riprodotta ora con lievissime modifiche in Stabile 2007, pp.  317-327.","II, tr. 1, cap. 8,  p. 76, ll. 17-19",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_anima(Alberto_Magno),De anima (Alberto Magno),Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
E QUESTO ... PARE  VOLERE  ARISTOTELE,"Dante articola la sua dimostrazione dell'immortalità in quattro argomenti: 1. il consenso universale (viii 9); 2. le assurdità che sorgerebbero nell'ipotesi che questa credenza universale non corrispondesse a verità (viii 10-11); 3. l'impossibilità che il desiderio naturale dell'immortalità rimanga frustrato (viii 12); 4. l'esperienza della visione del futuro nei sogni (viii 13). Per quanto riguarda il primo argomento, sembrano sostenere (par volere"") l'immortalità: 1. Aristotele, in particolare  (""massimamente"") nel <i>De anima</i> (""in quello dell'Anima"" è, come abbiamo già visto, un calcodal latino: 'in illo <i>De anima</i>', sottinteso' libro' ); 2. soprattutto (""massimamente"") i filosofi stoici; 3. Cicerone, specialmente nel breve trattato (""libello"") sulla vecchiaia (""vegliezza"". Si tratta del <i>De senectute</i>); 4 tutti i poeti greci e latini che hanno scritto (""parlato"") aderendo alle credenze pagane (""secondo la fede de' Gentili"");  5. tutte le religioni (il termine ""leggi"" indica al tempo di Dante le grandi religioni  rivelate, intese come complesso di norme etico-giuridiche) e tutti coloro che vivono seguendo una qualche norma razionale (""qualunque altri vivono secondo alcuna ragione""). Ora, per quanto riguarda Aristotele è vero che alcuni passi particolarmente difficili del <i>De anima</i>  parlano dell'intelletto come di una realtà separata dalla materia, eterna ed incorruttibile (cfr. ad esempio II 2, 413 b 26-27; III,5, 430 a 23) e che tutti i suoi esegeti medievali concordano nel dire che esso ""non est neque corpus neque virtus in corpore"". Se, per lo Stagirita, l'intelletto si ""moltiplicasse"" nei singoli uomini garantendo così un'immortalità individuale e non fosse invece una realtà unica ed impersonale era  stato invece un problema dibattutissimo prima di Dante (basti pensare alla polemica di Tommaso contro Sigieri di Brabante e gli ""averroisti"") e, in forme diverse, tale rimase anche dopo, almeno fino a Pietro Pomponazzi. Per quanto riguarda gli Stoici, essi con tutta probabilità si identificano qui con i Pitagorici e i Platonici secondo la particolare classificazione delle scuole filosofiche usata da Alberto Magno: Pitagora e Platone, infatti, sono sempre stati considerati come i più convinti campioni della immortalità dell'anima. (vedi il Commento a <i>Cv</i>  III xiv 15). Riguardo a Cicerone, negli ultimi paragrafi del <i>De senectute</i> (xxi-xxiii) Catone il Vecchio esprime effettivamente la  convinzione dell'esistenza dopo la morte, di una vita che sola è degna di esser definita tale. Per quanto riguarda i poeti, che per Dante sono in qualche modo i testimoni privilegiati della ""fede de' Gentili"", egli avrà pensato senz'altro al sesto libro dell' <i>Eneide</i>, al viaggio di Enea nell'al di là ed il suo incontro con le anime dei defunti  (vv. 268 sgg. Ovviamente Dante non conosceva Lucrezio). Per quanto riguarda la <i>lex Moysi</i> (i Giudei) noi sappiamo che la credenza nell'immortalità dell'anima vi compare assai tardi, all'altezza dei libri dei Maccabei, ma la tradizione esegetica cristiana l'aveva considerata coestensiva a tutto il Vecchio Testamento. Per quanto invece concerne la <i>lex Machometi</i> (""saracino""-saraceno è l'equivalente medievale di musulmano) che essa promettesse un paradiso ai suoi fedeli (e sia pure un paradiso di gioie sensuali) era conoscenza vulgata (cfr. ad esempio lo <i>Speculum Historiale</i> di Vincenzo di Beauvais  XXII, cap. 6, pp. 921-922). Infine, a partire dalla metà del XIII secolo i Tartari erano divenuti per  la Cristianità occidentale oggetto prima di timore e poi di interesse politico-teologico: si pensava infatti che essi avrebbero potuto essere un valido alleato contro l'Islam, e pochi anni prima della stesura del <i>Convivio</i>, Egidio Romano compilava su incarico di Bonifacio VIII un testo (i <i>Capitula fidei ad Tartarum Maiorem</i>) che si pensava avrebbe aiutato la loro auspicata conversione. Un accenno alla credenza dei Mongoli-Tartari in una vita dopo la morte (ma una vita senza né Inferno né Paradiso) è nella <i>Historia Mongalorum</i> di Giovanni di Pian del Carpine.","II 2, 413 b 26-27",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
E QUESTO ... PARE  VOLERE  ARISTOTELE,"Dante articola la sua dimostrazione dell'immortalità in quattro argomenti: 1. il consenso universale (viii 9); 2. le assurdità che sorgerebbero nell'ipotesi che questa credenza universale non corrispondesse a verità (viii 10-11); 3. l'impossibilità che il desiderio naturale dell'immortalità rimanga frustrato (viii 12); 4. l'esperienza della visione del futuro nei sogni (viii 13). Per quanto riguarda il primo argomento, sembrano sostenere (par volere"") l'immortalità: 1. Aristotele, in particolare  (""massimamente"") nel <i>De anima</i> (""in quello dell'Anima"" è, come abbiamo già visto, un calcodal latino: 'in illo <i>De anima</i>', sottinteso' libro' ); 2. soprattutto (""massimamente"") i filosofi stoici; 3. Cicerone, specialmente nel breve trattato (""libello"") sulla vecchiaia (""vegliezza"". Si tratta del <i>De senectute</i>); 4 tutti i poeti greci e latini che hanno scritto (""parlato"") aderendo alle credenze pagane (""secondo la fede de' Gentili"");  5. tutte le religioni (il termine ""leggi"" indica al tempo di Dante le grandi religioni  rivelate, intese come complesso di norme etico-giuridiche) e tutti coloro che vivono seguendo una qualche norma razionale (""qualunque altri vivono secondo alcuna ragione""). Ora, per quanto riguarda Aristotele è vero che alcuni passi particolarmente difficili del <i>De anima</i>  parlano dell'intelletto come di una realtà separata dalla materia, eterna ed incorruttibile (cfr. ad esempio II 2, 413 b 26-27; III,5, 430 a 23) e che tutti i suoi esegeti medievali concordano nel dire che esso ""non est neque corpus neque virtus in corpore"". Se, per lo Stagirita, l'intelletto si ""moltiplicasse"" nei singoli uomini garantendo così un'immortalità individuale e non fosse invece una realtà unica ed impersonale era  stato invece un problema dibattutissimo prima di Dante (basti pensare alla polemica di Tommaso contro Sigieri di Brabante e gli ""averroisti"") e, in forme diverse, tale rimase anche dopo, almeno fino a Pietro Pomponazzi. Per quanto riguarda gli Stoici, essi con tutta probabilità si identificano qui con i Pitagorici e i Platonici secondo la particolare classificazione delle scuole filosofiche usata da Alberto Magno: Pitagora e Platone, infatti, sono sempre stati considerati come i più convinti campioni della immortalità dell'anima. (vedi il Commento a <i>Cv</i>  III xiv 15). Riguardo a Cicerone, negli ultimi paragrafi del <i>De senectute</i> (xxi-xxiii) Catone il Vecchio esprime effettivamente la  convinzione dell'esistenza dopo la morte, di una vita che sola è degna di esser definita tale. Per quanto riguarda i poeti, che per Dante sono in qualche modo i testimoni privilegiati della ""fede de' Gentili"", egli avrà pensato senz'altro al sesto libro dell' <i>Eneide</i>, al viaggio di Enea nell'al di là ed il suo incontro con le anime dei defunti  (vv. 268 sgg. Ovviamente Dante non conosceva Lucrezio). Per quanto riguarda la <i>lex Moysi</i> (i Giudei) noi sappiamo che la credenza nell'immortalità dell'anima vi compare assai tardi, all'altezza dei libri dei Maccabei, ma la tradizione esegetica cristiana l'aveva considerata coestensiva a tutto il Vecchio Testamento. Per quanto invece concerne la <i>lex Machometi</i> (""saracino""-saraceno è l'equivalente medievale di musulmano) che essa promettesse un paradiso ai suoi fedeli (e sia pure un paradiso di gioie sensuali) era conoscenza vulgata (cfr. ad esempio lo <i>Speculum Historiale</i> di Vincenzo di Beauvais  XXII, cap. 6, pp. 921-922). Infine, a partire dalla metà del XIII secolo i Tartari erano divenuti per  la Cristianità occidentale oggetto prima di timore e poi di interesse politico-teologico: si pensava infatti che essi avrebbero potuto essere un valido alleato contro l'Islam, e pochi anni prima della stesura del <i>Convivio</i>, Egidio Romano compilava su incarico di Bonifacio VIII un testo (i <i>Capitula fidei ad Tartarum Maiorem</i>) che si pensava avrebbe aiutato la loro auspicata conversione. Un accenno alla credenza dei Mongoli-Tartari in una vita dopo la morte (ma una vita senza né Inferno né Paradiso) è nella <i>Historia Mongalorum</i> di Giovanni di Pian del Carpine.","III,5, 430 a 23",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
E QUESTO ... PARE  VOLERE  ARISTOTELE,"Dante articola la sua dimostrazione dell'immortalità in quattro argomenti: 1. il consenso universale (viii 9); 2. le assurdità che sorgerebbero nell'ipotesi che questa credenza universale non corrispondesse a verità (viii 10-11); 3. l'impossibilità che il desiderio naturale dell'immortalità rimanga frustrato (viii 12); 4. l'esperienza della visione del futuro nei sogni (viii 13). Per quanto riguarda il primo argomento, sembrano sostenere (par volere"") l'immortalità: 1. Aristotele, in particolare  (""massimamente"") nel <i>De anima</i> (""in quello dell'Anima"" è, come abbiamo già visto, un calcodal latino: 'in illo <i>De anima</i>', sottinteso' libro' ); 2. soprattutto (""massimamente"") i filosofi stoici; 3. Cicerone, specialmente nel breve trattato (""libello"") sulla vecchiaia (""vegliezza"". Si tratta del <i>De senectute</i>); 4 tutti i poeti greci e latini che hanno scritto (""parlato"") aderendo alle credenze pagane (""secondo la fede de' Gentili"");  5. tutte le religioni (il termine ""leggi"" indica al tempo di Dante le grandi religioni  rivelate, intese come complesso di norme etico-giuridiche) e tutti coloro che vivono seguendo una qualche norma razionale (""qualunque altri vivono secondo alcuna ragione""). Ora, per quanto riguarda Aristotele è vero che alcuni passi particolarmente difficili del <i>De anima</i>  parlano dell'intelletto come di una realtà separata dalla materia, eterna ed incorruttibile (cfr. ad esempio II 2, 413 b 26-27; III,5, 430 a 23) e che tutti i suoi esegeti medievali concordano nel dire che esso ""non est neque corpus neque virtus in corpore"". Se, per lo Stagirita, l'intelletto si ""moltiplicasse"" nei singoli uomini garantendo così un'immortalità individuale e non fosse invece una realtà unica ed impersonale era  stato invece un problema dibattutissimo prima di Dante (basti pensare alla polemica di Tommaso contro Sigieri di Brabante e gli ""averroisti"") e, in forme diverse, tale rimase anche dopo, almeno fino a Pietro Pomponazzi. Per quanto riguarda gli Stoici, essi con tutta probabilità si identificano qui con i Pitagorici e i Platonici secondo la particolare classificazione delle scuole filosofiche usata da Alberto Magno: Pitagora e Platone, infatti, sono sempre stati considerati come i più convinti campioni della immortalità dell'anima. (vedi il Commento a <i>Cv</i>  III xiv 15). Riguardo a Cicerone, negli ultimi paragrafi del <i>De senectute</i> (xxi-xxiii) Catone il Vecchio esprime effettivamente la  convinzione dell'esistenza dopo la morte, di una vita che sola è degna di esser definita tale. Per quanto riguarda i poeti, che per Dante sono in qualche modo i testimoni privilegiati della ""fede de' Gentili"", egli avrà pensato senz'altro al sesto libro dell' <i>Eneide</i>, al viaggio di Enea nell'al di là ed il suo incontro con le anime dei defunti  (vv. 268 sgg. Ovviamente Dante non conosceva Lucrezio). Per quanto riguarda la <i>lex Moysi</i> (i Giudei) noi sappiamo che la credenza nell'immortalità dell'anima vi compare assai tardi, all'altezza dei libri dei Maccabei, ma la tradizione esegetica cristiana l'aveva considerata coestensiva a tutto il Vecchio Testamento. Per quanto invece concerne la <i>lex Machometi</i> (""saracino""-saraceno è l'equivalente medievale di musulmano) che essa promettesse un paradiso ai suoi fedeli (e sia pure un paradiso di gioie sensuali) era conoscenza vulgata (cfr. ad esempio lo <i>Speculum Historiale</i> di Vincenzo di Beauvais  XXII, cap. 6, pp. 921-922). Infine, a partire dalla metà del XIII secolo i Tartari erano divenuti per  la Cristianità occidentale oggetto prima di timore e poi di interesse politico-teologico: si pensava infatti che essi avrebbero potuto essere un valido alleato contro l'Islam, e pochi anni prima della stesura del <i>Convivio</i>, Egidio Romano compilava su incarico di Bonifacio VIII un testo (i <i>Capitula fidei ad Tartarum Maiorem</i>) che si pensava avrebbe aiutato la loro auspicata conversione. Un accenno alla credenza dei Mongoli-Tartari in una vita dopo la morte (ma una vita senza né Inferno né Paradiso) è nella <i>Historia Mongalorum</i> di Giovanni di Pian del Carpine.",xxi-xxiii,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Cato_Maior_de_Senectute,De senectute,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
E QUESTO ... PARE  VOLERE  ARISTOTELE,"Dante articola la sua dimostrazione dell'immortalità in quattro argomenti: 1. il consenso universale (viii 9); 2. le assurdità che sorgerebbero nell'ipotesi che questa credenza universale non corrispondesse a verità (viii 10-11); 3. l'impossibilità che il desiderio naturale dell'immortalità rimanga frustrato (viii 12); 4. l'esperienza della visione del futuro nei sogni (viii 13). Per quanto riguarda il primo argomento, sembrano sostenere (par volere"") l'immortalità: 1. Aristotele, in particolare  (""massimamente"") nel <i>De anima</i> (""in quello dell'Anima"" è, come abbiamo già visto, un calcodal latino: 'in illo <i>De anima</i>', sottinteso' libro' ); 2. soprattutto (""massimamente"") i filosofi stoici; 3. Cicerone, specialmente nel breve trattato (""libello"") sulla vecchiaia (""vegliezza"". Si tratta del <i>De senectute</i>); 4 tutti i poeti greci e latini che hanno scritto (""parlato"") aderendo alle credenze pagane (""secondo la fede de' Gentili"");  5. tutte le religioni (il termine ""leggi"" indica al tempo di Dante le grandi religioni  rivelate, intese come complesso di norme etico-giuridiche) e tutti coloro che vivono seguendo una qualche norma razionale (""qualunque altri vivono secondo alcuna ragione""). Ora, per quanto riguarda Aristotele è vero che alcuni passi particolarmente difficili del <i>De anima</i>  parlano dell'intelletto come di una realtà separata dalla materia, eterna ed incorruttibile (cfr. ad esempio II 2, 413 b 26-27; III,5, 430 a 23) e che tutti i suoi esegeti medievali concordano nel dire che esso ""non est neque corpus neque virtus in corpore"". Se, per lo Stagirita, l'intelletto si ""moltiplicasse"" nei singoli uomini garantendo così un'immortalità individuale e non fosse invece una realtà unica ed impersonale era  stato invece un problema dibattutissimo prima di Dante (basti pensare alla polemica di Tommaso contro Sigieri di Brabante e gli ""averroisti"") e, in forme diverse, tale rimase anche dopo, almeno fino a Pietro Pomponazzi. Per quanto riguarda gli Stoici, essi con tutta probabilità si identificano qui con i Pitagorici e i Platonici secondo la particolare classificazione delle scuole filosofiche usata da Alberto Magno: Pitagora e Platone, infatti, sono sempre stati considerati come i più convinti campioni della immortalità dell'anima. (vedi il Commento a <i>Cv</i>  III xiv 15). Riguardo a Cicerone, negli ultimi paragrafi del <i>De senectute</i> (xxi-xxiii) Catone il Vecchio esprime effettivamente la  convinzione dell'esistenza dopo la morte, di una vita che sola è degna di esser definita tale. Per quanto riguarda i poeti, che per Dante sono in qualche modo i testimoni privilegiati della ""fede de' Gentili"", egli avrà pensato senz'altro al sesto libro dell' <i>Eneide</i>, al viaggio di Enea nell'al di là ed il suo incontro con le anime dei defunti  (vv. 268 sgg. Ovviamente Dante non conosceva Lucrezio). Per quanto riguarda la <i>lex Moysi</i> (i Giudei) noi sappiamo che la credenza nell'immortalità dell'anima vi compare assai tardi, all'altezza dei libri dei Maccabei, ma la tradizione esegetica cristiana l'aveva considerata coestensiva a tutto il Vecchio Testamento. Per quanto invece concerne la <i>lex Machometi</i> (""saracino""-saraceno è l'equivalente medievale di musulmano) che essa promettesse un paradiso ai suoi fedeli (e sia pure un paradiso di gioie sensuali) era conoscenza vulgata (cfr. ad esempio lo <i>Speculum Historiale</i> di Vincenzo di Beauvais  XXII, cap. 6, pp. 921-922). Infine, a partire dalla metà del XIII secolo i Tartari erano divenuti per  la Cristianità occidentale oggetto prima di timore e poi di interesse politico-teologico: si pensava infatti che essi avrebbero potuto essere un valido alleato contro l'Islam, e pochi anni prima della stesura del <i>Convivio</i>, Egidio Romano compilava su incarico di Bonifacio VIII un testo (i <i>Capitula fidei ad Tartarum Maiorem</i>) che si pensava avrebbe aiutato la loro auspicata conversione. Un accenno alla credenza dei Mongoli-Tartari in una vita dopo la morte (ma una vita senza né Inferno né Paradiso) è nella <i>Historia Mongalorum</i> di Giovanni di Pian del Carpine.",sesto libro dell' Eneide,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Aeneid,Aeneis,Virgilio,http://dbpedia.org/resource/Virgil,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
E QUESTO ... PARE  VOLERE  ARISTOTELE,"Dante articola la sua dimostrazione dell'immortalità in quattro argomenti: 1. il consenso universale (viii 9); 2. le assurdità che sorgerebbero nell'ipotesi che questa credenza universale non corrispondesse a verità (viii 10-11); 3. l'impossibilità che il desiderio naturale dell'immortalità rimanga frustrato (viii 12); 4. l'esperienza della visione del futuro nei sogni (viii 13). Per quanto riguarda il primo argomento, sembrano sostenere (par volere"") l'immortalità: 1. Aristotele, in particolare  (""massimamente"") nel <i>De anima</i> (""in quello dell'Anima"" è, come abbiamo già visto, un calcodal latino: 'in illo <i>De anima</i>', sottinteso' libro' ); 2. soprattutto (""massimamente"") i filosofi stoici; 3. Cicerone, specialmente nel breve trattato (""libello"") sulla vecchiaia (""vegliezza"". Si tratta del <i>De senectute</i>); 4 tutti i poeti greci e latini che hanno scritto (""parlato"") aderendo alle credenze pagane (""secondo la fede de' Gentili"");  5. tutte le religioni (il termine ""leggi"" indica al tempo di Dante le grandi religioni  rivelate, intese come complesso di norme etico-giuridiche) e tutti coloro che vivono seguendo una qualche norma razionale (""qualunque altri vivono secondo alcuna ragione""). Ora, per quanto riguarda Aristotele è vero che alcuni passi particolarmente difficili del <i>De anima</i>  parlano dell'intelletto come di una realtà separata dalla materia, eterna ed incorruttibile (cfr. ad esempio II 2, 413 b 26-27; III,5, 430 a 23) e che tutti i suoi esegeti medievali concordano nel dire che esso ""non est neque corpus neque virtus in corpore"". Se, per lo Stagirita, l'intelletto si ""moltiplicasse"" nei singoli uomini garantendo così un'immortalità individuale e non fosse invece una realtà unica ed impersonale era  stato invece un problema dibattutissimo prima di Dante (basti pensare alla polemica di Tommaso contro Sigieri di Brabante e gli ""averroisti"") e, in forme diverse, tale rimase anche dopo, almeno fino a Pietro Pomponazzi. Per quanto riguarda gli Stoici, essi con tutta probabilità si identificano qui con i Pitagorici e i Platonici secondo la particolare classificazione delle scuole filosofiche usata da Alberto Magno: Pitagora e Platone, infatti, sono sempre stati considerati come i più convinti campioni della immortalità dell'anima. (vedi il Commento a <i>Cv</i>  III xiv 15). Riguardo a Cicerone, negli ultimi paragrafi del <i>De senectute</i> (xxi-xxiii) Catone il Vecchio esprime effettivamente la  convinzione dell'esistenza dopo la morte, di una vita che sola è degna di esser definita tale. Per quanto riguarda i poeti, che per Dante sono in qualche modo i testimoni privilegiati della ""fede de' Gentili"", egli avrà pensato senz'altro al sesto libro dell' <i>Eneide</i>, al viaggio di Enea nell'al di là ed il suo incontro con le anime dei defunti  (vv. 268 sgg. Ovviamente Dante non conosceva Lucrezio). Per quanto riguarda la <i>lex Moysi</i> (i Giudei) noi sappiamo che la credenza nell'immortalità dell'anima vi compare assai tardi, all'altezza dei libri dei Maccabei, ma la tradizione esegetica cristiana l'aveva considerata coestensiva a tutto il Vecchio Testamento. Per quanto invece concerne la <i>lex Machometi</i> (""saracino""-saraceno è l'equivalente medievale di musulmano) che essa promettesse un paradiso ai suoi fedeli (e sia pure un paradiso di gioie sensuali) era conoscenza vulgata (cfr. ad esempio lo <i>Speculum Historiale</i> di Vincenzo di Beauvais  XXII, cap. 6, pp. 921-922). Infine, a partire dalla metà del XIII secolo i Tartari erano divenuti per  la Cristianità occidentale oggetto prima di timore e poi di interesse politico-teologico: si pensava infatti che essi avrebbero potuto essere un valido alleato contro l'Islam, e pochi anni prima della stesura del <i>Convivio</i>, Egidio Romano compilava su incarico di Bonifacio VIII un testo (i <i>Capitula fidei ad Tartarum Maiorem</i>) che si pensava avrebbe aiutato la loro auspicata conversione. Un accenno alla credenza dei Mongoli-Tartari in una vita dopo la morte (ma una vita senza né Inferno né Paradiso) è nella <i>Historia Mongalorum</i> di Giovanni di Pian del Carpine.","XXII, cap. 6, pp. 921-922",CONCORDANZA STRINGENTE,http://it.dbpedia.org/resource/Speculum_historiale,Speculum Historiale,Vincenzo di Beauvais,http://dbpedia.org/resource/Vincent_of_Beauvais,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
E QUESTO ... PARE  VOLERE  ARISTOTELE,"Dante articola la sua dimostrazione dell'immortalità in quattro argomenti: 1. il consenso universale (viii 9); 2. le assurdità che sorgerebbero nell'ipotesi che questa credenza universale non corrispondesse a verità (viii 10-11); 3. l'impossibilità che il desiderio naturale dell'immortalità rimanga frustrato (viii 12); 4. l'esperienza della visione del futuro nei sogni (viii 13). Per quanto riguarda il primo argomento, sembrano sostenere (par volere"") l'immortalità: 1. Aristotele, in particolare  (""massimamente"") nel <i>De anima</i> (""in quello dell'Anima"" è, come abbiamo già visto, un calcodal latino: 'in illo <i>De anima</i>', sottinteso' libro' ); 2. soprattutto (""massimamente"") i filosofi stoici; 3. Cicerone, specialmente nel breve trattato (""libello"") sulla vecchiaia (""vegliezza"". Si tratta del <i>De senectute</i>); 4 tutti i poeti greci e latini che hanno scritto (""parlato"") aderendo alle credenze pagane (""secondo la fede de' Gentili"");  5. tutte le religioni (il termine ""leggi"" indica al tempo di Dante le grandi religioni  rivelate, intese come complesso di norme etico-giuridiche) e tutti coloro che vivono seguendo una qualche norma razionale (""qualunque altri vivono secondo alcuna ragione""). Ora, per quanto riguarda Aristotele è vero che alcuni passi particolarmente difficili del <i>De anima</i>  parlano dell'intelletto come di una realtà separata dalla materia, eterna ed incorruttibile (cfr. ad esempio II 2, 413 b 26-27; III,5, 430 a 23) e che tutti i suoi esegeti medievali concordano nel dire che esso ""non est neque corpus neque virtus in corpore"". Se, per lo Stagirita, l'intelletto si ""moltiplicasse"" nei singoli uomini garantendo così un'immortalità individuale e non fosse invece una realtà unica ed impersonale era  stato invece un problema dibattutissimo prima di Dante (basti pensare alla polemica di Tommaso contro Sigieri di Brabante e gli ""averroisti"") e, in forme diverse, tale rimase anche dopo, almeno fino a Pietro Pomponazzi. Per quanto riguarda gli Stoici, essi con tutta probabilità si identificano qui con i Pitagorici e i Platonici secondo la particolare classificazione delle scuole filosofiche usata da Alberto Magno: Pitagora e Platone, infatti, sono sempre stati considerati come i più convinti campioni della immortalità dell'anima. (vedi il Commento a <i>Cv</i>  III xiv 15). Riguardo a Cicerone, negli ultimi paragrafi del <i>De senectute</i> (xxi-xxiii) Catone il Vecchio esprime effettivamente la  convinzione dell'esistenza dopo la morte, di una vita che sola è degna di esser definita tale. Per quanto riguarda i poeti, che per Dante sono in qualche modo i testimoni privilegiati della ""fede de' Gentili"", egli avrà pensato senz'altro al sesto libro dell' <i>Eneide</i>, al viaggio di Enea nell'al di là ed il suo incontro con le anime dei defunti  (vv. 268 sgg. Ovviamente Dante non conosceva Lucrezio). Per quanto riguarda la <i>lex Moysi</i> (i Giudei) noi sappiamo che la credenza nell'immortalità dell'anima vi compare assai tardi, all'altezza dei libri dei Maccabei, ma la tradizione esegetica cristiana l'aveva considerata coestensiva a tutto il Vecchio Testamento. Per quanto invece concerne la <i>lex Machometi</i> (""saracino""-saraceno è l'equivalente medievale di musulmano) che essa promettesse un paradiso ai suoi fedeli (e sia pure un paradiso di gioie sensuali) era conoscenza vulgata (cfr. ad esempio lo <i>Speculum Historiale</i> di Vincenzo di Beauvais  XXII, cap. 6, pp. 921-922). Infine, a partire dalla metà del XIII secolo i Tartari erano divenuti per  la Cristianità occidentale oggetto prima di timore e poi di interesse politico-teologico: si pensava infatti che essi avrebbero potuto essere un valido alleato contro l'Islam, e pochi anni prima della stesura del <i>Convivio</i>, Egidio Romano compilava su incarico di Bonifacio VIII un testo (i <i>Capitula fidei ad Tartarum Maiorem</i>) che si pensava avrebbe aiutato la loro auspicata conversione. Un accenno alla credenza dei Mongoli-Tartari in una vita dopo la morte (ma una vita senza né Inferno né Paradiso) è nella <i>Historia Mongalorum</i> di Giovanni di Pian del Carpine.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Historia_Mongalorum,Historia Mongalorum,Giovanni di Pian del Carpine,http://dbpedia.org/resource/Giovanni_da_Pian_del_Carpine,http://purl.org/bncf/tid/9645,WORK
CHE SE TUTTI FOSSERO INGANNATI,"i commentatori recenti, sulle tracce di Nardi (cfr. Nardi 1985, pp. 225-243) osservano come l'argomento del consenso universale  ('consensus gentium') fosse stato  fin dalla tarda antichità e fosse ancora al tempo di Dante usato comunemente a favore dell'immortalità dell'anima (cfr. ad esempio Seneca, <i>Lettere a Lucilio</i>, 117.6).  Dante però non si ferma qui perché dimostra che se  questa credenza, che è anche una speranza, fosse falsa  ne deriverebbe una conseguenza impossibile (seguiterebbe una impossibilitade"") che sarebbe orribile anche solo enunciare (""che pure a retraere sarebbe orribile""), in quanto contraddirebbe ad una premessa da tutti accettata (""ciascuno è certo"" ""nullo lo niega"": nessuno lo nega): che la natura umana è la più perfetta (""perfettissima"") tra tutte le specie animali presenti nel mondo sublunare (""di qua giù"", per escludere la natura angelica). Ora, molti animali  (""molti che vivono"") privi di ragione (""bruti""), sono completamente mortali e non possiedono questa speranza. Dunque il possederla senza poterla realizzare sarebbe per l'uomo un difetto che lo renderebbe inferiore a tutte le altre specie animali (""di nullo altro animale""), tanto più che molti si sono comportati prendendola tanto seriamente da sacrificarle la vita terrena (""hanno dato questa vita per quella"". Ne conseguirebbe (""seguiterebbe"") l'assurdo che l'animale perfettissimo sarebbe imperfettissimo: proprio la razionalità che lo rende superiore agli altri animali (""che è sua perfezione maggiore"") sarebbe causa di questo difetto. Questo, risulta, anche solo a dirlo (""pare a dire"") come qualcosa di assolutamente mostruoso (""del tutto diverso"").      * ARISTOTILE L'AFFERMA ...: cfr. De partibus animalium II 10, 656 a 3-8. Nella raccolta degli scritti zoologici aristotelici tradotti dall'arabo da Michele Scoto sotto il titolo onnicomprensivo di Libri de animalibus (cfr. Cv II iii 2) il dodicesimo libro corrisponde al secondo del De partibus animalium.","II 10, 656 a 3-8",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_partibus_animalium,De animalibus (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
CHE SE TUTTI FOSSERO INGANNATI,"i commentatori recenti, sulle tracce di Nardi (cfr. Nardi 1985, pp. 225-243) osservano come l'argomento del consenso universale  ('consensus gentium') fosse stato  fin dalla tarda antichità e fosse ancora al tempo di Dante usato comunemente a favore dell'immortalità dell'anima (cfr. ad esempio Seneca, <i>Lettere a Lucilio</i>, 117.6).  Dante però non si ferma qui perché dimostra che se  questa credenza, che è anche una speranza, fosse falsa  ne deriverebbe una conseguenza impossibile (seguiterebbe una impossibilitade"") che sarebbe orribile anche solo enunciare (""che pure a retraere sarebbe orribile""), in quanto contraddirebbe ad una premessa da tutti accettata (""ciascuno è certo"" ""nullo lo niega"": nessuno lo nega): che la natura umana è la più perfetta (""perfettissima"") tra tutte le specie animali presenti nel mondo sublunare (""di qua giù"", per escludere la natura angelica). Ora, molti animali  (""molti che vivono"") privi di ragione (""bruti""), sono completamente mortali e non possiedono questa speranza. Dunque il possederla senza poterla realizzare sarebbe per l'uomo un difetto che lo renderebbe inferiore a tutte le altre specie animali (""di nullo altro animale""), tanto più che molti si sono comportati prendendola tanto seriamente da sacrificarle la vita terrena (""hanno dato questa vita per quella"". Ne conseguirebbe (""seguiterebbe"") l'assurdo che l'animale perfettissimo sarebbe imperfettissimo: proprio la razionalità che lo rende superiore agli altri animali (""che è sua perfezione maggiore"") sarebbe causa di questo difetto. Questo, risulta, anche solo a dirlo (""pare a dire"") come qualcosa di assolutamente mostruoso (""del tutto diverso"").      * ARISTOTILE L'AFFERMA ...: cfr. De partibus animalium II 10, 656 a 3-8. Nella raccolta degli scritti zoologici aristotelici tradotti dall'arabo da Michele Scoto sotto il titolo onnicomprensivo di Libri de animalibus (cfr. Cv II iii 2) il dodicesimo libro corrisponde al secondo del De partibus animalium.",117.6,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Epistulae_morales_ad_Lucilium,Epistulae morales ad Lucilium,Seneca,http://dbpedia.org/resource/Seneca_the_Younger,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
DETTO È ... PER VIVERE NELL'ALTRA VITA,"l'abbandono della vita presente nella certezza di una vita futura viene qui espresso chiaramente nei termini di una scelta volontaria e non imposta (corsero alla morte""). Più che ai martiri cristiani potremmo allora pensare a quei filosofi pagani che, convinti dell'immortalità dell'anima, si diedero la morte per vivere una vita migliore, secondo una tradizione che risale almeno alle <i>Divinae Institutiones</i> di Lattanzio e che ritroviamo nello <i>Speculum Historiale</i> di Vincenzo di Beauvais (III, cap. 44, <i>De Empedocle et Parmenide philosophis</i>, ed. cit., p. 101; cap. 78, <i>De appetitu mortis ob desiderium immortalitatis</i>, ed. cit., p.p. 109-110,; V, cap. 26, <i>De Zenone et Crysippo Stoicorum principibus</i>, ed. cit., p. 144), nel <i>De vita et moribus philosophorum</i> dello pseudo-Burley (capp. 29 <i>Crisippus</i>;  48 <i>Empedocles</i>; 51 <i>Plato</i>; 78 <i>Zenon</i> rispettivamente alle pp. 108, 190, 232, 304) e nell'anonimo <i>Fiore di  filosafi  e d'altri savi e imperadori</i> (s.v. <i>Platone</i>), p. 125). A questa tradizione dovrebbe essere allora riferita l 'espressione  ""poi che detto è"".","III, cap. 44, De Empedocle et Parmenide philosophis, ed. cit., p. 101;",CONCORDANZA STRINGENTE,http://it.dbpedia.org/resource/Speculum_historiale,Speculum Historiale,Vincenzo di Beauvais,http://dbpedia.org/resource/Vincent_of_Beauvais,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
DETTO È ... PER VIVERE NELL'ALTRA VITA,"l'abbandono della vita presente nella certezza di una vita futura viene qui espresso chiaramente nei termini di una scelta volontaria e non imposta (corsero alla morte""). Più che ai martiri cristiani potremmo allora pensare a quei filosofi pagani che, convinti dell'immortalità dell'anima, si diedero la morte per vivere una vita migliore, secondo una tradizione che risale almeno alle <i>Divinae Institutiones</i> di Lattanzio e che ritroviamo nello <i>Speculum Historiale</i> di Vincenzo di Beauvais (III, cap. 44, <i>De Empedocle et Parmenide philosophis</i>, ed. cit., p. 101; cap. 78, <i>De appetitu mortis ob desiderium immortalitatis</i>, ed. cit., p.p. 109-110,; V, cap. 26, <i>De Zenone et Crysippo Stoicorum principibus</i>, ed. cit., p. 144), nel <i>De vita et moribus philosophorum</i> dello pseudo-Burley (capp. 29 <i>Crisippus</i>;  48 <i>Empedocles</i>; 51 <i>Plato</i>; 78 <i>Zenon</i> rispettivamente alle pp. 108, 190, 232, 304) e nell'anonimo <i>Fiore di  filosafi  e d'altri savi e imperadori</i> (s.v. <i>Platone</i>), p. 125). A questa tradizione dovrebbe essere allora riferita l 'espressione  ""poi che detto è"".","cap. 78, De appetitu mortis ob desiderium immortalitatis, ed. cit., p.p. 109-110,;",CONCORDANZA STRINGENTE,http://it.dbpedia.org/resource/Speculum_historiale,Speculum Historiale,Vincenzo di Beauvais,http://dbpedia.org/resource/Vincent_of_Beauvais,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
DETTO È ... PER VIVERE NELL'ALTRA VITA,"l'abbandono della vita presente nella certezza di una vita futura viene qui espresso chiaramente nei termini di una scelta volontaria e non imposta (corsero alla morte""). Più che ai martiri cristiani potremmo allora pensare a quei filosofi pagani che, convinti dell'immortalità dell'anima, si diedero la morte per vivere una vita migliore, secondo una tradizione che risale almeno alle <i>Divinae Institutiones</i> di Lattanzio e che ritroviamo nello <i>Speculum Historiale</i> di Vincenzo di Beauvais (III, cap. 44, <i>De Empedocle et Parmenide philosophis</i>, ed. cit., p. 101; cap. 78, <i>De appetitu mortis ob desiderium immortalitatis</i>, ed. cit., p.p. 109-110,; V, cap. 26, <i>De Zenone et Crysippo Stoicorum principibus</i>, ed. cit., p. 144), nel <i>De vita et moribus philosophorum</i> dello pseudo-Burley (capp. 29 <i>Crisippus</i>;  48 <i>Empedocles</i>; 51 <i>Plato</i>; 78 <i>Zenon</i> rispettivamente alle pp. 108, 190, 232, 304) e nell'anonimo <i>Fiore di  filosafi  e d'altri savi e imperadori</i> (s.v. <i>Platone</i>), p. 125). A questa tradizione dovrebbe essere allora riferita l 'espressione  ""poi che detto è"".","V, cap. 26, De Zenone et Crysippo Stoicorum principibus, ed. cit., p. 144",CONCORDANZA STRINGENTE,http://it.dbpedia.org/resource/Speculum_historiale,Speculum Historiale,Vincenzo di Beauvais,http://dbpedia.org/resource/Vincent_of_Beauvais,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
DETTO È ... PER VIVERE NELL'ALTRA VITA,"l'abbandono della vita presente nella certezza di una vita futura viene qui espresso chiaramente nei termini di una scelta volontaria e non imposta (corsero alla morte""). Più che ai martiri cristiani potremmo allora pensare a quei filosofi pagani che, convinti dell'immortalità dell'anima, si diedero la morte per vivere una vita migliore, secondo una tradizione che risale almeno alle <i>Divinae Institutiones</i> di Lattanzio e che ritroviamo nello <i>Speculum Historiale</i> di Vincenzo di Beauvais (III, cap. 44, <i>De Empedocle et Parmenide philosophis</i>, ed. cit., p. 101; cap. 78, <i>De appetitu mortis ob desiderium immortalitatis</i>, ed. cit., p.p. 109-110,; V, cap. 26, <i>De Zenone et Crysippo Stoicorum principibus</i>, ed. cit., p. 144), nel <i>De vita et moribus philosophorum</i> dello pseudo-Burley (capp. 29 <i>Crisippus</i>;  48 <i>Empedocles</i>; 51 <i>Plato</i>; 78 <i>Zenon</i> rispettivamente alle pp. 108, 190, 232, 304) e nell'anonimo <i>Fiore di  filosafi  e d'altri savi e imperadori</i> (s.v. <i>Platone</i>), p. 125). A questa tradizione dovrebbe essere allora riferita l 'espressione  ""poi che detto è"".",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Divinae_Institutiones,Divinae Institutiones,Lattanzio,http://dbpedia.org/resource/Lactantius,http://purl.org/bncf/tid/29866,WORK
DETTO È ... PER VIVERE NELL'ALTRA VITA,"l'abbandono della vita presente nella certezza di una vita futura viene qui espresso chiaramente nei termini di una scelta volontaria e non imposta (corsero alla morte""). Più che ai martiri cristiani potremmo allora pensare a quei filosofi pagani che, convinti dell'immortalità dell'anima, si diedero la morte per vivere una vita migliore, secondo una tradizione che risale almeno alle <i>Divinae Institutiones</i> di Lattanzio e che ritroviamo nello <i>Speculum Historiale</i> di Vincenzo di Beauvais (III, cap. 44, <i>De Empedocle et Parmenide philosophis</i>, ed. cit., p. 101; cap. 78, <i>De appetitu mortis ob desiderium immortalitatis</i>, ed. cit., p.p. 109-110,; V, cap. 26, <i>De Zenone et Crysippo Stoicorum principibus</i>, ed. cit., p. 144), nel <i>De vita et moribus philosophorum</i> dello pseudo-Burley (capp. 29 <i>Crisippus</i>;  48 <i>Empedocles</i>; 51 <i>Plato</i>; 78 <i>Zenon</i> rispettivamente alle pp. 108, 190, 232, 304) e nell'anonimo <i>Fiore di  filosafi  e d'altri savi e imperadori</i> (s.v. <i>Platone</i>), p. 125). A questa tradizione dovrebbe essere allora riferita l 'espressione  ""poi che detto è"".","capp. 29 Crisippus;  48 Empedocles; 51 Plato; 78 Zenon rispettivamente alle pp. 108, 190, 232, 304",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_vita_et_moribus_philosophorum,De vita et moribus philosophorum,Burley (ps.),http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/pseudo-Burley,http://purl.org/bncf/tid/762,WORK
DETTO È ... PER VIVERE NELL'ALTRA VITA,"l'abbandono della vita presente nella certezza di una vita futura viene qui espresso chiaramente nei termini di una scelta volontaria e non imposta (corsero alla morte""). Più che ai martiri cristiani potremmo allora pensare a quei filosofi pagani che, convinti dell'immortalità dell'anima, si diedero la morte per vivere una vita migliore, secondo una tradizione che risale almeno alle <i>Divinae Institutiones</i> di Lattanzio e che ritroviamo nello <i>Speculum Historiale</i> di Vincenzo di Beauvais (III, cap. 44, <i>De Empedocle et Parmenide philosophis</i>, ed. cit., p. 101; cap. 78, <i>De appetitu mortis ob desiderium immortalitatis</i>, ed. cit., p.p. 109-110,; V, cap. 26, <i>De Zenone et Crysippo Stoicorum principibus</i>, ed. cit., p. 144), nel <i>De vita et moribus philosophorum</i> dello pseudo-Burley (capp. 29 <i>Crisippus</i>;  48 <i>Empedocles</i>; 51 <i>Plato</i>; 78 <i>Zenon</i> rispettivamente alle pp. 108, 190, 232, 304) e nell'anonimo <i>Fiore di  filosafi  e d'altri savi e imperadori</i> (s.v. <i>Platone</i>), p. 125). A questa tradizione dovrebbe essere allora riferita l 'espressione  ""poi che detto è"".",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Fiore_di_filosofi,Fiore di filosofi e di molti savi,,,http://purl.org/bncf/tid/762,WORK
NELLE DIVINAZIONI DE' NOSTRI SOGNI,"si tratta dei sogni in cui, per dirla con il conte Ugolino, vengono squarciati i velami del futuro (cfr.  <i>If</i> XXXIII, 27). Nel piccolo trattato intitolato <i>De divinatione per somnum</i> Aristotele aveva negato che il futuro potesse rendersi presente nei sogni, ma tutta la tradizione medievale non aveva seguito in questo il Filosofo. Già Alberto Magno aveva affermato che non esiste praticamente nessuno che non abbia avuto questa esperienza Vix arbitror quemquam inveniri hominem qui non de multis futuris praemonitus sit per suiipsius somnia"" (cfr. <i>De somno et vigilia</i> III, tr. I, cap. 2, p. 17). Questo fatto (o presunto tale. Aristotele attribuiva infatti i casi esperiti di corrispondenza tra sogni ed avvenimenti alla pura casualità) era stato usato effettivamente come argomento a favore dell'immortalità dell'anima. La conoscenza del futuro, infatti, non poteva essere frutto di congettura umana; solo una realtà  immortale e quindi capace di trascendere il tempo e di avere il futuro come presente era in grado di possederla e di donarla (""con ciò sia cosa che immortale convenga essere lo rivelante"". A questa connessione tra immortalità e presenzialità, inespressa nel testo, mi sembra si riferisca il ""se bene si pensa sottilmente"", cioè analizzando a fondo i fatti). Che le anime umane fossero capaci di ricevere queste rivelazioni era poi segno della loro affinità con il rivelante immortale, secondo uno schema già presente nel <i>Fedone</i>, riproposto da Alberto Magno (cfr. <i>De natura et origine animae</i> tr. 2, cap. 6, p. 28, ll. 45-50  ""Constat quod horum receptio non est nisi secundum conformitatem animae humanae ad intellectus supernos et caelestes ... et ideo nec perire potest  huiusmodi substantia recipiens talia oracula""). Dante interviene riconducendo il generico principio della somiglianza ad un preciso assioma della filosofia naturale: tra ciò che viene mosso ricevendo una forma  (""o vero informato"") e ciò che muove producendo la forma, quando il rapporto sia senza mediazioni (""informatore immediato""), deve esistere un  rapporto proporzionale (""debba avere proporzione""); ora tra ciò che immortale e ciò che è mortale non esiste alcuna proporzione (""nulla sia proporzione""); quindi ciò che è ""informato"" da una realtà immortale deve essere immortale. La premessa maggiore di questo sillogismo ha il suo fondamento in Aristotele (cfr. <i>De generatione</i> I 7, 323 b 30); viceversa lo Stagirita non ha mai affermato apertamente l'improporzionalità tra mortale ed immortale (il testo del <i>De caelo</i> citato dai commentatori e dalla edizione Brambilla Ageno riguarda l'incommensurabilità tra finito ed infinito, in un contesto prettamente fisico). I suoi esegeti medievali, basandosi su <i>Metaph</i>. III  4, 1000 a 5 sgg. gli hanno però attribuito l'assioma per cui i principi delle cose corruttibili (mortali) e quelli delle cose incorruttibili (immortali) sono specificamente diversi. La diversità di opinioni che Dante dice di avere riscontrato (""le diverse oppinioni ch'io di ciò ritruovo"") relativamente alla natura corporea o incorporea delle cause dei sogni divinatori  è presente nella parafrasi al <i>De somno et vigilia</i> di Alberto Magno (III, tr. 1, capp. 7-9, pp. 186-190) dove vengono presentate e criticate le posizioni di Averroè, Alfarabi, Isaac Israeli, sostenitori di una relazione immediata tra intelligenze ed anima umana (""rivelante incorporeo"") e si argomenta invece a favore di un'azione dei corpi celesti (""rivelante corporeo"") che comunque, nella fisica aristotelica, non sono soggetti a generazione e corruzione.  Su tutta questa sezione del <i>Convivio</i> cfr. Nardi 1985,  pp. 225-243.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_divinatione_per_somnum,De divinatione per somnum,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
NELLE DIVINAZIONI DE' NOSTRI SOGNI,"si tratta dei sogni in cui, per dirla con il conte Ugolino, vengono squarciati i velami del futuro (cfr.  <i>If</i> XXXIII, 27). Nel piccolo trattato intitolato <i>De divinatione per somnum</i> Aristotele aveva negato che il futuro potesse rendersi presente nei sogni, ma tutta la tradizione medievale non aveva seguito in questo il Filosofo. Già Alberto Magno aveva affermato che non esiste praticamente nessuno che non abbia avuto questa esperienza Vix arbitror quemquam inveniri hominem qui non de multis futuris praemonitus sit per suiipsius somnia"" (cfr. <i>De somno et vigilia</i> III, tr. I, cap. 2, p. 17). Questo fatto (o presunto tale. Aristotele attribuiva infatti i casi esperiti di corrispondenza tra sogni ed avvenimenti alla pura casualità) era stato usato effettivamente come argomento a favore dell'immortalità dell'anima. La conoscenza del futuro, infatti, non poteva essere frutto di congettura umana; solo una realtà  immortale e quindi capace di trascendere il tempo e di avere il futuro come presente era in grado di possederla e di donarla (""con ciò sia cosa che immortale convenga essere lo rivelante"". A questa connessione tra immortalità e presenzialità, inespressa nel testo, mi sembra si riferisca il ""se bene si pensa sottilmente"", cioè analizzando a fondo i fatti). Che le anime umane fossero capaci di ricevere queste rivelazioni era poi segno della loro affinità con il rivelante immortale, secondo uno schema già presente nel <i>Fedone</i>, riproposto da Alberto Magno (cfr. <i>De natura et origine animae</i> tr. 2, cap. 6, p. 28, ll. 45-50  ""Constat quod horum receptio non est nisi secundum conformitatem animae humanae ad intellectus supernos et caelestes ... et ideo nec perire potest  huiusmodi substantia recipiens talia oracula""). Dante interviene riconducendo il generico principio della somiglianza ad un preciso assioma della filosofia naturale: tra ciò che viene mosso ricevendo una forma  (""o vero informato"") e ciò che muove producendo la forma, quando il rapporto sia senza mediazioni (""informatore immediato""), deve esistere un  rapporto proporzionale (""debba avere proporzione""); ora tra ciò che immortale e ciò che è mortale non esiste alcuna proporzione (""nulla sia proporzione""); quindi ciò che è ""informato"" da una realtà immortale deve essere immortale. La premessa maggiore di questo sillogismo ha il suo fondamento in Aristotele (cfr. <i>De generatione</i> I 7, 323 b 30); viceversa lo Stagirita non ha mai affermato apertamente l'improporzionalità tra mortale ed immortale (il testo del <i>De caelo</i> citato dai commentatori e dalla edizione Brambilla Ageno riguarda l'incommensurabilità tra finito ed infinito, in un contesto prettamente fisico). I suoi esegeti medievali, basandosi su <i>Metaph</i>. III  4, 1000 a 5 sgg. gli hanno però attribuito l'assioma per cui i principi delle cose corruttibili (mortali) e quelli delle cose incorruttibili (immortali) sono specificamente diversi. La diversità di opinioni che Dante dice di avere riscontrato (""le diverse oppinioni ch'io di ciò ritruovo"") relativamente alla natura corporea o incorporea delle cause dei sogni divinatori  è presente nella parafrasi al <i>De somno et vigilia</i> di Alberto Magno (III, tr. 1, capp. 7-9, pp. 186-190) dove vengono presentate e criticate le posizioni di Averroè, Alfarabi, Isaac Israeli, sostenitori di una relazione immediata tra intelligenze ed anima umana (""rivelante incorporeo"") e si argomenta invece a favore di un'azione dei corpi celesti (""rivelante corporeo"") che comunque, nella fisica aristotelica, non sono soggetti a generazione e corruzione.  Su tutta questa sezione del <i>Convivio</i> cfr. Nardi 1985,  pp. 225-243.","III, tr. I, cap. 2, p. 17",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_somno_et_vigilia(Alberto_Magno),De somno et vigilia,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
NELLE DIVINAZIONI DE' NOSTRI SOGNI,"si tratta dei sogni in cui, per dirla con il conte Ugolino, vengono squarciati i velami del futuro (cfr.  <i>If</i> XXXIII, 27). Nel piccolo trattato intitolato <i>De divinatione per somnum</i> Aristotele aveva negato che il futuro potesse rendersi presente nei sogni, ma tutta la tradizione medievale non aveva seguito in questo il Filosofo. Già Alberto Magno aveva affermato che non esiste praticamente nessuno che non abbia avuto questa esperienza Vix arbitror quemquam inveniri hominem qui non de multis futuris praemonitus sit per suiipsius somnia"" (cfr. <i>De somno et vigilia</i> III, tr. I, cap. 2, p. 17). Questo fatto (o presunto tale. Aristotele attribuiva infatti i casi esperiti di corrispondenza tra sogni ed avvenimenti alla pura casualità) era stato usato effettivamente come argomento a favore dell'immortalità dell'anima. La conoscenza del futuro, infatti, non poteva essere frutto di congettura umana; solo una realtà  immortale e quindi capace di trascendere il tempo e di avere il futuro come presente era in grado di possederla e di donarla (""con ciò sia cosa che immortale convenga essere lo rivelante"". A questa connessione tra immortalità e presenzialità, inespressa nel testo, mi sembra si riferisca il ""se bene si pensa sottilmente"", cioè analizzando a fondo i fatti). Che le anime umane fossero capaci di ricevere queste rivelazioni era poi segno della loro affinità con il rivelante immortale, secondo uno schema già presente nel <i>Fedone</i>, riproposto da Alberto Magno (cfr. <i>De natura et origine animae</i> tr. 2, cap. 6, p. 28, ll. 45-50  ""Constat quod horum receptio non est nisi secundum conformitatem animae humanae ad intellectus supernos et caelestes ... et ideo nec perire potest  huiusmodi substantia recipiens talia oracula""). Dante interviene riconducendo il generico principio della somiglianza ad un preciso assioma della filosofia naturale: tra ciò che viene mosso ricevendo una forma  (""o vero informato"") e ciò che muove producendo la forma, quando il rapporto sia senza mediazioni (""informatore immediato""), deve esistere un  rapporto proporzionale (""debba avere proporzione""); ora tra ciò che immortale e ciò che è mortale non esiste alcuna proporzione (""nulla sia proporzione""); quindi ciò che è ""informato"" da una realtà immortale deve essere immortale. La premessa maggiore di questo sillogismo ha il suo fondamento in Aristotele (cfr. <i>De generatione</i> I 7, 323 b 30); viceversa lo Stagirita non ha mai affermato apertamente l'improporzionalità tra mortale ed immortale (il testo del <i>De caelo</i> citato dai commentatori e dalla edizione Brambilla Ageno riguarda l'incommensurabilità tra finito ed infinito, in un contesto prettamente fisico). I suoi esegeti medievali, basandosi su <i>Metaph</i>. III  4, 1000 a 5 sgg. gli hanno però attribuito l'assioma per cui i principi delle cose corruttibili (mortali) e quelli delle cose incorruttibili (immortali) sono specificamente diversi. La diversità di opinioni che Dante dice di avere riscontrato (""le diverse oppinioni ch'io di ciò ritruovo"") relativamente alla natura corporea o incorporea delle cause dei sogni divinatori  è presente nella parafrasi al <i>De somno et vigilia</i> di Alberto Magno (III, tr. 1, capp. 7-9, pp. 186-190) dove vengono presentate e criticate le posizioni di Averroè, Alfarabi, Isaac Israeli, sostenitori di una relazione immediata tra intelligenze ed anima umana (""rivelante incorporeo"") e si argomenta invece a favore di un'azione dei corpi celesti (""rivelante corporeo"") che comunque, nella fisica aristotelica, non sono soggetti a generazione e corruzione.  Su tutta questa sezione del <i>Convivio</i> cfr. Nardi 1985,  pp. 225-243.","III, tr. 1, capp. 7-9, pp. 186-190",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_somno_et_vigilia(Alberto_Magno),De somno et vigilia,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
NELLE DIVINAZIONI DE' NOSTRI SOGNI,"si tratta dei sogni in cui, per dirla con il conte Ugolino, vengono squarciati i velami del futuro (cfr.  <i>If</i> XXXIII, 27). Nel piccolo trattato intitolato <i>De divinatione per somnum</i> Aristotele aveva negato che il futuro potesse rendersi presente nei sogni, ma tutta la tradizione medievale non aveva seguito in questo il Filosofo. Già Alberto Magno aveva affermato che non esiste praticamente nessuno che non abbia avuto questa esperienza Vix arbitror quemquam inveniri hominem qui non de multis futuris praemonitus sit per suiipsius somnia"" (cfr. <i>De somno et vigilia</i> III, tr. I, cap. 2, p. 17). Questo fatto (o presunto tale. Aristotele attribuiva infatti i casi esperiti di corrispondenza tra sogni ed avvenimenti alla pura casualità) era stato usato effettivamente come argomento a favore dell'immortalità dell'anima. La conoscenza del futuro, infatti, non poteva essere frutto di congettura umana; solo una realtà  immortale e quindi capace di trascendere il tempo e di avere il futuro come presente era in grado di possederla e di donarla (""con ciò sia cosa che immortale convenga essere lo rivelante"". A questa connessione tra immortalità e presenzialità, inespressa nel testo, mi sembra si riferisca il ""se bene si pensa sottilmente"", cioè analizzando a fondo i fatti). Che le anime umane fossero capaci di ricevere queste rivelazioni era poi segno della loro affinità con il rivelante immortale, secondo uno schema già presente nel <i>Fedone</i>, riproposto da Alberto Magno (cfr. <i>De natura et origine animae</i> tr. 2, cap. 6, p. 28, ll. 45-50  ""Constat quod horum receptio non est nisi secundum conformitatem animae humanae ad intellectus supernos et caelestes ... et ideo nec perire potest  huiusmodi substantia recipiens talia oracula""). Dante interviene riconducendo il generico principio della somiglianza ad un preciso assioma della filosofia naturale: tra ciò che viene mosso ricevendo una forma  (""o vero informato"") e ciò che muove producendo la forma, quando il rapporto sia senza mediazioni (""informatore immediato""), deve esistere un  rapporto proporzionale (""debba avere proporzione""); ora tra ciò che immortale e ciò che è mortale non esiste alcuna proporzione (""nulla sia proporzione""); quindi ciò che è ""informato"" da una realtà immortale deve essere immortale. La premessa maggiore di questo sillogismo ha il suo fondamento in Aristotele (cfr. <i>De generatione</i> I 7, 323 b 30); viceversa lo Stagirita non ha mai affermato apertamente l'improporzionalità tra mortale ed immortale (il testo del <i>De caelo</i> citato dai commentatori e dalla edizione Brambilla Ageno riguarda l'incommensurabilità tra finito ed infinito, in un contesto prettamente fisico). I suoi esegeti medievali, basandosi su <i>Metaph</i>. III  4, 1000 a 5 sgg. gli hanno però attribuito l'assioma per cui i principi delle cose corruttibili (mortali) e quelli delle cose incorruttibili (immortali) sono specificamente diversi. La diversità di opinioni che Dante dice di avere riscontrato (""le diverse oppinioni ch'io di ciò ritruovo"") relativamente alla natura corporea o incorporea delle cause dei sogni divinatori  è presente nella parafrasi al <i>De somno et vigilia</i> di Alberto Magno (III, tr. 1, capp. 7-9, pp. 186-190) dove vengono presentate e criticate le posizioni di Averroè, Alfarabi, Isaac Israeli, sostenitori di una relazione immediata tra intelligenze ed anima umana (""rivelante incorporeo"") e si argomenta invece a favore di un'azione dei corpi celesti (""rivelante corporeo"") che comunque, nella fisica aristotelica, non sono soggetti a generazione e corruzione.  Su tutta questa sezione del <i>Convivio</i> cfr. Nardi 1985,  pp. 225-243.","tr. 2, cap. 6, p. 28, ll. 45-50  ""Constat quod horum receptio non est nisi secundum conformitatem animae humanae ad intellectus supernos et caelestes ... et ideo nec perire potest  huiusmodi substantia recipiens talia oracula""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_natura_et_origine_animae,De natura et origine animae,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
NELLE DIVINAZIONI DE' NOSTRI SOGNI,"si tratta dei sogni in cui, per dirla con il conte Ugolino, vengono squarciati i velami del futuro (cfr.  <i>If</i> XXXIII, 27). Nel piccolo trattato intitolato <i>De divinatione per somnum</i> Aristotele aveva negato che il futuro potesse rendersi presente nei sogni, ma tutta la tradizione medievale non aveva seguito in questo il Filosofo. Già Alberto Magno aveva affermato che non esiste praticamente nessuno che non abbia avuto questa esperienza Vix arbitror quemquam inveniri hominem qui non de multis futuris praemonitus sit per suiipsius somnia"" (cfr. <i>De somno et vigilia</i> III, tr. I, cap. 2, p. 17). Questo fatto (o presunto tale. Aristotele attribuiva infatti i casi esperiti di corrispondenza tra sogni ed avvenimenti alla pura casualità) era stato usato effettivamente come argomento a favore dell'immortalità dell'anima. La conoscenza del futuro, infatti, non poteva essere frutto di congettura umana; solo una realtà  immortale e quindi capace di trascendere il tempo e di avere il futuro come presente era in grado di possederla e di donarla (""con ciò sia cosa che immortale convenga essere lo rivelante"". A questa connessione tra immortalità e presenzialità, inespressa nel testo, mi sembra si riferisca il ""se bene si pensa sottilmente"", cioè analizzando a fondo i fatti). Che le anime umane fossero capaci di ricevere queste rivelazioni era poi segno della loro affinità con il rivelante immortale, secondo uno schema già presente nel <i>Fedone</i>, riproposto da Alberto Magno (cfr. <i>De natura et origine animae</i> tr. 2, cap. 6, p. 28, ll. 45-50  ""Constat quod horum receptio non est nisi secundum conformitatem animae humanae ad intellectus supernos et caelestes ... et ideo nec perire potest  huiusmodi substantia recipiens talia oracula""). Dante interviene riconducendo il generico principio della somiglianza ad un preciso assioma della filosofia naturale: tra ciò che viene mosso ricevendo una forma  (""o vero informato"") e ciò che muove producendo la forma, quando il rapporto sia senza mediazioni (""informatore immediato""), deve esistere un  rapporto proporzionale (""debba avere proporzione""); ora tra ciò che immortale e ciò che è mortale non esiste alcuna proporzione (""nulla sia proporzione""); quindi ciò che è ""informato"" da una realtà immortale deve essere immortale. La premessa maggiore di questo sillogismo ha il suo fondamento in Aristotele (cfr. <i>De generatione</i> I 7, 323 b 30); viceversa lo Stagirita non ha mai affermato apertamente l'improporzionalità tra mortale ed immortale (il testo del <i>De caelo</i> citato dai commentatori e dalla edizione Brambilla Ageno riguarda l'incommensurabilità tra finito ed infinito, in un contesto prettamente fisico). I suoi esegeti medievali, basandosi su <i>Metaph</i>. III  4, 1000 a 5 sgg. gli hanno però attribuito l'assioma per cui i principi delle cose corruttibili (mortali) e quelli delle cose incorruttibili (immortali) sono specificamente diversi. La diversità di opinioni che Dante dice di avere riscontrato (""le diverse oppinioni ch'io di ciò ritruovo"") relativamente alla natura corporea o incorporea delle cause dei sogni divinatori  è presente nella parafrasi al <i>De somno et vigilia</i> di Alberto Magno (III, tr. 1, capp. 7-9, pp. 186-190) dove vengono presentate e criticate le posizioni di Averroè, Alfarabi, Isaac Israeli, sostenitori di una relazione immediata tra intelligenze ed anima umana (""rivelante incorporeo"") e si argomenta invece a favore di un'azione dei corpi celesti (""rivelante corporeo"") che comunque, nella fisica aristotelica, non sono soggetti a generazione e corruzione.  Su tutta questa sezione del <i>Convivio</i> cfr. Nardi 1985,  pp. 225-243.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Phaedo,Fedone,Platone,http://dbpedia.org/resource/Plato,http://purl.org/bncf/tid/8332,WORK
NELLE DIVINAZIONI DE' NOSTRI SOGNI,"si tratta dei sogni in cui, per dirla con il conte Ugolino, vengono squarciati i velami del futuro (cfr.  <i>If</i> XXXIII, 27). Nel piccolo trattato intitolato <i>De divinatione per somnum</i> Aristotele aveva negato che il futuro potesse rendersi presente nei sogni, ma tutta la tradizione medievale non aveva seguito in questo il Filosofo. Già Alberto Magno aveva affermato che non esiste praticamente nessuno che non abbia avuto questa esperienza Vix arbitror quemquam inveniri hominem qui non de multis futuris praemonitus sit per suiipsius somnia"" (cfr. <i>De somno et vigilia</i> III, tr. I, cap. 2, p. 17). Questo fatto (o presunto tale. Aristotele attribuiva infatti i casi esperiti di corrispondenza tra sogni ed avvenimenti alla pura casualità) era stato usato effettivamente come argomento a favore dell'immortalità dell'anima. La conoscenza del futuro, infatti, non poteva essere frutto di congettura umana; solo una realtà  immortale e quindi capace di trascendere il tempo e di avere il futuro come presente era in grado di possederla e di donarla (""con ciò sia cosa che immortale convenga essere lo rivelante"". A questa connessione tra immortalità e presenzialità, inespressa nel testo, mi sembra si riferisca il ""se bene si pensa sottilmente"", cioè analizzando a fondo i fatti). Che le anime umane fossero capaci di ricevere queste rivelazioni era poi segno della loro affinità con il rivelante immortale, secondo uno schema già presente nel <i>Fedone</i>, riproposto da Alberto Magno (cfr. <i>De natura et origine animae</i> tr. 2, cap. 6, p. 28, ll. 45-50  ""Constat quod horum receptio non est nisi secundum conformitatem animae humanae ad intellectus supernos et caelestes ... et ideo nec perire potest  huiusmodi substantia recipiens talia oracula""). Dante interviene riconducendo il generico principio della somiglianza ad un preciso assioma della filosofia naturale: tra ciò che viene mosso ricevendo una forma  (""o vero informato"") e ciò che muove producendo la forma, quando il rapporto sia senza mediazioni (""informatore immediato""), deve esistere un  rapporto proporzionale (""debba avere proporzione""); ora tra ciò che immortale e ciò che è mortale non esiste alcuna proporzione (""nulla sia proporzione""); quindi ciò che è ""informato"" da una realtà immortale deve essere immortale. La premessa maggiore di questo sillogismo ha il suo fondamento in Aristotele (cfr. <i>De generatione</i> I 7, 323 b 30); viceversa lo Stagirita non ha mai affermato apertamente l'improporzionalità tra mortale ed immortale (il testo del <i>De caelo</i> citato dai commentatori e dalla edizione Brambilla Ageno riguarda l'incommensurabilità tra finito ed infinito, in un contesto prettamente fisico). I suoi esegeti medievali, basandosi su <i>Metaph</i>. III  4, 1000 a 5 sgg. gli hanno però attribuito l'assioma per cui i principi delle cose corruttibili (mortali) e quelli delle cose incorruttibili (immortali) sono specificamente diversi. La diversità di opinioni che Dante dice di avere riscontrato (""le diverse oppinioni ch'io di ciò ritruovo"") relativamente alla natura corporea o incorporea delle cause dei sogni divinatori  è presente nella parafrasi al <i>De somno et vigilia</i> di Alberto Magno (III, tr. 1, capp. 7-9, pp. 186-190) dove vengono presentate e criticate le posizioni di Averroè, Alfarabi, Isaac Israeli, sostenitori di una relazione immediata tra intelligenze ed anima umana (""rivelante incorporeo"") e si argomenta invece a favore di un'azione dei corpi celesti (""rivelante corporeo"") che comunque, nella fisica aristotelica, non sono soggetti a generazione e corruzione.  Su tutta questa sezione del <i>Convivio</i> cfr. Nardi 1985,  pp. 225-243.","I 7, 323 b 30",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/On_Generation_and_Corruption,De generatione et corruptione (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
"VIA, VERITÀ E LUCE","contaminazione di due versetti del Vangelo di Giovanni: ""Ego sum via, veritas et vita"" (14, 6) e ""Ego sum lux mundi"" (8, 12).","14, 6",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_John,Vangelo di Giovanni,Giovanni,http://dbpedia.org/resource/John_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
"VIA, VERITÀ E LUCE","contaminazione di due versetti del Vangelo di Giovanni: ""Ego sum via, veritas et vita"" (14, 6) e ""Ego sum lux mundi"" (8, 12).","8, 12",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_John,Vangelo di Giovanni,Giovanni,http://dbpedia.org/resource/John_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
PER RAGIONE ... MISTURA DI MORTALE CON IMMORTALE,"le argomentazioni razionali a favore dell'immortalità dell'anima non mostrano la verità con certezza assoluta, ma sono sempre in qualche modo soggette a discussione. Questo dipende (incontra"") dal fatto che la luce intellettuale della nostra parte immortale (l'anima) finché è mescolata con la nostra componente mortale (il corpo) è come offuscata da un'ombra (cfr. Alberto Magno, <i>De causis et processu universitatis</i>, I, tr. 4, c. 2, p. 44, ll. 16-19 ""anima ...propter dependentiam ad corpus necesse est quod primae limpiditatis et sinceritatis patiatur adumbrationem"").","I, tr. 4, c. 2, p. 44, ll. 16-19 ""anima ...propter dependentiam ad corpus necesse est quod primae limpiditatis et sinceritatis patiatur adumbrationem""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_causis_et_processu_universitatis,De causis et processu universitatis,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
E QUI SI VUOL SAPERE .... IN QUELLO CH'ELLO MIRA,"per fondare scientificamente il fenomeno dell'innamoramento attraverso gli occhi viene qui introdotta dalla consueta formula 'tecnica' (e qui si vuol sapere"": 'et hic sciendum est') una breve spiegazione della struttura della sensazione visiva: nonostante più oggetti possano contemporaneamente (""a un'ora"") colpire l'occhio, tuttavia (""veramente"" con valore avversativo, dal latino <i>verumtamen</i> ) vediamo in senso proprio (""veramente"", questa volta dal latino <i>vere</i>) solo quello che raggiunge il centro (""la punta"") della pupilla seguendo una linea retta; solo un tale oggetto si imprime in maniera permanente (""si suggella"") nella facoltà della immaginazione (<i>imaginatio</i> è il termine tecnico con cui i commentatori arabi e latini del <i>De anima</i> di Aristotele indicano la facoltà che ha capacità di trattenere l'immagine di un oggetto in assenza dell'oggetto stesso) L'amore nasce sì dalla vista, ma solo se la forma dell'oggetto amato si fissa nell'immaginazione; per l'uso della stessa metafora a proposito della memoria cfr. nota a <i>Cv</i> I viii 12). Questo perché (""però che"") il nervo che è il veicolo fisiologico della capacità  di vedere (""per lo quale corre lo spirito visivo"") procede dal cervello al centro della pupilla in linea retta. Possiamo osservare come, nel solco della tradizione della scienza ottica medievale, questa spiegazione unisca elementi geometrici (la visione per linea retta) e anatomico- fisiologici  (il nervo ottico). Nel primo caso i commentatori richiamano giustamente un brano del <i>De sensu et sensato</i> dove Alberto Magno sostiene che la vista più intensa  (""fortior visus"" ) si ha lungo  linea  retta che costituisce l'asse della piramide visiva che ha come vertice l'occhio e come base l'oggetto e che coincide con l'asse della pupilla (si tratta di una ""recta immutatio ad centrum oculi directa""). La stessa dottrina è presente nella <i>Perspectiva</i> di Ruggero Bacone (cfr. Parronchi 1959, pp 5, 103, 27-28), ma come nota giustamente Simon Gilson, richiamandosi alla enciclopedia di Bartolomeo Anglico, il <i>De naturis rerum</i>, si trattava di dottrine ormai  ampiamente diffuse (cfr. Gilson² 1997, pp. 193-4). E' invece di origine galenica la dottrina  per cui gli spiriti animali, partendo dal cervello, raggiungono gli organi periferici, ed al cervello ritornano rendendo possibili le sensazioni. Una teoria generale della visione verrà presentata in <i>Cv</i>  III ix 7-8. In questo brano le nozioni di ottica sono funzionali alla spiegazione dell'incontro degli sguardi amorosi: gli occhi che guardano altri occhi  non possono fare a meno di  essere a loro volta guardati (""sì che esso non sia veduto da lui""); le loro immagini (""la sua forma"") si incrociano per la medesima linea retta, ed è su questa linea retta (""nel dirizzare di questa linea"") che Amore, per cui ogni difesa è fragile (""colui al quale ogni arme è leggiere"") scocca il suo arco. Come poi avverrà in maniera più continua e complessa nella <i>Commedia</i>, qui Dante intreccia tra di loro linguaggi assi diversi come quello della scienza e della mitologia amorosa.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_sensu_et_sensato(Alberto_Magno),De sensu et sensato (Alberto Magno),Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
L'ATTO DELL'AGENTE SI PRENDE NEL DISPOSTO PAZIENTE,"più che al testo latino di <i>De an</i>. II, 2, 414 a 11-12 (Videtur ... in patiente et disposito activorum inesse actio"") cui rimanda <i>Busnelli</i>  ripreso da <i>Vasoli</i>, Dante si rifà qui alle <i>Auctoritates Aristotelis</i> (p. 179 n. 55) ""actus activorum sunt in patiente praedisposito"" (cfr.  <i>Ricklin</i> ). A questo principio aristotelico Dante si riferirà anche in <i>Cv</i>  IV xx 7.","II, 2, 414 a 11-12",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
L'ATTO DELL'AGENTE SI PRENDE NEL DISPOSTO PAZIENTE,"più che al testo latino di <i>De an</i>. II, 2, 414 a 11-12 (Videtur ... in patiente et disposito activorum inesse actio"") cui rimanda <i>Busnelli</i>  ripreso da <i>Vasoli</i>, Dante si rifà qui alle <i>Auctoritates Aristotelis</i> (p. 179 n. 55) ""actus activorum sunt in patiente praedisposito"" (cfr.  <i>Ricklin</i> ). A questo principio aristotelico Dante si riferirà anche in <i>Cv</i>  IV xx 7.","p. 179 n. 55 ""actus activorum sunt in patiente praedisposito""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Auctoritates_Aristotelis,Auctoritates Aristotelis,Johannes de Fonte,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Johannes_de_Fonte,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
NON ... SANZA ALCUNO DISCORRIMENTO,"non senza una qualche fluttuazione'. Cfr. <i>De consolatione philosophiae</i> II, prosa 1, 6, p. 28 Verum omnis subita mutatio rerum non sine quodam quasi fluctu contingit animorum"",  che Dante traduce alla lettera (probabilmente, nel codice a sua disposizione, egli leggeva 'fluxu' e non 'fluctu'. Cfr. <i>Cv</i>  III vii 2, dove viene reso con ""discorrimento"" il termine <i>influxio</i> presente nella traduzione latina del <i>Liber de causis</i>).","II, prosa 1, 6, p. 28 ""Verum omnis subita mutatio rerum non sine quodam quasi fluctu contingit animorum""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
PIETOSO LO CHIAMA,"il termine 'pius' che Dante rende con  pietoso"" è  nell'<i>Eneide</i> attributo costante di Enea.",,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Aeneid,Aeneis,Virgilio,http://dbpedia.org/resource/Virgil,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
E NON È PIETADE ...,"in questo paragrafo e nei seguenti Dante polemizza contro il modo approssimativo con cui  vengono considerate  virtù, o comunque disposizioni d'animo, come pietà  e cortesia.  In entrambi i casi si tratta di una mancanza di analisi per cui la gente comune (la volgar gente"") scambia il genere (pietà, cortesia) con una delle sue specie (misericordia, larghezza-liberalità). Già Tommaso aveva  fatto del ""dolersi del male altrui"" (""habere miserum cor super miseria alterius"", <i>Summa Theologiae</i>  IIa-IIae, q. 30, a. 1, <i>respondeo</i>) una caratteristica della misericordia e nella <i>Retorica</i>, Aristotele aveva classificato la misericordia  (traduzione latina del greco <i>eleos</i>) tra le passioni (cfr. <i>Rhet</i>. II 8, 1385 b 12 sgg.).  Ma che la pietà sia una disposizione virtuosa (""nobile disposizione"") di cui la misericordia, l'amore ed altre passioni  che ci fanno attenti verso il prossimo (""passioni caritative"") sono effetti particolari (""speziale effetto"") è dottrina propria di Dante, anche se un richiamo potrebbe essere fatto a <i>De civitate Dei</i> X 1, p. 447 dove si osserva che il termine <i>eusebeia</i> (<i>pietas</i>) in sé riservato al culto divino, ""pro misericordia Graecorum vulgus usurpat"". Sulla pietà Dante tornerà in <i>Cv</i>  IV xix precisando che si tratta di una ""buona disposizione da natura data"", anteriore quindi ad ogni processo di raggiungimento delle virtù più propriamente morali.","IIa-IIae, q. 30, a. 1",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_Theologica,Summa Theologiae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
E NON È PIETADE ...,"in questo paragrafo e nei seguenti Dante polemizza contro il modo approssimativo con cui  vengono considerate  virtù, o comunque disposizioni d'animo, come pietà  e cortesia.  In entrambi i casi si tratta di una mancanza di analisi per cui la gente comune (la volgar gente"") scambia il genere (pietà, cortesia) con una delle sue specie (misericordia, larghezza-liberalità). Già Tommaso aveva  fatto del ""dolersi del male altrui"" (""habere miserum cor super miseria alterius"", <i>Summa Theologiae</i>  IIa-IIae, q. 30, a. 1, <i>respondeo</i>) una caratteristica della misericordia e nella <i>Retorica</i>, Aristotele aveva classificato la misericordia  (traduzione latina del greco <i>eleos</i>) tra le passioni (cfr. <i>Rhet</i>. II 8, 1385 b 12 sgg.).  Ma che la pietà sia una disposizione virtuosa (""nobile disposizione"") di cui la misericordia, l'amore ed altre passioni  che ci fanno attenti verso il prossimo (""passioni caritative"") sono effetti particolari (""speziale effetto"") è dottrina propria di Dante, anche se un richiamo potrebbe essere fatto a <i>De civitate Dei</i> X 1, p. 447 dove si osserva che il termine <i>eusebeia</i> (<i>pietas</i>) in sé riservato al culto divino, ""pro misericordia Graecorum vulgus usurpat"". Sulla pietà Dante tornerà in <i>Cv</i>  IV xix precisando che si tratta di una ""buona disposizione da natura data"", anteriore quindi ad ogni processo di raggiungimento delle virtù più propriamente morali.","II 8, 1385 b 12 sgg.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://it.dbpedia.org/resource/Retorica_(Aristotele),Rhetorica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
E NON È PIETADE ...,"in questo paragrafo e nei seguenti Dante polemizza contro il modo approssimativo con cui  vengono considerate  virtù, o comunque disposizioni d'animo, come pietà  e cortesia.  In entrambi i casi si tratta di una mancanza di analisi per cui la gente comune (la volgar gente"") scambia il genere (pietà, cortesia) con una delle sue specie (misericordia, larghezza-liberalità). Già Tommaso aveva  fatto del ""dolersi del male altrui"" (""habere miserum cor super miseria alterius"", <i>Summa Theologiae</i>  IIa-IIae, q. 30, a. 1, <i>respondeo</i>) una caratteristica della misericordia e nella <i>Retorica</i>, Aristotele aveva classificato la misericordia  (traduzione latina del greco <i>eleos</i>) tra le passioni (cfr. <i>Rhet</i>. II 8, 1385 b 12 sgg.).  Ma che la pietà sia una disposizione virtuosa (""nobile disposizione"") di cui la misericordia, l'amore ed altre passioni  che ci fanno attenti verso il prossimo (""passioni caritative"") sono effetti particolari (""speziale effetto"") è dottrina propria di Dante, anche se un richiamo potrebbe essere fatto a <i>De civitate Dei</i> X 1, p. 447 dove si osserva che il termine <i>eusebeia</i> (<i>pietas</i>) in sé riservato al culto divino, ""pro misericordia Graecorum vulgus usurpat"". Sulla pietà Dante tornerà in <i>Cv</i>  IV xix precisando che si tratta di una ""buona disposizione da natura data"", anteriore quindi ad ogni processo di raggiungimento delle virtù più propriamente morali.","X 1, p. 447",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/City_of_God_(book),De civitate Dei,Agostino,http://dbpedia.org/resource/Augustine_of_Hippo,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
E UN'ALTRA INFERMITADE ... DEL LORO SIGNORE,"traduzione di <i>Ecl</i>. 5, 12  Est et alia infirmitas pessima quam vidi sub sole, divitiae conservatae in malum domini sui""  ('in malum': ""a detrimento"").","5, 12  ""Est et alia infirmitas pessima quam vidi sub sole, divitiae conservatae in malum domini sui""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Ecclesiastes,Ecclesiaste,Salomone,http://dbpedia.org/resource/Solomon,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
QUELLO NON CONOSCIUTO DA MOLTI  ...,"si tratta del <i>De consolatione philosophiae</i>, già utilizzato in <i>Cv</i> I ii 13; II vii 4 e che sarà ancora ampiamente presente nel resto del trattato.  In realtà, come è stato fatto notare sia da <i>Vasoli</i> che soprattutto da <i>Ricklin</i>, il testo di Boezio era uno dei più conosciuti e diffusi nel Medioevo (vedi il Commento a <i>Cv</i>  I ii 13). Come nel resto d'Italia anche a Firenze, nel XIV secolo il <i>De consolatione</i> era usato come libro di testo per gli studenti di latino giunti al termine del primo ciclo di letture, i cosiddetti 'auctores minores' (Lapo Mazzei in una lettera affermerà che  Boezio ... si legge a corso in ogni scuola ai più giovani"". Cfr. Black-Pomaro 2000, pp. 3 sgg. ); un fiorentino contemporaneo di Dante,  Bono Giamboni,  lo aveva utilizzato a modello nel <i>suo Libro de' vizi e delle virtù</i>. Potremmo pensare che con l'espressione ""non conosciuto"" Dante voglia dire che il vero e profondo significato  del testo è sfuggito e sfugge a chi lo usa come semplice mezzo di apprendimento del latino. Nei fatti le glosse presenti nei manoscritti fiorentini del <i>De consolatione</i>, sembrano essere di carattere esclusivamente grammaticale e non filosofico. Cfr. Black-G. Pomaro 2000, pp. 8-11.",,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
AMISTADE,amicizia'. Si tratta  del dialogo <i>Laelius de amicitia</i>.,,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Laelius_de_Amicitia,De amicitia,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
AVEA TOCCATE PAROLE,"aveva parlato del modo con cui Lelio aveva alleviato il proprio dolore'. Nel dialogo (I, 3-4) Lelio afferma che il dolore per la perdita dell'amico viene mitigato dalla certezza che la morte non ha potuto fargli alcun male. Come ha rilevato il Davis, il testo di Cicerone era presente nella Biblioteca del Convento domenicano di Santa Maria Novella ed utilizzato sicuramente da Remigio de' Girolami (cfr. Davis 1988, pp. 161-162).","I, 3-4",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Laelius_de_Amicitia,De amicitia,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
NON FORSE SANZA DIVINO IMPERIO,"ma non senza l'intervento della volontà divina'. L' indefinitezza della causa è per Aristotele (cfr. <i>Phys</i>. II 4) caratteristica degli eventi casuali e fortuiti: i primi sono coincidenze nell'ambito delle produzioni naturali, i secondi riguardano il mondo delle azioni umane (come esempio dei secondi Boezio dà il trovare un mucchio d'oro, auri pondus"", zappando il proprio campo. Cfr. <i>De consolatione</i> V, prosa 1, 13, p. 137. L'esempio diverrà standard per i pensatori medievali). Ma lo Stagirita non sembra propenso a farne una causa occulta, cioè indeterminata solo per la nostra mente finita. Collegare la Fortuna e il fortuito a Dio ed alla sua provvidenza il cui agire ci sfugge è piuttosto, come abbiamo visto (cfr. il Commento a <i>Cv</i> I iii 4) una posizione di Agostino, ripresa in maniera più tecnicamente filosofica da Tommaso. Cfr. <i>Summa contra Gentiles</i> III cap. 92, n. 2672  ""Aliquod fortuitum bonum vel malum potest contingere homini et per comparationem ad ipsum, et per comparationem ad caelestia corpora et per comparationem ad angelos, non autem per comparationem ad Deum. Nam per comparationem ad ipsum, non solum in rebus humanis, sed nec in aliqua re potest esse aliquid casuale et improvisum"". (collego la frase ""non forse senza divino imperio"" non a  ""io trovai"", ma, come fa anche <i>Inglese</i>, a ""fuori dell'intenzione trova oro, la quale occulta cagione presenta"": mi sembra che qui venga espresso un principio generale, quello per cui la ""cagione occulta"", è riconducibile in ultima analisi alla volontà divina, di cui il caso di Dante è solo una istanza particolare).","V, prosa 1, 13, p. 137",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
NON FORSE SANZA DIVINO IMPERIO,"ma non senza l'intervento della volontà divina'. L' indefinitezza della causa è per Aristotele (cfr. <i>Phys</i>. II 4) caratteristica degli eventi casuali e fortuiti: i primi sono coincidenze nell'ambito delle produzioni naturali, i secondi riguardano il mondo delle azioni umane (come esempio dei secondi Boezio dà il trovare un mucchio d'oro, auri pondus"", zappando il proprio campo. Cfr. <i>De consolatione</i> V, prosa 1, 13, p. 137. L'esempio diverrà standard per i pensatori medievali). Ma lo Stagirita non sembra propenso a farne una causa occulta, cioè indeterminata solo per la nostra mente finita. Collegare la Fortuna e il fortuito a Dio ed alla sua provvidenza il cui agire ci sfugge è piuttosto, come abbiamo visto (cfr. il Commento a <i>Cv</i> I iii 4) una posizione di Agostino, ripresa in maniera più tecnicamente filosofica da Tommaso. Cfr. <i>Summa contra Gentiles</i> III cap. 92, n. 2672  ""Aliquod fortuitum bonum vel malum potest contingere homini et per comparationem ad ipsum, et per comparationem ad caelestia corpora et per comparationem ad angelos, non autem per comparationem ad Deum. Nam per comparationem ad ipsum, non solum in rebus humanis, sed nec in aliqua re potest esse aliquid casuale et improvisum"". (collego la frase ""non forse senza divino imperio"" non a  ""io trovai"", ma, come fa anche <i>Inglese</i>, a ""fuori dell'intenzione trova oro, la quale occulta cagione presenta"": mi sembra che qui venga espresso un principio generale, quello per cui la ""cagione occulta"", è riconducibile in ultima analisi alla volontà divina, di cui il caso di Dante è solo una istanza particolare).","III cap. 92, n. 2672  ""Aliquod fortuitum bonum vel malum potest contingere homini et per comparationem ad ipsum, et per comparationem ad caelestia corpora et per comparationem ad angelos, non autem per comparationem ad Deum. Nam per comparationem ad ipsum, non solum in rebus humanis, sed nec in aliqua re potest esse aliquid casuale et improvisum""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_contra_Gentiles,Summa contra Gentiles,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
VOCABULI D'AUTORI ...,"nomi di autori', cioè, ancora una volta di coloro che hanno trovato o sistematizzato le varie scienze (fisica, astronomia, medicina...) rendendole poi disponibili in opere scritte (libri""). In che modo tramite le letture di Boezio e di Cicerone Dante avesse potuto trovare questo tesoro non risulta del tutto chiaro. Nel <i>De amicitia</i> tra i personaggi greci e romani citati non compare un solo filosofo. Per quanto riguarda il <i>De consolatione</i>, gli unici contesti strettamente filosofici in cui si parla di Platone e di Aristotele sono nel quinto libro e riguardano: a) la dottrina della fortuna.  b) la distinzione tra eternità di Dio e perpetuità del mondo (tutte le altre citazioni sono puramente esornative) ma non rimandano né a scienze né a libri. Una spiegazione possibile è che Dante abbia letto il <i>De consolatione</i> corredata un Commento (l'ipotesi è sostenuta,  per altri motivi, da Antonio D'Andrea, che punta sul Commento dello pseudo-Tommaso; cfr.  D' Andrea 1980, pp. 26-31). In ogni caso, come ha giustamente notato P. Boyde, Dante, leggendo Boezio avrà potuto sperimentare il fascino della definizione esatta e dei procedimenti strettamente argomentativi (cfr. Boyde 1984, p. 58).",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
DONNA,"'signora' . Che la filosofia fosse la donna"" di autori come Platone ed Aristotele poteva risultare chiaro dal contesto del <i>De consolatione</i> (è infatti la Filosofia che parla di loro come di suoi conoscenti e discepoli: ""Plato et Aristoteles mei"").",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
APPENA LO POTEA VOLGERE DA QUELLA,"'a malapena, difficilmente potevo distoglierla da lei'. La personificazione della filosofia come una donna che viene in soccorso di un infelice (quindi gentile"") risale ovviamente a Boezio. Nel Medioevo questa immagine si era fusa con la figura della Sapienza figlia di Dio protagonista di alcuni libri della Bibbia. Vedi nota a <i>Cv</i> II xii 9.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
MOSTRANDO LA MIA CONDIZIONE SOTTO FIGURA D'ALTRE COSE,"comunicando lo stato in cui mi trovavo in maniera indiretta, presentando un'altra situazione (altre cose"", in questo caso l'amore verso una donna reale) come una sua immagine o prefigurazione (""figura""). Il termine ""figura"" nell'esegesi biblica, a partire da San Paolo (cfr. <i>Cor</i> I, 10, 1-11) indica di norma un personaggio realmente vissuto o un episodio realmente accaduto del Vecchio Testamento che solo alla luce di ciò che si dice nel Nuovo trova la sua più profonda verità: il dono della manna nel deserto rimanda, come a suo compimento,  al corpo di Cristo offerto come pane (cfr. nota a <i>Cv</i> I i 6-8). Auerbach ha mostrato come Dante applichi questo modello alla esperienza del suo amore reale per Beatrice (cfr. Auerbach 1963, pp. 176-226). Le frasi immediatamente seguenti sembrerebbero però escludere l'applicazione di questo modello al rapporto tra la ""donna gentile"" e la Filosofia. Dante afferma infatti che ha parlato sotto figura perché a) nessuna poesia in volgare (""rima di volgare"") sarebbe stata degna di parlare direttamente (""poetare palesemente"") della filosofia (""la donna di cu' io m'innamorava""); b) i destinatari della canzone (""gli uditori"") non si trovavano nella disposizione giusta (""bene disposti"") per cogliere facilmente (""leggiere"") il senso vero (""non fittizio"") delle sue parole; c) infine perché da parte loro (""per loro"") non si sarebbe creduto al senso vero (""sentenza vera"") con altrettanta facilità che a quello figurato (""come alla fittizia""). Tutti infatti credevano (""però che di vero si credea del tutto"") che Dante fosse innamorato di una donna reale (""disposto a quello amore"") piuttosto che della filosofia (""che non si credea di questo""). Dunque Dante ribadisce qui quanto già detto in <i>Cv</i>  I i 18: la canzone avuto fin dall' origine un carattere allegorico. Ma, allo stesso tempo, la giustificazione di questo procedimento rimanda ad una situazione reale: non solo il pubblico di Dante non era preparato a comprendere una scrittura allegorica (cfr. <i>Cv</i> II xi 7), ma era fermamente convinto che una poesia d'amore per una donna corrispondesse, nel caso specifico, ad un amore reale per una donna reale, e questo evidentemente non senza motivo (cfr. <i>Cv</i>  II.ii.16). Ancora una volta dietro tutto questo complesso gioco di specchi si mostra e  insieme si nasconde l'episodio della donna gentile nella <i>Vita Nova</i> che può benissimo esser stato vissuto retrospettivamente come figura dell'innamoramento per la Filosofia.","I, 10, 1-11",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/First_Epistle_to_the_Corinthians,Epistola I ad Corinthios,Paolo,http://dbpedia.org/resource/Paul_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
"FIGLIA DI DIO, REGINA DI TUTTO, NOBILISSIMA E BELLISSIMA FILOSOFIA","in queste poche parole del <i>Convivio</i> è condensata una storia complessa di rappresentazioni ed elogi della Filosofia come Sapienza divina. Abbiamo già visto che la personificazione della Filosofia in una <i>domina</i> bellissima e nobilissima risale originariamente al <i>De consolatione Philosophiae</i>. Molti commentatori altomedievali, nell'ambito di complesse allegorie tese a cristianizzare il testo di Boezio, l' avevano accomunata alla  <i>Sapientia Dei</i> (cfr. Courcelle 1967, D'Alverny 1946). Ma anche più tardi questa linea interpretativa continuò a funzionare entro la nuova cultura universitaria. Una serie di orazioni in lode della filosofia tenute a Bologna pochi decenni dopo la composizione del <i>Convivio</i> varia all'infinito l' immagine della <i>domina</i> ricorrendo a paralleli con le donne della sacra Scrittura (Abigail, le donne gloriosae et gratiosae"" dei <i>Proverbi</i>, addirittura la ""mulier amicta sole"" dell'Apocalisse). Alcune di queste composizioni la identificano espressamente con la Sapienza biblica, facendone quindi implicitamente una figlia di Dio (cfr. Fioravanti 1992, p. 173). Quanto al suo carattere ""regale"" un testo diffusissimo come il <i>De disciplina scolarium</i>, attribuito allo stesso Boezio, definiva la filosofia 'imperialis <i>domina</i>'. L'attributo sarebbe stato ripreso in ambiente universitario intorno al 1250  (cfr. l'elogio della Filosofia composto dal <i>magister artium</i> Aubry de Reims  in Gauthier 1984, p. 37).",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
"FIGLIA DI DIO, REGINA DI TUTTO, NOBILISSIMA E BELLISSIMA FILOSOFIA","in queste poche parole del <i>Convivio</i> è condensata una storia complessa di rappresentazioni ed elogi della Filosofia come Sapienza divina. Abbiamo già visto che la personificazione della Filosofia in una <i>domina</i> bellissima e nobilissima risale originariamente al <i>De consolatione Philosophiae</i>. Molti commentatori altomedievali, nell'ambito di complesse allegorie tese a cristianizzare il testo di Boezio, l' avevano accomunata alla  <i>Sapientia Dei</i> (cfr. Courcelle 1967, D'Alverny 1946). Ma anche più tardi questa linea interpretativa continuò a funzionare entro la nuova cultura universitaria. Una serie di orazioni in lode della filosofia tenute a Bologna pochi decenni dopo la composizione del <i>Convivio</i> varia all'infinito l' immagine della <i>domina</i> ricorrendo a paralleli con le donne della sacra Scrittura (Abigail, le donne gloriosae et gratiosae"" dei <i>Proverbi</i>, addirittura la ""mulier amicta sole"" dell'Apocalisse). Alcune di queste composizioni la identificano espressamente con la Sapienza biblica, facendone quindi implicitamente una figlia di Dio (cfr. Fioravanti 1992, p. 173). Quanto al suo carattere ""regale"" un testo diffusissimo come il <i>De disciplina scolarium</i>, attribuito allo stesso Boezio, definiva la filosofia 'imperialis <i>domina</i>'. L'attributo sarebbe stato ripreso in ambiente universitario intorno al 1250  (cfr. l'elogio della Filosofia composto dal <i>magister artium</i> Aubry de Reims  in Gauthier 1984, p. 37).",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_disciplina_scolarium,De disciplina scolarium,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
SUPPONE QUELLO,"lo presuppone'. Dante utilizza la dottrina aristotelica comunemente accettata dai pensatori medievali secondo cui ogni scienza si distingue dalle altre per il campo specifico di realtà di cui tratta e che le fa, per così dire, da sostrato (subietto"": <i>subiectum</i>). L' esistenza del proprio oggetto è il fondamento ultimo della scienza corrispondente e in quanto tale è un presupposto non deducibile: la fisica non dimostra l'esistenza del movimento, né la matematica quella della quantità. Per il principio generale cfr. <i>An</i>. <i>Post</i>   I  9, 76 a 16-17.  La stessa dottrina è presentata da Dante all'inizio del <i>De vulgari eloquentia</i> ""Sed quia unamquamque doctrinam oportet non probare, sed suum aperire <i>subiectum</i>, ut sciatur quid sit id super quod illa versatur (""si muove intorno"") ..."" (I.i.2)","I  9, 76 a 16-17",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Analytica_posteriora,Analytica posteriora,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
INDUCERE PERFEZIONE NELLE DISPOSTE COSE,"portare alla loro perfezione le realtà che sono in condizione di accoglierla'.  Come già detto in <i>Cv</i>  I xiii 3, due sono le perfezioni"" possedute da ogni realtà, e soprattutto da quelle più alte come l'uomo: una ""perfezione prima"" che la distingue specificamente dalle altre, e che non è se non la sua forma sostanziale, e una ""perfezione seconda"" che consiste nell'attuazione piena delle proprie capacità naturali. Come dice Tommaso nel Commento all' <i>Etica Nicomachea</i> "" (I, <i>lectio</i> 1, n.12 ) ""prima perfectio se habet per modum formae, secunda per modum operationis"". L'analogia tra cieli e scienze consiste per Dante nel fatto che i primi sono causa della perfezione prima; essi infatti sono la causa della produzione (sono ""cagione di induzione"") nelle realtà predisposte (""nelle disposte cose"") delle forme che danno origine alle varie sostanze (""della generazione sustanziale"");  le scienze, a loro volta, possedute nella maniera piena e costante indicata ancora una volta dal termine ""abito"", producono in noi la perfezione seconda, la conoscenza del vero (""per le quali potemo la veritade speculare""), cioè l'attività più alta e perfetta dell'uomo (""ultima perfezione nostra"". La citazione di Aristotele si riferisce a <i>Eth. Nic</i>.  VI  2, 1139 a 27). Per costruire l'analogia Dante presenta come comune a tutti i  filosofi la dottrina secondo cui  i cieli  producendo le forme  delle realtà terrestri (anime, nel caso degli esseri viventi) e  immettendole  nella materia, producono così le varie sostanze, nonostante che poi i vari pensatori si differenzino nell'individuare il modo e il soggetto preciso di questa azione (""avvegna che questo diversamente pongano""). La breve dossografia filosofica al riguardo è un modello di quel lavoro 'à bricolage' che caratterizza alcune parti del discorso dantesco: che Socrate, Platone ed un misterioso Dionisio academico abbiano sostenuto che le forme e soprattutto le anime umane derivano dalle stelle rimanda  direttamente alla parafrasi di Alberto Magno al <i>De somno et vigilia</i>  che a sua volta aveva già costruito la sua informazione utilizzando frammenti di fonti diverse (""Plato autem et Socrates praeceptor eius, sed et illius praeceptor in philosophia Dionysius Academiae praecipuus Stoicorum, dicunt concorditer omnes a comparibus stellis animas descendisse"" III tr. 1, cap. 8, p. 187);  quanto alla posizione per cui  le forme sono prodotte non dai corpi celesti, ma dai loro motori, essa era stata attribuita a Platone ancora una volta da Alberto Magno nel suo <i>De intellectu et intelligibili</i>  ("" Et videtur Plato velle quod intellectualitas in homine et sensibilitas in brutis ... effluat a motoribus orbium et stellarum"" I tr. 1, cap.  4, p. 48). Che la stessa cosa avessero pensato Avicenna ed Algazel (Al-Ghazali, filosofo e teologo islamico del XII secolo)  poteva essere ricavato da un altro brano di Alberto, e precisamente dalla parafrasi al  <i>De anima</i>, un'opera in cui i due pensatori arabi sono sempre citati insieme (""dicunt isti splendorem intelligentiarum dare formas"" III tr. 2, cap. 8, p. 188). Per quanto riguarda Aristotele, nella sua teoria della generazione lo Stagirita aveva effettivamente sottolineato la particolarità del calore presente nello sperma; esso non coagula o dissecca in maniera meccanica come il fuoco, ma organizza e trasforma in maniera intelligente la materia producendo un altro essere vivente e per questo è assimilabile al calore degli astri, in particolare del sole, che è principio di generazione per animali e piante (cfr. <i>De gen. anim</i>.  II 3, 736 b 43sgg.). Dante enfatizza questo legame per ricondurre anche lo Stagirita alla posizione per cui i cieli ""sono cagione della generazione sustanziale"". La dottrina peripatetica dell'origine dell'anima verrà illustrata più dettagliatamente nel capitolo XXI del IV trattato, dove ricomparirà parte di questa dossografia.","I, lectio 1, n.12 ) ""prima perfectio se habet per modum formae, secunda per modum operationis""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
INDUCERE PERFEZIONE NELLE DISPOSTE COSE,"portare alla loro perfezione le realtà che sono in condizione di accoglierla'.  Come già detto in <i>Cv</i>  I xiii 3, due sono le perfezioni"" possedute da ogni realtà, e soprattutto da quelle più alte come l'uomo: una ""perfezione prima"" che la distingue specificamente dalle altre, e che non è se non la sua forma sostanziale, e una ""perfezione seconda"" che consiste nell'attuazione piena delle proprie capacità naturali. Come dice Tommaso nel Commento all' <i>Etica Nicomachea</i> "" (I, <i>lectio</i> 1, n.12 ) ""prima perfectio se habet per modum formae, secunda per modum operationis"". L'analogia tra cieli e scienze consiste per Dante nel fatto che i primi sono causa della perfezione prima; essi infatti sono la causa della produzione (sono ""cagione di induzione"") nelle realtà predisposte (""nelle disposte cose"") delle forme che danno origine alle varie sostanze (""della generazione sustanziale"");  le scienze, a loro volta, possedute nella maniera piena e costante indicata ancora una volta dal termine ""abito"", producono in noi la perfezione seconda, la conoscenza del vero (""per le quali potemo la veritade speculare""), cioè l'attività più alta e perfetta dell'uomo (""ultima perfezione nostra"". La citazione di Aristotele si riferisce a <i>Eth. Nic</i>.  VI  2, 1139 a 27). Per costruire l'analogia Dante presenta come comune a tutti i  filosofi la dottrina secondo cui  i cieli  producendo le forme  delle realtà terrestri (anime, nel caso degli esseri viventi) e  immettendole  nella materia, producono così le varie sostanze, nonostante che poi i vari pensatori si differenzino nell'individuare il modo e il soggetto preciso di questa azione (""avvegna che questo diversamente pongano""). La breve dossografia filosofica al riguardo è un modello di quel lavoro 'à bricolage' che caratterizza alcune parti del discorso dantesco: che Socrate, Platone ed un misterioso Dionisio academico abbiano sostenuto che le forme e soprattutto le anime umane derivano dalle stelle rimanda  direttamente alla parafrasi di Alberto Magno al <i>De somno et vigilia</i>  che a sua volta aveva già costruito la sua informazione utilizzando frammenti di fonti diverse (""Plato autem et Socrates praeceptor eius, sed et illius praeceptor in philosophia Dionysius Academiae praecipuus Stoicorum, dicunt concorditer omnes a comparibus stellis animas descendisse"" III tr. 1, cap. 8, p. 187);  quanto alla posizione per cui  le forme sono prodotte non dai corpi celesti, ma dai loro motori, essa era stata attribuita a Platone ancora una volta da Alberto Magno nel suo <i>De intellectu et intelligibili</i>  ("" Et videtur Plato velle quod intellectualitas in homine et sensibilitas in brutis ... effluat a motoribus orbium et stellarum"" I tr. 1, cap.  4, p. 48). Che la stessa cosa avessero pensato Avicenna ed Algazel (Al-Ghazali, filosofo e teologo islamico del XII secolo)  poteva essere ricavato da un altro brano di Alberto, e precisamente dalla parafrasi al  <i>De anima</i>, un'opera in cui i due pensatori arabi sono sempre citati insieme (""dicunt isti splendorem intelligentiarum dare formas"" III tr. 2, cap. 8, p. 188). Per quanto riguarda Aristotele, nella sua teoria della generazione lo Stagirita aveva effettivamente sottolineato la particolarità del calore presente nello sperma; esso non coagula o dissecca in maniera meccanica come il fuoco, ma organizza e trasforma in maniera intelligente la materia producendo un altro essere vivente e per questo è assimilabile al calore degli astri, in particolare del sole, che è principio di generazione per animali e piante (cfr. <i>De gen. anim</i>.  II 3, 736 b 43sgg.). Dante enfatizza questo legame per ricondurre anche lo Stagirita alla posizione per cui i cieli ""sono cagione della generazione sustanziale"". La dottrina peripatetica dell'origine dell'anima verrà illustrata più dettagliatamente nel capitolo XXI del IV trattato, dove ricomparirà parte di questa dossografia.","VI  2, 1139 a 27",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
INDUCERE PERFEZIONE NELLE DISPOSTE COSE,"portare alla loro perfezione le realtà che sono in condizione di accoglierla'.  Come già detto in <i>Cv</i>  I xiii 3, due sono le perfezioni"" possedute da ogni realtà, e soprattutto da quelle più alte come l'uomo: una ""perfezione prima"" che la distingue specificamente dalle altre, e che non è se non la sua forma sostanziale, e una ""perfezione seconda"" che consiste nell'attuazione piena delle proprie capacità naturali. Come dice Tommaso nel Commento all' <i>Etica Nicomachea</i> "" (I, <i>lectio</i> 1, n.12 ) ""prima perfectio se habet per modum formae, secunda per modum operationis"". L'analogia tra cieli e scienze consiste per Dante nel fatto che i primi sono causa della perfezione prima; essi infatti sono la causa della produzione (sono ""cagione di induzione"") nelle realtà predisposte (""nelle disposte cose"") delle forme che danno origine alle varie sostanze (""della generazione sustanziale"");  le scienze, a loro volta, possedute nella maniera piena e costante indicata ancora una volta dal termine ""abito"", producono in noi la perfezione seconda, la conoscenza del vero (""per le quali potemo la veritade speculare""), cioè l'attività più alta e perfetta dell'uomo (""ultima perfezione nostra"". La citazione di Aristotele si riferisce a <i>Eth. Nic</i>.  VI  2, 1139 a 27). Per costruire l'analogia Dante presenta come comune a tutti i  filosofi la dottrina secondo cui  i cieli  producendo le forme  delle realtà terrestri (anime, nel caso degli esseri viventi) e  immettendole  nella materia, producono così le varie sostanze, nonostante che poi i vari pensatori si differenzino nell'individuare il modo e il soggetto preciso di questa azione (""avvegna che questo diversamente pongano""). La breve dossografia filosofica al riguardo è un modello di quel lavoro 'à bricolage' che caratterizza alcune parti del discorso dantesco: che Socrate, Platone ed un misterioso Dionisio academico abbiano sostenuto che le forme e soprattutto le anime umane derivano dalle stelle rimanda  direttamente alla parafrasi di Alberto Magno al <i>De somno et vigilia</i>  che a sua volta aveva già costruito la sua informazione utilizzando frammenti di fonti diverse (""Plato autem et Socrates praeceptor eius, sed et illius praeceptor in philosophia Dionysius Academiae praecipuus Stoicorum, dicunt concorditer omnes a comparibus stellis animas descendisse"" III tr. 1, cap. 8, p. 187);  quanto alla posizione per cui  le forme sono prodotte non dai corpi celesti, ma dai loro motori, essa era stata attribuita a Platone ancora una volta da Alberto Magno nel suo <i>De intellectu et intelligibili</i>  ("" Et videtur Plato velle quod intellectualitas in homine et sensibilitas in brutis ... effluat a motoribus orbium et stellarum"" I tr. 1, cap.  4, p. 48). Che la stessa cosa avessero pensato Avicenna ed Algazel (Al-Ghazali, filosofo e teologo islamico del XII secolo)  poteva essere ricavato da un altro brano di Alberto, e precisamente dalla parafrasi al  <i>De anima</i>, un'opera in cui i due pensatori arabi sono sempre citati insieme (""dicunt isti splendorem intelligentiarum dare formas"" III tr. 2, cap. 8, p. 188). Per quanto riguarda Aristotele, nella sua teoria della generazione lo Stagirita aveva effettivamente sottolineato la particolarità del calore presente nello sperma; esso non coagula o dissecca in maniera meccanica come il fuoco, ma organizza e trasforma in maniera intelligente la materia producendo un altro essere vivente e per questo è assimilabile al calore degli astri, in particolare del sole, che è principio di generazione per animali e piante (cfr. <i>De gen. anim</i>.  II 3, 736 b 43sgg.). Dante enfatizza questo legame per ricondurre anche lo Stagirita alla posizione per cui i cieli ""sono cagione della generazione sustanziale"". La dottrina peripatetica dell'origine dell'anima verrà illustrata più dettagliatamente nel capitolo XXI del IV trattato, dove ricomparirà parte di questa dossografia.","Plato autem et Socrates praeceptor eius, sed et illius praeceptor in philosophia Dionysius Academiae praecipuus Stoicorum, dicunt concorditer omnes a comparibus stellis animas descendisse III tr. 1, cap. 8, p. 187",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_somno_et_vigilia(Alberto_Magno),De somno et vigilia,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
INDUCERE PERFEZIONE NELLE DISPOSTE COSE,"portare alla loro perfezione le realtà che sono in condizione di accoglierla'.  Come già detto in <i>Cv</i>  I xiii 3, due sono le perfezioni"" possedute da ogni realtà, e soprattutto da quelle più alte come l'uomo: una ""perfezione prima"" che la distingue specificamente dalle altre, e che non è se non la sua forma sostanziale, e una ""perfezione seconda"" che consiste nell'attuazione piena delle proprie capacità naturali. Come dice Tommaso nel Commento all' <i>Etica Nicomachea</i> "" (I, <i>lectio</i> 1, n.12 ) ""prima perfectio se habet per modum formae, secunda per modum operationis"". L'analogia tra cieli e scienze consiste per Dante nel fatto che i primi sono causa della perfezione prima; essi infatti sono la causa della produzione (sono ""cagione di induzione"") nelle realtà predisposte (""nelle disposte cose"") delle forme che danno origine alle varie sostanze (""della generazione sustanziale"");  le scienze, a loro volta, possedute nella maniera piena e costante indicata ancora una volta dal termine ""abito"", producono in noi la perfezione seconda, la conoscenza del vero (""per le quali potemo la veritade speculare""), cioè l'attività più alta e perfetta dell'uomo (""ultima perfezione nostra"". La citazione di Aristotele si riferisce a <i>Eth. Nic</i>.  VI  2, 1139 a 27). Per costruire l'analogia Dante presenta come comune a tutti i  filosofi la dottrina secondo cui  i cieli  producendo le forme  delle realtà terrestri (anime, nel caso degli esseri viventi) e  immettendole  nella materia, producono così le varie sostanze, nonostante che poi i vari pensatori si differenzino nell'individuare il modo e il soggetto preciso di questa azione (""avvegna che questo diversamente pongano""). La breve dossografia filosofica al riguardo è un modello di quel lavoro 'à bricolage' che caratterizza alcune parti del discorso dantesco: che Socrate, Platone ed un misterioso Dionisio academico abbiano sostenuto che le forme e soprattutto le anime umane derivano dalle stelle rimanda  direttamente alla parafrasi di Alberto Magno al <i>De somno et vigilia</i>  che a sua volta aveva già costruito la sua informazione utilizzando frammenti di fonti diverse (""Plato autem et Socrates praeceptor eius, sed et illius praeceptor in philosophia Dionysius Academiae praecipuus Stoicorum, dicunt concorditer omnes a comparibus stellis animas descendisse"" III tr. 1, cap. 8, p. 187);  quanto alla posizione per cui  le forme sono prodotte non dai corpi celesti, ma dai loro motori, essa era stata attribuita a Platone ancora una volta da Alberto Magno nel suo <i>De intellectu et intelligibili</i>  ("" Et videtur Plato velle quod intellectualitas in homine et sensibilitas in brutis ... effluat a motoribus orbium et stellarum"" I tr. 1, cap.  4, p. 48). Che la stessa cosa avessero pensato Avicenna ed Algazel (Al-Ghazali, filosofo e teologo islamico del XII secolo)  poteva essere ricavato da un altro brano di Alberto, e precisamente dalla parafrasi al  <i>De anima</i>, un'opera in cui i due pensatori arabi sono sempre citati insieme (""dicunt isti splendorem intelligentiarum dare formas"" III tr. 2, cap. 8, p. 188). Per quanto riguarda Aristotele, nella sua teoria della generazione lo Stagirita aveva effettivamente sottolineato la particolarità del calore presente nello sperma; esso non coagula o dissecca in maniera meccanica come il fuoco, ma organizza e trasforma in maniera intelligente la materia producendo un altro essere vivente e per questo è assimilabile al calore degli astri, in particolare del sole, che è principio di generazione per animali e piante (cfr. <i>De gen. anim</i>.  II 3, 736 b 43sgg.). Dante enfatizza questo legame per ricondurre anche lo Stagirita alla posizione per cui i cieli ""sono cagione della generazione sustanziale"". La dottrina peripatetica dell'origine dell'anima verrà illustrata più dettagliatamente nel capitolo XXI del IV trattato, dove ricomparirà parte di questa dossografia.","Et videtur Plato velle quod intellectualitas in homine et sensibilitas in brutis ... effluat a motoribus orbium et stellarum"" I tr. 1, cap.  4, p. 48""",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_intellectu_et_intelligibili(Alberto_Magno),De intellectu et intelligibili,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
INDUCERE PERFEZIONE NELLE DISPOSTE COSE,"portare alla loro perfezione le realtà che sono in condizione di accoglierla'.  Come già detto in <i>Cv</i>  I xiii 3, due sono le perfezioni"" possedute da ogni realtà, e soprattutto da quelle più alte come l'uomo: una ""perfezione prima"" che la distingue specificamente dalle altre, e che non è se non la sua forma sostanziale, e una ""perfezione seconda"" che consiste nell'attuazione piena delle proprie capacità naturali. Come dice Tommaso nel Commento all' <i>Etica Nicomachea</i> "" (I, <i>lectio</i> 1, n.12 ) ""prima perfectio se habet per modum formae, secunda per modum operationis"". L'analogia tra cieli e scienze consiste per Dante nel fatto che i primi sono causa della perfezione prima; essi infatti sono la causa della produzione (sono ""cagione di induzione"") nelle realtà predisposte (""nelle disposte cose"") delle forme che danno origine alle varie sostanze (""della generazione sustanziale"");  le scienze, a loro volta, possedute nella maniera piena e costante indicata ancora una volta dal termine ""abito"", producono in noi la perfezione seconda, la conoscenza del vero (""per le quali potemo la veritade speculare""), cioè l'attività più alta e perfetta dell'uomo (""ultima perfezione nostra"". La citazione di Aristotele si riferisce a <i>Eth. Nic</i>.  VI  2, 1139 a 27). Per costruire l'analogia Dante presenta come comune a tutti i  filosofi la dottrina secondo cui  i cieli  producendo le forme  delle realtà terrestri (anime, nel caso degli esseri viventi) e  immettendole  nella materia, producono così le varie sostanze, nonostante che poi i vari pensatori si differenzino nell'individuare il modo e il soggetto preciso di questa azione (""avvegna che questo diversamente pongano""). La breve dossografia filosofica al riguardo è un modello di quel lavoro 'à bricolage' che caratterizza alcune parti del discorso dantesco: che Socrate, Platone ed un misterioso Dionisio academico abbiano sostenuto che le forme e soprattutto le anime umane derivano dalle stelle rimanda  direttamente alla parafrasi di Alberto Magno al <i>De somno et vigilia</i>  che a sua volta aveva già costruito la sua informazione utilizzando frammenti di fonti diverse (""Plato autem et Socrates praeceptor eius, sed et illius praeceptor in philosophia Dionysius Academiae praecipuus Stoicorum, dicunt concorditer omnes a comparibus stellis animas descendisse"" III tr. 1, cap. 8, p. 187);  quanto alla posizione per cui  le forme sono prodotte non dai corpi celesti, ma dai loro motori, essa era stata attribuita a Platone ancora una volta da Alberto Magno nel suo <i>De intellectu et intelligibili</i>  ("" Et videtur Plato velle quod intellectualitas in homine et sensibilitas in brutis ... effluat a motoribus orbium et stellarum"" I tr. 1, cap.  4, p. 48). Che la stessa cosa avessero pensato Avicenna ed Algazel (Al-Ghazali, filosofo e teologo islamico del XII secolo)  poteva essere ricavato da un altro brano di Alberto, e precisamente dalla parafrasi al  <i>De anima</i>, un'opera in cui i due pensatori arabi sono sempre citati insieme (""dicunt isti splendorem intelligentiarum dare formas"" III tr. 2, cap. 8, p. 188). Per quanto riguarda Aristotele, nella sua teoria della generazione lo Stagirita aveva effettivamente sottolineato la particolarità del calore presente nello sperma; esso non coagula o dissecca in maniera meccanica come il fuoco, ma organizza e trasforma in maniera intelligente la materia producendo un altro essere vivente e per questo è assimilabile al calore degli astri, in particolare del sole, che è principio di generazione per animali e piante (cfr. <i>De gen. anim</i>.  II 3, 736 b 43sgg.). Dante enfatizza questo legame per ricondurre anche lo Stagirita alla posizione per cui i cieli ""sono cagione della generazione sustanziale"". La dottrina peripatetica dell'origine dell'anima verrà illustrata più dettagliatamente nel capitolo XXI del IV trattato, dove ricomparirà parte di questa dossografia.","Et videtur Plato velle quod intellectualitas in homine et sensibilitas in brutis ... effluat a motoribus orbium et stellarum"" I tr. 1, cap.  4, p. 48""",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_intellectu_et_intelligibili(Alberto_Magno),De intellectu et intelligibili,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
INDUCERE PERFEZIONE NELLE DISPOSTE COSE,"portare alla loro perfezione le realtà che sono in condizione di accoglierla'.  Come già detto in <i>Cv</i>  I xiii 3, due sono le perfezioni"" possedute da ogni realtà, e soprattutto da quelle più alte come l'uomo: una ""perfezione prima"" che la distingue specificamente dalle altre, e che non è se non la sua forma sostanziale, e una ""perfezione seconda"" che consiste nell'attuazione piena delle proprie capacità naturali. Come dice Tommaso nel Commento all' <i>Etica Nicomachea</i> "" (I, <i>lectio</i> 1, n.12 ) ""prima perfectio se habet per modum formae, secunda per modum operationis"". L'analogia tra cieli e scienze consiste per Dante nel fatto che i primi sono causa della perfezione prima; essi infatti sono la causa della produzione (sono ""cagione di induzione"") nelle realtà predisposte (""nelle disposte cose"") delle forme che danno origine alle varie sostanze (""della generazione sustanziale"");  le scienze, a loro volta, possedute nella maniera piena e costante indicata ancora una volta dal termine ""abito"", producono in noi la perfezione seconda, la conoscenza del vero (""per le quali potemo la veritade speculare""), cioè l'attività più alta e perfetta dell'uomo (""ultima perfezione nostra"". La citazione di Aristotele si riferisce a <i>Eth. Nic</i>.  VI  2, 1139 a 27). Per costruire l'analogia Dante presenta come comune a tutti i  filosofi la dottrina secondo cui  i cieli  producendo le forme  delle realtà terrestri (anime, nel caso degli esseri viventi) e  immettendole  nella materia, producono così le varie sostanze, nonostante che poi i vari pensatori si differenzino nell'individuare il modo e il soggetto preciso di questa azione (""avvegna che questo diversamente pongano""). La breve dossografia filosofica al riguardo è un modello di quel lavoro 'à bricolage' che caratterizza alcune parti del discorso dantesco: che Socrate, Platone ed un misterioso Dionisio academico abbiano sostenuto che le forme e soprattutto le anime umane derivano dalle stelle rimanda  direttamente alla parafrasi di Alberto Magno al <i>De somno et vigilia</i>  che a sua volta aveva già costruito la sua informazione utilizzando frammenti di fonti diverse (""Plato autem et Socrates praeceptor eius, sed et illius praeceptor in philosophia Dionysius Academiae praecipuus Stoicorum, dicunt concorditer omnes a comparibus stellis animas descendisse"" III tr. 1, cap. 8, p. 187);  quanto alla posizione per cui  le forme sono prodotte non dai corpi celesti, ma dai loro motori, essa era stata attribuita a Platone ancora una volta da Alberto Magno nel suo <i>De intellectu et intelligibili</i>  ("" Et videtur Plato velle quod intellectualitas in homine et sensibilitas in brutis ... effluat a motoribus orbium et stellarum"" I tr. 1, cap.  4, p. 48). Che la stessa cosa avessero pensato Avicenna ed Algazel (Al-Ghazali, filosofo e teologo islamico del XII secolo)  poteva essere ricavato da un altro brano di Alberto, e precisamente dalla parafrasi al  <i>De anima</i>, un'opera in cui i due pensatori arabi sono sempre citati insieme (""dicunt isti splendorem intelligentiarum dare formas"" III tr. 2, cap. 8, p. 188). Per quanto riguarda Aristotele, nella sua teoria della generazione lo Stagirita aveva effettivamente sottolineato la particolarità del calore presente nello sperma; esso non coagula o dissecca in maniera meccanica come il fuoco, ma organizza e trasforma in maniera intelligente la materia producendo un altro essere vivente e per questo è assimilabile al calore degli astri, in particolare del sole, che è principio di generazione per animali e piante (cfr. <i>De gen. anim</i>.  II 3, 736 b 43sgg.). Dante enfatizza questo legame per ricondurre anche lo Stagirita alla posizione per cui i cieli ""sono cagione della generazione sustanziale"". La dottrina peripatetica dell'origine dell'anima verrà illustrata più dettagliatamente nel capitolo XXI del IV trattato, dove ricomparirà parte di questa dossografia.","dicunt isti splendorem intelligentiarum dare formas III tr. 2, cap. 8, p. 188",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_anima(Alberto_Magno),De anima (Alberto Magno),Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
ORDINE,"rapporto'. Come esiste una analogia tra i cieli e le scienze in generale, così ne esiste una in particolare tra i singoli cieli e le singole scienze e questo spiega perché Dante abbia parlato del terzo dei dieci cieli. La analogia (comparazione"") riguarda non solo la quantità (dieci cieli corrispondono a dieci scienze), ma soprattutto l'ordine: a quello con cui si dispongono i cieli corrisponderà quello con cui si dispongono le scienze. La serie dei primi è data dalla progressiva distanza dal centro della terra: i sette orbi planetari (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno) più vicini a noi (""primi a noi""), poi il cielo delle stelle fisse, poi il primo mobile, infine l'Empireo, l'unico immobile (""quieto""). La corrispondente seriazione  delle scienze (""ai sette primi rispondono le sette scienze ..."") era in parte già definita dalla cultura del tempo, in parte è creazione autonoma di Dante. Che il sistema delle discipline si articolasse nelle arti liberali del Trivio, arti ""sermocinali"", cioè della parola e in quelle del Quadrivio (o Quadruvio, seguendo il <i>De consolatione philosophiae</i> di Boezio) arti ""reali"", cioè delle cose, che quindi esse fossero sette era dottrina comune e, per limitarci alla Firenze dantesca, presente nella <i>Rettorica</i> di Brunetto Latini. C'è semmai da notare che l'ordine era per alcuni aspetti ancora fluttuante. Così in alcune classificazioni la Dialettica viene dopo la Retorica e normalmente la Musica segue non solo l'Aritmetica, ma anche la Geometria e l'Astronomia-Astrologia. Lo stesso parallelo tra pianeti ed arti liberali era stato formulato prima di Dante dall' <i>Anticlaudianus</i> di Alano di Lilla (cfr. Johnston 1930, pp. 34-35)   dal <i>De naturis rerum</i> di Alexander Neckam (II 173, pp. 282-4), dalla <i>Rhetorica Novissima</i> di Boncompagno da Signa (cfr. Wieruszowski, pp. 506-508)  e in una forma identica a quella del <i>Convivio</i>, da Michele Scoto nel suo <i>Liber introductorius</i>. (vedi <i>Ricklin</i>). In ambiente toscano ed in volgare questa corrispondenza era stata accettata (ma solo in linea generale) da Ristoro d'Arezzo nelLa composizione del mondo colle sue cascioni II viii 6, p. 202) ""E anco saràno sette arti liberali ... sì che ciascheduno planeto avarà la sua"". Ma, a differenza di Dante, nessuno aveva mostrato ""la ragione perché ciò sia"", analizzando (e sia pure ""brievemente"") cielo per cielo e scienza per scienza le ragioni dell'analogia.  Inoltre tutti, tranne Boncompagno, si erano limitati alla corrispondenza sette a sette, parlando solo di pianeti, senza introdurre né cielo delle stelle fisse, né il primo mobile, né l'Empireo. Bisogna allora dire che tra fine del XII secolo e la prima metà del XIII ai testi classici che identificavano le sette arti liberali si era aggiunto un patrimonio scientifico-filosofico infinitamente più ricco: gli scritti di filosofia naturale, la <i>Metafisica</i>, l' <i>Etica</i> di Aristotele avevano inevitabilmente modificato la struttura del sapere; strettamente legato ai trattati del <i>Corpus aristotelicum</i> era comparso un nuovo modello di classificazione delle scienze. Il quadro si era così complicato: le sette arti liberali non erano state rifiutate, ma erano diventate parti di più complessi schemi classificatori (per limitarci ancora una volta a Firenze è esemplare la <i>Divisio philosophiae</i> presentata, quasi negli stessi anni del <i>Convivio</i>, da Remigio de' Girolami. Cfr. Panella 1981). Dante però continua ad utilizzare lo schema vulgato e preferisce procedere per aggiunta, considerando le sette arti come gradini inferiori e propedeutici al nuovo sapere. Questo procedimento, già utilizzato da Tommaso nel Commento al <i>De trinitate</i> di Boezio (q. 5, a. 1, <i>ad tertium</i>), corrisponde più che ad astratti modelli classificatori, alla struttura effettiva della formazione universitaria, almeno per gli anni intorno alla metà del '200. Così come dopo i cieli dei pianeti viene l'ottava sfera, quella del cielo stellato, nel <i>curriculum</i>  normale dopo le sette arti del Trivio e del Quadrivio vengono la ""scienza naturale che Fisica si chiama"" e la <i>Metafisica</i> (per la <i>Metafisica</i> come ""prima scienza"" cfr. nota a <i>Cv</i> I i 1). Come sottolinea giustamente  Helene Wieruszowski, lo schema di Dante rispecchia anche un nuovo <i>curriculum</i> di studi, quello dell'Università di Parigi e degli <i>Studia</i> degli ordini mendicanti, mentre quello di Boncompagno, che pure aggiunge tre ulteriori scienze alle sette arti liberali, identificandole con la medicina, diritto civile e diritto canonico, rispecchia la situazione all'Università di Bologna nella prima metà del XIII secolo (cfr.  Wieruszowski 1971, pp. 509-12)",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
ORDINE,"rapporto'. Come esiste una analogia tra i cieli e le scienze in generale, così ne esiste una in particolare tra i singoli cieli e le singole scienze e questo spiega perché Dante abbia parlato del terzo dei dieci cieli. La analogia (comparazione"") riguarda non solo la quantità (dieci cieli corrispondono a dieci scienze), ma soprattutto l'ordine: a quello con cui si dispongono i cieli corrisponderà quello con cui si dispongono le scienze. La serie dei primi è data dalla progressiva distanza dal centro della terra: i sette orbi planetari (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno) più vicini a noi (""primi a noi""), poi il cielo delle stelle fisse, poi il primo mobile, infine l'Empireo, l'unico immobile (""quieto""). La corrispondente seriazione  delle scienze (""ai sette primi rispondono le sette scienze ..."") era in parte già definita dalla cultura del tempo, in parte è creazione autonoma di Dante. Che il sistema delle discipline si articolasse nelle arti liberali del Trivio, arti ""sermocinali"", cioè della parola e in quelle del Quadrivio (o Quadruvio, seguendo il <i>De consolatione philosophiae</i> di Boezio) arti ""reali"", cioè delle cose, che quindi esse fossero sette era dottrina comune e, per limitarci alla Firenze dantesca, presente nella <i>Rettorica</i> di Brunetto Latini. C'è semmai da notare che l'ordine era per alcuni aspetti ancora fluttuante. Così in alcune classificazioni la Dialettica viene dopo la Retorica e normalmente la Musica segue non solo l'Aritmetica, ma anche la Geometria e l'Astronomia-Astrologia. Lo stesso parallelo tra pianeti ed arti liberali era stato formulato prima di Dante dall' <i>Anticlaudianus</i> di Alano di Lilla (cfr. Johnston 1930, pp. 34-35)   dal <i>De naturis rerum</i> di Alexander Neckam (II 173, pp. 282-4), dalla <i>Rhetorica Novissima</i> di Boncompagno da Signa (cfr. Wieruszowski, pp. 506-508)  e in una forma identica a quella del <i>Convivio</i>, da Michele Scoto nel suo <i>Liber introductorius</i>. (vedi <i>Ricklin</i>). In ambiente toscano ed in volgare questa corrispondenza era stata accettata (ma solo in linea generale) da Ristoro d'Arezzo nelLa composizione del mondo colle sue cascioni II viii 6, p. 202) ""E anco saràno sette arti liberali ... sì che ciascheduno planeto avarà la sua"". Ma, a differenza di Dante, nessuno aveva mostrato ""la ragione perché ciò sia"", analizzando (e sia pure ""brievemente"") cielo per cielo e scienza per scienza le ragioni dell'analogia.  Inoltre tutti, tranne Boncompagno, si erano limitati alla corrispondenza sette a sette, parlando solo di pianeti, senza introdurre né cielo delle stelle fisse, né il primo mobile, né l'Empireo. Bisogna allora dire che tra fine del XII secolo e la prima metà del XIII ai testi classici che identificavano le sette arti liberali si era aggiunto un patrimonio scientifico-filosofico infinitamente più ricco: gli scritti di filosofia naturale, la <i>Metafisica</i>, l' <i>Etica</i> di Aristotele avevano inevitabilmente modificato la struttura del sapere; strettamente legato ai trattati del <i>Corpus aristotelicum</i> era comparso un nuovo modello di classificazione delle scienze. Il quadro si era così complicato: le sette arti liberali non erano state rifiutate, ma erano diventate parti di più complessi schemi classificatori (per limitarci ancora una volta a Firenze è esemplare la <i>Divisio philosophiae</i> presentata, quasi negli stessi anni del <i>Convivio</i>, da Remigio de' Girolami. Cfr. Panella 1981). Dante però continua ad utilizzare lo schema vulgato e preferisce procedere per aggiunta, considerando le sette arti come gradini inferiori e propedeutici al nuovo sapere. Questo procedimento, già utilizzato da Tommaso nel Commento al <i>De trinitate</i> di Boezio (q. 5, a. 1, <i>ad tertium</i>), corrisponde più che ad astratti modelli classificatori, alla struttura effettiva della formazione universitaria, almeno per gli anni intorno alla metà del '200. Così come dopo i cieli dei pianeti viene l'ottava sfera, quella del cielo stellato, nel <i>curriculum</i>  normale dopo le sette arti del Trivio e del Quadrivio vengono la ""scienza naturale che Fisica si chiama"" e la <i>Metafisica</i> (per la <i>Metafisica</i> come ""prima scienza"" cfr. nota a <i>Cv</i> I i 1). Come sottolinea giustamente  Helene Wieruszowski, lo schema di Dante rispecchia anche un nuovo <i>curriculum</i> di studi, quello dell'Università di Parigi e degli <i>Studia</i> degli ordini mendicanti, mentre quello di Boncompagno, che pure aggiunge tre ulteriori scienze alle sette arti liberali, identificandole con la medicina, diritto civile e diritto canonico, rispecchia la situazione all'Università di Bologna nella prima metà del XIII secolo (cfr.  Wieruszowski 1971, pp. 509-12)",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/La_Rettorica,La Rettorica,Brunetto Latini,http://dbpedia.org/resource/Brunetto_Latini,http://purl.org/bncf/tid/4567,WORK
ORDINE,"rapporto'. Come esiste una analogia tra i cieli e le scienze in generale, così ne esiste una in particolare tra i singoli cieli e le singole scienze e questo spiega perché Dante abbia parlato del terzo dei dieci cieli. La analogia (comparazione"") riguarda non solo la quantità (dieci cieli corrispondono a dieci scienze), ma soprattutto l'ordine: a quello con cui si dispongono i cieli corrisponderà quello con cui si dispongono le scienze. La serie dei primi è data dalla progressiva distanza dal centro della terra: i sette orbi planetari (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno) più vicini a noi (""primi a noi""), poi il cielo delle stelle fisse, poi il primo mobile, infine l'Empireo, l'unico immobile (""quieto""). La corrispondente seriazione  delle scienze (""ai sette primi rispondono le sette scienze ..."") era in parte già definita dalla cultura del tempo, in parte è creazione autonoma di Dante. Che il sistema delle discipline si articolasse nelle arti liberali del Trivio, arti ""sermocinali"", cioè della parola e in quelle del Quadrivio (o Quadruvio, seguendo il <i>De consolatione philosophiae</i> di Boezio) arti ""reali"", cioè delle cose, che quindi esse fossero sette era dottrina comune e, per limitarci alla Firenze dantesca, presente nella <i>Rettorica</i> di Brunetto Latini. C'è semmai da notare che l'ordine era per alcuni aspetti ancora fluttuante. Così in alcune classificazioni la Dialettica viene dopo la Retorica e normalmente la Musica segue non solo l'Aritmetica, ma anche la Geometria e l'Astronomia-Astrologia. Lo stesso parallelo tra pianeti ed arti liberali era stato formulato prima di Dante dall' <i>Anticlaudianus</i> di Alano di Lilla (cfr. Johnston 1930, pp. 34-35)   dal <i>De naturis rerum</i> di Alexander Neckam (II 173, pp. 282-4), dalla <i>Rhetorica Novissima</i> di Boncompagno da Signa (cfr. Wieruszowski, pp. 506-508)  e in una forma identica a quella del <i>Convivio</i>, da Michele Scoto nel suo <i>Liber introductorius</i>. (vedi <i>Ricklin</i>). In ambiente toscano ed in volgare questa corrispondenza era stata accettata (ma solo in linea generale) da Ristoro d'Arezzo nelLa composizione del mondo colle sue cascioni II viii 6, p. 202) ""E anco saràno sette arti liberali ... sì che ciascheduno planeto avarà la sua"". Ma, a differenza di Dante, nessuno aveva mostrato ""la ragione perché ciò sia"", analizzando (e sia pure ""brievemente"") cielo per cielo e scienza per scienza le ragioni dell'analogia.  Inoltre tutti, tranne Boncompagno, si erano limitati alla corrispondenza sette a sette, parlando solo di pianeti, senza introdurre né cielo delle stelle fisse, né il primo mobile, né l'Empireo. Bisogna allora dire che tra fine del XII secolo e la prima metà del XIII ai testi classici che identificavano le sette arti liberali si era aggiunto un patrimonio scientifico-filosofico infinitamente più ricco: gli scritti di filosofia naturale, la <i>Metafisica</i>, l' <i>Etica</i> di Aristotele avevano inevitabilmente modificato la struttura del sapere; strettamente legato ai trattati del <i>Corpus aristotelicum</i> era comparso un nuovo modello di classificazione delle scienze. Il quadro si era così complicato: le sette arti liberali non erano state rifiutate, ma erano diventate parti di più complessi schemi classificatori (per limitarci ancora una volta a Firenze è esemplare la <i>Divisio philosophiae</i> presentata, quasi negli stessi anni del <i>Convivio</i>, da Remigio de' Girolami. Cfr. Panella 1981). Dante però continua ad utilizzare lo schema vulgato e preferisce procedere per aggiunta, considerando le sette arti come gradini inferiori e propedeutici al nuovo sapere. Questo procedimento, già utilizzato da Tommaso nel Commento al <i>De trinitate</i> di Boezio (q. 5, a. 1, <i>ad tertium</i>), corrisponde più che ad astratti modelli classificatori, alla struttura effettiva della formazione universitaria, almeno per gli anni intorno alla metà del '200. Così come dopo i cieli dei pianeti viene l'ottava sfera, quella del cielo stellato, nel <i>curriculum</i>  normale dopo le sette arti del Trivio e del Quadrivio vengono la ""scienza naturale che Fisica si chiama"" e la <i>Metafisica</i> (per la <i>Metafisica</i> come ""prima scienza"" cfr. nota a <i>Cv</i> I i 1). Come sottolinea giustamente  Helene Wieruszowski, lo schema di Dante rispecchia anche un nuovo <i>curriculum</i> di studi, quello dell'Università di Parigi e degli <i>Studia</i> degli ordini mendicanti, mentre quello di Boncompagno, che pure aggiunge tre ulteriori scienze alle sette arti liberali, identificandole con la medicina, diritto civile e diritto canonico, rispecchia la situazione all'Università di Bologna nella prima metà del XIII secolo (cfr.  Wieruszowski 1971, pp. 509-12)","Johnston 1930, pp. 34-35",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Anticlaudianus,Anticlaudianus,Alano di Lilla,http://dbpedia.org/resource/Alain_de_Lille,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/poesia_allegorica,WORK
ORDINE,"rapporto'. Come esiste una analogia tra i cieli e le scienze in generale, così ne esiste una in particolare tra i singoli cieli e le singole scienze e questo spiega perché Dante abbia parlato del terzo dei dieci cieli. La analogia (comparazione"") riguarda non solo la quantità (dieci cieli corrispondono a dieci scienze), ma soprattutto l'ordine: a quello con cui si dispongono i cieli corrisponderà quello con cui si dispongono le scienze. La serie dei primi è data dalla progressiva distanza dal centro della terra: i sette orbi planetari (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno) più vicini a noi (""primi a noi""), poi il cielo delle stelle fisse, poi il primo mobile, infine l'Empireo, l'unico immobile (""quieto""). La corrispondente seriazione  delle scienze (""ai sette primi rispondono le sette scienze ..."") era in parte già definita dalla cultura del tempo, in parte è creazione autonoma di Dante. Che il sistema delle discipline si articolasse nelle arti liberali del Trivio, arti ""sermocinali"", cioè della parola e in quelle del Quadrivio (o Quadruvio, seguendo il <i>De consolatione philosophiae</i> di Boezio) arti ""reali"", cioè delle cose, che quindi esse fossero sette era dottrina comune e, per limitarci alla Firenze dantesca, presente nella <i>Rettorica</i> di Brunetto Latini. C'è semmai da notare che l'ordine era per alcuni aspetti ancora fluttuante. Così in alcune classificazioni la Dialettica viene dopo la Retorica e normalmente la Musica segue non solo l'Aritmetica, ma anche la Geometria e l'Astronomia-Astrologia. Lo stesso parallelo tra pianeti ed arti liberali era stato formulato prima di Dante dall' <i>Anticlaudianus</i> di Alano di Lilla (cfr. Johnston 1930, pp. 34-35)   dal <i>De naturis rerum</i> di Alexander Neckam (II 173, pp. 282-4), dalla <i>Rhetorica Novissima</i> di Boncompagno da Signa (cfr. Wieruszowski, pp. 506-508)  e in una forma identica a quella del <i>Convivio</i>, da Michele Scoto nel suo <i>Liber introductorius</i>. (vedi <i>Ricklin</i>). In ambiente toscano ed in volgare questa corrispondenza era stata accettata (ma solo in linea generale) da Ristoro d'Arezzo nelLa composizione del mondo colle sue cascioni II viii 6, p. 202) ""E anco saràno sette arti liberali ... sì che ciascheduno planeto avarà la sua"". Ma, a differenza di Dante, nessuno aveva mostrato ""la ragione perché ciò sia"", analizzando (e sia pure ""brievemente"") cielo per cielo e scienza per scienza le ragioni dell'analogia.  Inoltre tutti, tranne Boncompagno, si erano limitati alla corrispondenza sette a sette, parlando solo di pianeti, senza introdurre né cielo delle stelle fisse, né il primo mobile, né l'Empireo. Bisogna allora dire che tra fine del XII secolo e la prima metà del XIII ai testi classici che identificavano le sette arti liberali si era aggiunto un patrimonio scientifico-filosofico infinitamente più ricco: gli scritti di filosofia naturale, la <i>Metafisica</i>, l' <i>Etica</i> di Aristotele avevano inevitabilmente modificato la struttura del sapere; strettamente legato ai trattati del <i>Corpus aristotelicum</i> era comparso un nuovo modello di classificazione delle scienze. Il quadro si era così complicato: le sette arti liberali non erano state rifiutate, ma erano diventate parti di più complessi schemi classificatori (per limitarci ancora una volta a Firenze è esemplare la <i>Divisio philosophiae</i> presentata, quasi negli stessi anni del <i>Convivio</i>, da Remigio de' Girolami. Cfr. Panella 1981). Dante però continua ad utilizzare lo schema vulgato e preferisce procedere per aggiunta, considerando le sette arti come gradini inferiori e propedeutici al nuovo sapere. Questo procedimento, già utilizzato da Tommaso nel Commento al <i>De trinitate</i> di Boezio (q. 5, a. 1, <i>ad tertium</i>), corrisponde più che ad astratti modelli classificatori, alla struttura effettiva della formazione universitaria, almeno per gli anni intorno alla metà del '200. Così come dopo i cieli dei pianeti viene l'ottava sfera, quella del cielo stellato, nel <i>curriculum</i>  normale dopo le sette arti del Trivio e del Quadrivio vengono la ""scienza naturale che Fisica si chiama"" e la <i>Metafisica</i> (per la <i>Metafisica</i> come ""prima scienza"" cfr. nota a <i>Cv</i> I i 1). Come sottolinea giustamente  Helene Wieruszowski, lo schema di Dante rispecchia anche un nuovo <i>curriculum</i> di studi, quello dell'Università di Parigi e degli <i>Studia</i> degli ordini mendicanti, mentre quello di Boncompagno, che pure aggiunge tre ulteriori scienze alle sette arti liberali, identificandole con la medicina, diritto civile e diritto canonico, rispecchia la situazione all'Università di Bologna nella prima metà del XIII secolo (cfr.  Wieruszowski 1971, pp. 509-12)","II 173, pp. 282-4",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_naturis_rerum,De naturis rerum,Alexander Neckam,http://dbpedia.org/resource/Alexander_Neckam,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
ORDINE,"rapporto'. Come esiste una analogia tra i cieli e le scienze in generale, così ne esiste una in particolare tra i singoli cieli e le singole scienze e questo spiega perché Dante abbia parlato del terzo dei dieci cieli. La analogia (comparazione"") riguarda non solo la quantità (dieci cieli corrispondono a dieci scienze), ma soprattutto l'ordine: a quello con cui si dispongono i cieli corrisponderà quello con cui si dispongono le scienze. La serie dei primi è data dalla progressiva distanza dal centro della terra: i sette orbi planetari (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno) più vicini a noi (""primi a noi""), poi il cielo delle stelle fisse, poi il primo mobile, infine l'Empireo, l'unico immobile (""quieto""). La corrispondente seriazione  delle scienze (""ai sette primi rispondono le sette scienze ..."") era in parte già definita dalla cultura del tempo, in parte è creazione autonoma di Dante. Che il sistema delle discipline si articolasse nelle arti liberali del Trivio, arti ""sermocinali"", cioè della parola e in quelle del Quadrivio (o Quadruvio, seguendo il <i>De consolatione philosophiae</i> di Boezio) arti ""reali"", cioè delle cose, che quindi esse fossero sette era dottrina comune e, per limitarci alla Firenze dantesca, presente nella <i>Rettorica</i> di Brunetto Latini. C'è semmai da notare che l'ordine era per alcuni aspetti ancora fluttuante. Così in alcune classificazioni la Dialettica viene dopo la Retorica e normalmente la Musica segue non solo l'Aritmetica, ma anche la Geometria e l'Astronomia-Astrologia. Lo stesso parallelo tra pianeti ed arti liberali era stato formulato prima di Dante dall' <i>Anticlaudianus</i> di Alano di Lilla (cfr. Johnston 1930, pp. 34-35)   dal <i>De naturis rerum</i> di Alexander Neckam (II 173, pp. 282-4), dalla <i>Rhetorica Novissima</i> di Boncompagno da Signa (cfr. Wieruszowski, pp. 506-508)  e in una forma identica a quella del <i>Convivio</i>, da Michele Scoto nel suo <i>Liber introductorius</i>. (vedi <i>Ricklin</i>). In ambiente toscano ed in volgare questa corrispondenza era stata accettata (ma solo in linea generale) da Ristoro d'Arezzo nelLa composizione del mondo colle sue cascioni II viii 6, p. 202) ""E anco saràno sette arti liberali ... sì che ciascheduno planeto avarà la sua"". Ma, a differenza di Dante, nessuno aveva mostrato ""la ragione perché ciò sia"", analizzando (e sia pure ""brievemente"") cielo per cielo e scienza per scienza le ragioni dell'analogia.  Inoltre tutti, tranne Boncompagno, si erano limitati alla corrispondenza sette a sette, parlando solo di pianeti, senza introdurre né cielo delle stelle fisse, né il primo mobile, né l'Empireo. Bisogna allora dire che tra fine del XII secolo e la prima metà del XIII ai testi classici che identificavano le sette arti liberali si era aggiunto un patrimonio scientifico-filosofico infinitamente più ricco: gli scritti di filosofia naturale, la <i>Metafisica</i>, l' <i>Etica</i> di Aristotele avevano inevitabilmente modificato la struttura del sapere; strettamente legato ai trattati del <i>Corpus aristotelicum</i> era comparso un nuovo modello di classificazione delle scienze. Il quadro si era così complicato: le sette arti liberali non erano state rifiutate, ma erano diventate parti di più complessi schemi classificatori (per limitarci ancora una volta a Firenze è esemplare la <i>Divisio philosophiae</i> presentata, quasi negli stessi anni del <i>Convivio</i>, da Remigio de' Girolami. Cfr. Panella 1981). Dante però continua ad utilizzare lo schema vulgato e preferisce procedere per aggiunta, considerando le sette arti come gradini inferiori e propedeutici al nuovo sapere. Questo procedimento, già utilizzato da Tommaso nel Commento al <i>De trinitate</i> di Boezio (q. 5, a. 1, <i>ad tertium</i>), corrisponde più che ad astratti modelli classificatori, alla struttura effettiva della formazione universitaria, almeno per gli anni intorno alla metà del '200. Così come dopo i cieli dei pianeti viene l'ottava sfera, quella del cielo stellato, nel <i>curriculum</i>  normale dopo le sette arti del Trivio e del Quadrivio vengono la ""scienza naturale che Fisica si chiama"" e la <i>Metafisica</i> (per la <i>Metafisica</i> come ""prima scienza"" cfr. nota a <i>Cv</i> I i 1). Come sottolinea giustamente  Helene Wieruszowski, lo schema di Dante rispecchia anche un nuovo <i>curriculum</i> di studi, quello dell'Università di Parigi e degli <i>Studia</i> degli ordini mendicanti, mentre quello di Boncompagno, che pure aggiunge tre ulteriori scienze alle sette arti liberali, identificandole con la medicina, diritto civile e diritto canonico, rispecchia la situazione all'Università di Bologna nella prima metà del XIII secolo (cfr.  Wieruszowski 1971, pp. 509-12)","Wieruszowski, pp. 506-508",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Rhetorica_Novissima,Rhetorica Novissima,Boncompagno da Signa,http://dbpedia.org/resource/Boncompagno_da_Signa,http://purl.org/bncf/tid/4567,WORK
ORDINE,"rapporto'. Come esiste una analogia tra i cieli e le scienze in generale, così ne esiste una in particolare tra i singoli cieli e le singole scienze e questo spiega perché Dante abbia parlato del terzo dei dieci cieli. La analogia (comparazione"") riguarda non solo la quantità (dieci cieli corrispondono a dieci scienze), ma soprattutto l'ordine: a quello con cui si dispongono i cieli corrisponderà quello con cui si dispongono le scienze. La serie dei primi è data dalla progressiva distanza dal centro della terra: i sette orbi planetari (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno) più vicini a noi (""primi a noi""), poi il cielo delle stelle fisse, poi il primo mobile, infine l'Empireo, l'unico immobile (""quieto""). La corrispondente seriazione  delle scienze (""ai sette primi rispondono le sette scienze ..."") era in parte già definita dalla cultura del tempo, in parte è creazione autonoma di Dante. Che il sistema delle discipline si articolasse nelle arti liberali del Trivio, arti ""sermocinali"", cioè della parola e in quelle del Quadrivio (o Quadruvio, seguendo il <i>De consolatione philosophiae</i> di Boezio) arti ""reali"", cioè delle cose, che quindi esse fossero sette era dottrina comune e, per limitarci alla Firenze dantesca, presente nella <i>Rettorica</i> di Brunetto Latini. C'è semmai da notare che l'ordine era per alcuni aspetti ancora fluttuante. Così in alcune classificazioni la Dialettica viene dopo la Retorica e normalmente la Musica segue non solo l'Aritmetica, ma anche la Geometria e l'Astronomia-Astrologia. Lo stesso parallelo tra pianeti ed arti liberali era stato formulato prima di Dante dall' <i>Anticlaudianus</i> di Alano di Lilla (cfr. Johnston 1930, pp. 34-35)   dal <i>De naturis rerum</i> di Alexander Neckam (II 173, pp. 282-4), dalla <i>Rhetorica Novissima</i> di Boncompagno da Signa (cfr. Wieruszowski, pp. 506-508)  e in una forma identica a quella del <i>Convivio</i>, da Michele Scoto nel suo <i>Liber introductorius</i>. (vedi <i>Ricklin</i>). In ambiente toscano ed in volgare questa corrispondenza era stata accettata (ma solo in linea generale) da Ristoro d'Arezzo nelLa composizione del mondo colle sue cascioni II viii 6, p. 202) ""E anco saràno sette arti liberali ... sì che ciascheduno planeto avarà la sua"". Ma, a differenza di Dante, nessuno aveva mostrato ""la ragione perché ciò sia"", analizzando (e sia pure ""brievemente"") cielo per cielo e scienza per scienza le ragioni dell'analogia.  Inoltre tutti, tranne Boncompagno, si erano limitati alla corrispondenza sette a sette, parlando solo di pianeti, senza introdurre né cielo delle stelle fisse, né il primo mobile, né l'Empireo. Bisogna allora dire che tra fine del XII secolo e la prima metà del XIII ai testi classici che identificavano le sette arti liberali si era aggiunto un patrimonio scientifico-filosofico infinitamente più ricco: gli scritti di filosofia naturale, la <i>Metafisica</i>, l' <i>Etica</i> di Aristotele avevano inevitabilmente modificato la struttura del sapere; strettamente legato ai trattati del <i>Corpus aristotelicum</i> era comparso un nuovo modello di classificazione delle scienze. Il quadro si era così complicato: le sette arti liberali non erano state rifiutate, ma erano diventate parti di più complessi schemi classificatori (per limitarci ancora una volta a Firenze è esemplare la <i>Divisio philosophiae</i> presentata, quasi negli stessi anni del <i>Convivio</i>, da Remigio de' Girolami. Cfr. Panella 1981). Dante però continua ad utilizzare lo schema vulgato e preferisce procedere per aggiunta, considerando le sette arti come gradini inferiori e propedeutici al nuovo sapere. Questo procedimento, già utilizzato da Tommaso nel Commento al <i>De trinitate</i> di Boezio (q. 5, a. 1, <i>ad tertium</i>), corrisponde più che ad astratti modelli classificatori, alla struttura effettiva della formazione universitaria, almeno per gli anni intorno alla metà del '200. Così come dopo i cieli dei pianeti viene l'ottava sfera, quella del cielo stellato, nel <i>curriculum</i>  normale dopo le sette arti del Trivio e del Quadrivio vengono la ""scienza naturale che Fisica si chiama"" e la <i>Metafisica</i> (per la <i>Metafisica</i> come ""prima scienza"" cfr. nota a <i>Cv</i> I i 1). Come sottolinea giustamente  Helene Wieruszowski, lo schema di Dante rispecchia anche un nuovo <i>curriculum</i> di studi, quello dell'Università di Parigi e degli <i>Studia</i> degli ordini mendicanti, mentre quello di Boncompagno, che pure aggiunge tre ulteriori scienze alle sette arti liberali, identificandole con la medicina, diritto civile e diritto canonico, rispecchia la situazione all'Università di Bologna nella prima metà del XIII secolo (cfr.  Wieruszowski 1971, pp. 509-12)","Wieruszowski, pp. 506-508",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Liber_introductorius,Liber introductorius,Michele Scoto,http://dbpedia.org/resource/Michael_Scot,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
ORDINE,"rapporto'. Come esiste una analogia tra i cieli e le scienze in generale, così ne esiste una in particolare tra i singoli cieli e le singole scienze e questo spiega perché Dante abbia parlato del terzo dei dieci cieli. La analogia (comparazione"") riguarda non solo la quantità (dieci cieli corrispondono a dieci scienze), ma soprattutto l'ordine: a quello con cui si dispongono i cieli corrisponderà quello con cui si dispongono le scienze. La serie dei primi è data dalla progressiva distanza dal centro della terra: i sette orbi planetari (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno) più vicini a noi (""primi a noi""), poi il cielo delle stelle fisse, poi il primo mobile, infine l'Empireo, l'unico immobile (""quieto""). La corrispondente seriazione  delle scienze (""ai sette primi rispondono le sette scienze ..."") era in parte già definita dalla cultura del tempo, in parte è creazione autonoma di Dante. Che il sistema delle discipline si articolasse nelle arti liberali del Trivio, arti ""sermocinali"", cioè della parola e in quelle del Quadrivio (o Quadruvio, seguendo il <i>De consolatione philosophiae</i> di Boezio) arti ""reali"", cioè delle cose, che quindi esse fossero sette era dottrina comune e, per limitarci alla Firenze dantesca, presente nella <i>Rettorica</i> di Brunetto Latini. C'è semmai da notare che l'ordine era per alcuni aspetti ancora fluttuante. Così in alcune classificazioni la Dialettica viene dopo la Retorica e normalmente la Musica segue non solo l'Aritmetica, ma anche la Geometria e l'Astronomia-Astrologia. Lo stesso parallelo tra pianeti ed arti liberali era stato formulato prima di Dante dall' <i>Anticlaudianus</i> di Alano di Lilla (cfr. Johnston 1930, pp. 34-35)   dal <i>De naturis rerum</i> di Alexander Neckam (II 173, pp. 282-4), dalla <i>Rhetorica Novissima</i> di Boncompagno da Signa (cfr. Wieruszowski, pp. 506-508)  e in una forma identica a quella del <i>Convivio</i>, da Michele Scoto nel suo <i>Liber introductorius</i>. (vedi <i>Ricklin</i>). In ambiente toscano ed in volgare questa corrispondenza era stata accettata (ma solo in linea generale) da Ristoro d'Arezzo nelLa composizione del mondo colle sue cascioni II viii 6, p. 202) ""E anco saràno sette arti liberali ... sì che ciascheduno planeto avarà la sua"". Ma, a differenza di Dante, nessuno aveva mostrato ""la ragione perché ciò sia"", analizzando (e sia pure ""brievemente"") cielo per cielo e scienza per scienza le ragioni dell'analogia.  Inoltre tutti, tranne Boncompagno, si erano limitati alla corrispondenza sette a sette, parlando solo di pianeti, senza introdurre né cielo delle stelle fisse, né il primo mobile, né l'Empireo. Bisogna allora dire che tra fine del XII secolo e la prima metà del XIII ai testi classici che identificavano le sette arti liberali si era aggiunto un patrimonio scientifico-filosofico infinitamente più ricco: gli scritti di filosofia naturale, la <i>Metafisica</i>, l' <i>Etica</i> di Aristotele avevano inevitabilmente modificato la struttura del sapere; strettamente legato ai trattati del <i>Corpus aristotelicum</i> era comparso un nuovo modello di classificazione delle scienze. Il quadro si era così complicato: le sette arti liberali non erano state rifiutate, ma erano diventate parti di più complessi schemi classificatori (per limitarci ancora una volta a Firenze è esemplare la <i>Divisio philosophiae</i> presentata, quasi negli stessi anni del <i>Convivio</i>, da Remigio de' Girolami. Cfr. Panella 1981). Dante però continua ad utilizzare lo schema vulgato e preferisce procedere per aggiunta, considerando le sette arti come gradini inferiori e propedeutici al nuovo sapere. Questo procedimento, già utilizzato da Tommaso nel Commento al <i>De trinitate</i> di Boezio (q. 5, a. 1, <i>ad tertium</i>), corrisponde più che ad astratti modelli classificatori, alla struttura effettiva della formazione universitaria, almeno per gli anni intorno alla metà del '200. Così come dopo i cieli dei pianeti viene l'ottava sfera, quella del cielo stellato, nel <i>curriculum</i>  normale dopo le sette arti del Trivio e del Quadrivio vengono la ""scienza naturale che Fisica si chiama"" e la <i>Metafisica</i> (per la <i>Metafisica</i> come ""prima scienza"" cfr. nota a <i>Cv</i> I i 1). Come sottolinea giustamente  Helene Wieruszowski, lo schema di Dante rispecchia anche un nuovo <i>curriculum</i> di studi, quello dell'Università di Parigi e degli <i>Studia</i> degli ordini mendicanti, mentre quello di Boncompagno, che pure aggiunge tre ulteriori scienze alle sette arti liberali, identificandole con la medicina, diritto civile e diritto canonico, rispecchia la situazione all'Università di Bologna nella prima metà del XIII secolo (cfr.  Wieruszowski 1971, pp. 509-12)","II viii 6, p. 202",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/La_composizione_del_mondo,La composizione del mondo colle sue cascioni,Restoro d'Arezzo,http://it.dbpedia.org/resource/Restoro_d'Arezzo,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
ORDINE,"rapporto'. Come esiste una analogia tra i cieli e le scienze in generale, così ne esiste una in particolare tra i singoli cieli e le singole scienze e questo spiega perché Dante abbia parlato del terzo dei dieci cieli. La analogia (comparazione"") riguarda non solo la quantità (dieci cieli corrispondono a dieci scienze), ma soprattutto l'ordine: a quello con cui si dispongono i cieli corrisponderà quello con cui si dispongono le scienze. La serie dei primi è data dalla progressiva distanza dal centro della terra: i sette orbi planetari (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno) più vicini a noi (""primi a noi""), poi il cielo delle stelle fisse, poi il primo mobile, infine l'Empireo, l'unico immobile (""quieto""). La corrispondente seriazione  delle scienze (""ai sette primi rispondono le sette scienze ..."") era in parte già definita dalla cultura del tempo, in parte è creazione autonoma di Dante. Che il sistema delle discipline si articolasse nelle arti liberali del Trivio, arti ""sermocinali"", cioè della parola e in quelle del Quadrivio (o Quadruvio, seguendo il <i>De consolatione philosophiae</i> di Boezio) arti ""reali"", cioè delle cose, che quindi esse fossero sette era dottrina comune e, per limitarci alla Firenze dantesca, presente nella <i>Rettorica</i> di Brunetto Latini. C'è semmai da notare che l'ordine era per alcuni aspetti ancora fluttuante. Così in alcune classificazioni la Dialettica viene dopo la Retorica e normalmente la Musica segue non solo l'Aritmetica, ma anche la Geometria e l'Astronomia-Astrologia. Lo stesso parallelo tra pianeti ed arti liberali era stato formulato prima di Dante dall' <i>Anticlaudianus</i> di Alano di Lilla (cfr. Johnston 1930, pp. 34-35)   dal <i>De naturis rerum</i> di Alexander Neckam (II 173, pp. 282-4), dalla <i>Rhetorica Novissima</i> di Boncompagno da Signa (cfr. Wieruszowski, pp. 506-508)  e in una forma identica a quella del <i>Convivio</i>, da Michele Scoto nel suo <i>Liber introductorius</i>. (vedi <i>Ricklin</i>). In ambiente toscano ed in volgare questa corrispondenza era stata accettata (ma solo in linea generale) da Ristoro d'Arezzo nelLa composizione del mondo colle sue cascioni II viii 6, p. 202) ""E anco saràno sette arti liberali ... sì che ciascheduno planeto avarà la sua"". Ma, a differenza di Dante, nessuno aveva mostrato ""la ragione perché ciò sia"", analizzando (e sia pure ""brievemente"") cielo per cielo e scienza per scienza le ragioni dell'analogia.  Inoltre tutti, tranne Boncompagno, si erano limitati alla corrispondenza sette a sette, parlando solo di pianeti, senza introdurre né cielo delle stelle fisse, né il primo mobile, né l'Empireo. Bisogna allora dire che tra fine del XII secolo e la prima metà del XIII ai testi classici che identificavano le sette arti liberali si era aggiunto un patrimonio scientifico-filosofico infinitamente più ricco: gli scritti di filosofia naturale, la <i>Metafisica</i>, l' <i>Etica</i> di Aristotele avevano inevitabilmente modificato la struttura del sapere; strettamente legato ai trattati del <i>Corpus aristotelicum</i> era comparso un nuovo modello di classificazione delle scienze. Il quadro si era così complicato: le sette arti liberali non erano state rifiutate, ma erano diventate parti di più complessi schemi classificatori (per limitarci ancora una volta a Firenze è esemplare la <i>Divisio philosophiae</i> presentata, quasi negli stessi anni del <i>Convivio</i>, da Remigio de' Girolami. Cfr. Panella 1981). Dante però continua ad utilizzare lo schema vulgato e preferisce procedere per aggiunta, considerando le sette arti come gradini inferiori e propedeutici al nuovo sapere. Questo procedimento, già utilizzato da Tommaso nel Commento al <i>De trinitate</i> di Boezio (q. 5, a. 1, <i>ad tertium</i>), corrisponde più che ad astratti modelli classificatori, alla struttura effettiva della formazione universitaria, almeno per gli anni intorno alla metà del '200. Così come dopo i cieli dei pianeti viene l'ottava sfera, quella del cielo stellato, nel <i>curriculum</i>  normale dopo le sette arti del Trivio e del Quadrivio vengono la ""scienza naturale che Fisica si chiama"" e la <i>Metafisica</i> (per la <i>Metafisica</i> come ""prima scienza"" cfr. nota a <i>Cv</i> I i 1). Come sottolinea giustamente  Helene Wieruszowski, lo schema di Dante rispecchia anche un nuovo <i>curriculum</i> di studi, quello dell'Università di Parigi e degli <i>Studia</i> degli ordini mendicanti, mentre quello di Boncompagno, che pure aggiunge tre ulteriori scienze alle sette arti liberali, identificandole con la medicina, diritto civile e diritto canonico, rispecchia la situazione all'Università di Bologna nella prima metà del XIII secolo (cfr.  Wieruszowski 1971, pp. 509-12)",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
ORDINE,"rapporto'. Come esiste una analogia tra i cieli e le scienze in generale, così ne esiste una in particolare tra i singoli cieli e le singole scienze e questo spiega perché Dante abbia parlato del terzo dei dieci cieli. La analogia (comparazione"") riguarda non solo la quantità (dieci cieli corrispondono a dieci scienze), ma soprattutto l'ordine: a quello con cui si dispongono i cieli corrisponderà quello con cui si dispongono le scienze. La serie dei primi è data dalla progressiva distanza dal centro della terra: i sette orbi planetari (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno) più vicini a noi (""primi a noi""), poi il cielo delle stelle fisse, poi il primo mobile, infine l'Empireo, l'unico immobile (""quieto""). La corrispondente seriazione  delle scienze (""ai sette primi rispondono le sette scienze ..."") era in parte già definita dalla cultura del tempo, in parte è creazione autonoma di Dante. Che il sistema delle discipline si articolasse nelle arti liberali del Trivio, arti ""sermocinali"", cioè della parola e in quelle del Quadrivio (o Quadruvio, seguendo il <i>De consolatione philosophiae</i> di Boezio) arti ""reali"", cioè delle cose, che quindi esse fossero sette era dottrina comune e, per limitarci alla Firenze dantesca, presente nella <i>Rettorica</i> di Brunetto Latini. C'è semmai da notare che l'ordine era per alcuni aspetti ancora fluttuante. Così in alcune classificazioni la Dialettica viene dopo la Retorica e normalmente la Musica segue non solo l'Aritmetica, ma anche la Geometria e l'Astronomia-Astrologia. Lo stesso parallelo tra pianeti ed arti liberali era stato formulato prima di Dante dall' <i>Anticlaudianus</i> di Alano di Lilla (cfr. Johnston 1930, pp. 34-35)   dal <i>De naturis rerum</i> di Alexander Neckam (II 173, pp. 282-4), dalla <i>Rhetorica Novissima</i> di Boncompagno da Signa (cfr. Wieruszowski, pp. 506-508)  e in una forma identica a quella del <i>Convivio</i>, da Michele Scoto nel suo <i>Liber introductorius</i>. (vedi <i>Ricklin</i>). In ambiente toscano ed in volgare questa corrispondenza era stata accettata (ma solo in linea generale) da Ristoro d'Arezzo nelLa composizione del mondo colle sue cascioni II viii 6, p. 202) ""E anco saràno sette arti liberali ... sì che ciascheduno planeto avarà la sua"". Ma, a differenza di Dante, nessuno aveva mostrato ""la ragione perché ciò sia"", analizzando (e sia pure ""brievemente"") cielo per cielo e scienza per scienza le ragioni dell'analogia.  Inoltre tutti, tranne Boncompagno, si erano limitati alla corrispondenza sette a sette, parlando solo di pianeti, senza introdurre né cielo delle stelle fisse, né il primo mobile, né l'Empireo. Bisogna allora dire che tra fine del XII secolo e la prima metà del XIII ai testi classici che identificavano le sette arti liberali si era aggiunto un patrimonio scientifico-filosofico infinitamente più ricco: gli scritti di filosofia naturale, la <i>Metafisica</i>, l' <i>Etica</i> di Aristotele avevano inevitabilmente modificato la struttura del sapere; strettamente legato ai trattati del <i>Corpus aristotelicum</i> era comparso un nuovo modello di classificazione delle scienze. Il quadro si era così complicato: le sette arti liberali non erano state rifiutate, ma erano diventate parti di più complessi schemi classificatori (per limitarci ancora una volta a Firenze è esemplare la <i>Divisio philosophiae</i> presentata, quasi negli stessi anni del <i>Convivio</i>, da Remigio de' Girolami. Cfr. Panella 1981). Dante però continua ad utilizzare lo schema vulgato e preferisce procedere per aggiunta, considerando le sette arti come gradini inferiori e propedeutici al nuovo sapere. Questo procedimento, già utilizzato da Tommaso nel Commento al <i>De trinitate</i> di Boezio (q. 5, a. 1, <i>ad tertium</i>), corrisponde più che ad astratti modelli classificatori, alla struttura effettiva della formazione universitaria, almeno per gli anni intorno alla metà del '200. Così come dopo i cieli dei pianeti viene l'ottava sfera, quella del cielo stellato, nel <i>curriculum</i>  normale dopo le sette arti del Trivio e del Quadrivio vengono la ""scienza naturale che Fisica si chiama"" e la <i>Metafisica</i> (per la <i>Metafisica</i> come ""prima scienza"" cfr. nota a <i>Cv</i> I i 1). Come sottolinea giustamente  Helene Wieruszowski, lo schema di Dante rispecchia anche un nuovo <i>curriculum</i> di studi, quello dell'Università di Parigi e degli <i>Studia</i> degli ordini mendicanti, mentre quello di Boncompagno, che pure aggiunge tre ulteriori scienze alle sette arti liberali, identificandole con la medicina, diritto civile e diritto canonico, rispecchia la situazione all'Università di Bologna nella prima metà del XIII secolo (cfr.  Wieruszowski 1971, pp. 509-12)",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
ORDINE,"rapporto'. Come esiste una analogia tra i cieli e le scienze in generale, così ne esiste una in particolare tra i singoli cieli e le singole scienze e questo spiega perché Dante abbia parlato del terzo dei dieci cieli. La analogia (comparazione"") riguarda non solo la quantità (dieci cieli corrispondono a dieci scienze), ma soprattutto l'ordine: a quello con cui si dispongono i cieli corrisponderà quello con cui si dispongono le scienze. La serie dei primi è data dalla progressiva distanza dal centro della terra: i sette orbi planetari (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno) più vicini a noi (""primi a noi""), poi il cielo delle stelle fisse, poi il primo mobile, infine l'Empireo, l'unico immobile (""quieto""). La corrispondente seriazione  delle scienze (""ai sette primi rispondono le sette scienze ..."") era in parte già definita dalla cultura del tempo, in parte è creazione autonoma di Dante. Che il sistema delle discipline si articolasse nelle arti liberali del Trivio, arti ""sermocinali"", cioè della parola e in quelle del Quadrivio (o Quadruvio, seguendo il <i>De consolatione philosophiae</i> di Boezio) arti ""reali"", cioè delle cose, che quindi esse fossero sette era dottrina comune e, per limitarci alla Firenze dantesca, presente nella <i>Rettorica</i> di Brunetto Latini. C'è semmai da notare che l'ordine era per alcuni aspetti ancora fluttuante. Così in alcune classificazioni la Dialettica viene dopo la Retorica e normalmente la Musica segue non solo l'Aritmetica, ma anche la Geometria e l'Astronomia-Astrologia. Lo stesso parallelo tra pianeti ed arti liberali era stato formulato prima di Dante dall' <i>Anticlaudianus</i> di Alano di Lilla (cfr. Johnston 1930, pp. 34-35)   dal <i>De naturis rerum</i> di Alexander Neckam (II 173, pp. 282-4), dalla <i>Rhetorica Novissima</i> di Boncompagno da Signa (cfr. Wieruszowski, pp. 506-508)  e in una forma identica a quella del <i>Convivio</i>, da Michele Scoto nel suo <i>Liber introductorius</i>. (vedi <i>Ricklin</i>). In ambiente toscano ed in volgare questa corrispondenza era stata accettata (ma solo in linea generale) da Ristoro d'Arezzo nelLa composizione del mondo colle sue cascioni II viii 6, p. 202) ""E anco saràno sette arti liberali ... sì che ciascheduno planeto avarà la sua"". Ma, a differenza di Dante, nessuno aveva mostrato ""la ragione perché ciò sia"", analizzando (e sia pure ""brievemente"") cielo per cielo e scienza per scienza le ragioni dell'analogia.  Inoltre tutti, tranne Boncompagno, si erano limitati alla corrispondenza sette a sette, parlando solo di pianeti, senza introdurre né cielo delle stelle fisse, né il primo mobile, né l'Empireo. Bisogna allora dire che tra fine del XII secolo e la prima metà del XIII ai testi classici che identificavano le sette arti liberali si era aggiunto un patrimonio scientifico-filosofico infinitamente più ricco: gli scritti di filosofia naturale, la <i>Metafisica</i>, l' <i>Etica</i> di Aristotele avevano inevitabilmente modificato la struttura del sapere; strettamente legato ai trattati del <i>Corpus aristotelicum</i> era comparso un nuovo modello di classificazione delle scienze. Il quadro si era così complicato: le sette arti liberali non erano state rifiutate, ma erano diventate parti di più complessi schemi classificatori (per limitarci ancora una volta a Firenze è esemplare la <i>Divisio philosophiae</i> presentata, quasi negli stessi anni del <i>Convivio</i>, da Remigio de' Girolami. Cfr. Panella 1981). Dante però continua ad utilizzare lo schema vulgato e preferisce procedere per aggiunta, considerando le sette arti come gradini inferiori e propedeutici al nuovo sapere. Questo procedimento, già utilizzato da Tommaso nel Commento al <i>De trinitate</i> di Boezio (q. 5, a. 1, <i>ad tertium</i>), corrisponde più che ad astratti modelli classificatori, alla struttura effettiva della formazione universitaria, almeno per gli anni intorno alla metà del '200. Così come dopo i cieli dei pianeti viene l'ottava sfera, quella del cielo stellato, nel <i>curriculum</i>  normale dopo le sette arti del Trivio e del Quadrivio vengono la ""scienza naturale che Fisica si chiama"" e la <i>Metafisica</i> (per la <i>Metafisica</i> come ""prima scienza"" cfr. nota a <i>Cv</i> I i 1). Come sottolinea giustamente  Helene Wieruszowski, lo schema di Dante rispecchia anche un nuovo <i>curriculum</i> di studi, quello dell'Università di Parigi e degli <i>Studia</i> degli ordini mendicanti, mentre quello di Boncompagno, che pure aggiunge tre ulteriori scienze alle sette arti liberali, identificandole con la medicina, diritto civile e diritto canonico, rispecchia la situazione all'Università di Bologna nella prima metà del XIII secolo (cfr.  Wieruszowski 1971, pp. 509-12)",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Divisio_philosophiae,Divisio philosophiae,Remigio dei Girolami,http://dbpedia.org/resource/Remigio_dei_Girolami,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
ORDINE,"rapporto'. Come esiste una analogia tra i cieli e le scienze in generale, così ne esiste una in particolare tra i singoli cieli e le singole scienze e questo spiega perché Dante abbia parlato del terzo dei dieci cieli. La analogia (comparazione"") riguarda non solo la quantità (dieci cieli corrispondono a dieci scienze), ma soprattutto l'ordine: a quello con cui si dispongono i cieli corrisponderà quello con cui si dispongono le scienze. La serie dei primi è data dalla progressiva distanza dal centro della terra: i sette orbi planetari (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno) più vicini a noi (""primi a noi""), poi il cielo delle stelle fisse, poi il primo mobile, infine l'Empireo, l'unico immobile (""quieto""). La corrispondente seriazione  delle scienze (""ai sette primi rispondono le sette scienze ..."") era in parte già definita dalla cultura del tempo, in parte è creazione autonoma di Dante. Che il sistema delle discipline si articolasse nelle arti liberali del Trivio, arti ""sermocinali"", cioè della parola e in quelle del Quadrivio (o Quadruvio, seguendo il <i>De consolatione philosophiae</i> di Boezio) arti ""reali"", cioè delle cose, che quindi esse fossero sette era dottrina comune e, per limitarci alla Firenze dantesca, presente nella <i>Rettorica</i> di Brunetto Latini. C'è semmai da notare che l'ordine era per alcuni aspetti ancora fluttuante. Così in alcune classificazioni la Dialettica viene dopo la Retorica e normalmente la Musica segue non solo l'Aritmetica, ma anche la Geometria e l'Astronomia-Astrologia. Lo stesso parallelo tra pianeti ed arti liberali era stato formulato prima di Dante dall' <i>Anticlaudianus</i> di Alano di Lilla (cfr. Johnston 1930, pp. 34-35)   dal <i>De naturis rerum</i> di Alexander Neckam (II 173, pp. 282-4), dalla <i>Rhetorica Novissima</i> di Boncompagno da Signa (cfr. Wieruszowski, pp. 506-508)  e in una forma identica a quella del <i>Convivio</i>, da Michele Scoto nel suo <i>Liber introductorius</i>. (vedi <i>Ricklin</i>). In ambiente toscano ed in volgare questa corrispondenza era stata accettata (ma solo in linea generale) da Ristoro d'Arezzo nelLa composizione del mondo colle sue cascioni II viii 6, p. 202) ""E anco saràno sette arti liberali ... sì che ciascheduno planeto avarà la sua"". Ma, a differenza di Dante, nessuno aveva mostrato ""la ragione perché ciò sia"", analizzando (e sia pure ""brievemente"") cielo per cielo e scienza per scienza le ragioni dell'analogia.  Inoltre tutti, tranne Boncompagno, si erano limitati alla corrispondenza sette a sette, parlando solo di pianeti, senza introdurre né cielo delle stelle fisse, né il primo mobile, né l'Empireo. Bisogna allora dire che tra fine del XII secolo e la prima metà del XIII ai testi classici che identificavano le sette arti liberali si era aggiunto un patrimonio scientifico-filosofico infinitamente più ricco: gli scritti di filosofia naturale, la <i>Metafisica</i>, l' <i>Etica</i> di Aristotele avevano inevitabilmente modificato la struttura del sapere; strettamente legato ai trattati del <i>Corpus aristotelicum</i> era comparso un nuovo modello di classificazione delle scienze. Il quadro si era così complicato: le sette arti liberali non erano state rifiutate, ma erano diventate parti di più complessi schemi classificatori (per limitarci ancora una volta a Firenze è esemplare la <i>Divisio philosophiae</i> presentata, quasi negli stessi anni del <i>Convivio</i>, da Remigio de' Girolami. Cfr. Panella 1981). Dante però continua ad utilizzare lo schema vulgato e preferisce procedere per aggiunta, considerando le sette arti come gradini inferiori e propedeutici al nuovo sapere. Questo procedimento, già utilizzato da Tommaso nel Commento al <i>De trinitate</i> di Boezio (q. 5, a. 1, <i>ad tertium</i>), corrisponde più che ad astratti modelli classificatori, alla struttura effettiva della formazione universitaria, almeno per gli anni intorno alla metà del '200. Così come dopo i cieli dei pianeti viene l'ottava sfera, quella del cielo stellato, nel <i>curriculum</i>  normale dopo le sette arti del Trivio e del Quadrivio vengono la ""scienza naturale che Fisica si chiama"" e la <i>Metafisica</i> (per la <i>Metafisica</i> come ""prima scienza"" cfr. nota a <i>Cv</i> I i 1). Come sottolinea giustamente  Helene Wieruszowski, lo schema di Dante rispecchia anche un nuovo <i>curriculum</i> di studi, quello dell'Università di Parigi e degli <i>Studia</i> degli ordini mendicanti, mentre quello di Boncompagno, che pure aggiunge tre ulteriori scienze alle sette arti liberali, identificandole con la medicina, diritto civile e diritto canonico, rispecchia la situazione all'Università di Bologna nella prima metà del XIII secolo (cfr.  Wieruszowski 1971, pp. 509-12)","q. 5, a. 1, ad tertium",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Super_Boethium_De_Trinitate(Tommaso),Super Boethium De Trinitate,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
L'OMBRA CHE È IN ESSA,"si tratta delle macchie lunari che qui Dante spiega col fatto che il corpo della luna è in alcune parti più raro che in altre (la quale non è altro che raritade del suo corpo""). In queste parti i raggi solari che illuminano il pianeta non trovarno un limite (""non possono terminare"") che funzioni come uno specchio da cui riflettersi (""ripercuotersi"") come invece avviene nel resto della luna; esse dunque appaiono non luminose, ma oscure. Nardi ha sottolineato che questo tipo di spiegazione era già stato offerto da Averroè nel suo trattato <i>De substantia orbis</i>  (cfr. Nardi 1967, pp.1-39): esso era stato ripreso ed ampliato nel <i>Roman de la Rose</i> (cfr. Ottaviani 2004, pp 114-115). Nel Paradiso,  nel cielo appunto della luna, Beatrice mostrerà a Dante come la teoria  qui esposta sia del tutto inadatta a render ragione del fenomeno delle macchie  lunari  e porrà la causa del diverso grado di splendore dei corpi celesti non più in un principio materiale (""raro e denso""), ma in uno formale (la diversa natura delle intelligenze separate che informano i diversi cieli. Cfr. <i>Pd</i> II 58 sgg.).","Nardi 1967, pp.1-39",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_substantia_orbis,De substantia orbis,Averroè,http://dbpedia.org/resource/Averroes,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
L'OMBRA CHE È IN ESSA,"si tratta delle macchie lunari che qui Dante spiega col fatto che il corpo della luna è in alcune parti più raro che in altre (la quale non è altro che raritade del suo corpo""). In queste parti i raggi solari che illuminano il pianeta non trovarno un limite (""non possono terminare"") che funzioni come uno specchio da cui riflettersi (""ripercuotersi"") come invece avviene nel resto della luna; esse dunque appaiono non luminose, ma oscure. Nardi ha sottolineato che questo tipo di spiegazione era già stato offerto da Averroè nel suo trattato <i>De substantia orbis</i>  (cfr. Nardi 1967, pp.1-39): esso era stato ripreso ed ampliato nel <i>Roman de la Rose</i> (cfr. Ottaviani 2004, pp 114-115). Nel Paradiso,  nel cielo appunto della luna, Beatrice mostrerà a Dante come la teoria  qui esposta sia del tutto inadatta a render ragione del fenomeno delle macchie  lunari  e porrà la causa del diverso grado di splendore dei corpi celesti non più in un principio materiale (""raro e denso""), ma in uno formale (la diversa natura delle intelligenze separate che informano i diversi cieli. Cfr. <i>Pd</i> II 58 sgg.).","Ottaviani 2004, pp 114-115",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Roman_de_la_Rose,Roman de la Rose,Jean de Meung,http://dbpedia.org/resource/Jean_de_Meun,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/poesia_allegorica,WORK
SÌ COME DICE ORAZIO ...,"cfr. <i>Ars Poetica</i>, 70-71 Multa renascentur quae iam cecidere ... vocabula"". Che la Grammatica sia caratterizzata  come la luna dalla variabilità contrasta chiaramente con quanto affermato in <i>Cv</i> I v 7-8 dove la  mutevolezza dei vocaboli è propria delle lingue volgari, non del latino-grammatica, che è ""perpetuo ed  incorruttibile"". Colpisce poi il fatto che qui la variabilità sia  estesa dal campo del lessico a quello delle strutture sintattiche (""construzioni""). Tutti i teorici della grammatica, nel XIII secolo, sia a Parigi (Boezio di Dacia, Martino di Dacia) che a Bologna (Gentile da Cingoli), erano infatti d'accordo nel ritenerle, al di sotto  delle differenze lessicali, comuni a tutte le lingue, modi di significare fondati sulla trama stessa dell'essere (per un tentativo di interpretazione di questo contrasto cfr. Grayson 1965).","70-71 Multa renascentur quae iam cecidere ... vocabula""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Ars_Poetica,Ars poetica,Orazio,http://dbpedia.org/resource/Horace,http://purl.org/bncf/tid/4567,WORK
CHÉ PERFETTAMENTE ... SI TRUOVA,"la dialettica  è pienamente (perfettamente"") espressa (""compilata"") e conclusa (""terminata"") in quei determinati testi (""in quello tanto testo"") che formano l' <i>Organon</i> aristotelico. Con il termine <i>Ars Vetus</i> (""Arte Vecchia"") si indicavano i primi trattati dell' <i>Organon</i> (<i>Categorie</i> e <i>De interpretatione</i>, preceduti dalla Introduzione di Porfirio) che erano sempre rimasti a disposizione del mondo latino. L' <i>Ars Nova</i> (""Arte Nuova"") comprendeva invece le opere tradotte alla fine del XII secolo: <i>Analitici Primi e Secondi</i>, <i>Topici</i>, <i>Confutazioni sofistiche</i>.",,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Organon,Organon,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
VA PIÙ VELATA ... CHE ALTRA,"la Dialettica, in misura molto maggiore che ogni altra scienza, utilizza argomenti non dimostrativi in assoluto, ma solo probabili, ed in alcuni casi anche studiatamente fallaci. (sofistici"") e quindi non mostra sempre lo splendore della verità. La caratterizzazione dantesca non è in sintonia con la concezione, sostenuta da Agostino e ripresa da un ""dialettico"" come Abelardo, che fa della Dialettica la scienza della verità e la madre di tutte le scienze (sono piuttosto la critica e la satira della Dialettica che sottolineano il suo carattere ingannatore o comunque inutilmente complicato). E' vero che, con la conoscenza completa dell' <i>Organon</i> aristotelico, si tenderà a distinguere tra logica e dialettica, facendo della seconda una parte della prima e più precisamente quella che argomenta partendo da proposizioni solo probabili e le cui regole sono trattate nei <i>Topici</i>. Ma in questo schema essa non potrebbe ovviamente coincidere, come afferma Dante, con l'insieme degli scritti logici di Aristotele (che, sia detto tra parentesi, non risulta affatto quantitativamente il minore  tra tutti i testi fondativi delle scienze). Inoltre non mi risulta che qualcuno abbia posto nella caratterizzazione della Dialettica l'uso delle argomentazioni sofistiche: compito di questa scienza, nelle <i>Confutazioni sofistiche</i>, è semmai quello non di ""velare"" ma di svelare le fallacie. Può darsi che Dante si riferisca alle concrete ""disputazioni de' filosofanti"" in cui argomenti probabili ed argomenti sofistici potevano ed erano effettivamente utilizzati a favore e contro una posizione data.",,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Organon,Organon,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SÌ COME NELLA SCIENZA NATURALE,"come esempio della doppia pervasività dell'aritmetica rispetto alle altre scienze Dante porta quello della <i>Fisica</i> (scienza naturale""): suo campo di indagine (""subietto"") sono i corpi soggetti a movimento (""corpo mobile""); essi di per sé hanno la proprietà di essere continui (""ha in sé ragione di continuitade"". Cfr. <i>Phys</i>. IV 11, 219 a 10-15) ed ogni realtà continua ha la proprietà di essere divisibile all'infinito  e dunque contiene in potenza un numero infinito di parti (""e questa ha in sé ragione di numero infinito"". Cfr. <i>Phys</i>. IV 11, 219 a 10-15). Inoltre nella trattazione, per lei fondamentale (""principalissima""), dei principi primi costitutivi di ogni realtà naturale, la <i>Fisica</i> giunge alla conclusione che essi sono tre: materia, forma ed assenza (""privazione"") di forma. Che oggetto della scienza naturale sia il corpo soggetto a movimento è affermazione presente in tutte le classificazioni delle scienze del XIII secolo (vedi per tutti Alberto Magno <i>Physica</i> I, tr. 1,.cap. 1, vol. I, p. 1, ll. 58 sgg.).  Che essa debba ricercare i principi delle realtà naturali è dottrina aristotelica esposta specialmente nel primo libro della <i>Fisica</i> che si conclude con la dimostrazione che essi sono appunto tre (cfr. <i>Phys</i>. I 7, 190 b 29 - 191 a 2). Nel testo aristotelico questo numero non è casuale, ma rigorosamente dedotto (i principi non possono essere né più né meno di tre). Dante avrebbe potuto trovare altri esempi di numeri in un certo senso costitutivi delle realta che numerano: nel capitolo primo del primo libro del <i>De caelo</i>  (a proposito delle tre dimensioni), nei capitoli 2 e 3 del secondo libro del <i>De generatione</i> (a proposito dei quattro elementi) e nel primo capitolo del terzo libro del <i>De anima</i> (a proposito dei cinque sensi).","IV 11, 219 a 10-15",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SÌ COME NELLA SCIENZA NATURALE,"come esempio della doppia pervasività dell'aritmetica rispetto alle altre scienze Dante porta quello della <i>Fisica</i> (scienza naturale""): suo campo di indagine (""subietto"") sono i corpi soggetti a movimento (""corpo mobile""); essi di per sé hanno la proprietà di essere continui (""ha in sé ragione di continuitade"". Cfr. <i>Phys</i>. IV 11, 219 a 10-15) ed ogni realtà continua ha la proprietà di essere divisibile all'infinito  e dunque contiene in potenza un numero infinito di parti (""e questa ha in sé ragione di numero infinito"". Cfr. <i>Phys</i>. IV 11, 219 a 10-15). Inoltre nella trattazione, per lei fondamentale (""principalissima""), dei principi primi costitutivi di ogni realtà naturale, la <i>Fisica</i> giunge alla conclusione che essi sono tre: materia, forma ed assenza (""privazione"") di forma. Che oggetto della scienza naturale sia il corpo soggetto a movimento è affermazione presente in tutte le classificazioni delle scienze del XIII secolo (vedi per tutti Alberto Magno <i>Physica</i> I, tr. 1,.cap. 1, vol. I, p. 1, ll. 58 sgg.).  Che essa debba ricercare i principi delle realtà naturali è dottrina aristotelica esposta specialmente nel primo libro della <i>Fisica</i> che si conclude con la dimostrazione che essi sono appunto tre (cfr. <i>Phys</i>. I 7, 190 b 29 - 191 a 2). Nel testo aristotelico questo numero non è casuale, ma rigorosamente dedotto (i principi non possono essere né più né meno di tre). Dante avrebbe potuto trovare altri esempi di numeri in un certo senso costitutivi delle realta che numerano: nel capitolo primo del primo libro del <i>De caelo</i>  (a proposito delle tre dimensioni), nei capitoli 2 e 3 del secondo libro del <i>De generatione</i> (a proposito dei quattro elementi) e nel primo capitolo del terzo libro del <i>De anima</i> (a proposito dei cinque sensi).","I, tr. 1,.cap. 1, vol. I, p. 1, ll. 58 sgg.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Physicorum(Alberto_Magno),Physicorum,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
SÌ COME NELLA SCIENZA NATURALE,"come esempio della doppia pervasività dell'aritmetica rispetto alle altre scienze Dante porta quello della <i>Fisica</i> (scienza naturale""): suo campo di indagine (""subietto"") sono i corpi soggetti a movimento (""corpo mobile""); essi di per sé hanno la proprietà di essere continui (""ha in sé ragione di continuitade"". Cfr. <i>Phys</i>. IV 11, 219 a 10-15) ed ogni realtà continua ha la proprietà di essere divisibile all'infinito  e dunque contiene in potenza un numero infinito di parti (""e questa ha in sé ragione di numero infinito"". Cfr. <i>Phys</i>. IV 11, 219 a 10-15). Inoltre nella trattazione, per lei fondamentale (""principalissima""), dei principi primi costitutivi di ogni realtà naturale, la <i>Fisica</i> giunge alla conclusione che essi sono tre: materia, forma ed assenza (""privazione"") di forma. Che oggetto della scienza naturale sia il corpo soggetto a movimento è affermazione presente in tutte le classificazioni delle scienze del XIII secolo (vedi per tutti Alberto Magno <i>Physica</i> I, tr. 1,.cap. 1, vol. I, p. 1, ll. 58 sgg.).  Che essa debba ricercare i principi delle realtà naturali è dottrina aristotelica esposta specialmente nel primo libro della <i>Fisica</i> che si conclude con la dimostrazione che essi sono appunto tre (cfr. <i>Phys</i>. I 7, 190 b 29 - 191 a 2). Nel testo aristotelico questo numero non è casuale, ma rigorosamente dedotto (i principi non possono essere né più né meno di tre). Dante avrebbe potuto trovare altri esempi di numeri in un certo senso costitutivi delle realta che numerano: nel capitolo primo del primo libro del <i>De caelo</i>  (a proposito delle tre dimensioni), nei capitoli 2 e 3 del secondo libro del <i>De generatione</i> (a proposito dei quattro elementi) e nel primo capitolo del terzo libro del <i>De anima</i> (a proposito dei cinque sensi).","I 7, 190 b 29 - 191 a 2",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SÌ COME NELLA SCIENZA NATURALE,"come esempio della doppia pervasività dell'aritmetica rispetto alle altre scienze Dante porta quello della <i>Fisica</i> (scienza naturale""): suo campo di indagine (""subietto"") sono i corpi soggetti a movimento (""corpo mobile""); essi di per sé hanno la proprietà di essere continui (""ha in sé ragione di continuitade"". Cfr. <i>Phys</i>. IV 11, 219 a 10-15) ed ogni realtà continua ha la proprietà di essere divisibile all'infinito  e dunque contiene in potenza un numero infinito di parti (""e questa ha in sé ragione di numero infinito"". Cfr. <i>Phys</i>. IV 11, 219 a 10-15). Inoltre nella trattazione, per lei fondamentale (""principalissima""), dei principi primi costitutivi di ogni realtà naturale, la <i>Fisica</i> giunge alla conclusione che essi sono tre: materia, forma ed assenza (""privazione"") di forma. Che oggetto della scienza naturale sia il corpo soggetto a movimento è affermazione presente in tutte le classificazioni delle scienze del XIII secolo (vedi per tutti Alberto Magno <i>Physica</i> I, tr. 1,.cap. 1, vol. I, p. 1, ll. 58 sgg.).  Che essa debba ricercare i principi delle realtà naturali è dottrina aristotelica esposta specialmente nel primo libro della <i>Fisica</i> che si conclude con la dimostrazione che essi sono appunto tre (cfr. <i>Phys</i>. I 7, 190 b 29 - 191 a 2). Nel testo aristotelico questo numero non è casuale, ma rigorosamente dedotto (i principi non possono essere né più né meno di tre). Dante avrebbe potuto trovare altri esempi di numeri in un certo senso costitutivi delle realta che numerano: nel capitolo primo del primo libro del <i>De caelo</i>  (a proposito delle tre dimensioni), nei capitoli 2 e 3 del secondo libro del <i>De generatione</i> (a proposito dei quattro elementi) e nel primo capitolo del terzo libro del <i>De anima</i> (a proposito dei cinque sensi).","capitolo I, libro I",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_caelo,De caelo,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SÌ COME NELLA SCIENZA NATURALE,"come esempio della doppia pervasività dell'aritmetica rispetto alle altre scienze Dante porta quello della <i>Fisica</i> (scienza naturale""): suo campo di indagine (""subietto"") sono i corpi soggetti a movimento (""corpo mobile""); essi di per sé hanno la proprietà di essere continui (""ha in sé ragione di continuitade"". Cfr. <i>Phys</i>. IV 11, 219 a 10-15) ed ogni realtà continua ha la proprietà di essere divisibile all'infinito  e dunque contiene in potenza un numero infinito di parti (""e questa ha in sé ragione di numero infinito"". Cfr. <i>Phys</i>. IV 11, 219 a 10-15). Inoltre nella trattazione, per lei fondamentale (""principalissima""), dei principi primi costitutivi di ogni realtà naturale, la <i>Fisica</i> giunge alla conclusione che essi sono tre: materia, forma ed assenza (""privazione"") di forma. Che oggetto della scienza naturale sia il corpo soggetto a movimento è affermazione presente in tutte le classificazioni delle scienze del XIII secolo (vedi per tutti Alberto Magno <i>Physica</i> I, tr. 1,.cap. 1, vol. I, p. 1, ll. 58 sgg.).  Che essa debba ricercare i principi delle realtà naturali è dottrina aristotelica esposta specialmente nel primo libro della <i>Fisica</i> che si conclude con la dimostrazione che essi sono appunto tre (cfr. <i>Phys</i>. I 7, 190 b 29 - 191 a 2). Nel testo aristotelico questo numero non è casuale, ma rigorosamente dedotto (i principi non possono essere né più né meno di tre). Dante avrebbe potuto trovare altri esempi di numeri in un certo senso costitutivi delle realta che numerano: nel capitolo primo del primo libro del <i>De caelo</i>  (a proposito delle tre dimensioni), nei capitoli 2 e 3 del secondo libro del <i>De generatione</i> (a proposito dei quattro elementi) e nel primo capitolo del terzo libro del <i>De anima</i> (a proposito dei cinque sensi).",capitoli 2 e 3 del secondo libro,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/On_Generation_and_Corruption,De generatione et corruptione (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SÌ COME NELLA SCIENZA NATURALE,"come esempio della doppia pervasività dell'aritmetica rispetto alle altre scienze Dante porta quello della <i>Fisica</i> (scienza naturale""): suo campo di indagine (""subietto"") sono i corpi soggetti a movimento (""corpo mobile""); essi di per sé hanno la proprietà di essere continui (""ha in sé ragione di continuitade"". Cfr. <i>Phys</i>. IV 11, 219 a 10-15) ed ogni realtà continua ha la proprietà di essere divisibile all'infinito  e dunque contiene in potenza un numero infinito di parti (""e questa ha in sé ragione di numero infinito"". Cfr. <i>Phys</i>. IV 11, 219 a 10-15). Inoltre nella trattazione, per lei fondamentale (""principalissima""), dei principi primi costitutivi di ogni realtà naturale, la <i>Fisica</i> giunge alla conclusione che essi sono tre: materia, forma ed assenza (""privazione"") di forma. Che oggetto della scienza naturale sia il corpo soggetto a movimento è affermazione presente in tutte le classificazioni delle scienze del XIII secolo (vedi per tutti Alberto Magno <i>Physica</i> I, tr. 1,.cap. 1, vol. I, p. 1, ll. 58 sgg.).  Che essa debba ricercare i principi delle realtà naturali è dottrina aristotelica esposta specialmente nel primo libro della <i>Fisica</i> che si conclude con la dimostrazione che essi sono appunto tre (cfr. <i>Phys</i>. I 7, 190 b 29 - 191 a 2). Nel testo aristotelico questo numero non è casuale, ma rigorosamente dedotto (i principi non possono essere né più né meno di tre). Dante avrebbe potuto trovare altri esempi di numeri in un certo senso costitutivi delle realta che numerano: nel capitolo primo del primo libro del <i>De caelo</i>  (a proposito delle tre dimensioni), nei capitoli 2 e 3 del secondo libro del <i>De generatione</i> (a proposito dei quattro elementi) e nel primo capitolo del terzo libro del <i>De anima</i> (a proposito dei cinque sensi).",primo capitolo del terzo libro,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
NON POTEMO NOI INTENDERE,"che il numero sia infinito nel senso che ad ogni numero determinato preso grande a piacere è sempre possibile aggiungere una unità e che, per questa sua indeterminazione, sfugga alla comprensione umana era dottrina ricavata da Aristotele (cfr. <i>Phys</i>. I 4, 187 b 7) e comunemente accettata dai suoi commentatori medievali, almeno nel XIII secolo (proprio sui paradossi derivanti dal concetto di infinito si era basata la confutazione dell'eternità del mondo da parte di Bonaventura). Le caratteristiche che Dante fornisce dell'aritmetica non sono prive di problemi. L'affermazione che essa dà lume"" a tutte le altre scienze potrebbe sembrare moderna, ma non prefigura affatto né Galileo né Cartesio. E' solo un omaggio al versetto 21 di <i>Sap</i> 11, in cui si dice che Dio ""omnia disposuit numero, pondere et mensura"", testo giustificativo di tutti coloro che nei singoli numeri volevano trovare proprietà insite nella struttura del cosmo. I pochi  tentativi  medievali di matematizzare realmente l'universo (Roberto Grossatesta, Ruggero Bacone) avevano preso a modello l'espansione della luce e si erano rivolti piuttosto alla geometria ed all'ottica. In ogni modo presentare per ben due volte l'infinito incomprensibile come 'propietade' dell'aritmetica non depone a favore della sua capacità di ""illuminare"".","Phys. I 4, 187 b 7",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
NON POTEMO NOI INTENDERE,"che il numero sia infinito nel senso che ad ogni numero determinato preso grande a piacere è sempre possibile aggiungere una unità e che, per questa sua indeterminazione, sfugga alla comprensione umana era dottrina ricavata da Aristotele (cfr. <i>Phys</i>. I 4, 187 b 7) e comunemente accettata dai suoi commentatori medievali, almeno nel XIII secolo (proprio sui paradossi derivanti dal concetto di infinito si era basata la confutazione dell'eternità del mondo da parte di Bonaventura). Le caratteristiche che Dante fornisce dell'aritmetica non sono prive di problemi. L'affermazione che essa dà lume"" a tutte le altre scienze potrebbe sembrare moderna, ma non prefigura affatto né Galileo né Cartesio. E' solo un omaggio al versetto 21 di <i>Sap</i> 11, in cui si dice che Dio ""omnia disposuit numero, pondere et mensura"", testo giustificativo di tutti coloro che nei singoli numeri volevano trovare proprietà insite nella struttura del cosmo. I pochi  tentativi  medievali di matematizzare realmente l'universo (Roberto Grossatesta, Ruggero Bacone) avevano preso a modello l'espansione della luce e si erano rivolti piuttosto alla geometria ed all'ottica. In ogni modo presentare per ben due volte l'infinito incomprensibile come 'propietade' dell'aritmetica non depone a favore della sua capacità di ""illuminare"".","versetto 21 di Sap 11 ""omnia disposuit numero, pondere et mensura""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Wisdom,Sapienza,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
L'ALTRA SI È ...,"Dante presenta come seconda proprietà di Marte quella  di disseccare e bruciare, secondo quanto detto nel <i>Quadripartito</i>, l'opera astrologica dell'astronomo Tolomeo (Mars proprie desiccat et per vim sue nature comburit"" tr. I, cap. 4,  f. 9va ) e di questo è segno il suo colore infuocato (""pare affocato di calore""). Ma, nel parallelismo con la musica, quello che conta è la capacità di attirare a sé i vapori atmosferici, quei vapori che, seguendo l'astro, lo fanno apparire più o meno rosso a seconda della loro maggiore o minore densità (""spessezza e raritade"". Alla capacità attrattiva di Marte riguardo ai  vapori si fa riferimento nella profezia di Vanni Fucci in <i>If</i> XXIV, 145 ""Tragge Marte vapori in Val di Magra"". Che la presenza dei vapori nell'aria provochi mutamenti nella percezione del colore dell'oggetto verrà detto in maniera più articolata in Cv III ix 12). Nel primo libro dei <i>Meteorologici</i> (""Metaura"" è la forma volgare del titolo <i>Metheora</i>, ma a volte anche <i>Methaura</i>, dato dalle traduzioni latine all'opera aristotelica. Si tratta non di un femminile singolare, ma di un neutro plurale) Aristotele indaga sulle comete e su altri fenomeni luminosi che appaiono nella parte superiore dell'atmosfera. Nella sua parafrasi Alberto Magno ne individua la natura e l'origine in vapori terrestri secchi che salgono fino al concavo della sfera del fuoco, lì si infiammano per autocombustione (""per lor medesimi"") e secondo Al-Farghani si muovono seguendo il moto delle stelle. Ma il commentatore latino sembra preferire la precisazione di un altro astronomo-astrologo arabo, Albumasar, secondo cui tutti quei vapori, in quanto infuocati, sono della stessa natura di Marte e sono da lui causati ed attratti  quando la stella è più forte nel produrre i suoi  effetti, quando in linguaggio astrologico è ""dominante"" (""sono effetti della segnoria di Marte""). Il testo del <i>Convivio</i> dipende dunque in toto da Alberto (<i>Meteora</i> I  tr. 3, cap. 5 ; tr. 4,  cap. 9,  pp. 28-29; 39-40). Questo vale anche per l'accenno alla morte dei re annunciata, secondo Albumasar, da questi fenomeni atmosferici  (""Vult tamen Albumasar quod etiam ista aliquando mortem regis et principum significant"").","Mars proprie desiccat et per vim sue nature comburit"" tr. I, cap. 4,  f. 9va""",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Quadripartito,Quadripartito,Tolomeo,http://dbpedia.org/resource/Ptolemy,http://purl.org/bncf/tid/7996,WORK
L'ALTRA SI È ...,"Dante presenta come seconda proprietà di Marte quella  di disseccare e bruciare, secondo quanto detto nel <i>Quadripartito</i>, l'opera astrologica dell'astronomo Tolomeo (Mars proprie desiccat et per vim sue nature comburit"" tr. I, cap. 4,  f. 9va ) e di questo è segno il suo colore infuocato (""pare affocato di calore""). Ma, nel parallelismo con la musica, quello che conta è la capacità di attirare a sé i vapori atmosferici, quei vapori che, seguendo l'astro, lo fanno apparire più o meno rosso a seconda della loro maggiore o minore densità (""spessezza e raritade"". Alla capacità attrattiva di Marte riguardo ai  vapori si fa riferimento nella profezia di Vanni Fucci in <i>If</i> XXIV, 145 ""Tragge Marte vapori in Val di Magra"". Che la presenza dei vapori nell'aria provochi mutamenti nella percezione del colore dell'oggetto verrà detto in maniera più articolata in Cv III ix 12). Nel primo libro dei <i>Meteorologici</i> (""Metaura"" è la forma volgare del titolo <i>Metheora</i>, ma a volte anche <i>Methaura</i>, dato dalle traduzioni latine all'opera aristotelica. Si tratta non di un femminile singolare, ma di un neutro plurale) Aristotele indaga sulle comete e su altri fenomeni luminosi che appaiono nella parte superiore dell'atmosfera. Nella sua parafrasi Alberto Magno ne individua la natura e l'origine in vapori terrestri secchi che salgono fino al concavo della sfera del fuoco, lì si infiammano per autocombustione (""per lor medesimi"") e secondo Al-Farghani si muovono seguendo il moto delle stelle. Ma il commentatore latino sembra preferire la precisazione di un altro astronomo-astrologo arabo, Albumasar, secondo cui tutti quei vapori, in quanto infuocati, sono della stessa natura di Marte e sono da lui causati ed attratti  quando la stella è più forte nel produrre i suoi  effetti, quando in linguaggio astrologico è ""dominante"" (""sono effetti della segnoria di Marte""). Il testo del <i>Convivio</i> dipende dunque in toto da Alberto (<i>Meteora</i> I  tr. 3, cap. 5 ; tr. 4,  cap. 9,  pp. 28-29; 39-40). Questo vale anche per l'accenno alla morte dei re annunciata, secondo Albumasar, da questi fenomeni atmosferici  (""Vult tamen Albumasar quod etiam ista aliquando mortem regis et principum significant"").",primo libro,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Meteorology_(Aristotle),Meteorologica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
L'ALTRA SI È ...,"Dante presenta come seconda proprietà di Marte quella  di disseccare e bruciare, secondo quanto detto nel <i>Quadripartito</i>, l'opera astrologica dell'astronomo Tolomeo (Mars proprie desiccat et per vim sue nature comburit"" tr. I, cap. 4,  f. 9va ) e di questo è segno il suo colore infuocato (""pare affocato di calore""). Ma, nel parallelismo con la musica, quello che conta è la capacità di attirare a sé i vapori atmosferici, quei vapori che, seguendo l'astro, lo fanno apparire più o meno rosso a seconda della loro maggiore o minore densità (""spessezza e raritade"". Alla capacità attrattiva di Marte riguardo ai  vapori si fa riferimento nella profezia di Vanni Fucci in <i>If</i> XXIV, 145 ""Tragge Marte vapori in Val di Magra"". Che la presenza dei vapori nell'aria provochi mutamenti nella percezione del colore dell'oggetto verrà detto in maniera più articolata in Cv III ix 12). Nel primo libro dei <i>Meteorologici</i> (""Metaura"" è la forma volgare del titolo <i>Metheora</i>, ma a volte anche <i>Methaura</i>, dato dalle traduzioni latine all'opera aristotelica. Si tratta non di un femminile singolare, ma di un neutro plurale) Aristotele indaga sulle comete e su altri fenomeni luminosi che appaiono nella parte superiore dell'atmosfera. Nella sua parafrasi Alberto Magno ne individua la natura e l'origine in vapori terrestri secchi che salgono fino al concavo della sfera del fuoco, lì si infiammano per autocombustione (""per lor medesimi"") e secondo Al-Farghani si muovono seguendo il moto delle stelle. Ma il commentatore latino sembra preferire la precisazione di un altro astronomo-astrologo arabo, Albumasar, secondo cui tutti quei vapori, in quanto infuocati, sono della stessa natura di Marte e sono da lui causati ed attratti  quando la stella è più forte nel produrre i suoi  effetti, quando in linguaggio astrologico è ""dominante"" (""sono effetti della segnoria di Marte""). Il testo del <i>Convivio</i> dipende dunque in toto da Alberto (<i>Meteora</i> I  tr. 3, cap. 5 ; tr. 4,  cap. 9,  pp. 28-29; 39-40). Questo vale anche per l'accenno alla morte dei re annunciata, secondo Albumasar, da questi fenomeni atmosferici  (""Vult tamen Albumasar quod etiam ista aliquando mortem regis et principum significant"").","I  tr. 3, cap. 5,  pp. 28-29",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Meteororum(Alberto_Magno),Meteororum,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
L'ALTRA SI È ...,"Dante presenta come seconda proprietà di Marte quella  di disseccare e bruciare, secondo quanto detto nel <i>Quadripartito</i>, l'opera astrologica dell'astronomo Tolomeo (Mars proprie desiccat et per vim sue nature comburit"" tr. I, cap. 4,  f. 9va ) e di questo è segno il suo colore infuocato (""pare affocato di calore""). Ma, nel parallelismo con la musica, quello che conta è la capacità di attirare a sé i vapori atmosferici, quei vapori che, seguendo l'astro, lo fanno apparire più o meno rosso a seconda della loro maggiore o minore densità (""spessezza e raritade"". Alla capacità attrattiva di Marte riguardo ai  vapori si fa riferimento nella profezia di Vanni Fucci in <i>If</i> XXIV, 145 ""Tragge Marte vapori in Val di Magra"". Che la presenza dei vapori nell'aria provochi mutamenti nella percezione del colore dell'oggetto verrà detto in maniera più articolata in Cv III ix 12). Nel primo libro dei <i>Meteorologici</i> (""Metaura"" è la forma volgare del titolo <i>Metheora</i>, ma a volte anche <i>Methaura</i>, dato dalle traduzioni latine all'opera aristotelica. Si tratta non di un femminile singolare, ma di un neutro plurale) Aristotele indaga sulle comete e su altri fenomeni luminosi che appaiono nella parte superiore dell'atmosfera. Nella sua parafrasi Alberto Magno ne individua la natura e l'origine in vapori terrestri secchi che salgono fino al concavo della sfera del fuoco, lì si infiammano per autocombustione (""per lor medesimi"") e secondo Al-Farghani si muovono seguendo il moto delle stelle. Ma il commentatore latino sembra preferire la precisazione di un altro astronomo-astrologo arabo, Albumasar, secondo cui tutti quei vapori, in quanto infuocati, sono della stessa natura di Marte e sono da lui causati ed attratti  quando la stella è più forte nel produrre i suoi  effetti, quando in linguaggio astrologico è ""dominante"" (""sono effetti della segnoria di Marte""). Il testo del <i>Convivio</i> dipende dunque in toto da Alberto (<i>Meteora</i> I  tr. 3, cap. 5 ; tr. 4,  cap. 9,  pp. 28-29; 39-40). Questo vale anche per l'accenno alla morte dei re annunciata, secondo Albumasar, da questi fenomeni atmosferici  (""Vult tamen Albumasar quod etiam ista aliquando mortem regis et principum significant"").","tr. 4,  cap. 9, pp 39-40",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Meteororum(Alberto_Magno),Meteororum,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
E SENECA DICE PERÒ,"Seneca perciò dice. La citazione non è diretta, ma ancora una volta attinta dalla parafrasi di Alberto ai <i>Meteorologici</i> (I, tr. 4  cap. 9, p. 40, ll. 10-11) Unde Seneca dicit quod circa excessum divi Augusti vidit speciem pileae igneae"" Il brano di Seneca relativo a questo <i>prodigium</i> è in <i>Quaestiones Naturales</i> I i 2-3  (cfr. Toynbee, pp. 39-40)","I, tr. 4  cap. 9, p. 40",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Meteororum(Alberto_Magno),Meteororum,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
E SENECA DICE PERÒ,"Seneca perciò dice. La citazione non è diretta, ma ancora una volta attinta dalla parafrasi di Alberto ai <i>Meteorologici</i> (I, tr. 4  cap. 9, p. 40, ll. 10-11) Unde Seneca dicit quod circa excessum divi Augusti vidit speciem pileae igneae"" Il brano di Seneca relativo a questo <i>prodigium</i> è in <i>Quaestiones Naturales</i> I i 2-3  (cfr. Toynbee, pp. 39-40)",ll. 10-11,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Meteororum(Alberto_Magno),Meteororum,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
E SENECA DICE PERÒ,"Seneca perciò dice. La citazione non è diretta, ma ancora una volta attinta dalla parafrasi di Alberto ai <i>Meteorologici</i> (I, tr. 4  cap. 9, p. 40, ll. 10-11) Unde Seneca dicit quod circa excessum divi Augusti vidit speciem pileae igneae"" Il brano di Seneca relativo a questo <i>prodigium</i> è in <i>Quaestiones Naturales</i> I i 2-3  (cfr. Toynbee, pp. 39-40)","I i 2-3  (cfr. Toynbee, pp. 39-40)",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Quaestiones_Naturales,Quaestiones Naturales,Seneca,http://dbpedia.org/resource/Seneca_the_Younger,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
E IN FIORENZA ...,"il principio della  destruzione"" non può essere per Dante altro che il ""trasmutamento"" avvenuto con l'entrata di Carlo di Valois e la sconfitta dei Bianchi (da osservare che il ""trasmutamento di regni"" è un'aggiunta di Dante non presente nel testo di Alberto). L'apparizione nel cielo notturno di Firenze di una croce infuocata  pochi giorni dopo l'entrata in città di Carlo (inizi del novembre 1301) è raccontata  nella sua <i>Cronica</i> (II xix 85, p. 67 ) da un altro degli sconfitti, Dino Compagni. Anch'egli la interpreta ovviamente come presagio negativo, segno dell'ira divina contro Firenze.","II xix 85, p. 67",CONCORDANZA STRINGENTE,http://it.dbpedia.org/resource/Cronica_delle_cose_occorrenti_ne_tempi_suoi,Cronica delle cose occorrenti ne' tempi suoi,Dino Compagni,http://dbpedia.org/resource/Dino_Compagni,http://purl.org/bncf/tid/9645,WORK
LO ALLEGATO LIBRO,"si tratta del <i>Quadripartito</i> di Tolomeo, già citato nel paragrafo precedente, che Dante traduce quasi alla lettera (cfr. tr. I, cap. 4:  Jovis autem virtutis opus est complexionis temperate et locus sui motus est medianus inter frigiditatem Saturni et calorem Martis"", f. 9 rb).","cfr. tr. I, cap. 4:  Jovis autem virtutis opus est complexionis temperate et locus sui motus est medianus inter frigiditatem Saturni et calorem Martis"", f. 9 rb""",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Quadripartito,Quadripartito,Tolomeo,http://dbpedia.org/resource/Ptolemy,http://purl.org/bncf/tid/7996,WORK
E QUESTE [DUE] COSE SONO NELLA SCIENZA DELLA GEOMETRIA,"come Giove si muove trovandosi delimitato da due orbite che gli sono contrarie per qualità la Geometria argomenta (metaforicamente si muove"") avendo come termini  in basso (""principio"") e in alto  (""fine"") due entità che vanno contro la sua natura (""repugnanti ad essa""). Si tratta del punto e del cerchio (""sì come il punto e il cerchio""), intendendo per cerchio in senso lato (""largamente"") ogni corpo rotondo, sia bidimensionale (""superficie"") che tridimensionale (""corpo"", cioè sfera). La definizione di punto apre infatti gli <i>Elementi</i> di Euclide, il testo base della Geometria per il tardo medioevo (""il principio di quella"") ed i problemi relativi alla iscrizione di solidi nella sfera li chiudono. Che il cerchio e la sfera siano figure perfettissime è  piuttosto dottrina aristotelica (cfr. <i>De caelo</i>  II 4, 283 a 23-26; 286 b 13-25) e di Agostino (<i>De quantitate animae</i> xi 17, p. 151). Ovviamente ciò che è perfetto è fine non solo come limite, ma soprattutto come perfezione a cui si tende (""conviene però avere ragione di fine""). Punto e cerchio contrastano con la esattezza caratteristica della Geometria , il primo perché, essendo indivisibile, sfugge alla misura e quindi alla comprensione (""per la sua indivisibilità è immensurabile""), il secondo perché non è mai riducibile geometricamente ad un quadrato equivalente (""è impossibile a quadrare perfettamente""). Infatti, per quanto si aumenti il numero dei lati di un poligono inscritto ad un cerchio dato, tra qualsiasi coppia di angoli contigui i cui vertici toccano due punti della circonferenza si avrà sempre una corda cui corrisponderà un arco di cerchio non pienamente riducibile a segmento di linea retta (""per lo suo arco è impossibile misurare""). Lo stesso avverrebbe per un poligono circoscritto (in questo caso i punti di contatto con la circonferenza non sono i vertici degli angoli, ma i punti medi dei lati). La quadratura del cerchio risulta dunque un processo di approssimazione all'infinito e come tale non misurabile e non padroneggiabile da parte dell'intelletto. Il testo di Dante risulta pienamente comprensibile tramite il Commento di Tommaso al passo di <i>Phys</i>. I 2, 185 a 14-17 dove Aristotele accenna appunto alla quadratura del cerchio (cfr. <i>lectio</i> 2, n. 18 ""Voluit enim quidam invenire aequale circulo dividendo circumferentiam circuli in multas partes et singulis partibus supponendo lineas rectas et sic ... aestimabat se invenisse figuram rectilineam aequalem toti circulo, cui facile erat invenire quadratum aequale ... Sed non sufficienter argumentabatur quia, licet illae decisiones consumerent totam circumferentiam circuli, non tamen figurae contentae a decisione circumferentiae et lineis rectis comprehendebant totam superficiem circuli"").","II 4, 283 a 23-26",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_caelo,De caelo,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
E QUESTE [DUE] COSE SONO NELLA SCIENZA DELLA GEOMETRIA,"come Giove si muove trovandosi delimitato da due orbite che gli sono contrarie per qualità la Geometria argomenta (metaforicamente si muove"") avendo come termini  in basso (""principio"") e in alto  (""fine"") due entità che vanno contro la sua natura (""repugnanti ad essa""). Si tratta del punto e del cerchio (""sì come il punto e il cerchio""), intendendo per cerchio in senso lato (""largamente"") ogni corpo rotondo, sia bidimensionale (""superficie"") che tridimensionale (""corpo"", cioè sfera). La definizione di punto apre infatti gli <i>Elementi</i> di Euclide, il testo base della Geometria per il tardo medioevo (""il principio di quella"") ed i problemi relativi alla iscrizione di solidi nella sfera li chiudono. Che il cerchio e la sfera siano figure perfettissime è  piuttosto dottrina aristotelica (cfr. <i>De caelo</i>  II 4, 283 a 23-26; 286 b 13-25) e di Agostino (<i>De quantitate animae</i> xi 17, p. 151). Ovviamente ciò che è perfetto è fine non solo come limite, ma soprattutto come perfezione a cui si tende (""conviene però avere ragione di fine""). Punto e cerchio contrastano con la esattezza caratteristica della Geometria , il primo perché, essendo indivisibile, sfugge alla misura e quindi alla comprensione (""per la sua indivisibilità è immensurabile""), il secondo perché non è mai riducibile geometricamente ad un quadrato equivalente (""è impossibile a quadrare perfettamente""). Infatti, per quanto si aumenti il numero dei lati di un poligono inscritto ad un cerchio dato, tra qualsiasi coppia di angoli contigui i cui vertici toccano due punti della circonferenza si avrà sempre una corda cui corrisponderà un arco di cerchio non pienamente riducibile a segmento di linea retta (""per lo suo arco è impossibile misurare""). Lo stesso avverrebbe per un poligono circoscritto (in questo caso i punti di contatto con la circonferenza non sono i vertici degli angoli, ma i punti medi dei lati). La quadratura del cerchio risulta dunque un processo di approssimazione all'infinito e come tale non misurabile e non padroneggiabile da parte dell'intelletto. Il testo di Dante risulta pienamente comprensibile tramite il Commento di Tommaso al passo di <i>Phys</i>. I 2, 185 a 14-17 dove Aristotele accenna appunto alla quadratura del cerchio (cfr. <i>lectio</i> 2, n. 18 ""Voluit enim quidam invenire aequale circulo dividendo circumferentiam circuli in multas partes et singulis partibus supponendo lineas rectas et sic ... aestimabat se invenisse figuram rectilineam aequalem toti circulo, cui facile erat invenire quadratum aequale ... Sed non sufficienter argumentabatur quia, licet illae decisiones consumerent totam circumferentiam circuli, non tamen figurae contentae a decisione circumferentiae et lineis rectis comprehendebant totam superficiem circuli"").","II 4, 286 b 13-25",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_caelo,De caelo,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
E QUESTE [DUE] COSE SONO NELLA SCIENZA DELLA GEOMETRIA,"come Giove si muove trovandosi delimitato da due orbite che gli sono contrarie per qualità la Geometria argomenta (metaforicamente si muove"") avendo come termini  in basso (""principio"") e in alto  (""fine"") due entità che vanno contro la sua natura (""repugnanti ad essa""). Si tratta del punto e del cerchio (""sì come il punto e il cerchio""), intendendo per cerchio in senso lato (""largamente"") ogni corpo rotondo, sia bidimensionale (""superficie"") che tridimensionale (""corpo"", cioè sfera). La definizione di punto apre infatti gli <i>Elementi</i> di Euclide, il testo base della Geometria per il tardo medioevo (""il principio di quella"") ed i problemi relativi alla iscrizione di solidi nella sfera li chiudono. Che il cerchio e la sfera siano figure perfettissime è  piuttosto dottrina aristotelica (cfr. <i>De caelo</i>  II 4, 283 a 23-26; 286 b 13-25) e di Agostino (<i>De quantitate animae</i> xi 17, p. 151). Ovviamente ciò che è perfetto è fine non solo come limite, ma soprattutto come perfezione a cui si tende (""conviene però avere ragione di fine""). Punto e cerchio contrastano con la esattezza caratteristica della Geometria , il primo perché, essendo indivisibile, sfugge alla misura e quindi alla comprensione (""per la sua indivisibilità è immensurabile""), il secondo perché non è mai riducibile geometricamente ad un quadrato equivalente (""è impossibile a quadrare perfettamente""). Infatti, per quanto si aumenti il numero dei lati di un poligono inscritto ad un cerchio dato, tra qualsiasi coppia di angoli contigui i cui vertici toccano due punti della circonferenza si avrà sempre una corda cui corrisponderà un arco di cerchio non pienamente riducibile a segmento di linea retta (""per lo suo arco è impossibile misurare""). Lo stesso avverrebbe per un poligono circoscritto (in questo caso i punti di contatto con la circonferenza non sono i vertici degli angoli, ma i punti medi dei lati). La quadratura del cerchio risulta dunque un processo di approssimazione all'infinito e come tale non misurabile e non padroneggiabile da parte dell'intelletto. Il testo di Dante risulta pienamente comprensibile tramite il Commento di Tommaso al passo di <i>Phys</i>. I 2, 185 a 14-17 dove Aristotele accenna appunto alla quadratura del cerchio (cfr. <i>lectio</i> 2, n. 18 ""Voluit enim quidam invenire aequale circulo dividendo circumferentiam circuli in multas partes et singulis partibus supponendo lineas rectas et sic ... aestimabat se invenisse figuram rectilineam aequalem toti circulo, cui facile erat invenire quadratum aequale ... Sed non sufficienter argumentabatur quia, licet illae decisiones consumerent totam circumferentiam circuli, non tamen figurae contentae a decisione circumferentiae et lineis rectis comprehendebant totam superficiem circuli"").","xi 17, p. 151",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_quantitate_animae,De quantitate animae,Agostino,http://dbpedia.org/resource/Augustine_of_Hippo,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
E QUESTE [DUE] COSE SONO NELLA SCIENZA DELLA GEOMETRIA,"come Giove si muove trovandosi delimitato da due orbite che gli sono contrarie per qualità la Geometria argomenta (metaforicamente si muove"") avendo come termini  in basso (""principio"") e in alto  (""fine"") due entità che vanno contro la sua natura (""repugnanti ad essa""). Si tratta del punto e del cerchio (""sì come il punto e il cerchio""), intendendo per cerchio in senso lato (""largamente"") ogni corpo rotondo, sia bidimensionale (""superficie"") che tridimensionale (""corpo"", cioè sfera). La definizione di punto apre infatti gli <i>Elementi</i> di Euclide, il testo base della Geometria per il tardo medioevo (""il principio di quella"") ed i problemi relativi alla iscrizione di solidi nella sfera li chiudono. Che il cerchio e la sfera siano figure perfettissime è  piuttosto dottrina aristotelica (cfr. <i>De caelo</i>  II 4, 283 a 23-26; 286 b 13-25) e di Agostino (<i>De quantitate animae</i> xi 17, p. 151). Ovviamente ciò che è perfetto è fine non solo come limite, ma soprattutto come perfezione a cui si tende (""conviene però avere ragione di fine""). Punto e cerchio contrastano con la esattezza caratteristica della Geometria , il primo perché, essendo indivisibile, sfugge alla misura e quindi alla comprensione (""per la sua indivisibilità è immensurabile""), il secondo perché non è mai riducibile geometricamente ad un quadrato equivalente (""è impossibile a quadrare perfettamente""). Infatti, per quanto si aumenti il numero dei lati di un poligono inscritto ad un cerchio dato, tra qualsiasi coppia di angoli contigui i cui vertici toccano due punti della circonferenza si avrà sempre una corda cui corrisponderà un arco di cerchio non pienamente riducibile a segmento di linea retta (""per lo suo arco è impossibile misurare""). Lo stesso avverrebbe per un poligono circoscritto (in questo caso i punti di contatto con la circonferenza non sono i vertici degli angoli, ma i punti medi dei lati). La quadratura del cerchio risulta dunque un processo di approssimazione all'infinito e come tale non misurabile e non padroneggiabile da parte dell'intelletto. Il testo di Dante risulta pienamente comprensibile tramite il Commento di Tommaso al passo di <i>Phys</i>. I 2, 185 a 14-17 dove Aristotele accenna appunto alla quadratura del cerchio (cfr. <i>lectio</i> 2, n. 18 ""Voluit enim quidam invenire aequale circulo dividendo circumferentiam circuli in multas partes et singulis partibus supponendo lineas rectas et sic ... aestimabat se invenisse figuram rectilineam aequalem toti circulo, cui facile erat invenire quadratum aequale ... Sed non sufficienter argumentabatur quia, licet illae decisiones consumerent totam circumferentiam circuli, non tamen figurae contentae a decisione circumferentiae et lineis rectis comprehendebant totam superficiem circuli"").","lectio 2, n. 18 ""Voluit enim quidam invenire aequale circulo dividendo circumferentiam circuli in multas partes et singulis partibus supponendo lineas rectas et sic ... aestimabat se invenisse figuram rectilineam aequalem toti circulo, cui facile erat invenire quadratum aequale ... Sed non sufficienter argumentabatur quia, licet illae decisiones consumerent totam circumferentiam circuli, non tamen figurae contentae a decisione circumferentiae et lineis rectis comprehendebant totam superficiem circuli""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commentaria_in_octo_libros_Physicorum(Tommaso),Commentaria in octo libros Physicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
E QUESTE [DUE] COSE SONO NELLA SCIENZA DELLA GEOMETRIA,"come Giove si muove trovandosi delimitato da due orbite che gli sono contrarie per qualità la Geometria argomenta (metaforicamente si muove"") avendo come termini  in basso (""principio"") e in alto  (""fine"") due entità che vanno contro la sua natura (""repugnanti ad essa""). Si tratta del punto e del cerchio (""sì come il punto e il cerchio""), intendendo per cerchio in senso lato (""largamente"") ogni corpo rotondo, sia bidimensionale (""superficie"") che tridimensionale (""corpo"", cioè sfera). La definizione di punto apre infatti gli <i>Elementi</i> di Euclide, il testo base della Geometria per il tardo medioevo (""il principio di quella"") ed i problemi relativi alla iscrizione di solidi nella sfera li chiudono. Che il cerchio e la sfera siano figure perfettissime è  piuttosto dottrina aristotelica (cfr. <i>De caelo</i>  II 4, 283 a 23-26; 286 b 13-25) e di Agostino (<i>De quantitate animae</i> xi 17, p. 151). Ovviamente ciò che è perfetto è fine non solo come limite, ma soprattutto come perfezione a cui si tende (""conviene però avere ragione di fine""). Punto e cerchio contrastano con la esattezza caratteristica della Geometria , il primo perché, essendo indivisibile, sfugge alla misura e quindi alla comprensione (""per la sua indivisibilità è immensurabile""), il secondo perché non è mai riducibile geometricamente ad un quadrato equivalente (""è impossibile a quadrare perfettamente""). Infatti, per quanto si aumenti il numero dei lati di un poligono inscritto ad un cerchio dato, tra qualsiasi coppia di angoli contigui i cui vertici toccano due punti della circonferenza si avrà sempre una corda cui corrisponderà un arco di cerchio non pienamente riducibile a segmento di linea retta (""per lo suo arco è impossibile misurare""). Lo stesso avverrebbe per un poligono circoscritto (in questo caso i punti di contatto con la circonferenza non sono i vertici degli angoli, ma i punti medi dei lati). La quadratura del cerchio risulta dunque un processo di approssimazione all'infinito e come tale non misurabile e non padroneggiabile da parte dell'intelletto. Il testo di Dante risulta pienamente comprensibile tramite il Commento di Tommaso al passo di <i>Phys</i>. I 2, 185 a 14-17 dove Aristotele accenna appunto alla quadratura del cerchio (cfr. <i>lectio</i> 2, n. 18 ""Voluit enim quidam invenire aequale circulo dividendo circumferentiam circuli in multas partes et singulis partibus supponendo lineas rectas et sic ... aestimabat se invenisse figuram rectilineam aequalem toti circulo, cui facile erat invenire quadratum aequale ... Sed non sufficienter argumentabatur quia, licet illae decisiones consumerent totam circumferentiam circuli, non tamen figurae contentae a decisione circumferentiae et lineis rectis comprehendebant totam superficiem circuli"").","I 2, 185 a 14-17",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
E QUESTE [DUE] COSE SONO NELLA SCIENZA DELLA GEOMETRIA,"come Giove si muove trovandosi delimitato da due orbite che gli sono contrarie per qualità la Geometria argomenta (metaforicamente si muove"") avendo come termini  in basso (""principio"") e in alto  (""fine"") due entità che vanno contro la sua natura (""repugnanti ad essa""). Si tratta del punto e del cerchio (""sì come il punto e il cerchio""), intendendo per cerchio in senso lato (""largamente"") ogni corpo rotondo, sia bidimensionale (""superficie"") che tridimensionale (""corpo"", cioè sfera). La definizione di punto apre infatti gli <i>Elementi</i> di Euclide, il testo base della Geometria per il tardo medioevo (""il principio di quella"") ed i problemi relativi alla iscrizione di solidi nella sfera li chiudono. Che il cerchio e la sfera siano figure perfettissime è  piuttosto dottrina aristotelica (cfr. <i>De caelo</i>  II 4, 283 a 23-26; 286 b 13-25) e di Agostino (<i>De quantitate animae</i> xi 17, p. 151). Ovviamente ciò che è perfetto è fine non solo come limite, ma soprattutto come perfezione a cui si tende (""conviene però avere ragione di fine""). Punto e cerchio contrastano con la esattezza caratteristica della Geometria , il primo perché, essendo indivisibile, sfugge alla misura e quindi alla comprensione (""per la sua indivisibilità è immensurabile""), il secondo perché non è mai riducibile geometricamente ad un quadrato equivalente (""è impossibile a quadrare perfettamente""). Infatti, per quanto si aumenti il numero dei lati di un poligono inscritto ad un cerchio dato, tra qualsiasi coppia di angoli contigui i cui vertici toccano due punti della circonferenza si avrà sempre una corda cui corrisponderà un arco di cerchio non pienamente riducibile a segmento di linea retta (""per lo suo arco è impossibile misurare""). Lo stesso avverrebbe per un poligono circoscritto (in questo caso i punti di contatto con la circonferenza non sono i vertici degli angoli, ma i punti medi dei lati). La quadratura del cerchio risulta dunque un processo di approssimazione all'infinito e come tale non misurabile e non padroneggiabile da parte dell'intelletto. Il testo di Dante risulta pienamente comprensibile tramite il Commento di Tommaso al passo di <i>Phys</i>. I 2, 185 a 14-17 dove Aristotele accenna appunto alla quadratura del cerchio (cfr. <i>lectio</i> 2, n. 18 ""Voluit enim quidam invenire aequale circulo dividendo circumferentiam circuli in multas partes et singulis partibus supponendo lineas rectas et sic ... aestimabat se invenisse figuram rectilineam aequalem toti circulo, cui facile erat invenire quadratum aequale ... Sed non sufficienter argumentabatur quia, licet illae decisiones consumerent totam circumferentiam circuli, non tamen figurae contentae a decisione circumferentiae et lineis rectis comprehendebant totam superficiem circuli"").",,CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Elementi,Elementi,Euclide,http://dbpedia.org/resource/Euclid,http://purl.org/bncf/tid/2600,WORK
SECONDO LE SCRITTURE DELLI ASTROLOGI,"ancora una volta la fonte di Dante è  il <i>Liber aggregationis</i> di Alfragano  (cap. XV, p. 131. Cfr. Toynbee, p. 67).","cap. XV, p. 131. Cfr. Toynbee, p. 67",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Liber_aggregationis,Liber aggregationis,Alfragano,http://dbpedia.org/resource/Ahmad_ibn_Muhammad_ibn_Kath%C4%ABr_al-Fargh%C4%81n%C4%AB,http://purl.org/bncf/tid/7996,WORK
NEGLIGENZA NOSTRA,"mancanza di accuratezza nel dimostrare o nell'osservare' .Cfr. <i>Quadripartito</i> tr. 1, cap.1, f. 3vb Illi qui eiciunt hanc scientiam... dant rationes, sed non sunt recte. ...  Prima ratio in qua erraverunt in hoc est quod non inspexerunt in hac scientia, nec multi studuerunt in ea sicut debebant, quoniam est grandis valde et multarum viarum ... et error quo errant aliqui in hac scientia non est ex artis debilitate, sed eius qui se intromittit de ea"". Probabilmente Dante ha presente il Commento di Ali ibn Ridwan, che parla proprio di <i>negligentia</i>: ""Ptolomeus destruit rationem illorum ... dicens quod error quod accidit aliquibus astrologis non est ex debilitate artis, sed ex pigritia et <i>negligentia</i> aliquorum qui se intromittunt de ea""  (ivi, f. 4ra)","tr. 1, cap.1, f. 3vb Illi qui eiciunt hanc scientiam... dant rationes, sed non sunt recte. ...  Prima ratio in qua erraverunt in hoc est quod non inspexerunt in hac scientia, nec multi studuerunt in ea sicut debebant, quoniam est grandis valde et multarum viarum ... et error quo errant aliqui in hac scientia non est ex artis debilitate, sed eius qui se intromittit de ea""  (ivi, f. 4ra)""",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Quadripartito,Quadripartito,Tolomeo,http://dbpedia.org/resource/Ptolemy,http://purl.org/bncf/tid/7996,WORK
LO VULGO,"la gente comune, non istruita'. Cfr. le <i>Derivationes</i> di Uguccione da Pisa, s. v. <i>Gala</i>,  G 14, 19, p. 506) Et per compositionem a <i>gala</i> et <i>xios</i>, quod est circulus dicitur hic galaxios, vel <i>galaxia</i>, id est lacteus circulus qui vulgo dicitur via Sancti Jacobi"" La tradizione popolare trovava in qualche modo una giustificazione in Uguccione stesso che aveva collegato i termini <i>galaxia</i>  e <i>Galitia</i> tramite la radice comune <i>Gala</i> (G 14, 4). Ora la ""via di Sa' Jacopo"" è il Cammino di Santiago, l'itinerario del celebre pellegrinaggio alla tomba dell'apostolo, Giacomo il Maggiore, il ""baron di Galizia"", appunto.","s. v. Gala,  G 14, 19, p. 506) Et per compositionem a gala et xios, quod est circulus dicitur hic galaxios, vel galaxia, id est lacteus circulus qui vulgo dicitur via Sancti Jacobi",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Derivationes_Magnae,Derivationes Magnae,Uguccione da Pisa,http://dbpedia.org/resource/Huguccio,http://purl.org/bncf/tid/9228,WORK
LI SAVI D'EGITTO ... MILLE VENTIDUE CORPORA DI STELLE PONGONO,"il testo di Dante dipende direttamente dal capitolo diciannovesimo del <i>Liber aggregationis</i>, pp. 139-140. Cfr. Toynbee, p. 69) Dicamus ergo quod sapientes probaverunt omnes stellas fixas quarum experientia per instrumenta fuit possibilis usque ad ultimum quod apparuit eis a parte meridiei in climate tertio ... Omnes igitur quae  consideratione sunt comprehensae sunt 1022 stellae"" (""che appare lor in meridie"": 'che hanno potuto vedere spingendosi a sud per quanto possibile'). Che questi savi fossero Egizi poteva essere dedotto dai testi in cui Aristotele ed i suoi commentatori sottolineavano come i sapienti di Egitto e di Babilonia avessero accumulato un patrimonio di osservazioni astronomiche (cfr. <i>De caelo</i>  II  12, 292 a 7 sgg. e la corrispondente parafrasi di Alberto Magno II tr. 3, cap. 13, p. 171, ll. 59-65).","capitolo diciannovesimo del Liber aggregationis, pp. 139-140. Cfr. Toynbee, p. 69 ""Dicamus ergo quod sapientes probaverunt omnes stellas fixas quarum experientia per instrumenta fuit possibilis usque ad ultimum quod apparuit eis a parte meridiei in climate tertio ... Omnes igitur quae  consideratione sunt comprehensae sunt 1022 stellae""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Liber_aggregationis,Liber aggregationis,Alfragano,http://dbpedia.org/resource/Ahmad_ibn_Muhammad_ibn_Kath%C4%ABr_al-Fargh%C4%81n%C4%AB,http://purl.org/bncf/tid/7996,WORK
LI SAVI D'EGITTO ... MILLE VENTIDUE CORPORA DI STELLE PONGONO,"il testo di Dante dipende direttamente dal capitolo diciannovesimo del <i>Liber aggregationis</i>, pp. 139-140. Cfr. Toynbee, p. 69) Dicamus ergo quod sapientes probaverunt omnes stellas fixas quarum experientia per instrumenta fuit possibilis usque ad ultimum quod apparuit eis a parte meridiei in climate tertio ... Omnes igitur quae  consideratione sunt comprehensae sunt 1022 stellae"" (""che appare lor in meridie"": 'che hanno potuto vedere spingendosi a sud per quanto possibile'). Che questi savi fossero Egizi poteva essere dedotto dai testi in cui Aristotele ed i suoi commentatori sottolineavano come i sapienti di Egitto e di Babilonia avessero accumulato un patrimonio di osservazioni astronomiche (cfr. <i>De caelo</i>  II  12, 292 a 7 sgg. e la corrispondente parafrasi di Alberto Magno II tr. 3, cap. 13, p. 171, ll. 59-65).","II  12, 292 a 7 sgg.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_caelo,De caelo,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
LI SAVI D'EGITTO ... MILLE VENTIDUE CORPORA DI STELLE PONGONO,"il testo di Dante dipende direttamente dal capitolo diciannovesimo del <i>Liber aggregationis</i>, pp. 139-140. Cfr. Toynbee, p. 69) Dicamus ergo quod sapientes probaverunt omnes stellas fixas quarum experientia per instrumenta fuit possibilis usque ad ultimum quod apparuit eis a parte meridiei in climate tertio ... Omnes igitur quae  consideratione sunt comprehensae sunt 1022 stellae"" (""che appare lor in meridie"": 'che hanno potuto vedere spingendosi a sud per quanto possibile'). Che questi savi fossero Egizi poteva essere dedotto dai testi in cui Aristotele ed i suoi commentatori sottolineavano come i sapienti di Egitto e di Babilonia avessero accumulato un patrimonio di osservazioni astronomiche (cfr. <i>De caelo</i>  II  12, 292 a 7 sgg. e la corrispondente parafrasi di Alberto Magno II tr. 3, cap. 13, p. 171, ll. 59-65).","II tr. 3, cap. 13, p. 171, ll. 59-65",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_Coelo_et_Mundo(Alberto_Magno),De coelo et mundo,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
SÌ COME NEL QUINTO DEL PRIMO SUO LIBRO È PROVATO,"non si tratta del capitolo quinto del primo libro della <i>Fisica</i> (dove non si parla delle diverse specie di movimento), ma proprio del libro quinto della <i>Fisica</i>, che qui viene indicata nel suo insieme come primo libro. Infatti, nelle classificazioni medievali i <i>Libri naturali</i> di Aristotele (e quindi la <i>Fisica</i> in senso lato)  comprendono diverse opere (<i>De caelo</i>, <i>De generatione</i>, <i>Meteorologica</i> etc.) di cui la <i>Fisica</i> in senso stretto (indicata a volte con il nome specifico di <i>Naturalis auscultatio</i>) è appunto il primo. Cfr. <i>Phys</i>.. V 1, 225 b 6-9; 2, 226 a 26-33).","V 1, 225 b 6-9",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SÌ COME NEL QUINTO DEL PRIMO SUO LIBRO È PROVATO,"non si tratta del capitolo quinto del primo libro della <i>Fisica</i> (dove non si parla delle diverse specie di movimento), ma proprio del libro quinto della <i>Fisica</i>, che qui viene indicata nel suo insieme come primo libro. Infatti, nelle classificazioni medievali i <i>Libri naturali</i> di Aristotele (e quindi la <i>Fisica</i> in senso lato)  comprendono diverse opere (<i>De caelo</i>, <i>De generatione</i>, <i>Meteorologica</i> etc.) di cui la <i>Fisica</i> in senso stretto (indicata a volte con il nome specifico di <i>Naturalis auscultatio</i>) è appunto il primo. Cfr. <i>Phys</i>.. V 1, 225 b 6-9; 2, 226 a 26-33).","V 2, 226 a 26-33",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
LI FILOSOFI HANNO AVUTE DIVERSE OPPINIONI,"la rassegna delle opinioni relative alla natura della Galassia pone qualche problema, aggravato dallo stato lacunoso del testo. Che i Pitagorici abbiano collegato la nascita della Via Lattea al mito della caduta di Fetonte (si mossero dalla favola di Fetonte""), conosciuto da Dante attraverso Ovidio <i>Metamorfosi</i> II  35 sgg, è detto nel cap. 8 del primo libro dei <i>Meteorologici</i>  (345 a 13-b 12). Ad alcuni di essi (ma non a tutti) Aristotele attribuisce l'opinione che la Galassia fosse la traccia  della combustione  provocata dal sole che una qualche volta (""alcuna fiata"") uscì dalla sua orbita (""errò nella sua via"") investendo zone del cielo incapaci di sopportare il suo calore senza esserne alterate (""parti non convenienti allo suo fervore"". Cfr anche il Commento di Tommaso, I, <i>lectio</i> 12, n. 78). La lacuna del testo non ci permette di sapere come Dante avesse riassunto le opinioni  di Anassagora e di Democrito presentate dal testo aristotelico. La menzione dei raggi solari riflessi (""ripercussi"") in quella parte del cielo come causa dell'apparire della Galassia si riferisce invece ad una terza opinione menzionata in maniera anonima da Aristotele (a ragione, dunque, l'editrice ha congetturato qui una lacuna). Nell'interpretazione datane da Alberto, il  <i>lumen</i>  non si identificherebbe con i raggi solari, ma  con il  <i>lumen</i> stesso delle stelle riflesso dall'aria umida che, trovandosi sotto il cielo stellato, funge quasi da specchio (cfr.  <i>Meteora</i>  I, tr. 2, cap. 4, p 21, ll. 4-16).  E' stato osservato che il testo più vicino a quello del <i>Convivio</i> si trova in Averroè, che appunto  interpreta il raggio riflesso come raggio del sole (cfr. <i>Meteorologica</i> I, c. 3, f.  412 E  ""Galasia est vestigium causatum ex reflexione radii solis ab aere ad illum locum""). A mio avviso, però, è arduo pensare a un Dante che compone avendo sotto gli occhi contemporaneamente il testo di Aristotele, la parafrasi di Alberto e il Commento di Averroè (e questo per un brano tutto sommato di secondaria importanza).",II  35 sgg,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Metamorphoses,Metamorphoseon libri XV,Ovidio,http://dbpedia.org/resource/Ovid,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
LI FILOSOFI HANNO AVUTE DIVERSE OPPINIONI,"la rassegna delle opinioni relative alla natura della Galassia pone qualche problema, aggravato dallo stato lacunoso del testo. Che i Pitagorici abbiano collegato la nascita della Via Lattea al mito della caduta di Fetonte (si mossero dalla favola di Fetonte""), conosciuto da Dante attraverso Ovidio <i>Metamorfosi</i> II  35 sgg, è detto nel cap. 8 del primo libro dei <i>Meteorologici</i>  (345 a 13-b 12). Ad alcuni di essi (ma non a tutti) Aristotele attribuisce l'opinione che la Galassia fosse la traccia  della combustione  provocata dal sole che una qualche volta (""alcuna fiata"") uscì dalla sua orbita (""errò nella sua via"") investendo zone del cielo incapaci di sopportare il suo calore senza esserne alterate (""parti non convenienti allo suo fervore"". Cfr anche il Commento di Tommaso, I, <i>lectio</i> 12, n. 78). La lacuna del testo non ci permette di sapere come Dante avesse riassunto le opinioni  di Anassagora e di Democrito presentate dal testo aristotelico. La menzione dei raggi solari riflessi (""ripercussi"") in quella parte del cielo come causa dell'apparire della Galassia si riferisce invece ad una terza opinione menzionata in maniera anonima da Aristotele (a ragione, dunque, l'editrice ha congetturato qui una lacuna). Nell'interpretazione datane da Alberto, il  <i>lumen</i>  non si identificherebbe con i raggi solari, ma  con il  <i>lumen</i> stesso delle stelle riflesso dall'aria umida che, trovandosi sotto il cielo stellato, funge quasi da specchio (cfr.  <i>Meteora</i>  I, tr. 2, cap. 4, p 21, ll. 4-16).  E' stato osservato che il testo più vicino a quello del <i>Convivio</i> si trova in Averroè, che appunto  interpreta il raggio riflesso come raggio del sole (cfr. <i>Meteorologica</i> I, c. 3, f.  412 E  ""Galasia est vestigium causatum ex reflexione radii solis ab aere ad illum locum""). A mio avviso, però, è arduo pensare a un Dante che compone avendo sotto gli occhi contemporaneamente il testo di Aristotele, la parafrasi di Alberto e il Commento di Averroè (e questo per un brano tutto sommato di secondaria importanza).",cap. 8 del primo libro 345 a 13-b 12,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Meteororum(Alberto_Magno),Meteororum,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
LI FILOSOFI HANNO AVUTE DIVERSE OPPINIONI,"la rassegna delle opinioni relative alla natura della Galassia pone qualche problema, aggravato dallo stato lacunoso del testo. Che i Pitagorici abbiano collegato la nascita della Via Lattea al mito della caduta di Fetonte (si mossero dalla favola di Fetonte""), conosciuto da Dante attraverso Ovidio <i>Metamorfosi</i> II  35 sgg, è detto nel cap. 8 del primo libro dei <i>Meteorologici</i>  (345 a 13-b 12). Ad alcuni di essi (ma non a tutti) Aristotele attribuisce l'opinione che la Galassia fosse la traccia  della combustione  provocata dal sole che una qualche volta (""alcuna fiata"") uscì dalla sua orbita (""errò nella sua via"") investendo zone del cielo incapaci di sopportare il suo calore senza esserne alterate (""parti non convenienti allo suo fervore"". Cfr anche il Commento di Tommaso, I, <i>lectio</i> 12, n. 78). La lacuna del testo non ci permette di sapere come Dante avesse riassunto le opinioni  di Anassagora e di Democrito presentate dal testo aristotelico. La menzione dei raggi solari riflessi (""ripercussi"") in quella parte del cielo come causa dell'apparire della Galassia si riferisce invece ad una terza opinione menzionata in maniera anonima da Aristotele (a ragione, dunque, l'editrice ha congetturato qui una lacuna). Nell'interpretazione datane da Alberto, il  <i>lumen</i>  non si identificherebbe con i raggi solari, ma  con il  <i>lumen</i> stesso delle stelle riflesso dall'aria umida che, trovandosi sotto il cielo stellato, funge quasi da specchio (cfr.  <i>Meteora</i>  I, tr. 2, cap. 4, p 21, ll. 4-16).  E' stato osservato che il testo più vicino a quello del <i>Convivio</i> si trova in Averroè, che appunto  interpreta il raggio riflesso come raggio del sole (cfr. <i>Meteorologica</i> I, c. 3, f.  412 E  ""Galasia est vestigium causatum ex reflexione radii solis ab aere ad illum locum""). A mio avviso, però, è arduo pensare a un Dante che compone avendo sotto gli occhi contemporaneamente il testo di Aristotele, la parafrasi di Alberto e il Commento di Averroè (e questo per un brano tutto sommato di secondaria importanza).","I, lectio 12, n. 78",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commentaria_in_octo_libros_Physicorum(Tommaso),Commentaria in octo libros Physicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
LI FILOSOFI HANNO AVUTE DIVERSE OPPINIONI,"la rassegna delle opinioni relative alla natura della Galassia pone qualche problema, aggravato dallo stato lacunoso del testo. Che i Pitagorici abbiano collegato la nascita della Via Lattea al mito della caduta di Fetonte (si mossero dalla favola di Fetonte""), conosciuto da Dante attraverso Ovidio <i>Metamorfosi</i> II  35 sgg, è detto nel cap. 8 del primo libro dei <i>Meteorologici</i>  (345 a 13-b 12). Ad alcuni di essi (ma non a tutti) Aristotele attribuisce l'opinione che la Galassia fosse la traccia  della combustione  provocata dal sole che una qualche volta (""alcuna fiata"") uscì dalla sua orbita (""errò nella sua via"") investendo zone del cielo incapaci di sopportare il suo calore senza esserne alterate (""parti non convenienti allo suo fervore"". Cfr anche il Commento di Tommaso, I, <i>lectio</i> 12, n. 78). La lacuna del testo non ci permette di sapere come Dante avesse riassunto le opinioni  di Anassagora e di Democrito presentate dal testo aristotelico. La menzione dei raggi solari riflessi (""ripercussi"") in quella parte del cielo come causa dell'apparire della Galassia si riferisce invece ad una terza opinione menzionata in maniera anonima da Aristotele (a ragione, dunque, l'editrice ha congetturato qui una lacuna). Nell'interpretazione datane da Alberto, il  <i>lumen</i>  non si identificherebbe con i raggi solari, ma  con il  <i>lumen</i> stesso delle stelle riflesso dall'aria umida che, trovandosi sotto il cielo stellato, funge quasi da specchio (cfr.  <i>Meteora</i>  I, tr. 2, cap. 4, p 21, ll. 4-16).  E' stato osservato che il testo più vicino a quello del <i>Convivio</i> si trova in Averroè, che appunto  interpreta il raggio riflesso come raggio del sole (cfr. <i>Meteorologica</i> I, c. 3, f.  412 E  ""Galasia est vestigium causatum ex reflexione radii solis ab aere ad illum locum""). A mio avviso, però, è arduo pensare a un Dante che compone avendo sotto gli occhi contemporaneamente il testo di Aristotele, la parafrasi di Alberto e il Commento di Averroè (e questo per un brano tutto sommato di secondaria importanza).","I, tr. 2, cap. 4, p 21, ll. 4-16",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Meteororum(Alberto_Magno),Meteororum,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
LI FILOSOFI HANNO AVUTE DIVERSE OPPINIONI,"la rassegna delle opinioni relative alla natura della Galassia pone qualche problema, aggravato dallo stato lacunoso del testo. Che i Pitagorici abbiano collegato la nascita della Via Lattea al mito della caduta di Fetonte (si mossero dalla favola di Fetonte""), conosciuto da Dante attraverso Ovidio <i>Metamorfosi</i> II  35 sgg, è detto nel cap. 8 del primo libro dei <i>Meteorologici</i>  (345 a 13-b 12). Ad alcuni di essi (ma non a tutti) Aristotele attribuisce l'opinione che la Galassia fosse la traccia  della combustione  provocata dal sole che una qualche volta (""alcuna fiata"") uscì dalla sua orbita (""errò nella sua via"") investendo zone del cielo incapaci di sopportare il suo calore senza esserne alterate (""parti non convenienti allo suo fervore"". Cfr anche il Commento di Tommaso, I, <i>lectio</i> 12, n. 78). La lacuna del testo non ci permette di sapere come Dante avesse riassunto le opinioni  di Anassagora e di Democrito presentate dal testo aristotelico. La menzione dei raggi solari riflessi (""ripercussi"") in quella parte del cielo come causa dell'apparire della Galassia si riferisce invece ad una terza opinione menzionata in maniera anonima da Aristotele (a ragione, dunque, l'editrice ha congetturato qui una lacuna). Nell'interpretazione datane da Alberto, il  <i>lumen</i>  non si identificherebbe con i raggi solari, ma  con il  <i>lumen</i> stesso delle stelle riflesso dall'aria umida che, trovandosi sotto il cielo stellato, funge quasi da specchio (cfr.  <i>Meteora</i>  I, tr. 2, cap. 4, p 21, ll. 4-16).  E' stato osservato che il testo più vicino a quello del <i>Convivio</i> si trova in Averroè, che appunto  interpreta il raggio riflesso come raggio del sole (cfr. <i>Meteorologica</i> I, c. 3, f.  412 E  ""Galasia est vestigium causatum ex reflexione radii solis ab aere ad illum locum""). A mio avviso, però, è arduo pensare a un Dante che compone avendo sotto gli occhi contemporaneamente il testo di Aristotele, la parafrasi di Alberto e il Commento di Averroè (e questo per un brano tutto sommato di secondaria importanza).","I, c. 3, f.  412 E  ""Galasia est vestigium causatum ex reflexione radii solis ab aere ad illum locum""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Meteorologica(Averroè),Meteorologica (Averroé),Averroè,http://dbpedia.org/resource/Averroes,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
CON RAGIONI DIMOSTRATIVE RIPROVARO,"respinsero mediante argomenti aventi forza di dimostrazione'. Mi sembra impossibile interpretare il verbo riprovare"" come un rafforzativo di ""provare"". Sono quindi d'accordo con l'edizione Brambilla Ageno nel ritenere che il testo presenti una lacuna relativa a chi ha riprovato le tesi di Pitagora, di Anassagora e di Democrito, probabilmente lo stesso Aristotele integrato dalla parafrasi di Alberto Magno (cfr. <i>Physica</i> I,  tr.  2, capp. 2-4,   pp. 19-21).","Physica I,  tr.  2, capp. 2-4,   pp. 19-21",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Physicorum(Alberto_Magno),Physicorum,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
NELLA NOVA,la <i>nova translatio</i> è quella condotta direttamente sul testo greco da Guglielmo di Moerbeke intorno agli anni '60 del XIII secolo.,la nova translatio è quella condotta direttamente sul testo greco da Guglielmo di Moerbeke intorno agli anni '60 del XIII secolo.,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Meteorology_(Aristotle),Meteorologica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
RITIENE E RIPRESENTA,"trattiene e quindi riflette la luce' (si tratta della stessa spiegazione usata nel caso delle macchie lunari). In questa parte Dante è tributario della parafrasi di Alberto Magno che utilizza quasi alla lettera, sia pur omettendo le parti più tecniche: I, tr. 2, cap. 6,  p. 22, ll. 43-45  Pars illa orbis est spissior, et ideo retinens et repraesentans lumen solis""; ivi, cap. 5, ed. Hossfeld, p. 21, ll. 47-4  ""nihil aliud autem est Galaxia nisi multae stellae parvae contiguae in illo loco orbis""; ivi, c. 6,  p. 22, ll. 51-53 ""Et haec est sententia  Ptolomaei et Avicennae et etiam Aristotilis"" . Ma Dante non poteva riprendere da Alberto il discorso sulle due traduzioni dato che il domenicano tedesco utilizza la Vecchia e non conosce la Nuova. Che l'autore del <i>Convivio</i> avesse, o anche avesse avuto a disposizione le due traduzioni e le avesse effettivamente confrontate mi pare ipotesi azzardata, tanto più che, come giustamente nota  <i>Ricklin</i> , il testo dato dalla  <i>Nova</i> non dice esattamente quello che gli fa dire Dante. Nel suo Commento ai <i>Meteorologici</i>, un maestro delle arti della fine del '200, Radulphus Brito (Raoul le Breton), discutendo della natura della Galassia cita la posizione di Alberto e contemporaneamente nota: ""De ista quaestione est diversitas, et hoc provenit ex contrarietate duorum translationum, videlicet Nove Translationis et Antique"", dando della <i>Nova</i> un riassunto molto simile a quello del <i>Convivio</i>  ""Propter multitudinem multarum stellarum in illo circulo existentium ...  elevatur sursum magna exalatio calida et sicca"". Cito dal ms. Firenze, Conventi Soppressi E.1.252 che proviene dalla biblioteca di un convento fiorentino, quello di Santa Maria Novella. Purtroppo il codice sembra posteriore agli anni fiorentini di Dante (cfr. Pomaro 1980, pp. 389-391). Si può sospettare però che i termini del problema siano stati acquisiti da Dante proprio assistendo a lezioni sui <i>Meteorologici</i>, o comunque avendone a disposizione la trascrizione. In ogni caso il <i>Convivio</i> risulta piuttosto originale nell'accettare la teoria presentata nella <i>Vetus</i> (che è poi anche quella che più si avvicina alla verità), mentre essa era stata quasi del tutto soppiantata da quella della <i>Nova</i>  (accettata anche da Radulphus Brito). Non si è troppo malevoli nel pensare che essa meglio si prestava alle ""comparazioni"" che stavano a cuore a Dante.","I, tr. 2, cap. 6,  p. 22",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Meteororum(Alberto_Magno),Meteororum,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
RITIENE E RIPRESENTA,"trattiene e quindi riflette la luce' (si tratta della stessa spiegazione usata nel caso delle macchie lunari). In questa parte Dante è tributario della parafrasi di Alberto Magno che utilizza quasi alla lettera, sia pur omettendo le parti più tecniche: I, tr. 2, cap. 6,  p. 22, ll. 43-45  Pars illa orbis est spissior, et ideo retinens et repraesentans lumen solis""; ivi, cap. 5, ed. Hossfeld, p. 21, ll. 47-4  ""nihil aliud autem est Galaxia nisi multae stellae parvae contiguae in illo loco orbis""; ivi, c. 6,  p. 22, ll. 51-53 ""Et haec est sententia  Ptolomaei et Avicennae et etiam Aristotilis"" . Ma Dante non poteva riprendere da Alberto il discorso sulle due traduzioni dato che il domenicano tedesco utilizza la Vecchia e non conosce la Nuova. Che l'autore del <i>Convivio</i> avesse, o anche avesse avuto a disposizione le due traduzioni e le avesse effettivamente confrontate mi pare ipotesi azzardata, tanto più che, come giustamente nota  <i>Ricklin</i> , il testo dato dalla  <i>Nova</i> non dice esattamente quello che gli fa dire Dante. Nel suo Commento ai <i>Meteorologici</i>, un maestro delle arti della fine del '200, Radulphus Brito (Raoul le Breton), discutendo della natura della Galassia cita la posizione di Alberto e contemporaneamente nota: ""De ista quaestione est diversitas, et hoc provenit ex contrarietate duorum translationum, videlicet Nove Translationis et Antique"", dando della <i>Nova</i> un riassunto molto simile a quello del <i>Convivio</i>  ""Propter multitudinem multarum stellarum in illo circulo existentium ...  elevatur sursum magna exalatio calida et sicca"". Cito dal ms. Firenze, Conventi Soppressi E.1.252 che proviene dalla biblioteca di un convento fiorentino, quello di Santa Maria Novella. Purtroppo il codice sembra posteriore agli anni fiorentini di Dante (cfr. Pomaro 1980, pp. 389-391). Si può sospettare però che i termini del problema siano stati acquisiti da Dante proprio assistendo a lezioni sui <i>Meteorologici</i>, o comunque avendone a disposizione la trascrizione. In ogni caso il <i>Convivio</i> risulta piuttosto originale nell'accettare la teoria presentata nella <i>Vetus</i> (che è poi anche quella che più si avvicina alla verità), mentre essa era stata quasi del tutto soppiantata da quella della <i>Nova</i>  (accettata anche da Radulphus Brito). Non si è troppo malevoli nel pensare che essa meglio si prestava alle ""comparazioni"" che stavano a cuore a Dante.","ll. 43-45  Pars illa orbis est spissior, et ideo retinens et repraesentans lumen solis""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Meteororum(Alberto_Magno),Meteororum,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
RITIENE E RIPRESENTA,"trattiene e quindi riflette la luce' (si tratta della stessa spiegazione usata nel caso delle macchie lunari). In questa parte Dante è tributario della parafrasi di Alberto Magno che utilizza quasi alla lettera, sia pur omettendo le parti più tecniche: I, tr. 2, cap. 6,  p. 22, ll. 43-45  Pars illa orbis est spissior, et ideo retinens et repraesentans lumen solis""; ivi, cap. 5, ed. Hossfeld, p. 21, ll. 47-4  ""nihil aliud autem est Galaxia nisi multae stellae parvae contiguae in illo loco orbis""; ivi, c. 6,  p. 22, ll. 51-53 ""Et haec est sententia  Ptolomaei et Avicennae et etiam Aristotilis"" . Ma Dante non poteva riprendere da Alberto il discorso sulle due traduzioni dato che il domenicano tedesco utilizza la Vecchia e non conosce la Nuova. Che l'autore del <i>Convivio</i> avesse, o anche avesse avuto a disposizione le due traduzioni e le avesse effettivamente confrontate mi pare ipotesi azzardata, tanto più che, come giustamente nota  <i>Ricklin</i> , il testo dato dalla  <i>Nova</i> non dice esattamente quello che gli fa dire Dante. Nel suo Commento ai <i>Meteorologici</i>, un maestro delle arti della fine del '200, Radulphus Brito (Raoul le Breton), discutendo della natura della Galassia cita la posizione di Alberto e contemporaneamente nota: ""De ista quaestione est diversitas, et hoc provenit ex contrarietate duorum translationum, videlicet Nove Translationis et Antique"", dando della <i>Nova</i> un riassunto molto simile a quello del <i>Convivio</i>  ""Propter multitudinem multarum stellarum in illo circulo existentium ...  elevatur sursum magna exalatio calida et sicca"". Cito dal ms. Firenze, Conventi Soppressi E.1.252 che proviene dalla biblioteca di un convento fiorentino, quello di Santa Maria Novella. Purtroppo il codice sembra posteriore agli anni fiorentini di Dante (cfr. Pomaro 1980, pp. 389-391). Si può sospettare però che i termini del problema siano stati acquisiti da Dante proprio assistendo a lezioni sui <i>Meteorologici</i>, o comunque avendone a disposizione la trascrizione. In ogni caso il <i>Convivio</i> risulta piuttosto originale nell'accettare la teoria presentata nella <i>Vetus</i> (che è poi anche quella che più si avvicina alla verità), mentre essa era stata quasi del tutto soppiantata da quella della <i>Nova</i>  (accettata anche da Radulphus Brito). Non si è troppo malevoli nel pensare che essa meglio si prestava alle ""comparazioni"" che stavano a cuore a Dante.","ivi, cap. 5, ed. Hossfeld, p. 21, ll. 47-4  ""nihil aliud autem est Galaxia nisi multae stellae parvae contiguae in illo loco orbis""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Meteororum(Alberto_Magno),Meteororum,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
RITIENE E RIPRESENTA,"trattiene e quindi riflette la luce' (si tratta della stessa spiegazione usata nel caso delle macchie lunari). In questa parte Dante è tributario della parafrasi di Alberto Magno che utilizza quasi alla lettera, sia pur omettendo le parti più tecniche: I, tr. 2, cap. 6,  p. 22, ll. 43-45  Pars illa orbis est spissior, et ideo retinens et repraesentans lumen solis""; ivi, cap. 5, ed. Hossfeld, p. 21, ll. 47-4  ""nihil aliud autem est Galaxia nisi multae stellae parvae contiguae in illo loco orbis""; ivi, c. 6,  p. 22, ll. 51-53 ""Et haec est sententia  Ptolomaei et Avicennae et etiam Aristotilis"" . Ma Dante non poteva riprendere da Alberto il discorso sulle due traduzioni dato che il domenicano tedesco utilizza la Vecchia e non conosce la Nuova. Che l'autore del <i>Convivio</i> avesse, o anche avesse avuto a disposizione le due traduzioni e le avesse effettivamente confrontate mi pare ipotesi azzardata, tanto più che, come giustamente nota  <i>Ricklin</i> , il testo dato dalla  <i>Nova</i> non dice esattamente quello che gli fa dire Dante. Nel suo Commento ai <i>Meteorologici</i>, un maestro delle arti della fine del '200, Radulphus Brito (Raoul le Breton), discutendo della natura della Galassia cita la posizione di Alberto e contemporaneamente nota: ""De ista quaestione est diversitas, et hoc provenit ex contrarietate duorum translationum, videlicet Nove Translationis et Antique"", dando della <i>Nova</i> un riassunto molto simile a quello del <i>Convivio</i>  ""Propter multitudinem multarum stellarum in illo circulo existentium ...  elevatur sursum magna exalatio calida et sicca"". Cito dal ms. Firenze, Conventi Soppressi E.1.252 che proviene dalla biblioteca di un convento fiorentino, quello di Santa Maria Novella. Purtroppo il codice sembra posteriore agli anni fiorentini di Dante (cfr. Pomaro 1980, pp. 389-391). Si può sospettare però che i termini del problema siano stati acquisiti da Dante proprio assistendo a lezioni sui <i>Meteorologici</i>, o comunque avendone a disposizione la trascrizione. In ogni caso il <i>Convivio</i> risulta piuttosto originale nell'accettare la teoria presentata nella <i>Vetus</i> (che è poi anche quella che più si avvicina alla verità), mentre essa era stata quasi del tutto soppiantata da quella della <i>Nova</i>  (accettata anche da Radulphus Brito). Non si è troppo malevoli nel pensare che essa meglio si prestava alle ""comparazioni"" che stavano a cuore a Dante.","ivi, c. 6,  p. 22, ll. 51-53 ""Et haec est sententia  Ptolomaei et Avicennae et etiam Aristotilis""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Meteororum(Alberto_Magno),Meteororum,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
RITIENE E RIPRESENTA,"trattiene e quindi riflette la luce' (si tratta della stessa spiegazione usata nel caso delle macchie lunari). In questa parte Dante è tributario della parafrasi di Alberto Magno che utilizza quasi alla lettera, sia pur omettendo le parti più tecniche: I, tr. 2, cap. 6,  p. 22, ll. 43-45  Pars illa orbis est spissior, et ideo retinens et repraesentans lumen solis""; ivi, cap. 5, ed. Hossfeld, p. 21, ll. 47-4  ""nihil aliud autem est Galaxia nisi multae stellae parvae contiguae in illo loco orbis""; ivi, c. 6,  p. 22, ll. 51-53 ""Et haec est sententia  Ptolomaei et Avicennae et etiam Aristotilis"" . Ma Dante non poteva riprendere da Alberto il discorso sulle due traduzioni dato che il domenicano tedesco utilizza la Vecchia e non conosce la Nuova. Che l'autore del <i>Convivio</i> avesse, o anche avesse avuto a disposizione le due traduzioni e le avesse effettivamente confrontate mi pare ipotesi azzardata, tanto più che, come giustamente nota  <i>Ricklin</i> , il testo dato dalla  <i>Nova</i> non dice esattamente quello che gli fa dire Dante. Nel suo Commento ai <i>Meteorologici</i>, un maestro delle arti della fine del '200, Radulphus Brito (Raoul le Breton), discutendo della natura della Galassia cita la posizione di Alberto e contemporaneamente nota: ""De ista quaestione est diversitas, et hoc provenit ex contrarietate duorum translationum, videlicet Nove Translationis et Antique"", dando della <i>Nova</i> un riassunto molto simile a quello del <i>Convivio</i>  ""Propter multitudinem multarum stellarum in illo circulo existentium ...  elevatur sursum magna exalatio calida et sicca"". Cito dal ms. Firenze, Conventi Soppressi E.1.252 che proviene dalla biblioteca di un convento fiorentino, quello di Santa Maria Novella. Purtroppo il codice sembra posteriore agli anni fiorentini di Dante (cfr. Pomaro 1980, pp. 389-391). Si può sospettare però che i termini del problema siano stati acquisiti da Dante proprio assistendo a lezioni sui <i>Meteorologici</i>, o comunque avendone a disposizione la trascrizione. In ogni caso il <i>Convivio</i> risulta piuttosto originale nell'accettare la teoria presentata nella <i>Vetus</i> (che è poi anche quella che più si avvicina alla verità), mentre essa era stata quasi del tutto soppiantata da quella della <i>Nova</i>  (accettata anche da Radulphus Brito). Non si è troppo malevoli nel pensare che essa meglio si prestava alle ""comparazioni"" che stavano a cuore a Dante.","""De ista quaestione est diversitas, et hoc provenit ex contrarietate duorum translationum, videlicet Nove Translationis et Antique""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commento_ai_Meteorologici(Radulphus_Brito),Commento ai Meteorologici,Radulphus Brito,http://dbpedia.org/resource/Radulphus_Brito,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
RITIENE E RIPRESENTA,"trattiene e quindi riflette la luce' (si tratta della stessa spiegazione usata nel caso delle macchie lunari). In questa parte Dante è tributario della parafrasi di Alberto Magno che utilizza quasi alla lettera, sia pur omettendo le parti più tecniche: I, tr. 2, cap. 6,  p. 22, ll. 43-45  Pars illa orbis est spissior, et ideo retinens et repraesentans lumen solis""; ivi, cap. 5, ed. Hossfeld, p. 21, ll. 47-4  ""nihil aliud autem est Galaxia nisi multae stellae parvae contiguae in illo loco orbis""; ivi, c. 6,  p. 22, ll. 51-53 ""Et haec est sententia  Ptolomaei et Avicennae et etiam Aristotilis"" . Ma Dante non poteva riprendere da Alberto il discorso sulle due traduzioni dato che il domenicano tedesco utilizza la Vecchia e non conosce la Nuova. Che l'autore del <i>Convivio</i> avesse, o anche avesse avuto a disposizione le due traduzioni e le avesse effettivamente confrontate mi pare ipotesi azzardata, tanto più che, come giustamente nota  <i>Ricklin</i> , il testo dato dalla  <i>Nova</i> non dice esattamente quello che gli fa dire Dante. Nel suo Commento ai <i>Meteorologici</i>, un maestro delle arti della fine del '200, Radulphus Brito (Raoul le Breton), discutendo della natura della Galassia cita la posizione di Alberto e contemporaneamente nota: ""De ista quaestione est diversitas, et hoc provenit ex contrarietate duorum translationum, videlicet Nove Translationis et Antique"", dando della <i>Nova</i> un riassunto molto simile a quello del <i>Convivio</i>  ""Propter multitudinem multarum stellarum in illo circulo existentium ...  elevatur sursum magna exalatio calida et sicca"". Cito dal ms. Firenze, Conventi Soppressi E.1.252 che proviene dalla biblioteca di un convento fiorentino, quello di Santa Maria Novella. Purtroppo il codice sembra posteriore agli anni fiorentini di Dante (cfr. Pomaro 1980, pp. 389-391). Si può sospettare però che i termini del problema siano stati acquisiti da Dante proprio assistendo a lezioni sui <i>Meteorologici</i>, o comunque avendone a disposizione la trascrizione. In ogni caso il <i>Convivio</i> risulta piuttosto originale nell'accettare la teoria presentata nella <i>Vetus</i> (che è poi anche quella che più si avvicina alla verità), mentre essa era stata quasi del tutto soppiantata da quella della <i>Nova</i>  (accettata anche da Radulphus Brito). Non si è troppo malevoli nel pensare che essa meglio si prestava alle ""comparazioni"" che stavano a cuore a Dante.",,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Meteorology_(Aristotle),Meteorologica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
RITIENE E RIPRESENTA,"trattiene e quindi riflette la luce' (si tratta della stessa spiegazione usata nel caso delle macchie lunari). In questa parte Dante è tributario della parafrasi di Alberto Magno che utilizza quasi alla lettera, sia pur omettendo le parti più tecniche: I, tr. 2, cap. 6,  p. 22, ll. 43-45  Pars illa orbis est spissior, et ideo retinens et repraesentans lumen solis""; ivi, cap. 5, ed. Hossfeld, p. 21, ll. 47-4  ""nihil aliud autem est Galaxia nisi multae stellae parvae contiguae in illo loco orbis""; ivi, c. 6,  p. 22, ll. 51-53 ""Et haec est sententia  Ptolomaei et Avicennae et etiam Aristotilis"" . Ma Dante non poteva riprendere da Alberto il discorso sulle due traduzioni dato che il domenicano tedesco utilizza la Vecchia e non conosce la Nuova. Che l'autore del <i>Convivio</i> avesse, o anche avesse avuto a disposizione le due traduzioni e le avesse effettivamente confrontate mi pare ipotesi azzardata, tanto più che, come giustamente nota  <i>Ricklin</i> , il testo dato dalla  <i>Nova</i> non dice esattamente quello che gli fa dire Dante. Nel suo Commento ai <i>Meteorologici</i>, un maestro delle arti della fine del '200, Radulphus Brito (Raoul le Breton), discutendo della natura della Galassia cita la posizione di Alberto e contemporaneamente nota: ""De ista quaestione est diversitas, et hoc provenit ex contrarietate duorum translationum, videlicet Nove Translationis et Antique"", dando della <i>Nova</i> un riassunto molto simile a quello del <i>Convivio</i>  ""Propter multitudinem multarum stellarum in illo circulo existentium ...  elevatur sursum magna exalatio calida et sicca"". Cito dal ms. Firenze, Conventi Soppressi E.1.252 che proviene dalla biblioteca di un convento fiorentino, quello di Santa Maria Novella. Purtroppo il codice sembra posteriore agli anni fiorentini di Dante (cfr. Pomaro 1980, pp. 389-391). Si può sospettare però che i termini del problema siano stati acquisiti da Dante proprio assistendo a lezioni sui <i>Meteorologici</i>, o comunque avendone a disposizione la trascrizione. In ogni caso il <i>Convivio</i> risulta piuttosto originale nell'accettare la teoria presentata nella <i>Vetus</i> (che è poi anche quella che più si avvicina alla verità), mentre essa era stata quasi del tutto soppiantata da quella della <i>Nova</i>  (accettata anche da Radulphus Brito). Non si è troppo malevoli nel pensare che essa meglio si prestava alle ""comparazioni"" che stavano a cuore a Dante.",,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Meteorology_(Aristotle),Meteorologica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
LA GALASSIA SIA UNO EFFETTO,"come, nel caso della Galassia, non possiamo (potemo"") vedere direttamente le stelle che la compongono e solo mediante il loro effetto (""se non per lo effetto loro"") postuliamo mentalmente la loro esistenza (""intendiamo quelle cose""), analogamente (""simigliantemente"") nel caso della <i>Metafisica</i>, non possiamo conoscere Dio e le sostanze separate (""le prime sustanze"") direttamente ma solo attraverso (""per"") i loro effetti (nel caso specifico, il movimento dei cieli ; cfr. <i>Cv</i> II iv 16-17). Quale fosse l'effettivo oggetto della <i>Metafisica</i>, se l'essere in quanto essere, come affermato in <i>Metaph</i>. IV 1 o Dio e le sostanze separate, come altrettanto esplicitamente detto in <i>Metaph</i>. VI 1, era stato oggetto di un lungo dibattito tra i commentatori arabi e latini. In ogni caso, anche scegliendo, come la maggior parte aveva fatto, la prima opzione, le sostanze eterne e incorruttibili, cause di tutti gli altri enti, rimanevano un capitolo importante della riflessione metafisica (cfr.  Zimmermann 1965) Per altro Dante stesso nelle numerose citazioni presenti nel  <i>Monarchia</i> si riferirà alla <i>Metafisica</i> come alla scienza che ha come oggetto l'essere in quanto tale: I xii 8 ""Illud est liberum quod suimet et non alterius gratia est, ut Philosopho placet in iis quae de simpliciter ente"" (cfr. I xiii 3, 15; III xiv 6).",IV 1,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
LA GALASSIA SIA UNO EFFETTO,"come, nel caso della Galassia, non possiamo (potemo"") vedere direttamente le stelle che la compongono e solo mediante il loro effetto (""se non per lo effetto loro"") postuliamo mentalmente la loro esistenza (""intendiamo quelle cose""), analogamente (""simigliantemente"") nel caso della <i>Metafisica</i>, non possiamo conoscere Dio e le sostanze separate (""le prime sustanze"") direttamente ma solo attraverso (""per"") i loro effetti (nel caso specifico, il movimento dei cieli ; cfr. <i>Cv</i> II iv 16-17). Quale fosse l'effettivo oggetto della <i>Metafisica</i>, se l'essere in quanto essere, come affermato in <i>Metaph</i>. IV 1 o Dio e le sostanze separate, come altrettanto esplicitamente detto in <i>Metaph</i>. VI 1, era stato oggetto di un lungo dibattito tra i commentatori arabi e latini. In ogni caso, anche scegliendo, come la maggior parte aveva fatto, la prima opzione, le sostanze eterne e incorruttibili, cause di tutti gli altri enti, rimanevano un capitolo importante della riflessione metafisica (cfr.  Zimmermann 1965) Per altro Dante stesso nelle numerose citazioni presenti nel  <i>Monarchia</i> si riferirà alla <i>Metafisica</i> come alla scienza che ha come oggetto l'essere in quanto tale: I xii 8 ""Illud est liberum quod suimet et non alterius gratia est, ut Philosopho placet in iis quae de simpliciter ente"" (cfr. I xiii 3, 15; III xiv 6).",VI 1,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
UNIVERSALMENTE PIGLIANDOLE,"'considerandole nelle loro caratteristiche comuni' (in questo caso Dante, a differenza di prima si riferisce non al complesso degli scritti naturalistici di Aristotele, ma proprio agli otto libri della <i>Fisica</i> che trattano in generale del corpo soggetto al movimento e che Ruggero Bacone aveva chiamato i <i>Communia naturalium</i>).",,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
EBBERO DA DIO COMINCIAMENTO DI CREAZIONE E NON AVERANNO FINE,"iniziarono ad esistere per un diretto atto creativo di Dio e quindi, a differenza delle altre realtà, non cesseranno mai di esistere'. Che le realtà incorruttibili (intelligenze separate e cieli) siano state prodotte da una diretta azione divina non è dottrina di Aristotele, ma piuttosto di Avicenna. Dante la riproporrà  nel ventinovesimo canto del <i>Paradiso</i> (vv. 22-36). Per il filosofo arabo e per molti commentatori latini di Aristotele che a lui si rifanno il cominciamento"" non ha però un valore temporale. Dio crea, ma crea dall'eternità.",,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
HA COMPARAZIONE ASSAI MANIFESTA ALLA MORALE FILOSOFIA,"ha una chiara analogia con la filosofia morale'. L'ordine in cui Dante pone le scienze, con l' <i>Etica</i> al punto finale della classificazione, è abbastanza inusuale rispetto agli schemi normali, ma non così isolato come si è creduto. Esso risale al  <i>De divisione scientiarum</i> di Alfarabi  disponibile ai Latini nella traduzione di Gerardo da Cremona (cfr. Nardi 1944, pp.213-214) e proprio negli anni di Dante era stato ripreso a Firenze da Remigio dei Girolami in una sua predica (cfr. Panella 1979, pp. 46-47). Alberto Magno, nella parafrasi dell' <i>Etica</i>, aveva detto che la <i>scientia moralis</i> eccelleva su tutte le altre e che giustamente Avicenna, nella sua enciclopedia delle scienze, ne aveva fatto il completamento della <i>Metafisica</i> stessa (ma  di un primato dell' etica avevano già parlato i commentatori a lui anteriori: vedi Zavattero 2010). Nell'utilizzazione di questo schema da parte del <i>Convivio</i> gli studiosi, a partire dal magistrale saggio di E. Gilson  (Gilson¹ 1939, pp. 100-113) hanno visto la spia di un vero e proprio spostamento di asse culturale. Dante, cioè, facendo dell'etica e non della metafisica la regina delle scienze profane, riorienterebbe il sapere delle scuole subordinandolo ad un progetto di riforma etico-politica rivolto ad un pubblico di laici (cfr. ultimamente Cheneval 1998). Che le intenzioni di Dante vadano in questa direzione non è dubbio. Nel caso specifico, però, le motivazioni da lui  addotte  per spiegare come all' <i>Etica</i> tocchi il cielo più alto dopo l'Empireo si fondano esclusivamente su una caratteristica esterna: il compito, che le è proprio, di orientare e salvare"" le altre scienze, mentre niente ci vien detto al livello di un rapporto tra contenuti. In questo Dante si avvicina ad autori come Giovanni di Jandun, Alberto Magno, Ruggero Bacone e lo stesso Tommaso, citati sia da Nardi che dal Commento <i>Vasoli</i>, sostenitori del carattere ""architettonico"" e ordinatore dell'etica-politica rispetto agli altri campi del sapere, sulla base di quanto ESPLICITAmente affermato da Aristotele in <i>Eth. Nic</i>.  I 1, 1094 a 27-b 2.  Essi peraltro, e tutti i commentatori della <i>Metafisica</i> che trovavano nel testo aristotelico una possibile minaccia alla supremazia della Filosofia Prima, avevano operato una distinzione tra l' ordinare quanto all'uso di una cosa e l' ordinare quanto alla struttura stessa di una cosa: solo il primo appartiene all' <i>Etica</i>. Del resto anche nel <i>Convivio</i> la <i>Metafisica</i> continuerà ad essere la scienza in cui la Filosofia ""con più fervore termina il suo viso"" e la vita contemplativa, basata sulle virtù intellettuali continuerà ad essere giudicata superiore a quella fondata esclusivamente sulle virtù morali  (cfr. <i>Cv</i>  III xi 16; IV xvii 11-12).",traduzione di Gerardo da Cremona,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_divisione_scientiarum,De divisione scientiarum,Alfarabi,http://dbpedia.org/resource/Al-Farabi,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
HA COMPARAZIONE ASSAI MANIFESTA ALLA MORALE FILOSOFIA,"ha una chiara analogia con la filosofia morale'. L'ordine in cui Dante pone le scienze, con l' <i>Etica</i> al punto finale della classificazione, è abbastanza inusuale rispetto agli schemi normali, ma non così isolato come si è creduto. Esso risale al  <i>De divisione scientiarum</i> di Alfarabi  disponibile ai Latini nella traduzione di Gerardo da Cremona (cfr. Nardi 1944, pp.213-214) e proprio negli anni di Dante era stato ripreso a Firenze da Remigio dei Girolami in una sua predica (cfr. Panella 1979, pp. 46-47). Alberto Magno, nella parafrasi dell' <i>Etica</i>, aveva detto che la <i>scientia moralis</i> eccelleva su tutte le altre e che giustamente Avicenna, nella sua enciclopedia delle scienze, ne aveva fatto il completamento della <i>Metafisica</i> stessa (ma  di un primato dell' etica avevano già parlato i commentatori a lui anteriori: vedi Zavattero 2010). Nell'utilizzazione di questo schema da parte del <i>Convivio</i> gli studiosi, a partire dal magistrale saggio di E. Gilson  (Gilson¹ 1939, pp. 100-113) hanno visto la spia di un vero e proprio spostamento di asse culturale. Dante, cioè, facendo dell'etica e non della metafisica la regina delle scienze profane, riorienterebbe il sapere delle scuole subordinandolo ad un progetto di riforma etico-politica rivolto ad un pubblico di laici (cfr. ultimamente Cheneval 1998). Che le intenzioni di Dante vadano in questa direzione non è dubbio. Nel caso specifico, però, le motivazioni da lui  addotte  per spiegare come all' <i>Etica</i> tocchi il cielo più alto dopo l'Empireo si fondano esclusivamente su una caratteristica esterna: il compito, che le è proprio, di orientare e salvare"" le altre scienze, mentre niente ci vien detto al livello di un rapporto tra contenuti. In questo Dante si avvicina ad autori come Giovanni di Jandun, Alberto Magno, Ruggero Bacone e lo stesso Tommaso, citati sia da Nardi che dal Commento <i>Vasoli</i>, sostenitori del carattere ""architettonico"" e ordinatore dell'etica-politica rispetto agli altri campi del sapere, sulla base di quanto ESPLICITAmente affermato da Aristotele in <i>Eth. Nic</i>.  I 1, 1094 a 27-b 2.  Essi peraltro, e tutti i commentatori della <i>Metafisica</i> che trovavano nel testo aristotelico una possibile minaccia alla supremazia della Filosofia Prima, avevano operato una distinzione tra l' ordinare quanto all'uso di una cosa e l' ordinare quanto alla struttura stessa di una cosa: solo il primo appartiene all' <i>Etica</i>. Del resto anche nel <i>Convivio</i> la <i>Metafisica</i> continuerà ad essere la scienza in cui la Filosofia ""con più fervore termina il suo viso"" e la vita contemplativa, basata sulle virtù intellettuali continuerà ad essere giudicata superiore a quella fondata esclusivamente sulle virtù morali  (cfr. <i>Cv</i>  III xi 16; IV xvii 11-12).",Remigio dei Girolami in una sua predica,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_divisione_scientiarum,De divisione scientiarum,Alfarabi,http://dbpedia.org/resource/Al-Farabi,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
HA COMPARAZIONE ASSAI MANIFESTA ALLA MORALE FILOSOFIA,"ha una chiara analogia con la filosofia morale'. L'ordine in cui Dante pone le scienze, con l' <i>Etica</i> al punto finale della classificazione, è abbastanza inusuale rispetto agli schemi normali, ma non così isolato come si è creduto. Esso risale al  <i>De divisione scientiarum</i> di Alfarabi  disponibile ai Latini nella traduzione di Gerardo da Cremona (cfr. Nardi 1944, pp.213-214) e proprio negli anni di Dante era stato ripreso a Firenze da Remigio dei Girolami in una sua predica (cfr. Panella 1979, pp. 46-47). Alberto Magno, nella parafrasi dell' <i>Etica</i>, aveva detto che la <i>scientia moralis</i> eccelleva su tutte le altre e che giustamente Avicenna, nella sua enciclopedia delle scienze, ne aveva fatto il completamento della <i>Metafisica</i> stessa (ma  di un primato dell' etica avevano già parlato i commentatori a lui anteriori: vedi Zavattero 2010). Nell'utilizzazione di questo schema da parte del <i>Convivio</i> gli studiosi, a partire dal magistrale saggio di E. Gilson  (Gilson¹ 1939, pp. 100-113) hanno visto la spia di un vero e proprio spostamento di asse culturale. Dante, cioè, facendo dell'etica e non della metafisica la regina delle scienze profane, riorienterebbe il sapere delle scuole subordinandolo ad un progetto di riforma etico-politica rivolto ad un pubblico di laici (cfr. ultimamente Cheneval 1998). Che le intenzioni di Dante vadano in questa direzione non è dubbio. Nel caso specifico, però, le motivazioni da lui  addotte  per spiegare come all' <i>Etica</i> tocchi il cielo più alto dopo l'Empireo si fondano esclusivamente su una caratteristica esterna: il compito, che le è proprio, di orientare e salvare"" le altre scienze, mentre niente ci vien detto al livello di un rapporto tra contenuti. In questo Dante si avvicina ad autori come Giovanni di Jandun, Alberto Magno, Ruggero Bacone e lo stesso Tommaso, citati sia da Nardi che dal Commento <i>Vasoli</i>, sostenitori del carattere ""architettonico"" e ordinatore dell'etica-politica rispetto agli altri campi del sapere, sulla base di quanto ESPLICITAmente affermato da Aristotele in <i>Eth. Nic</i>.  I 1, 1094 a 27-b 2.  Essi peraltro, e tutti i commentatori della <i>Metafisica</i> che trovavano nel testo aristotelico una possibile minaccia alla supremazia della Filosofia Prima, avevano operato una distinzione tra l' ordinare quanto all'uso di una cosa e l' ordinare quanto alla struttura stessa di una cosa: solo il primo appartiene all' <i>Etica</i>. Del resto anche nel <i>Convivio</i> la <i>Metafisica</i> continuerà ad essere la scienza in cui la Filosofia ""con più fervore termina il suo viso"" e la vita contemplativa, basata sulle virtù intellettuali continuerà ad essere giudicata superiore a quella fondata esclusivamente sulle virtù morali  (cfr. <i>Cv</i>  III xi 16; IV xvii 11-12).",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Super_Ethica_commentum_et_quaestiones,Super Ethica commentum et quaestiones,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
HA COMPARAZIONE ASSAI MANIFESTA ALLA MORALE FILOSOFIA,"ha una chiara analogia con la filosofia morale'. L'ordine in cui Dante pone le scienze, con l' <i>Etica</i> al punto finale della classificazione, è abbastanza inusuale rispetto agli schemi normali, ma non così isolato come si è creduto. Esso risale al  <i>De divisione scientiarum</i> di Alfarabi  disponibile ai Latini nella traduzione di Gerardo da Cremona (cfr. Nardi 1944, pp.213-214) e proprio negli anni di Dante era stato ripreso a Firenze da Remigio dei Girolami in una sua predica (cfr. Panella 1979, pp. 46-47). Alberto Magno, nella parafrasi dell' <i>Etica</i>, aveva detto che la <i>scientia moralis</i> eccelleva su tutte le altre e che giustamente Avicenna, nella sua enciclopedia delle scienze, ne aveva fatto il completamento della <i>Metafisica</i> stessa (ma  di un primato dell' etica avevano già parlato i commentatori a lui anteriori: vedi Zavattero 2010). Nell'utilizzazione di questo schema da parte del <i>Convivio</i> gli studiosi, a partire dal magistrale saggio di E. Gilson  (Gilson¹ 1939, pp. 100-113) hanno visto la spia di un vero e proprio spostamento di asse culturale. Dante, cioè, facendo dell'etica e non della metafisica la regina delle scienze profane, riorienterebbe il sapere delle scuole subordinandolo ad un progetto di riforma etico-politica rivolto ad un pubblico di laici (cfr. ultimamente Cheneval 1998). Che le intenzioni di Dante vadano in questa direzione non è dubbio. Nel caso specifico, però, le motivazioni da lui  addotte  per spiegare come all' <i>Etica</i> tocchi il cielo più alto dopo l'Empireo si fondano esclusivamente su una caratteristica esterna: il compito, che le è proprio, di orientare e salvare"" le altre scienze, mentre niente ci vien detto al livello di un rapporto tra contenuti. In questo Dante si avvicina ad autori come Giovanni di Jandun, Alberto Magno, Ruggero Bacone e lo stesso Tommaso, citati sia da Nardi che dal Commento <i>Vasoli</i>, sostenitori del carattere ""architettonico"" e ordinatore dell'etica-politica rispetto agli altri campi del sapere, sulla base di quanto ESPLICITAmente affermato da Aristotele in <i>Eth. Nic</i>.  I 1, 1094 a 27-b 2.  Essi peraltro, e tutti i commentatori della <i>Metafisica</i> che trovavano nel testo aristotelico una possibile minaccia alla supremazia della Filosofia Prima, avevano operato una distinzione tra l' ordinare quanto all'uso di una cosa e l' ordinare quanto alla struttura stessa di una cosa: solo il primo appartiene all' <i>Etica</i>. Del resto anche nel <i>Convivio</i> la <i>Metafisica</i> continuerà ad essere la scienza in cui la Filosofia ""con più fervore termina il suo viso"" e la vita contemplativa, basata sulle virtù intellettuali continuerà ad essere giudicata superiore a quella fondata esclusivamente sulle virtù morali  (cfr. <i>Cv</i>  III xi 16; IV xvii 11-12).","I 1, 1094 a 27-b 2",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SECONDO CHE DICE TOMMASO SOPRA LO SECONDO DELL'ETICA,"si tratta piuttosto del Commento al primo libro, <i>lectio</i> 2, nn. 26-27.","primo libro, lectio 2, nn. 26-27",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
COME DICE LO FILOSOFO NEL QUINTO DELL'ETICA,"in realtà, come abbiamo visto, il testo aristotelico in cui si afferma che uno dei compiti della <i>scientia civilis</i> è stabilire quali scienze siano da coltivare nelle città e fino a qual punto non si trova nel quinto libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> (che parla effettivamente della giustizia legale politica), bensì nel primo (I 1, 1094 a 27- b 2) e si riferisce non alla scienza morale in senso stretto, ma più in generale a quella politica; inoltre la citazione non è letterale (Aristotele non parla del pericolo che le scienze siano abbandonate). Possiamo pensare ad una contaminazione (se lo studio delle scienze è prescritto dalla scienza politica, lo sarà attraverso leggi, e della giustizia politica tratta il quinto libro dell' <i>Etica Nicomachea</i>), che produce una forzatura del testo.","I 1, 1094 a 27- b 2",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
ONDE POGNAMO CHE,"per renderci conto di questo, ammettiamo per ipotesi che. Calco dal latino universitario 'unde ponamus quod'. Dante specifica le conseguenze di un' ipotetica cessazione del movimento del Primo Mobile: il cielo delle stelle fisse, se privo del moto diurno,  avrebbe solo quello, lentissimo, lungo lo Zodiaco. Dalla creazione del mondo avrebbe percorso solo 65 gradi della sua orbita (6.500 anni diviso 100, il numero degli anni, ricordiamolo, necessari per procedere di un grado). Sommandoli ai 180 corrispondenti alla volta stellata visibile fin dal primo giorno si arriva a 245. Poiché l'intero è di 360 gradi, poco meno di un terzo rimarrebbe ancora  invisibile ad ogni luogo della terra. Anche i pianeti si muoverebbero solo lungo l'eclittica: così essi  rimarrebbero nascosti ai due emisferi  per la metà del tempo impiegato a compiere la loro orbita, per il tempo, cioè, in cui viene percorsa la semisfera celeste opposta; il movimento del Cristallino, invece, fa loro percorrere ogni giorno tutta la volta celeste (i valori numerici si ottengono appunto dimezzando per ogni pianeta il tempo necessario per percorrere interamente lo Zodiaco, così come fornito da Alfragano. Vedi il rimando al <i>Liber aggregationis in</i> Toynbee, pp. 71-2).","Toynbee, pp. 71-2",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Liber_aggregationis,Liber aggregationis,Alfragano,http://dbpedia.org/resource/Ahmad_ibn_Muhammad_ibn_Kath%C4%ABr_al-Fargh%C4%81n%C4%AB,http://purl.org/bncf/tid/7996,WORK
LA DIVINA SCIENZA,"si tratta evidentemente della teologia, che sta al vertice delle scienze come l'Empireo sta al vertice del cosmo. In questa gerarchia Dante accetta pienamente il punto di vista corrente, condiviso sia dai filosofi che dai teologi (basterà per tutti rinviare al <i>De regimine principum</i> di Egidio Romano, II ii 8,  p. 308). La teologia di cui parla il <i>Convivio</i>, che non ammette contrasti di dottrina o uso litigioso dell'argomentazione, (non soffera lite alcuna d'oppinione o uso di sofistici argomenti"") è però molto diversa da quella esercitata ed anche teorizzata nelle aule universitarie o negli <i>Studi</i> conventuali, che lungi dall'escludere ogni discussione, proprio della disputa usava come di uno strumento privilegiato: ""l'eccellentissima certezza"" del suo oggetto (""subietto"")  sostenuta non solo da Dante, ma da tutti i professori di teologia non impediva affatto che ci  fossero opinioni contrastanti di singoli e di scuole sostenute con tutti gli argomenti possibili  (sì, proprio le ""liti d'oppinioni""). Nel tumultuoso panorama dell'Università di Parigi della seconda metà del '200 non c'è molto posto per la pace teologica. Dante ha conosciuto questo tipo di teologia, e non lo ha apprezzato: nel <i>Paradiso</i> Beatrice parlerà con poca simpatia delle ""vostre scole""  dove ""per apparer ciascun s'ingegna e face / sue invenzioni"" (che possono ben corrispondere agli argomenti sofistici, argomenti apparenti per eccellenza) e si dorrà che sulla terra si vada filosofando per più di un sentiero: cfr. <i>Pd</i>  XXIX 85-95 dove trattandosi nello specifico di problemi legati alla natura degli angeli, quel ""filosofando"" vale un ""teologizzando"" (cfr. Nardi 1966, p. 42). Bisognerà allora sottolineare come Dante non adoperi qui, e neppure in alcun altro passo del <i>Convivio</i> il termine ""teologia"". L' espressione  ""scienza divina"" risale sicuramente ad Aristotele che così aveva definito la <i>Metafisica</i> in quanto conoscenza posseduta in primo luogo da Dio stesso (cfr. <i>Metaph</i>. I 2, 983 a 5-7) e questo sembra anche il significato in cui la usa Dante: essa infatti coincide totalmente, per l'uomo <i>viator</i>, con i contenuti della fede (la 'fides quae creditur'), cioè con la dottrina lasciata ai discepoli da Cristo (""dando e lasciando a loro la sua dottrina, che è questa scienza di cui parlo"". La citazione è da <i>Io</i> 14, 27); se essa fa ""perfettamente il vero vedere"", se in questa visione la nostra anima si acquieta  (""si cheta"") e trova definitivamente pace è perché in qualche modo essa anticipa qui in via la condizione dei beati in patria dove solo si vede ""pura / la verità che là giù si confonde"" (è ancora Beatrice che parla, <i>Pd</i>  XXIX 73-74). Tra questo tipo di conoscenza e la filosofia non risulta alcun rapporto di integrazione o di subordinazione: i due ambiti rimangono del tutto distinti anche se, in qualche modo, i limiti del sapere filosofico umano sembrano racchiudere un appello alla visione completa della verità donata per grazia. Come l' Empireo fa parte e non fa parte del cosmo, perché è un luogo-non luogo, così la teologia vagheggiata da Dante chiude il sistema delle scienze essendone sostanzialmente diversa. A questo proposito rimangono fondamentali le notazioni di Etienne Gilson (Gilson¹ 1939, pp. 114-122 ) riprese da K. Forster nella voce <i>Teologia</i> in ED (vol. V, pp. 564-8).","II ii 8,  p. 308",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_regimine_principum,De regimine principum (Egidio Romano),Egidio Romano,http://dbpedia.org/resource/Giles_of_Rome,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
LA DIVINA SCIENZA,"si tratta evidentemente della teologia, che sta al vertice delle scienze come l'Empireo sta al vertice del cosmo. In questa gerarchia Dante accetta pienamente il punto di vista corrente, condiviso sia dai filosofi che dai teologi (basterà per tutti rinviare al <i>De regimine principum</i> di Egidio Romano, II ii 8,  p. 308). La teologia di cui parla il <i>Convivio</i>, che non ammette contrasti di dottrina o uso litigioso dell'argomentazione, (non soffera lite alcuna d'oppinione o uso di sofistici argomenti"") è però molto diversa da quella esercitata ed anche teorizzata nelle aule universitarie o negli <i>Studi</i> conventuali, che lungi dall'escludere ogni discussione, proprio della disputa usava come di uno strumento privilegiato: ""l'eccellentissima certezza"" del suo oggetto (""subietto"")  sostenuta non solo da Dante, ma da tutti i professori di teologia non impediva affatto che ci  fossero opinioni contrastanti di singoli e di scuole sostenute con tutti gli argomenti possibili  (sì, proprio le ""liti d'oppinioni""). Nel tumultuoso panorama dell'Università di Parigi della seconda metà del '200 non c'è molto posto per la pace teologica. Dante ha conosciuto questo tipo di teologia, e non lo ha apprezzato: nel <i>Paradiso</i> Beatrice parlerà con poca simpatia delle ""vostre scole""  dove ""per apparer ciascun s'ingegna e face / sue invenzioni"" (che possono ben corrispondere agli argomenti sofistici, argomenti apparenti per eccellenza) e si dorrà che sulla terra si vada filosofando per più di un sentiero: cfr. <i>Pd</i>  XXIX 85-95 dove trattandosi nello specifico di problemi legati alla natura degli angeli, quel ""filosofando"" vale un ""teologizzando"" (cfr. Nardi 1966, p. 42). Bisognerà allora sottolineare come Dante non adoperi qui, e neppure in alcun altro passo del <i>Convivio</i> il termine ""teologia"". L' espressione  ""scienza divina"" risale sicuramente ad Aristotele che così aveva definito la <i>Metafisica</i> in quanto conoscenza posseduta in primo luogo da Dio stesso (cfr. <i>Metaph</i>. I 2, 983 a 5-7) e questo sembra anche il significato in cui la usa Dante: essa infatti coincide totalmente, per l'uomo <i>viator</i>, con i contenuti della fede (la 'fides quae creditur'), cioè con la dottrina lasciata ai discepoli da Cristo (""dando e lasciando a loro la sua dottrina, che è questa scienza di cui parlo"". La citazione è da <i>Io</i> 14, 27); se essa fa ""perfettamente il vero vedere"", se in questa visione la nostra anima si acquieta  (""si cheta"") e trova definitivamente pace è perché in qualche modo essa anticipa qui in via la condizione dei beati in patria dove solo si vede ""pura / la verità che là giù si confonde"" (è ancora Beatrice che parla, <i>Pd</i>  XXIX 73-74). Tra questo tipo di conoscenza e la filosofia non risulta alcun rapporto di integrazione o di subordinazione: i due ambiti rimangono del tutto distinti anche se, in qualche modo, i limiti del sapere filosofico umano sembrano racchiudere un appello alla visione completa della verità donata per grazia. Come l' Empireo fa parte e non fa parte del cosmo, perché è un luogo-non luogo, così la teologia vagheggiata da Dante chiude il sistema delle scienze essendone sostanzialmente diversa. A questo proposito rimangono fondamentali le notazioni di Etienne Gilson (Gilson¹ 1939, pp. 114-122 ) riprese da K. Forster nella voce <i>Teologia</i> in ED (vol. V, pp. 564-8).","I 2, 983 a 5-7",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DICE SALOMONE,"cfr. <i>Ct</i> 6, 7 Sexagintae sunt reginae et octoginta concubinae et adulescentularum non est numerus; una est columba mea, perfecta mea"" (nel testo del <i>Cantico</i> non sono presenti i termini ""amiche"" e ""ancelle"" aggiunti da Dante).","Ct 6, 7 Sexagintae sunt reginae et octoginta concubinae et adulescentularum non est numerus; una est columba mea, perfecta mea""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Song_of_Songs,Cantico dei cantici,Salomone,http://dbpedia.org/resource/Solomon,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
GLORIOSA DI LIBERTADE,"essere libero significa essere padrone di se stesso  (cfr <i>Metaph</i>. I 2, 982 b 25-26) e solo esercitando la razionalità l'uomo si possiede pienamente (vedi <i>Cv</i> III xiv 9-10)","I 2, 982 b 25-26",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
LI OCCHI ... DEMONSTRAZIONI,"come aveva affermato Alberto Magno (e prima di lui Averroè) il dimostrare è carattere distintivo della Filosofia (e dei filosofi). Ma esser conquistata dalle dimostrazioni della Filosofia e vivere sotto le sue regole (nelle sue condizioni"") significa per l'anima conquistare la libertà. (""l'anima liberata""). La metafora degli occhi della donna - dimostrazioni della filosofia tornerà in <i>Cv.</i> III xv 2 e IV ii 17.","cap. IX,  p. 112, l. 24",CONCORDANZA GENERICA,,,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,CONCEPT
LI OCCHI ... DEMONSTRAZIONI,"come aveva affermato Alberto Magno (e prima di lui Averroè) il dimostrare è carattere distintivo della Filosofia (e dei filosofi). Ma esser conquistata dalle dimostrazioni della Filosofia e vivere sotto le sue regole (nelle sue condizioni"") significa per l'anima conquistare la libertà. (""l'anima liberata""). La metafora degli occhi della donna - dimostrazioni della filosofia tornerà in <i>Cv.</i> III xv 2 e IV ii 17.","cap. IX,  p. 112, l. 24",CONCORDANZA GENERICA,,,Averroè,http://dbpedia.org/resource/Averroes,http://purl.org/bncf/tid/19144,CONCEPT
LA MORTE DELLA IGNORANZA,"come abbiamo già intravisto (cfr. <i>Cv</i> I xiii 12) e come vedremo ancora meglio in seguito (cfr. <i>Cv</i> IV vii 11-12), per Dante, d'accordo in questo con Averroè, con Sigieri di Brabante, e con 'molt'altri', l'uomo che non esercita a pieno la sua facoltà intellettiva è uomo solo all'apparenza, e la sua vita è, per dirla con le parole di Seneca citate da Sigieri di Brabante nel <i>De anima intellectiva</i>, una vivi hominis sepultura""  (cfr. <i>De anima intellectiva</i>, cap. IX,  p. 112, l. 24).","cap. IX,  p. 112, l. 24",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_anima_intellectiva,De anima intellectiva,Sigieri di Brabante,http://dbpedia.org/resource/Siger_of_Brabant,http://purl.org/bncf/tid/762,WORK
MISERE E VILI DELETTAZIONI,"piaceri bassi e miserabili', cioè tutti quelli che contrastano con l'attività dell'intelletto. Come scrive Boezio di Dacia la delectatio sensibilis"" è ""minor et vilior"" di quella intellettuale (cfr. <i>De summo bono</i>, p. 370).",p. 370,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_summo_bono,De summo bono,Boezio di Dacia,http://dbpedia.org/resource/Boetius_of_Dacia,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
VULGARI COSTUMI,"comportamenti propri della massa, del volgo'. Sul contrasto tra le opinioni della massa e quella dei pochi relativamente alla felicità cfr. <i>Eth. Nic</i>.  I  4,  1095 a 20-23;  5, 1095 b 16 sgg.","I  4,  1095 a 20-23",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
VULGARI COSTUMI,"comportamenti propri della massa, del volgo'. Sul contrasto tra le opinioni della massa e quella dei pochi relativamente alla felicità cfr. <i>Eth. Nic</i>.  I  4,  1095 a 20-23;  5, 1095 b 16 sgg.","I 5, 1095 b 16 sgg",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
ADORNAMENTI DELLI MIRACOLI,"Dante ritiene miracolo"" sinonimo di cosa meravigliosa (cfr. Tommaso, <i>Summa contra Gentiles</i> III, cap. 101, n. 2763 "" hoc sonat nomen 'miraculi', quod scilicet sit de se admiratione plenum"") e meravigliose sono le cose che suscitano meraviglia in chi le osserva. Nell'interpretazione allegorica gli ""ornamenti"" di queste realtà consistono nello svelare le loro cause (""vedere le cagioni di quelle""). Proprio questo fa la Filosofia (""le quali ella dimostra""): questo infatti sembra voler dire (""sentire"") Aristotele quando al principio della <i>Metafisica</i> dice che gli uomini cominciarono a filosofare (metaforicamente ""cominciaro ad innamorare di questa donna"") proprio per conoscere le cause di ciò che suscitava in loro meraviglia  (""per questi adornamenti vedere""). In effetti nel secondo capitolo del primo libro della <i>Metafisica</i> (982 b 12-13) Aristotele pone l'inizio della riflessione filosofica nella meraviglia provata davanti ai fenomeni naturali ""Nam propter admirari coeperunt homines philosophari"". Meravigliarsi significa però non conoscere ancora la causa di ciò che ci colpisce. Filosofare è cercarla e scoprirla, cioè superare e dissolvere quel che costituiva la sua motivazione iniziale (cfr. <i>Metaph</i>.  I 2, 982 b 13-18; 983 a 11-18).","III, cap. 101, n. 2763 "" hoc sonat nomen 'miraculi', quod scilicet sit de se admiratione plenum""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_contra_Gentiles,Summa contra Gentiles,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
ADORNAMENTI DELLI MIRACOLI,"Dante ritiene miracolo"" sinonimo di cosa meravigliosa (cfr. Tommaso, <i>Summa contra Gentiles</i> III, cap. 101, n. 2763 "" hoc sonat nomen 'miraculi', quod scilicet sit de se admiratione plenum"") e meravigliose sono le cose che suscitano meraviglia in chi le osserva. Nell'interpretazione allegorica gli ""ornamenti"" di queste realtà consistono nello svelare le loro cause (""vedere le cagioni di quelle""). Proprio questo fa la Filosofia (""le quali ella dimostra""): questo infatti sembra voler dire (""sentire"") Aristotele quando al principio della <i>Metafisica</i> dice che gli uomini cominciarono a filosofare (metaforicamente ""cominciaro ad innamorare di questa donna"") proprio per conoscere le cause di ciò che suscitava in loro meraviglia  (""per questi adornamenti vedere""). In effetti nel secondo capitolo del primo libro della <i>Metafisica</i> (982 b 12-13) Aristotele pone l'inizio della riflessione filosofica nella meraviglia provata davanti ai fenomeni naturali ""Nam propter admirari coeperunt homines philosophari"". Meravigliarsi significa però non conoscere ancora la causa di ciò che ci colpisce. Filosofare è cercarla e scoprirla, cioè superare e dissolvere quel che costituiva la sua motivazione iniziale (cfr. <i>Metaph</i>.  I 2, 982 b 13-18; 983 a 11-18).","I 2, 982 b 13-18; 983 a 11-18",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PITTAGORA ...,"che i termini filosofo"" e ""filosofia"" fossero stati usati per la prima volta da Pitagora era dottrina vulgata nel Medioevo: dalle <i>Tusculanae Disputationes</i> di Cicerone (V, 3,  8-9) infatti, era passata in un testo di amplissima diffusione come il <i>De civitate Dei</i> (VIII 2, p. 217. Cfr. <i>Cv</i> III xi 5. Cfr. anche il Commento di Tommaso a <i>Metaph.</i> I, <i>lectio</i> 3, n. 56).","V, 3,  8-9",CONCORDANZA STRINGENTE,http://it.dbpedia.org/resource/Tusculanae_disputationes,Tusculanae Disputationes,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
PITTAGORA ...,"che i termini filosofo"" e ""filosofia"" fossero stati usati per la prima volta da Pitagora era dottrina vulgata nel Medioevo: dalle <i>Tusculanae Disputationes</i> di Cicerone (V, 3,  8-9) infatti, era passata in un testo di amplissima diffusione come il <i>De civitate Dei</i> (VIII 2, p. 217. Cfr. <i>Cv</i> III xi 5. Cfr. anche il Commento di Tommaso a <i>Metaph.</i> I, <i>lectio</i> 3, n. 56).","VIII 2, p. 217",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/City_of_God_(book),De civitate Dei,Agostino,http://dbpedia.org/resource/Augustine_of_Hippo,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
PITTAGORA ...,"che i termini filosofo"" e ""filosofia"" fossero stati usati per la prima volta da Pitagora era dottrina vulgata nel Medioevo: dalle <i>Tusculanae Disputationes</i> di Cicerone (V, 3,  8-9) infatti, era passata in un testo di amplissima diffusione come il <i>De civitate Dei</i> (VIII 2, p. 217. Cfr. <i>Cv</i> III xi 5. Cfr. anche il Commento di Tommaso a <i>Metaph.</i> I, <i>lectio</i> 3, n. 56).","I, lectio 3, n. 56",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Metaphysicae(Tommaso),Sententia libri Metaphysicae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
AVVEGNA CHE ... DELIBERAI,"nonostante (avvegna che"") la forza d'amore indebolisse in Dante la facoltà di soppesare e valutare secondo ragione le azioni da compiere (questo è il significato tecnico del ""consilio"" che il poeta confessa di aver poca capacità, ""poca potestade"" di padroneggiare), tuttavia (""pure""), o per intervento diretto di Amore o per piena e personale disponibilità (""prontezza""), egli ha discusso con se stesso cosa fare (""ad esso m' accostai"") più e più volte (""per più fiate"") finché (""in tanto ... che"") non ebbe raggiunto una decisione. ""Deliberare"" è l'atto che deriva direttamente dal ""consigliarsi"". Tutta la terminologia è attinta dai capitoli 2 e 3 del terzo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> in cui Aristotele esamina le componenti dell'azione volontaria e dal commento corrispondente di Tommaso.",capitoli 2 e 3 del terzo libro dell' Etica Nicomachea,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
AVVEGNA CHE ... DELIBERAI,"nonostante (avvegna che"") la forza d'amore indebolisse in Dante la facoltà di soppesare e valutare secondo ragione le azioni da compiere (questo è il significato tecnico del ""consilio"" che il poeta confessa di aver poca capacità, ""poca potestade"" di padroneggiare), tuttavia (""pure""), o per intervento diretto di Amore o per piena e personale disponibilità (""prontezza""), egli ha discusso con se stesso cosa fare (""ad esso m' accostai"") più e più volte (""per più fiate"") finché (""in tanto ... che"") non ebbe raggiunto una decisione. ""Deliberare"" è l'atto che deriva direttamente dal ""consigliarsi"". Tutta la terminologia è attinta dai capitoli 2 e 3 del terzo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> in cui Aristotele esamina le componenti dell'azione volontaria e dal commento corrispondente di Tommaso.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
SIMILITUDINE S'INTENDE,"si deve pensare ad una qualche forma di somiglianza'. Che l'amicizia si basi sulla somiglianza e l'uguaglianza è dottrina dell'etica aristotelica (cfr. <i>Eth. Nic</i>. VIII 8, 1159 b 2-3).","VIII 8, 1159 b 2-3",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SÌ COME DICE LO FILOSOFO,"Dante fa riferimento ad alcuni elementi della dottrina aristotelica sull'amicizia. Nei capitoli settimo del libro ottavo e primo del libro nono dell' <i>Etica Nicomachea</i> (a quest'ultimo Dante rimanda in modo esplicito) Aristotele aveva concesso che, là dove le differenze non sono insormontabili (caso limite, quelle tra uomini e dei), è possibile anche amicizia tra inferiori e superiori (tra persone dissimili di stato"", diverse cioè per condizione sociale e politica) purché si introduca un correttivo: in questo tipo di amicizia, infatti, non si ha una relazione simmetrica in cui l'amico riceve in pari misura a quanto dà, ma bisogna, perché l'amicizia si conservi (""a conservazione di quella"") che lo scambio sia proporzionato (""conviene ... una proporzione essere intra loro"") in modo che chi è superiore riceva più di quanto non dia. Questa proporzione in qualche modo riconduce la differenza iniziale ad una somiglianza (""che la dissimilitudine a similitudine quasi reduca"". Cfr. <i>Eth. Nic</i>. VIII 7, 1158b 23-28; IX 1, 1163 b 32-33). Nella <i>Lettera a Cangrande</i> Dante fonda su questa dottrina la possibilità di dichiararsi amico del Signore di Verona, inviandogli come dono adeguato la terza cantica della <i>Commedia</i> ""Itaque cum in dogmatibus moralis negotii amicitiam adaequari et salvari analogo doceatur, ad retribuendum pro collatis beneficiis plus quam semel analogiam mihi sequi votivum est "" (<i>cfr. Ep</i>. XIII 10-11, pp. 604-605).","VIII 7, 1158b 23-28",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SÌ COME DICE LO FILOSOFO,"Dante fa riferimento ad alcuni elementi della dottrina aristotelica sull'amicizia. Nei capitoli settimo del libro ottavo e primo del libro nono dell' <i>Etica Nicomachea</i> (a quest'ultimo Dante rimanda in modo esplicito) Aristotele aveva concesso che, là dove le differenze non sono insormontabili (caso limite, quelle tra uomini e dei), è possibile anche amicizia tra inferiori e superiori (tra persone dissimili di stato"", diverse cioè per condizione sociale e politica) purché si introduca un correttivo: in questo tipo di amicizia, infatti, non si ha una relazione simmetrica in cui l'amico riceve in pari misura a quanto dà, ma bisogna, perché l'amicizia si conservi (""a conservazione di quella"") che lo scambio sia proporzionato (""conviene ... una proporzione essere intra loro"") in modo che chi è superiore riceva più di quanto non dia. Questa proporzione in qualche modo riconduce la differenza iniziale ad una somiglianza (""che la dissimilitudine a similitudine quasi reduca"". Cfr. <i>Eth. Nic</i>. VIII 7, 1158b 23-28; IX 1, 1163 b 32-33). Nella <i>Lettera a Cangrande</i> Dante fonda su questa dottrina la possibilità di dichiararsi amico del Signore di Verona, inviandogli come dono adeguato la terza cantica della <i>Commedia</i> ""Itaque cum in dogmatibus moralis negotii amicitiam adaequari et salvari analogo doceatur, ad retribuendum pro collatis beneficiis plus quam semel analogiam mihi sequi votivum est "" (<i>cfr. Ep</i>. XIII 10-11, pp. 604-605).","IX 1, 1163 b 32-33",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
LO SIGNORE E LO SERVO,"un accenno alla possibile amicizia tra padrone e servo, non però in quanto servo, ma in quanto uomo, si trova in <i>Eth. Nic</i>. VIII 10, 1161 b 2-8. Precedentemente Aristotele aveva parlato dei possibili rapporti di amicizia tra governanti e governati (cfr. VIII, 7, 1158 b 13-14). Probabilmente Dante, in maniera analoga ad altri autori medievali, trascrive una relazione di tipo politico in termini di rapporti sociali, favorito in questo anche dalla traduzione latina (Altera amicitiae species ... puta ... omni imperanti ad imperatum"").","VIII 10, 1161 b 2-8",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
LO SIGNORE E LO SERVO,"un accenno alla possibile amicizia tra padrone e servo, non però in quanto servo, ma in quanto uomo, si trova in <i>Eth. Nic</i>. VIII 10, 1161 b 2-8. Precedentemente Aristotele aveva parlato dei possibili rapporti di amicizia tra governanti e governati (cfr. VIII, 7, 1158 b 13-14). Probabilmente Dante, in maniera analoga ad altri autori medievali, trascrive una relazione di tipo politico in termini di rapporti sociali, favorito in questo anche dalla traduzione latina (Altera amicitiae species ... puta ... omni imperanti ad imperatum"").","VIII, 7, 1158 b 13-14",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
COME DICE BOEZIO,"cfr. <i>De consolatione philosophiae</i> II, prosa 1, 15, p. 30: Neque enim quod ante oculos situm est, suffecerit intueri"" ripreso dal <i>Trésor</i> di Brunetto Latini (II LX 2, p. 462).","II, prosa 1, 15, p. 30: Neque enim quod ante oculos situm est, suffecerit intueri""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
COME DICE BOEZIO,"cfr. <i>De consolatione philosophiae</i> II, prosa 1, 15, p. 30: Neque enim quod ante oculos situm est, suffecerit intueri"" ripreso dal <i>Trésor</i> di Brunetto Latini (II LX 2, p. 462).","II LX 2, p. 462",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Tresor,Trésor,Brunetto Latini,http://dbpedia.org/resource/Brunetto_Latini,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
UNIMENTO ... SPIRITUALE,"che ogni forma di amore sia una 'vis unitiva' è dottrina dello pseudo Dionigi Areopagita (<i>De divinis nominibus</i> 4 amorem sive divinum sive angelicum sive intellectualem sive animalem sive naturalem dicamus, unitivam quandam et concretivam intelligemus virtutem"" PG 3, p. 713 A; <i>Dyonisiaca</i> I, p. 224). I testi attribuiti a questo discepolo ateniese di Paolo (cfr. <i>Cv</i> II v 8), ma in realtà non anteriori al VI secolo dopo Cristo, trasmettevano al Medioevo una teologia sostanziata di elementi neo-platonici mutuati soprattutto da Proclo. La definizione dell' <i>amor</i> come forza di unione tra due cose era da qui passata sia in Alberto Magno che in Tommaso. La precisazione ""spirituale"" vuole operare una distinzione nei confronti della tradizione poetica e della trattatistica medica che, pur differenziandosi per molti aspetti, facevano comunque nascere l'amore dalla sensazione fisica e lo consideravano come una passione corporea.","PG 3, p. 713 A; Dyonisiaca I, p. 224",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_divinis_nominibus,De divinis nominibus,Dionigi Areopagita (ps.),http://dbpedia.org/resource/Pseudo-Dionysius_the_Areopagite,http://purl.org/bncf/tid/8332,WORK
E LA RAGIONE DI QUESTA ...,"a partire da qui e fino al paragrafo 8 Dante fornisce una complessa ed articolata spiegazione del processo di unione spirituale. L'amore così inteso ha come presupposto una grandiosa struttura metafisica, dal cui vertice, Dio, fluiscono insieme essere e bene. Le singole realtà che li ricevono ne partecipano tutte sia pure secondo gradi diversi e sono dunque buone e desiderabili. L'anima umana, che più riceve della natura divina che alcun'altra"" imita Dio desiderando per natura di permanere nell'essere; così facendo desidera essere unita a Dio per conservare la sua esistenza e poiché, come abbiamo visto, le altre realtà naturali partecipano della bontà divina, l'anima desidera unirsi anche a loro, e più con quelle che più ne partecipano. Il testo portato in campo da Dante è il <i>Liber de causis</i> (""Libro di cagioni"") un riadattamento della <i>Elementatio Theologica</i> di Proclo, integrata con testi di Plotino, effettuato a Bagdad, nel circolo del primo filosofo arabo, Al-Kindi. L'opuscolo, (costituito da 31 proposizioni seguite da un commento, secondo il modello degli <i>Elementi</i> di Euclide) era stato tradotto in latino da Gerardo da Cremona a Toledo nella seconda metà del XII secolo (l'ipotesi che esso sia stato non solo tradotto, ma anche composto in Spagna è ormai comunemente respinta). Adottato nell'insegnamento filosofico universitario aveva avuto una diffusione larghissima ed era stato commentato dai maggiori rappresentanti del pensiero medievale: Alberto Magno, Sigieri di Brabante, Tommaso, Egidio Romano. Fino a quando Guglielmo di Moerbeke non tradusse nel 1268 l' <i>Elementatio Theologica</i> di Proclo e dette quindi modo a Tommaso di rilevarne la sorprendente parentela con il <i>De causis</i>, lo scritto fu generalmente attribuito ad Aristotele. Poiché in questo paragrafo del <i>Convivio</i> Dante traduce parola per parola parte della proposizione XIX (XX), p. 89 ""Et diversificantur bonitates et dona ex concursu recipientis"": ""E fannosi diverse le bontadi e i doni per lo concorrimento della cosa che riceve"" (stranamente questa citazione non è presa in considerazione dal Nardi  nel suo lavoro sulle citazioni dantesche del <i>Liber de causis</i>. Vedi Nardi 1967, pp. 81-102), potremmo pensare ad una sua conoscenza diretta del testo (altra traduzione letterale di un'altra parte della medesima proposizione in <i>Cv</i> III vii 2-3.). Per altro in <i>Cv</i> IV xxi 9 un'altra citazione dal <i>De causis</i> sembra mediata da Alberto Magno.",Guglielmo di Moerbeke non tradusse nel 1268,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Liber_de_Causis,Liber de causis,Aristotele (ps.),http://dbpedia.org/resource/Pseudo-Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
CIASCUNO EFFETTO,"l'affermazione generale che ogni effetto mantiene in sé (""ritegna"") un qualcosa della natura della sua causa non è presente alla lettera nel <i>Liber de causis</i>, ma forse è derivabile dalla proposizione XVII (citata dal <i>Vasoli</i> e ripresa dallo <i>Cheneval</i>) in cui si dice che se ogni causa dà qualcosa al suo causato, l'essere primo darà a tutti gli enti l'essere.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Liber_de_Causis,Liber de causis,Aristotele (ps.),http://dbpedia.org/resource/Pseudo-Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
N' HA IN ALCUNO MODO CIRCULARE ESSERE,"ne deriva la proprietà di essere in qualche modo circolare'. Dante dà alle affermazioni del <i>De motibus</i> di Alpetragio - Al-Bitruji una portata generale che esse non hanno: Alpetragio infatti, quando dice che il movimento circolare del cielo imprime al fuoco nella sua sfera un movimento anch'esso circolare, non sembra volerne fare il caso particolare di una legge universale (il testo del <i>De motibus</i> in Nardi 1967, pp. 161-162).","Nardi 1967, pp. 161-162",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_motibus(Alpetragio),De motibus,Alpetragio,http://dbpedia.org/resource/Nur_ad-Din_al-Bitruji,http://purl.org/bncf/tid/7996,WORK
MA DA QUELLE [è] PARTICIPATA,"il modo con cui le forme possiedono l'essere divino è quello della partecipazione"", un concetto genuinamente platonico, ripreso ed elaborato da Tommaso (cfr. il commento a <i>Phys</i>. I, <i>lectio</i> 15, n. 135: ""Omnis forma est quaedam participatio similitudinis divini esse"").","I, lectio 15, n. 135: ""Omnis forma est quaedam participatio similitudinis divini esse""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commentaria_in_octo_libros_Physicorum(Tommaso),Commentaria in octo libros Physicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
PER LO MODO QUASI CHE,"quasi nello stesso modo in cui'. Il paragone con il rapporto tra il sole e gli altri astri rimanda ad alcuni testi in cui sia lo pseudo Dionigi Areopagita sia Alberto Magno presentano un parallelo tra il sole come fonte di luce e la causa prima come fonte di bene e di essere (cfr. <i>De divinis nominibus</i> 4 Etenim sicut noster sol ... per ipsum esse illuminat omnia participare lumine ipsius secundum propria rationem valentia, ita quidem et bonum super solem ... per ipsam essentiam omnibus existentibus proportionaliter immittit totius bonitatis radios"", PG 3, p. 693 B; <i>Dionysiaca</i> I, p. 149; <i>De causis et processu universitatis</i> I,  tr. 1, cap. 10, p. 24, ll. 3-14 e soprattutto I, tr. 4, cap. 1, p. 43, ll. 14-23). In nessuno di questi, però, si parla di una partecipazione di natura.","4 Etenim sicut noster sol ... per ipsum esse illuminat omnia participare lumine ipsius secundum propria rationem valentia, ita quidem et bonum super solem ... per ipsam essentiam omnibus existentibus proportionaliter immittit totius bonitatis radios"", PG 3, p. 693 B; Dionysiaca I, p. 149; D""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_divinis_nominibus,De divinis nominibus,Dionigi Areopagita (ps.),http://dbpedia.org/resource/Pseudo-Dionysius_the_Areopagite,http://purl.org/bncf/tid/8332,WORK
PER LO MODO QUASI CHE,"quasi nello stesso modo in cui'. Il paragone con il rapporto tra il sole e gli altri astri rimanda ad alcuni testi in cui sia lo pseudo Dionigi Areopagita sia Alberto Magno presentano un parallelo tra il sole come fonte di luce e la causa prima come fonte di bene e di essere (cfr. <i>De divinis nominibus</i> 4 Etenim sicut noster sol ... per ipsum esse illuminat omnia participare lumine ipsius secundum propria rationem valentia, ita quidem et bonum super solem ... per ipsam essentiam omnibus existentibus proportionaliter immittit totius bonitatis radios"", PG 3, p. 693 B; <i>Dionysiaca</i> I, p. 149; <i>De causis et processu universitatis</i> I,  tr. 1, cap. 10, p. 24, ll. 3-14 e soprattutto I, tr. 4, cap. 1, p. 43, ll. 14-23). In nessuno di questi, però, si parla di una partecipazione di natura.","De causis et processu universitatis I, tr. 1, cap. 10, p. 24, ll. 3-14",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_causis_et_processu_universitatis,De causis et processu universitatis,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
PER LO MODO QUASI CHE,"quasi nello stesso modo in cui'. Il paragone con il rapporto tra il sole e gli altri astri rimanda ad alcuni testi in cui sia lo pseudo Dionigi Areopagita sia Alberto Magno presentano un parallelo tra il sole come fonte di luce e la causa prima come fonte di bene e di essere (cfr. <i>De divinis nominibus</i> 4 Etenim sicut noster sol ... per ipsum esse illuminat omnia participare lumine ipsius secundum propria rationem valentia, ita quidem et bonum super solem ... per ipsam essentiam omnibus existentibus proportionaliter immittit totius bonitatis radios"", PG 3, p. 693 B; <i>Dionysiaca</i> I, p. 149; <i>De causis et processu universitatis</i> I,  tr. 1, cap. 10, p. 24, ll. 3-14 e soprattutto I, tr. 4, cap. 1, p. 43, ll. 14-23). In nessuno di questi, però, si parla di una partecipazione di natura.","I, tr. 4, cap. 1, p. 43, ll. 14-23",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_causis_et_processu_universitatis,De causis et processu universitatis,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
NATURALISSIMO È IN DIO VOLERE ESSERE,"che Dio, per la sua stessa natura, voglia essere poteva in qualche modo leggersi nel Commento di Tommaso all' <i>Etica Nicomachea</i> IX, <i>lectio</i> 4, n. 1807 Unusquisque vult se esse inquantum conservatur id quod ipse est. Id autem quod maxime conservatur in suo esse, est Deus"".","IX, lectio 4, n. 1807 ""Unusquisque vult se esse inquantum conservatur id quod ipse est. Id autem quod maxime conservatur in suo esse, est Deus""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
SÌ COME NELLO ALLEGATO LIBRO SI LEGGE,"il rimando al già citato (allegato"") <i>Liber de Causis</i> è un esempio di come Dante utilizzi le sue <i>auctoritates</i> decontestualizzandole e in questo caso addirittura modificandole. La frase ""prima cosa è l'essere e anzi a quello nulla è"" traduce la quarta proposizione ""prima rerum creatarum est esse et non est ante ipsum creatum aliud"" (p. 54), ma, eliminando i termini ""creatarum"" e ""creatum"" ne modifica sostanzialmente il significato: l'essere non è più, come nel modello neoplatonico di Proclo, la prima produzione del Primo Principio, ma il primo Principio stesso, cioè Dio, che volendo se stesso, vuole essere (vedi Nardi 1967, pp. 95-97). L'anima umana, partecipando al massimo grado della natura divina, con tutte le sue forze (""con tutto desiderio"") vuole anch'essa esistere. Ma proprio perché il suo essere dipende da Dio e per mezzo suo si mantiene (""per quello si conserva""; tutta la frase è calco, anche stilistico, di un <i>topos</i> diffusissimo nei testi filosofici universitari: 'res a Deo non solum sunt sed etiam conservantur in esse') essa, per potenziare (""fortificare"") il proprio essere desidera mantenersi unita a Dio.",,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Liber_de_Causis,Liber de causis,Aristotele (ps.),http://dbpedia.org/resource/Pseudo-Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DICO ADUNQUE,"per definire in maniera corretta il termine mente"" Dante riassume in questo paragrafo e nei seguenti la dottrina aristotelica sull'anima e le sue diverse facoltà, utilizzando sia il <i>De anima</i>, sia l' <i>Etica Nicomachea</i>, introducendo però, proprio per quel che riguarda la mente-intelletto, concetti e terminologia di tutt'altra tradizione filosofica . Il primo riferimento (""lo Filosofo nel secondo dell'anima ... dice"") risulta da una semplificazione dei capp. 2 e 3 del secondo libro del <i>De anima</i> dove Aristotele formulando la definizione di anima, analizza le caratteristiche del vivente riassumendole infine nelle facoltà nutritiva, sensitiva, razionale e motrice (II 2, 413 b 10-13. Cfr. le <i>Auctoritates Aristotelis</i>, p. 178, n. 49) ""Anima est principium quo primo et principaliter vivimus, intelligimus, sentimus et movemur secundum locum""). La dottrina di una identità sostanziale tra facoltà sensitiva e facoltà motrice (""questa si può col sentire fare una"") non è presente nel testo aristotelico. Aristotele afferma però che la sensibilità, anche nelle sue forme più semplici (presenza tra tutti i sensi del solo tatto: ""o con alcuno solo"") è la condizione necessaria perché sia presente nel vivente la facoltà desiderativa (II 3, 414 b 1 sgg.) e nel terzo libro sembra riferire proprio a quest'ultima la capacità di muoversi localmente (III 10-11). Dante ha dunque operato un collegamento che, ancora una volta, risulta semplificativo rispetto alla complessità della trattazione aristotelica.",capp. 2 e 3 del secondo libro del De anima,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DICO ADUNQUE,"per definire in maniera corretta il termine mente"" Dante riassume in questo paragrafo e nei seguenti la dottrina aristotelica sull'anima e le sue diverse facoltà, utilizzando sia il <i>De anima</i>, sia l' <i>Etica Nicomachea</i>, introducendo però, proprio per quel che riguarda la mente-intelletto, concetti e terminologia di tutt'altra tradizione filosofica . Il primo riferimento (""lo Filosofo nel secondo dell'anima ... dice"") risulta da una semplificazione dei capp. 2 e 3 del secondo libro del <i>De anima</i> dove Aristotele formulando la definizione di anima, analizza le caratteristiche del vivente riassumendole infine nelle facoltà nutritiva, sensitiva, razionale e motrice (II 2, 413 b 10-13. Cfr. le <i>Auctoritates Aristotelis</i>, p. 178, n. 49) ""Anima est principium quo primo et principaliter vivimus, intelligimus, sentimus et movemur secundum locum""). La dottrina di una identità sostanziale tra facoltà sensitiva e facoltà motrice (""questa si può col sentire fare una"") non è presente nel testo aristotelico. Aristotele afferma però che la sensibilità, anche nelle sue forme più semplici (presenza tra tutti i sensi del solo tatto: ""o con alcuno solo"") è la condizione necessaria perché sia presente nel vivente la facoltà desiderativa (II 3, 414 b 1 sgg.) e nel terzo libro sembra riferire proprio a quest'ultima la capacità di muoversi localmente (III 10-11). Dante ha dunque operato un collegamento che, ancora una volta, risulta semplificativo rispetto alla complessità della trattazione aristotelica.","p. 178, n. 49",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Auctoritates_Aristotelis,Auctoritates Aristotelis,Johannes de Fonte,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Johannes_de_Fonte,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
DICO ADUNQUE,"per definire in maniera corretta il termine mente"" Dante riassume in questo paragrafo e nei seguenti la dottrina aristotelica sull'anima e le sue diverse facoltà, utilizzando sia il <i>De anima</i>, sia l' <i>Etica Nicomachea</i>, introducendo però, proprio per quel che riguarda la mente-intelletto, concetti e terminologia di tutt'altra tradizione filosofica . Il primo riferimento (""lo Filosofo nel secondo dell'anima ... dice"") risulta da una semplificazione dei capp. 2 e 3 del secondo libro del <i>De anima</i> dove Aristotele formulando la definizione di anima, analizza le caratteristiche del vivente riassumendole infine nelle facoltà nutritiva, sensitiva, razionale e motrice (II 2, 413 b 10-13. Cfr. le <i>Auctoritates Aristotelis</i>, p. 178, n. 49) ""Anima est principium quo primo et principaliter vivimus, intelligimus, sentimus et movemur secundum locum""). La dottrina di una identità sostanziale tra facoltà sensitiva e facoltà motrice (""questa si può col sentire fare una"") non è presente nel testo aristotelico. Aristotele afferma però che la sensibilità, anche nelle sue forme più semplici (presenza tra tutti i sensi del solo tatto: ""o con alcuno solo"") è la condizione necessaria perché sia presente nel vivente la facoltà desiderativa (II 3, 414 b 1 sgg.) e nel terzo libro sembra riferire proprio a quest'ultima la capacità di muoversi localmente (III 10-11). Dante ha dunque operato un collegamento che, ancora una volta, risulta semplificativo rispetto alla complessità della trattazione aristotelica.","II 3, 414 b 1 sgg.",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DICO ADUNQUE,"per definire in maniera corretta il termine mente"" Dante riassume in questo paragrafo e nei seguenti la dottrina aristotelica sull'anima e le sue diverse facoltà, utilizzando sia il <i>De anima</i>, sia l' <i>Etica Nicomachea</i>, introducendo però, proprio per quel che riguarda la mente-intelletto, concetti e terminologia di tutt'altra tradizione filosofica . Il primo riferimento (""lo Filosofo nel secondo dell'anima ... dice"") risulta da una semplificazione dei capp. 2 e 3 del secondo libro del <i>De anima</i> dove Aristotele formulando la definizione di anima, analizza le caratteristiche del vivente riassumendole infine nelle facoltà nutritiva, sensitiva, razionale e motrice (II 2, 413 b 10-13. Cfr. le <i>Auctoritates Aristotelis</i>, p. 178, n. 49) ""Anima est principium quo primo et principaliter vivimus, intelligimus, sentimus et movemur secundum locum""). La dottrina di una identità sostanziale tra facoltà sensitiva e facoltà motrice (""questa si può col sentire fare una"") non è presente nel testo aristotelico. Aristotele afferma però che la sensibilità, anche nelle sue forme più semplici (presenza tra tutti i sensi del solo tatto: ""o con alcuno solo"") è la condizione necessaria perché sia presente nel vivente la facoltà desiderativa (II 3, 414 b 1 sgg.) e nel terzo libro sembra riferire proprio a quest'ultima la capacità di muoversi localmente (III 10-11). Dante ha dunque operato un collegamento che, ancora una volta, risulta semplificativo rispetto alla complessità della trattazione aristotelica.",III 10-11,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DICO ADUNQUE,"per definire in maniera corretta il termine mente"" Dante riassume in questo paragrafo e nei seguenti la dottrina aristotelica sull'anima e le sue diverse facoltà, utilizzando sia il <i>De anima</i>, sia l' <i>Etica Nicomachea</i>, introducendo però, proprio per quel che riguarda la mente-intelletto, concetti e terminologia di tutt'altra tradizione filosofica . Il primo riferimento (""lo Filosofo nel secondo dell'anima ... dice"") risulta da una semplificazione dei capp. 2 e 3 del secondo libro del <i>De anima</i> dove Aristotele formulando la definizione di anima, analizza le caratteristiche del vivente riassumendole infine nelle facoltà nutritiva, sensitiva, razionale e motrice (II 2, 413 b 10-13. Cfr. le <i>Auctoritates Aristotelis</i>, p. 178, n. 49) ""Anima est principium quo primo et principaliter vivimus, intelligimus, sentimus et movemur secundum locum""). La dottrina di una identità sostanziale tra facoltà sensitiva e facoltà motrice (""questa si può col sentire fare una"") non è presente nel testo aristotelico. Aristotele afferma però che la sensibilità, anche nelle sue forme più semplici (presenza tra tutti i sensi del solo tatto: ""o con alcuno solo"") è la condizione necessaria perché sia presente nel vivente la facoltà desiderativa (II 3, 414 b 1 sgg.) e nel terzo libro sembra riferire proprio a quest'ultima la capacità di muoversi localmente (III 10-11). Dante ha dunque operato un collegamento che, ancora una volta, risulta semplificativo rispetto alla complessità della trattazione aristotelica.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
E SECONDO CHE ESSO DICE,"e stando a quello che afferma'. In questi due paragrafi Dante utilizza un lavoro di semplificazione e di schematizzazione già operato dall'insegnamento universitario nei confronti delle dottrine dello Stagirita : le tre facoltà sono ordinate tra loro (sono intra sé"") in modo che la prima e la più semplice (la vegetativa ""per la quale si vive"" che presiede cioè alle operazioni vitali fondamentali: nutrimento, crescita e riproduzione) è la condizione necessaria per l'esistenza (""fondamento"") delle altre più complesse; presente in tutti i viventi, può esistere anche separata dalle altre (""puote per sé esser partita"") e funzionare autonomamente come principio organizzatore della vita (è il caso delle piante: ""per sé puote essere anima, sì come vedemo nelle piante tutte""). Più che al testo del <i>De anima</i>, il riferimento appropriato sembra essere ancora alle <i>Auctoritates Aristotelis</i>, p. 78, n. 50 ""Quattuor sunt potentiae animae principales, scilicet vegetativa, sensitiva et secundum locum motiva et intellectiva. Hae sic se habent adinvicem quod vegetativa potest esse absque sensitiva, sicut patet in plantis, et non e converso ... et tam secundum locum motiva quam sensitiva possunt esse sine intellectiva, ut patet in animalibus brutis et non e converso"".","p. 78, n. 50 ""Quattuor sunt potentiae animae principales, scilicet vegetativa, sensitiva et secundum locum motiva et intellectiva. Hae sic se habent adinvicem quod vegetativa potest esse absque sensitiva, sicut patet in plantis, et non e converso ... et tam secundum locum motiva quam sensitiva possunt esse sine intellectiva, ut patet in animalibus brutis et non e converso""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Auctoritates_Aristotelis,Auctoritates Aristotelis,Johannes de Fonte,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Johannes_de_Fonte,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
NELLE COSE ANIMATE MORTALI,"il rapporto di reciproca inclusione delle facoltà dell'anima secondo cui l'esistenza della prima è condizione della presenza della seconda e della terza non vale per le sostanze separate-angeli (che sono immortali): esse sono viventi, ma la loro vita si esaurisce tutta nella pura attività intellettuale che sussiste quindi autonomamente (cfr. <i>Metaph</i>. XII  7, 1072 b 26-30 ) ed è dubbio che in questo caso si possa parlare di anima in senso proprio.","XII 7, 1072 b 26-30",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
E QUELLA ANIMA ...,"la caratterizzazione dell'anima umana come la più perfetta (perfettissima di tutte l'altre"") in quanto contiene (""comprende"") tutte e tre le facoltà ha certamente un retroterra aristotelico (cfr. Alberto Magno, <i>De natura et origine animae</i> tr. I, cap. 6, p. 15, ll. 74-81). Che attraverso la sua terza (""ultima"") facoltà o potenza, cioè la ragione, la più nobile delle tre, essa partecipi della natura divina poteva essere dedotto dai testi di Aristotele (cfr. <i>Eth. Nic</i>. X 7, 1177 a 15-16, b 30; <i>De gen. anim</i>. II 3, 736 b 27-29) dove peraltro si parla non di ""ragione"" ma di ""intelletto"". Come nota giustamente Alessandro Raffi (Raffi 2004, p. 57) l'espressione ""dinudata da materia"" non è una metafora dantesca, ma ha un carattere tecnicamente filosofico. Piuttosto che in Avicenna, dove il termine è riferito alle forme delle sostanze separate conosciute dall'anima senza bisogno di mediazioni sensibili (dottrina rifiutata da Dante), è proprio in Tommaso che la qualifica di ""dinudatus ab omnibus sensibilibus formis et materiis"" viene attribuita alla natura dell'intelletto possibile. (cfr. <i>Quaestio disputata de anima</i>, art. 2, <i>respondeo</i>). Al di là della terminologia, non è però tomasiana, ma risale ad Avicenna la dottrina per cui la separazione dalla materia rende la mente umana talmente simile a quella degli Angeli da condividerne il modo di conoscenza. (vedi Raffi 2004, pp. 56 sgg.). Nel mondo latino un collegamento tra l'essere incorporea e l'essere capace di cogliere le illuminazioni divine si ha, per esempio, nella definizione dell'anima data dal <i>De motu cordis</i> di Alfredo di Sareshel, e ripresa da Alberto Magno nella <i>Summa de homine</i> I.1.1. 3.1.2.2, p. 18): ""anima est substantia incorporea, illuminationum quae sunt a Primo ... perceptibilis"".","tr. I, cap. 6, p. 15, ll. 74-81",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_natura_et_origine_animae,De natura et origine animae,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
E QUELLA ANIMA ...,"la caratterizzazione dell'anima umana come la più perfetta (perfettissima di tutte l'altre"") in quanto contiene (""comprende"") tutte e tre le facoltà ha certamente un retroterra aristotelico (cfr. Alberto Magno, <i>De natura et origine animae</i> tr. I, cap. 6, p. 15, ll. 74-81). Che attraverso la sua terza (""ultima"") facoltà o potenza, cioè la ragione, la più nobile delle tre, essa partecipi della natura divina poteva essere dedotto dai testi di Aristotele (cfr. <i>Eth. Nic</i>. X 7, 1177 a 15-16, b 30; <i>De gen. anim</i>. II 3, 736 b 27-29) dove peraltro si parla non di ""ragione"" ma di ""intelletto"". Come nota giustamente Alessandro Raffi (Raffi 2004, p. 57) l'espressione ""dinudata da materia"" non è una metafora dantesca, ma ha un carattere tecnicamente filosofico. Piuttosto che in Avicenna, dove il termine è riferito alle forme delle sostanze separate conosciute dall'anima senza bisogno di mediazioni sensibili (dottrina rifiutata da Dante), è proprio in Tommaso che la qualifica di ""dinudatus ab omnibus sensibilibus formis et materiis"" viene attribuita alla natura dell'intelletto possibile. (cfr. <i>Quaestio disputata de anima</i>, art. 2, <i>respondeo</i>). Al di là della terminologia, non è però tomasiana, ma risale ad Avicenna la dottrina per cui la separazione dalla materia rende la mente umana talmente simile a quella degli Angeli da condividerne il modo di conoscenza. (vedi Raffi 2004, pp. 56 sgg.). Nel mondo latino un collegamento tra l'essere incorporea e l'essere capace di cogliere le illuminazioni divine si ha, per esempio, nella definizione dell'anima data dal <i>De motu cordis</i> di Alfredo di Sareshel, e ripresa da Alberto Magno nella <i>Summa de homine</i> I.1.1. 3.1.2.2, p. 18): ""anima est substantia incorporea, illuminationum quae sunt a Primo ... perceptibilis"".","X 7, 1177 a 15-16, b 30",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
E QUELLA ANIMA ...,"la caratterizzazione dell'anima umana come la più perfetta (perfettissima di tutte l'altre"") in quanto contiene (""comprende"") tutte e tre le facoltà ha certamente un retroterra aristotelico (cfr. Alberto Magno, <i>De natura et origine animae</i> tr. I, cap. 6, p. 15, ll. 74-81). Che attraverso la sua terza (""ultima"") facoltà o potenza, cioè la ragione, la più nobile delle tre, essa partecipi della natura divina poteva essere dedotto dai testi di Aristotele (cfr. <i>Eth. Nic</i>. X 7, 1177 a 15-16, b 30; <i>De gen. anim</i>. II 3, 736 b 27-29) dove peraltro si parla non di ""ragione"" ma di ""intelletto"". Come nota giustamente Alessandro Raffi (Raffi 2004, p. 57) l'espressione ""dinudata da materia"" non è una metafora dantesca, ma ha un carattere tecnicamente filosofico. Piuttosto che in Avicenna, dove il termine è riferito alle forme delle sostanze separate conosciute dall'anima senza bisogno di mediazioni sensibili (dottrina rifiutata da Dante), è proprio in Tommaso che la qualifica di ""dinudatus ab omnibus sensibilibus formis et materiis"" viene attribuita alla natura dell'intelletto possibile. (cfr. <i>Quaestio disputata de anima</i>, art. 2, <i>respondeo</i>). Al di là della terminologia, non è però tomasiana, ma risale ad Avicenna la dottrina per cui la separazione dalla materia rende la mente umana talmente simile a quella degli Angeli da condividerne il modo di conoscenza. (vedi Raffi 2004, pp. 56 sgg.). Nel mondo latino un collegamento tra l'essere incorporea e l'essere capace di cogliere le illuminazioni divine si ha, per esempio, nella definizione dell'anima data dal <i>De motu cordis</i> di Alfredo di Sareshel, e ripresa da Alberto Magno nella <i>Summa de homine</i> I.1.1. 3.1.2.2, p. 18): ""anima est substantia incorporea, illuminationum quae sunt a Primo ... perceptibilis"".","II 3, 736 b 27-29",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_genesi_animalium(Aristotele),De genesi animalium,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
E QUELLA ANIMA ...,"la caratterizzazione dell'anima umana come la più perfetta (perfettissima di tutte l'altre"") in quanto contiene (""comprende"") tutte e tre le facoltà ha certamente un retroterra aristotelico (cfr. Alberto Magno, <i>De natura et origine animae</i> tr. I, cap. 6, p. 15, ll. 74-81). Che attraverso la sua terza (""ultima"") facoltà o potenza, cioè la ragione, la più nobile delle tre, essa partecipi della natura divina poteva essere dedotto dai testi di Aristotele (cfr. <i>Eth. Nic</i>. X 7, 1177 a 15-16, b 30; <i>De gen. anim</i>. II 3, 736 b 27-29) dove peraltro si parla non di ""ragione"" ma di ""intelletto"". Come nota giustamente Alessandro Raffi (Raffi 2004, p. 57) l'espressione ""dinudata da materia"" non è una metafora dantesca, ma ha un carattere tecnicamente filosofico. Piuttosto che in Avicenna, dove il termine è riferito alle forme delle sostanze separate conosciute dall'anima senza bisogno di mediazioni sensibili (dottrina rifiutata da Dante), è proprio in Tommaso che la qualifica di ""dinudatus ab omnibus sensibilibus formis et materiis"" viene attribuita alla natura dell'intelletto possibile. (cfr. <i>Quaestio disputata de anima</i>, art. 2, <i>respondeo</i>). Al di là della terminologia, non è però tomasiana, ma risale ad Avicenna la dottrina per cui la separazione dalla materia rende la mente umana talmente simile a quella degli Angeli da condividerne il modo di conoscenza. (vedi Raffi 2004, pp. 56 sgg.). Nel mondo latino un collegamento tra l'essere incorporea e l'essere capace di cogliere le illuminazioni divine si ha, per esempio, nella definizione dell'anima data dal <i>De motu cordis</i> di Alfredo di Sareshel, e ripresa da Alberto Magno nella <i>Summa de homine</i> I.1.1. 3.1.2.2, p. 18): ""anima est substantia incorporea, illuminationum quae sunt a Primo ... perceptibilis"".","art. 2, respondeo",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Quaestio_disputata_de_anima,Quaestio disputata de anima,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
L'UOMO ... CHIAMATO,"cfr. Boezio, <i>De consolatione philosophiae</i> II, prosa 5, 25, p. 44.","II, prosa 5, 25, p. 44",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
SÌ COME DICE LO FILOSOFO ...,"per una piena descrizione della mente"" Dante integra il De anima con l' <i>Etica Nicomachea</i> con particolare riferimento (""massimamente"") al sesto libro, di fatto al primo capitolo. Qui Aristotele distingue all'interno dell'anima razionale due facoltà, quella con cui contempliamo le realtà i cui principi non possono essere diversamente, l'altra che si rivolge alle realtà contingenti su cui abbiamo la possibilità di intervenire. Il testo dell'Etica, però, non parla a questo proposito di ""virtù"", ma di parti dell'anima","sesto libro, primo capitolo.",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SÌ COME DICE LO FILOSOFO ...,"per una piena descrizione della mente"" Dante integra il De anima con l' <i>Etica Nicomachea</i> con particolare riferimento (""massimamente"") al sesto libro, di fatto al primo capitolo. Qui Aristotele distingue all'interno dell'anima razionale due facoltà, quella con cui contempliamo le realtà i cui principi non possono essere diversamente, l'altra che si rivolge alle realtà contingenti su cui abbiamo la possibilità di intervenire. Il testo dell'Etica, però, non parla a questo proposito di ""virtù"", ma di parti dell'anima",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SCIENTIFICA ... RAGIONATIVA O VERO CONSILIATIVA,"gli aggettivi sostantivati che nel testo greco designano le due parti (<i>epistēmonikón</i> e <i>loghistikón</i>) erano stati appunto resi in latino con i termini <i>scientificum</i> e <i>ratiocinativum</i> e sempre nella traduzione latina, immediatamente dopo, il <i>ratiocinari</i> era identificato con il <i>consiliari</i>. (Cfr. <i>Eth. Nic</i>. VI 2, 1139 a 11-13. <i>Translatio Grosseteste. Textus purus</i>, p. 253, ll. 18-19). Per quanto riguarda però le virtù inventiva e giudicativa"", se per la seconda è ancora possibile rimandare ad <i>Eth. Nic</i>. VI 9-10, 1142 b 34 sgg., per la prima e soprattutto per per una menzione comune delle due bisogna ricorrere al commento di Tommaso, che però le riferisce all'attività speculativa (cfr. <i>In decem libros Ethicorum Aristotelis expositio</i> VI, <i>lectio</i> 9, n. 1239 ""Ad cuius evidentiam considerandum quod in speculativis in quibus non est actio, est solum duplex opus rationis, scilicet invenire inquirendo et de inventis iudicare"").","VI 2, 1139 a 11-13. Translatio Grosseteste. Textus purus, p. 253, ll. 18-19",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SCIENTIFICA ... RAGIONATIVA O VERO CONSILIATIVA,"gli aggettivi sostantivati che nel testo greco designano le due parti (<i>epistēmonikón</i> e <i>loghistikón</i>) erano stati appunto resi in latino con i termini <i>scientificum</i> e <i>ratiocinativum</i> e sempre nella traduzione latina, immediatamente dopo, il <i>ratiocinari</i> era identificato con il <i>consiliari</i>. (Cfr. <i>Eth. Nic</i>. VI 2, 1139 a 11-13. <i>Translatio Grosseteste. Textus purus</i>, p. 253, ll. 18-19). Per quanto riguarda però le virtù inventiva e giudicativa"", se per la seconda è ancora possibile rimandare ad <i>Eth. Nic</i>. VI 9-10, 1142 b 34 sgg., per la prima e soprattutto per per una menzione comune delle due bisogna ricorrere al commento di Tommaso, che però le riferisce all'attività speculativa (cfr. <i>In decem libros Ethicorum Aristotelis expositio</i> VI, <i>lectio</i> 9, n. 1239 ""Ad cuius evidentiam considerandum quod in speculativis in quibus non est actio, est solum duplex opus rationis, scilicet invenire inquirendo et de inventis iudicare"").","VI 9-10, 1142 b 34 sgg.",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SCIENTIFICA ... RAGIONATIVA O VERO CONSILIATIVA,"gli aggettivi sostantivati che nel testo greco designano le due parti (<i>epistēmonikón</i> e <i>loghistikón</i>) erano stati appunto resi in latino con i termini <i>scientificum</i> e <i>ratiocinativum</i> e sempre nella traduzione latina, immediatamente dopo, il <i>ratiocinari</i> era identificato con il <i>consiliari</i>. (Cfr. <i>Eth. Nic</i>. VI 2, 1139 a 11-13. <i>Translatio Grosseteste. Textus purus</i>, p. 253, ll. 18-19). Per quanto riguarda però le virtù inventiva e giudicativa"", se per la seconda è ancora possibile rimandare ad <i>Eth. Nic</i>. VI 9-10, 1142 b 34 sgg., per la prima e soprattutto per per una menzione comune delle due bisogna ricorrere al commento di Tommaso, che però le riferisce all'attività speculativa (cfr. <i>In decem libros Ethicorum Aristotelis expositio</i> VI, <i>lectio</i> 9, n. 1239 ""Ad cuius evidentiam considerandum quod in speculativis in quibus non est actio, est solum duplex opus rationis, scilicet invenire inquirendo et de inventis iudicare"").","In decem libros Ethicorum Aristotelis expositio VI, lectio 9, n. 1239 ""Ad cuius evidentiam considerandum quod in speculativis in quibus non est actio, est solum duplex opus rationis, scilicet invenire inquirendo et de inventis iudicare""",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
SÌ CHIAMA INSIEME CON QUESTO VOCABULO,"le indica collettivamente con questo termine'. Nella traduzione latina del secondo capitolo del sesto libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> appare effettivamente il termine mens"". Ma nel discorso aristotelico esso (o meglio, il corrispondente greco <i>dianoia</i>) non indica il ""luogo"" di tutte le virtù collettivamente prese, ma esclusivamente le facoltà teoretiche e così lo interpreta Tomnmaso nel suo commento (VI, <i>lectio</i> 2, n. 1130). Per questo significato Dante è debitore piuttosto di Boezio (citato immediatamente dopo) e di Agostino. La identificazione esplicita della ""mens"" con la parte più nobile dell'anima, anch'essa non presente in Aristotele, rimanda al <i>De finibus</i> di Cicerone. V, 13, 3 ""Pars animi quae princeps est ... mens nominatur"".",secondo capitolo del sesto libro,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/De_finibus_bonorum_et_malorum,De finibus bonorum et malorum,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
SÌ CHIAMA INSIEME CON QUESTO VOCABULO,"le indica collettivamente con questo termine'. Nella traduzione latina del secondo capitolo del sesto libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> appare effettivamente il termine mens"". Ma nel discorso aristotelico esso (o meglio, il corrispondente greco <i>dianoia</i>) non indica il ""luogo"" di tutte le virtù collettivamente prese, ma esclusivamente le facoltà teoretiche e così lo interpreta Tomnmaso nel suo commento (VI, <i>lectio</i> 2, n. 1130). Per questo significato Dante è debitore piuttosto di Boezio (citato immediatamente dopo) e di Agostino. La identificazione esplicita della ""mens"" con la parte più nobile dell'anima, anch'essa non presente in Aristotele, rimanda al <i>De finibus</i> di Cicerone. V, 13, 3 ""Pars animi quae princeps est ... mens nominatur"".",secondo capitolo del sesto libro,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SÌ CHIAMA INSIEME CON QUESTO VOCABULO,"le indica collettivamente con questo termine'. Nella traduzione latina del secondo capitolo del sesto libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> appare effettivamente il termine mens"". Ma nel discorso aristotelico esso (o meglio, il corrispondente greco <i>dianoia</i>) non indica il ""luogo"" di tutte le virtù collettivamente prese, ma esclusivamente le facoltà teoretiche e così lo interpreta Tomnmaso nel suo commento (VI, <i>lectio</i> 2, n. 1130). Per questo significato Dante è debitore piuttosto di Boezio (citato immediatamente dopo) e di Agostino. La identificazione esplicita della ""mens"" con la parte più nobile dell'anima, anch'essa non presente in Aristotele, rimanda al <i>De finibus</i> di Cicerone. V, 13, 3 ""Pars animi quae princeps est ... mens nominatur"".","VI, lectio 2, n. 1130",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
SÌ CHIAMA INSIEME CON QUESTO VOCABULO,"le indica collettivamente con questo termine'. Nella traduzione latina del secondo capitolo del sesto libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> appare effettivamente il termine mens"". Ma nel discorso aristotelico esso (o meglio, il corrispondente greco <i>dianoia</i>) non indica il ""luogo"" di tutte le virtù collettivamente prese, ma esclusivamente le facoltà teoretiche e così lo interpreta Tomnmaso nel suo commento (VI, <i>lectio</i> 2, n. 1130). Per questo significato Dante è debitore piuttosto di Boezio (citato immediatamente dopo) e di Agostino. La identificazione esplicita della ""mens"" con la parte più nobile dell'anima, anch'essa non presente in Aristotele, rimanda al <i>De finibus</i> di Cicerone. V, 13, 3 ""Pars animi quae princeps est ... mens nominatur"".","V, 13, 3 ""Pars animi quae princeps est ... mens nominatur""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
TU E DIO ... MISE,"cfr. <i>De consolatione philosophiae</i>, I, prosa 4, 8, p. 12 Tu ... et qui te sapientium mentibus inseruit Deus ..."" (Dante adatta il testo alle sue esigenze sostituendo ai <i>sapientes</i> gli uomini in generale).","I, prosa 4, 8, p. 12 Tu ... et qui te sapientium mentibus inseruit Deus ...""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
TUTTE LE COSE PRODUCI ... NELLA MENTE PORTANTE,"traduzione, questa volta letterale, di un passo del metro 9 del terzo libro del <i>De consolatione philosophiae</i> (metro conosciutissimo e commentatissimo nel Medioevo), vv. 6-8, p. 80 Tu cuncta superno/ducis ab exemplo, pulchrum pulcherrimus ipse/mundum mente gerens"".",un passo del metro 9 del terzo libro,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
NELLA GRAMATICA,"nella lingua latina. Che i termini composti <i>amentia</i> e <i>dementia</i> (solo il secondo è passato nell'uso del volgare) significassero etimologicamente assenza di <i>mens</i> era affermazione già presente in Cicerone  (cfr. <i>Tusculanae Disputationes</i> III, 5, 10). Per <i>amens</i> e <i>demens</i> come composti da un nome (<i>mens</i>) e da una particella privativa cfr. Prisciano di Cesarea, <i>Institutiones Grammaticae</i> XVII 152,  II,  p. 182.","III, 5, 10",CONCORDANZA STRINGENTE,http://it.dbpedia.org/resource/Tusculanae_disputationes,Tusculanae Disputationes,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
NELLA GRAMATICA,"nella lingua latina. Che i termini composti <i>amentia</i> e <i>dementia</i> (solo il secondo è passato nell'uso del volgare) significassero etimologicamente assenza di <i>mens</i> era affermazione già presente in Cicerone  (cfr. <i>Tusculanae Disputationes</i> III, 5, 10). Per <i>amens</i> e <i>demens</i> come composti da un nome (<i>mens</i>) e da una particella privativa cfr. Prisciano di Cesarea, <i>Institutiones Grammaticae</i> XVII 152,  II,  p. 182.","XVII 152, II, p. 182",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Institutiones_grammaticae,Institutiones grammaticae,Prisciano di Cesarea,http://dbpedia.org/resource/Priscian,http://purl.org/bncf/tid/9228,WORK
CIASCUNA COSA,"ancora una volta Dante inserisce il suo amore nel quadro generale di un cosmo finito e gerarchicamente ordinato dal semplice al complesso in cui le varie realtà sono contraddistinte da specifiche inclinazioni (ciascuna cosa ha 'l suo speziale amore""). Tommaso aveva espresso con sintetica chiarezza questa concezione dell'<i>amor</i>, comune a tutte le realtà e diverso per ognuna di esse: <i>Summa Theologiae</i>, I, q. 60, a. 1, <i>respondeo</i> ""Est autem hoc commune omni naturae ut habeat aliquam inclinationem quae est appetitus naturalis vel amor, quae tamen inclinatio diversimode invenitur in diversis naturis, in unaquaque secundum modum eius"". Dante utilizza la dottrina comunemente accettata dai filosofi naturali e dai medici a lui contemporanei secondo cui cinque sono i piani in cui si dispongono gli esseri: i corpi semplici (gli elementi), i corpi composti e inanimati (i minerali), le piante, gli animali, l'uomo, mentre nell'individuare per ognuna di esse la specifica inclinazione egli sembra esporre una teoria abbastanza personale.","I, q. 60, a. 1, respondeo ""Est autem hoc commune omni naturae ut habeat aliquam inclinationem quae est appetitus naturalis vel amor, quae tamen inclinatio diversimode invenitur in diversis naturis, in unaquaque secundum modum eius""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_Theologica,Summa Theologiae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
LE CORPORA SIMPLICI ... SALE A QUELLO,"Dante utilizza la dottrina aristotelica dei 'luoghi naturali' (cfr. <i>De caelo</i> I, 2-3; III, 2; IV, 3 ): in un universo finito esistono un basso ed un alto assoluti che differenziano i movimenti dei corpi: verso il basso si muovono per loro natura i corpi pesanti, verso l'alto i corpi leggeri. Fisicamente il basso coincide con il centro della terra e l'alto con il concavo (la circumferenza di sopra"") della sfera lunare (""lungo lo cielo della luna""), dove termina il mondo delle trasformazioni fisiche ed inizia il regno della incorruttibilità celeste. Questi dunque sono i luoghi naturali cui essi tendono, se non impediti, specialmente i corpi semplici (le ""corpora simplici"") come la terra ed il fuoco che sono rispettivamente pesanti e leggeri in assoluto e questa loro tendenza è il loro amore 'speciale' insito nella loro natura (""naturato in loro"").","I, 2-3; III, 2; IV, 3",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_caelo,De caelo,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
LE CORPORA COMPOSTE,"il secondo dominio in cui si articola la totalità del mondo è quello dei corpi composti, o misti. Anche se per Aristotele e per le teorie mediche medievali tutte le cose risultano in linea generale da una composizione degli elementi, il termine di misto"" o ""composto"" viene riservato ai minerali (""le minere"") in quanto rappresentano il primo stadio di questa commistione (""composte prima""). Anche nel caso dei minerali il loro amore riguarda un luogo e specificamente quello in cui si producono (""dove la loro generazione è ordinata"") Per Aristotele, infatti, e per Avicenna che ne integrerà e svilupperà la dottrina, i diversi minerali si generano nel ventre della terra attraverso processi di condensazione e coagulazione che possono essere assimilati ad una crescita (""in quello crescono""). L'affermazione che dal luogo della loro generazione i minerali ricevono vigore e potenza ha come retroterra la dottrina aristotelica del luogo, non uno spazio neutro, ma una realtà capace di influire sul corpo che contiene (cfr. <i>Phys</i>. IV 1, 208 b 34) e la convinzione, non aristotelica, ma presente nel <i>De mineralibus</i> di Alberto Magno (II, tr. 1, cap. 4, pp. 28-29) secondo cui i singoli minerali, specialmente le gemme, possiedono particolari poteri derivati dall'influsso degli astri sui loro processi di generazione (vedi Nardi 1944, p. 78).","IV 1, 208 b 34",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
LE CORPORA COMPOSTE,"il secondo dominio in cui si articola la totalità del mondo è quello dei corpi composti, o misti. Anche se per Aristotele e per le teorie mediche medievali tutte le cose risultano in linea generale da una composizione degli elementi, il termine di misto"" o ""composto"" viene riservato ai minerali (""le minere"") in quanto rappresentano il primo stadio di questa commistione (""composte prima""). Anche nel caso dei minerali il loro amore riguarda un luogo e specificamente quello in cui si producono (""dove la loro generazione è ordinata"") Per Aristotele, infatti, e per Avicenna che ne integrerà e svilupperà la dottrina, i diversi minerali si generano nel ventre della terra attraverso processi di condensazione e coagulazione che possono essere assimilati ad una crescita (""in quello crescono""). L'affermazione che dal luogo della loro generazione i minerali ricevono vigore e potenza ha come retroterra la dottrina aristotelica del luogo, non uno spazio neutro, ma una realtà capace di influire sul corpo che contiene (cfr. <i>Phys</i>. IV 1, 208 b 34) e la convinzione, non aristotelica, ma presente nel <i>De mineralibus</i> di Alberto Magno (II, tr. 1, cap. 4, pp. 28-29) secondo cui i singoli minerali, specialmente le gemme, possiedono particolari poteri derivati dall'influsso degli astri sui loro processi di generazione (vedi Nardi 1944, p. 78).","II, tr. 1, cap. 4, pp. 28-29",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_mineralibus,De mineralibus,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
ONDE VEDEMO ...,"il caso della calamita (che attira il ferro), insieme a quello del diaspro (che stagna il sangue), è l'esempio standard di poteri dei minerali non spiegabili semplicemente con la loro composizione elementare, ma solo ricorrendo ad un influsso fisico del cielo (cfr. Tommaso, <i>Summa contra Gentiles</i> II, cap. 68, n. 1456 ). Non risulta però chiaro quale sia il luogo (la parte"") della sua produzione (""della sua generazione"") da cui la calamita continuerebbe a ricevere questo suo potere (""virtù""); il testo del De causis proprietatum elementorum di Alberto Magno I, tr. 2, cap. 11, p. 81, ll. 70-83, citato da <i>Cheneval</i>, dice infatti che il magnete attrae il ferro in quanto è il ""locus generationis ferri"", ma non parla di nessun luogo della generazione del magnete stesso. Interpretare la calamita nel senso di ago della bussola e identificare il luogo della sua generazione con il Polo verso cui essa si volge, come fa <i>Busnelli</i>, non risolve ancora in modo soddisfacente il problema. Il potere della calamita di cui normalmente anche i medievali parlano sta infatti nell'attrarre, non nell'essere attratto. Una risposta può forse venire dalla <i>Epistula de magnete</i> di Pietro Peregrino di Maricourt (il primo trattato veramente scientifico sul magnete). Qui, nel cap. 10 della prima parte (<i>Unde magnes virtutem naturalem quam habet recipiat</i>) Pietro polemizza con chi sostiene che il potere della calamita di attrarre il ferro le viene ""a locis mineralibus in qua invenitur"" e che dunque il ferro calamitato si volge verso il Nord perchè queste miniere si trovano concentrate appunto intorno al Polo Nord (ed. Sturlese-Thomson, p. 78): come si vede si tratta della stessa dottrina esposta nel <i>Convivio</i>. Purtroppo gli editori non individuano i <i>debiles inquisitores</i> presi di mira da Pietro. In ogni caso di monti sotto tramontana dove si genera la calamita e che , sia pure in maniera mediata dall'aria, ""dan vertude di trar lo ferro "", aveva parlato Guido Guinizzelli nella canzone <i>Madonna il fino amor</i> (49-55, ed. Contini, II, p. 455).","II, cap. 68, n. 1456",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_contra_Gentiles,Summa contra Gentiles,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
ONDE VEDEMO ...,"il caso della calamita (che attira il ferro), insieme a quello del diaspro (che stagna il sangue), è l'esempio standard di poteri dei minerali non spiegabili semplicemente con la loro composizione elementare, ma solo ricorrendo ad un influsso fisico del cielo (cfr. Tommaso, <i>Summa contra Gentiles</i> II, cap. 68, n. 1456 ). Non risulta però chiaro quale sia il luogo (la parte"") della sua produzione (""della sua generazione"") da cui la calamita continuerebbe a ricevere questo suo potere (""virtù""); il testo del De causis proprietatum elementorum di Alberto Magno I, tr. 2, cap. 11, p. 81, ll. 70-83, citato da <i>Cheneval</i>, dice infatti che il magnete attrae il ferro in quanto è il ""locus generationis ferri"", ma non parla di nessun luogo della generazione del magnete stesso. Interpretare la calamita nel senso di ago della bussola e identificare il luogo della sua generazione con il Polo verso cui essa si volge, come fa <i>Busnelli</i>, non risolve ancora in modo soddisfacente il problema. Il potere della calamita di cui normalmente anche i medievali parlano sta infatti nell'attrarre, non nell'essere attratto. Una risposta può forse venire dalla <i>Epistula de magnete</i> di Pietro Peregrino di Maricourt (il primo trattato veramente scientifico sul magnete). Qui, nel cap. 10 della prima parte (<i>Unde magnes virtutem naturalem quam habet recipiat</i>) Pietro polemizza con chi sostiene che il potere della calamita di attrarre il ferro le viene ""a locis mineralibus in qua invenitur"" e che dunque il ferro calamitato si volge verso il Nord perchè queste miniere si trovano concentrate appunto intorno al Polo Nord (ed. Sturlese-Thomson, p. 78): come si vede si tratta della stessa dottrina esposta nel <i>Convivio</i>. Purtroppo gli editori non individuano i <i>debiles inquisitores</i> presi di mira da Pietro. In ogni caso di monti sotto tramontana dove si genera la calamita e che , sia pure in maniera mediata dall'aria, ""dan vertude di trar lo ferro "", aveva parlato Guido Guinizzelli nella canzone <i>Madonna il fino amor</i> (49-55, ed. Contini, II, p. 455).","I, tr. 2, cap. 11, p. 81, ll. 70-83",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_causis_proprietatum_elementorum(Alberto_Magno),De causis proprietatum elementorum,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
LE PIANTE,"le piante sono il primo gradino degli esseri dotati di anima in quanto viventi (sono prima animate""). Anch'esse hanno amore per un determinato (""certo"") luogo, in questo caso quello più adatto alla loro struttura o complessione (""secondo che la complessione richiede""). Il termine <i>complexio</i>, indica qui la proporzione tra le qualità elementari che costituiscono gli organismi viventi e che non è in tutti la stessa: in alcuni di essi infatti predomina l'umido, in altri il secco e così via (cfr. nota a <i>Cv</i> III viii 17-18). Le piante a complessione umida ameranno dunque i luoghi umidi (quelle appunto che vediamo ""cansarsi"", cioè vivere esclusivamente, lungo l'acqua) mentre altre ne ameranno altri. Per il principio generale vedi le <i>Auctoritates Aristotelis</i>, p. 207, n. 137 ""Unumquodque maxime conservatur loco ... sibi connaturali, at vero in contrario corrumpitur"". Il rapporto stretto tra i diversi tipi di pianta ed i loro luoghi di nascita e di crescita, già riconosciuto dal <i>De consolatione philosophiae</i> (III, prosa 11, 18-19, ed Moreschini, p. 88), era poi stato descritto e spiegato da Alberto Magno (<i>De vegetabilibus</i>, I, tr. 2, cap. 6, pp. 80-83) e ripreso da Ristoro d' Arezzo (<i>La composizione del mondo</i> colle sue cascioni II 6 2.2, pp. 146-147).","p. 207, n. 137 ""Unumquodque maxime conservatur loco ... sibi connaturali, at vero in contrario corrumpitur""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Auctoritates_Aristotelis,Auctoritates Aristotelis,Johannes de Fonte,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Johannes_de_Fonte,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
LE PIANTE,"le piante sono il primo gradino degli esseri dotati di anima in quanto viventi (sono prima animate""). Anch'esse hanno amore per un determinato (""certo"") luogo, in questo caso quello più adatto alla loro struttura o complessione (""secondo che la complessione richiede""). Il termine <i>complexio</i>, indica qui la proporzione tra le qualità elementari che costituiscono gli organismi viventi e che non è in tutti la stessa: in alcuni di essi infatti predomina l'umido, in altri il secco e così via (cfr. nota a <i>Cv</i> III viii 17-18). Le piante a complessione umida ameranno dunque i luoghi umidi (quelle appunto che vediamo ""cansarsi"", cioè vivere esclusivamente, lungo l'acqua) mentre altre ne ameranno altri. Per il principio generale vedi le <i>Auctoritates Aristotelis</i>, p. 207, n. 137 ""Unumquodque maxime conservatur loco ... sibi connaturali, at vero in contrario corrumpitur"". Il rapporto stretto tra i diversi tipi di pianta ed i loro luoghi di nascita e di crescita, già riconosciuto dal <i>De consolatione philosophiae</i> (III, prosa 11, 18-19, ed Moreschini, p. 88), era poi stato descritto e spiegato da Alberto Magno (<i>De vegetabilibus</i>, I, tr. 2, cap. 6, pp. 80-83) e ripreso da Ristoro d' Arezzo (<i>La composizione del mondo</i> colle sue cascioni II 6 2.2, pp. 146-147).","III, prosa 11, 18-19, ed Moreschini, p. 88",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
LE PIANTE,"le piante sono il primo gradino degli esseri dotati di anima in quanto viventi (sono prima animate""). Anch'esse hanno amore per un determinato (""certo"") luogo, in questo caso quello più adatto alla loro struttura o complessione (""secondo che la complessione richiede""). Il termine <i>complexio</i>, indica qui la proporzione tra le qualità elementari che costituiscono gli organismi viventi e che non è in tutti la stessa: in alcuni di essi infatti predomina l'umido, in altri il secco e così via (cfr. nota a <i>Cv</i> III viii 17-18). Le piante a complessione umida ameranno dunque i luoghi umidi (quelle appunto che vediamo ""cansarsi"", cioè vivere esclusivamente, lungo l'acqua) mentre altre ne ameranno altri. Per il principio generale vedi le <i>Auctoritates Aristotelis</i>, p. 207, n. 137 ""Unumquodque maxime conservatur loco ... sibi connaturali, at vero in contrario corrumpitur"". Il rapporto stretto tra i diversi tipi di pianta ed i loro luoghi di nascita e di crescita, già riconosciuto dal <i>De consolatione philosophiae</i> (III, prosa 11, 18-19, ed Moreschini, p. 88), era poi stato descritto e spiegato da Alberto Magno (<i>De vegetabilibus</i>, I, tr. 2, cap. 6, pp. 80-83) e ripreso da Ristoro d' Arezzo (<i>La composizione del mondo</i> colle sue cascioni II 6 2.2, pp. 146-147).","II 6 2.2, pp. 146-147",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/La_composizione_del_mondo,La composizione del mondo colle sue cascioni,Restoro d'Arezzo,http://it.dbpedia.org/resource/Restoro_d'Arezzo,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
CHÉ PER LA NATURA DEL SIMPLICE CORPO,"poiché il corpo semplice, cioè l'elemento che predomina (signoreggia"") nella composizione del suo sostrato materiale (""subietto""), cioè del suo corpo, è la terra (dunque è pesante), l'uomo ha una tendenza naturale (""naturalmente ama"") a cadere in basso (""andare in giuso""); questa tendenza corrisponde all'amore degli elementi verso i loro luoghi naturali (i movimenti contrari a questa inclinazione naturale verso il basso sono dunque in qualche modo violenti e per questo affaticano. Cfr. il commento di Tommaso al <i>De caelo</i> II, <i>lectio</i> 1, n. 294 ""Omne quod cum labore movetur, movetur contra motum naturalem sui corporis, propter quod motus animalis sursum est laboriosum"").","II, lectio 1, n. 294 ""Omne quod cum labore movetur, movetur contra motum naturalem sui corporis, propter quod motus animalis sursum est laboriosum""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/In_libros_Aristotelis_De_caelo_et_mundo_expositio(Tommaso),In libros Aristotelis De caelo et mundo expositio,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
ONDE SI LEGGE NELLE STORIE D'ERCULE ... CHE COMBATTENDO ANTEO,"la lotta con il gigante Anteo, figlio di Nettuno e della Terra, è una delle imprese di Ercole, non facente parte delle canoniche dodici fatiche, che Dante conosce attraverso le <i>Metamorfosi</i> (l' Ovidio Maggiore dei medievali) e soprattutto la <i>Farsaglia</i> di Lucano, dove il combattimento viene a lungo descritto (IV 609-653). Per gli altri poeti"" cfr. la <i>Satira</i> III di Giovenale, v. 89.",,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Metamorphoses,Metamorphoseon libri XV,Ovidio,http://dbpedia.org/resource/Ovid,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
ONDE SI LEGGE NELLE STORIE D'ERCULE ... CHE COMBATTENDO ANTEO,"la lotta con il gigante Anteo, figlio di Nettuno e della Terra, è una delle imprese di Ercole, non facente parte delle canoniche dodici fatiche, che Dante conosce attraverso le <i>Metamorfosi</i> (l' Ovidio Maggiore dei medievali) e soprattutto la <i>Farsaglia</i> di Lucano, dove il combattimento viene a lungo descritto (IV 609-653). Per gli altri poeti"" cfr. la <i>Satira</i> III di Giovenale, v. 89.",,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Pharsalia,Pharsalia,Lucano,http://dbpedia.org/resource/Lucan,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
ONDE SI LEGGE NELLE STORIE D'ERCULE ... CHE COMBATTENDO ANTEO,"la lotta con il gigante Anteo, figlio di Nettuno e della Terra, è una delle imprese di Ercole, non facente parte delle canoniche dodici fatiche, che Dante conosce attraverso le <i>Metamorfosi</i> (l' Ovidio Maggiore dei medievali) e soprattutto la <i>Farsaglia</i> di Lucano, dove il combattimento viene a lungo descritto (IV 609-653). Per gli altri poeti"" cfr. la <i>Satira</i> III di Giovenale, v. 89.",metro VII del quarto libro,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
ONDE SI LEGGE NELLE STORIE D'ERCULE ... CHE COMBATTENDO ANTEO,"la lotta con il gigante Anteo, figlio di Nettuno e della Terra, è una delle imprese di Ercole, non facente parte delle canoniche dodici fatiche, che Dante conosce attraverso le <i>Metamorfosi</i> (l' Ovidio Maggiore dei medievali) e soprattutto la <i>Farsaglia</i> di Lucano, dove il combattimento viene a lungo descritto (IV 609-653). Per gli altri poeti"" cfr. la <i>Satira</i> III di Giovenale, v. 89.","Satira III di Giovenale, v. 89",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Satires_(Juvenal),Satire (Giovenale),Giovenale,http://dbpedia.org/resource/Juvenal,http://purl.org/bncf/tid/34535,WORK
SECONDO LE TESTIMONIANZE DELLE SCRITTURE,"Dante dà al racconto mitologico-poetico un contenuto storico letterale. Anteo che trae forza dalla terra da cui era nato è esempio particolare e reale di una legge generale e non la <i>fabula</i> sotto cui si nasconde una qualche verità, come interpreta Fulgenzio che fa di Anteo la personificazione della <i>libido</i> e di Ercole quella della <i>virtus</i> (<i>Mythologiarum libri</i>, II 4, ed. Helm, p. 43. Nel <i>Fulgentius Metaphoralis</i>, del domenicano Giovanni di Ridevall, posteriore al Convivio, tutte le dodici fatiche di Ercole riceveranno una interpretazione morale (ed. Liebeschütz, pp. 124 sgg.). Anche in <i>If</i> XXXI 112-145 Anteo compare come un personaggio reale. Virgilio gli ricorderà, lusingandolo, le imprese compiute, per indurlo a farsi calare insieme con Dante sul lago ghiacciato della Giudecca (vedi Dronke 1990, pp. 76-77).","II 4, ed. Helm, p. 43",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Mythologiarum_libri,Mythologiarum libri,Fulgenzio,http://dbpedia.org/resource/Fabius_Planciades_Fulgentius,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/poesia_allegorica,WORK
HAE L'UOMO ALTRO AMORE,"nell'uomo la presenza dell'anima sensitiva propria in senso stretto degli animali produce un amore che si basa sull'immediatezza della sensazione (secondo la sensibile apparenza""). Questo amore, determinato dal piacere (""diletto"") naturalmente connesso alla attività (""operazione"") dei sensi, soprattutto (""massimamente"") del gusto e del tatto, è capace di vincere (è ""soperchievole"") ogni altra considerazione ed ha quindi bisogno di un freno e di una guida (""ha mestiere di rettore""). Che i piaceri del tatto e del gusto (considerato come una forma di tatto) siano i più bestiali tra tutti è dottrina dell' <i>Etica Nicomachea</i>: essi infatti, come precisa Aristotele, ci riguardano non in quanto uomini, ma in quanto animali (cfr. III 10, 1118 a 25-26, b 2-4)","III 10, 1118 a 25-26, b 2-4",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
"VERA UMANA O, MEGLIO DICENDO, ANGELICA, CIOÈ RAZIONALE","ancora una volta Dante eguaglia l'uomo all'angelo, considerando in sé, disgiunta in qualche modo dalla corporeità, quella razionalità che è la sua natura propria (vera umana""). Che l'uomo riassumesse in sé le caratteristiche di tutte le specie di enti e che la razionalità fosse ciò che lo accomuna agli angeli era stato detto da Gregorio Magno: "" Habet homo commune esse cum lapidibus, vivere cum arboribus, sentire cum animalibus, intelligere cum angelis"" (<i>Homiliae in Evangelia</i> II, xxix 2, PL 76, p.chiedere il testo era stato ripreso dallo pseudo-agostiniano <i>De spiritu et anima</i> ed utilizzato abbondantemente sia da teologi che da <i>magistri artium</i> nella trattatistica sull'anima anteriore a Tommaso; cfr. Falzone 2010. Che tramite l'intelletto l'uomo in qualche modo partecipi della natura angelica è affermato dallo stesso Tommaso (cfr. <i>De veritate</i> q. 16, a. 1, <i>respondeo</i> ""Anima humana, quantum ad id quod in ipsa supremum est, aliquid attingit de eo quod proprium est naturae angelica""). Ma anche in un contesto culturalmente diverso, un autore come Mondino de' Liuzzi nel prologo della sua <i>Anatomia</i>, per spiegare come mai l'uomo, tra tutti gli animali, abbia andatura eretta dice che esso ""formam habet perfectissimam, quae cum angelis et intelligentiis quae regunt universum communicat"" (<i>Anothomia</i>, ed. Giorgi-Pasini, p. 100, ll. 33-35). In Dante, però, l'identificazione tra l'uomo, o almeno tra la parte più alta dell'uomo, e l'angelo risulta particolarmente insistita, laddove i teologi medievali tendevano piuttosto a sottolineare le differenze. Su questo e sui diversi approcci del <i>Convivio</i> al tema del rapporto uomo-angelo vedi Raffi 2004","Habet homo commune esse cum lapidibus, vivere cum arboribus, sentire cum animalibus, intelligere cum angelis (Homiliae in Evangelia II, xxix 2, PL 76)",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Homiliae_in_Evangelia,Homiliae in Evangelia,Gregorio Magno,http://dbpedia.org/resource/Pope_Gregory_I,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
"VERA UMANA O, MEGLIO DICENDO, ANGELICA, CIOÈ RAZIONALE","ancora una volta Dante eguaglia l'uomo all'angelo, considerando in sé, disgiunta in qualche modo dalla corporeità, quella razionalità che è la sua natura propria (vera umana""). Che l'uomo riassumesse in sé le caratteristiche di tutte le specie di enti e che la razionalità fosse ciò che lo accomuna agli angeli era stato detto da Gregorio Magno: "" Habet homo commune esse cum lapidibus, vivere cum arboribus, sentire cum animalibus, intelligere cum angelis"" (<i>Homiliae in Evangelia</i> II, xxix 2, PL 76, p.chiedere il testo era stato ripreso dallo pseudo-agostiniano <i>De spiritu et anima</i> ed utilizzato abbondantemente sia da teologi che da <i>magistri artium</i> nella trattatistica sull'anima anteriore a Tommaso; cfr. Falzone 2010. Che tramite l'intelletto l'uomo in qualche modo partecipi della natura angelica è affermato dallo stesso Tommaso (cfr. <i>De veritate</i> q. 16, a. 1, <i>respondeo</i> ""Anima humana, quantum ad id quod in ipsa supremum est, aliquid attingit de eo quod proprium est naturae angelica""). Ma anche in un contesto culturalmente diverso, un autore come Mondino de' Liuzzi nel prologo della sua <i>Anatomia</i>, per spiegare come mai l'uomo, tra tutti gli animali, abbia andatura eretta dice che esso ""formam habet perfectissimam, quae cum angelis et intelligentiis quae regunt universum communicat"" (<i>Anothomia</i>, ed. Giorgi-Pasini, p. 100, ll. 33-35). In Dante, però, l'identificazione tra l'uomo, o almeno tra la parte più alta dell'uomo, e l'angelo risulta particolarmente insistita, laddove i teologi medievali tendevano piuttosto a sottolineare le differenze. Su questo e sui diversi approcci del <i>Convivio</i> al tema del rapporto uomo-angelo vedi Raffi 2004","q. 16, a. 1, respondeo ""Anima humana, quantum ad id quod in ipsa supremum est, aliquid attingit de eo quod proprium est naturae angelica""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_veritate(Tommaso),Quaestiones disputatae de veritate,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
"VERA UMANA O, MEGLIO DICENDO, ANGELICA, CIOÈ RAZIONALE","ancora una volta Dante eguaglia l'uomo all'angelo, considerando in sé, disgiunta in qualche modo dalla corporeità, quella razionalità che è la sua natura propria (vera umana""). Che l'uomo riassumesse in sé le caratteristiche di tutte le specie di enti e che la razionalità fosse ciò che lo accomuna agli angeli era stato detto da Gregorio Magno: "" Habet homo commune esse cum lapidibus, vivere cum arboribus, sentire cum animalibus, intelligere cum angelis"" (<i>Homiliae in Evangelia</i> II, xxix 2, PL 76, p.chiedere il testo era stato ripreso dallo pseudo-agostiniano <i>De spiritu et anima</i> ed utilizzato abbondantemente sia da teologi che da <i>magistri artium</i> nella trattatistica sull'anima anteriore a Tommaso; cfr. Falzone 2010. Che tramite l'intelletto l'uomo in qualche modo partecipi della natura angelica è affermato dallo stesso Tommaso (cfr. <i>De veritate</i> q. 16, a. 1, <i>respondeo</i> ""Anima humana, quantum ad id quod in ipsa supremum est, aliquid attingit de eo quod proprium est naturae angelica""). Ma anche in un contesto culturalmente diverso, un autore come Mondino de' Liuzzi nel prologo della sua <i>Anatomia</i>, per spiegare come mai l'uomo, tra tutti gli animali, abbia andatura eretta dice che esso ""formam habet perfectissimam, quae cum angelis et intelligentiis quae regunt universum communicat"" (<i>Anothomia</i>, ed. Giorgi-Pasini, p. 100, ll. 33-35). In Dante, però, l'identificazione tra l'uomo, o almeno tra la parte più alta dell'uomo, e l'angelo risulta particolarmente insistita, laddove i teologi medievali tendevano piuttosto a sottolineare le differenze. Su questo e sui diversi approcci del <i>Convivio</i> al tema del rapporto uomo-angelo vedi Raffi 2004","Anothomia, ed. Giorgi-Pasini, p. 100, ll. 33-35",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Anatomia,Anatomia,Mondino dei Liuzzi,http://dbpedia.org/resource/Mondino_de_Liuzzi,http://purl.org/bncf/tid/770,WORK
LO FILOSOFO NELL'OTTAVO DE L'ETICA,"nel capitolo terzo dell' ottavo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> (1156 a 6 sgg.) Aristotele delinea i tratti dell'amicizia perfetta fondata sulla virtù, opponendola a quelle fondate sull'utile e sul piacevole. L'endiade vera e perfetta"" si trova nella parafrasi di Alberto Magno (VIII, tr. 1, cap. 3, p. 522b) insieme al termine ""onesto""che non è presente nelle traduzioni latine dell'ottavo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i>, ma viene mutuato dal linguaggio filosofico ciceroniano. Anche Tommaso lo usa come sinonimo di <i>bonum</i> in assoluto nel commento a questo passo dell' <i>Etica</i> (cfr. VIII, <i>lectio</i> 2, n. 1552). Altrettanto fanno le <i>Auctoritates Aristotelis</i> p. 243, n. 143 ""Tripliciter fit amicitia, scilicet propter <i>bonum</i> utile, delectabile, et propter <i>bonum</i> honestum"".","capitolo terzo dell' ottavo libro, (1156 a 6 sgg.)",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
LO FILOSOFO NELL'OTTAVO DE L'ETICA,"nel capitolo terzo dell' ottavo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> (1156 a 6 sgg.) Aristotele delinea i tratti dell'amicizia perfetta fondata sulla virtù, opponendola a quelle fondate sull'utile e sul piacevole. L'endiade vera e perfetta"" si trova nella parafrasi di Alberto Magno (VIII, tr. 1, cap. 3, p. 522b) insieme al termine ""onesto""che non è presente nelle traduzioni latine dell'ottavo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i>, ma viene mutuato dal linguaggio filosofico ciceroniano. Anche Tommaso lo usa come sinonimo di <i>bonum</i> in assoluto nel commento a questo passo dell' <i>Etica</i> (cfr. VIII, <i>lectio</i> 2, n. 1552). Altrettanto fanno le <i>Auctoritates Aristotelis</i> p. 243, n. 143 ""Tripliciter fit amicitia, scilicet propter <i>bonum</i> utile, delectabile, et propter <i>bonum</i> honestum"".","VIII, tr. 1, cap. 3, p. 522b",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Super_Ethica_commentum_et_quaestiones,Super Ethica commentum et quaestiones,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
LO FILOSOFO NELL'OTTAVO DE L'ETICA,"nel capitolo terzo dell' ottavo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> (1156 a 6 sgg.) Aristotele delinea i tratti dell'amicizia perfetta fondata sulla virtù, opponendola a quelle fondate sull'utile e sul piacevole. L'endiade vera e perfetta"" si trova nella parafrasi di Alberto Magno (VIII, tr. 1, cap. 3, p. 522b) insieme al termine ""onesto""che non è presente nelle traduzioni latine dell'ottavo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i>, ma viene mutuato dal linguaggio filosofico ciceroniano. Anche Tommaso lo usa come sinonimo di <i>bonum</i> in assoluto nel commento a questo passo dell' <i>Etica</i> (cfr. VIII, <i>lectio</i> 2, n. 1552). Altrettanto fanno le <i>Auctoritates Aristotelis</i> p. 243, n. 143 ""Tripliciter fit amicitia, scilicet propter <i>bonum</i> utile, delectabile, et propter <i>bonum</i> honestum"".","VIII, lectio 2, n. 1552",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
LO FILOSOFO NELL'OTTAVO DE L'ETICA,"nel capitolo terzo dell' ottavo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> (1156 a 6 sgg.) Aristotele delinea i tratti dell'amicizia perfetta fondata sulla virtù, opponendola a quelle fondate sull'utile e sul piacevole. L'endiade vera e perfetta"" si trova nella parafrasi di Alberto Magno (VIII, tr. 1, cap. 3, p. 522b) insieme al termine ""onesto""che non è presente nelle traduzioni latine dell'ottavo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i>, ma viene mutuato dal linguaggio filosofico ciceroniano. Anche Tommaso lo usa come sinonimo di <i>bonum</i> in assoluto nel commento a questo passo dell' <i>Etica</i> (cfr. VIII, <i>lectio</i> 2, n. 1552). Altrettanto fanno le <i>Auctoritates Aristotelis</i> p. 243, n. 143 ""Tripliciter fit amicitia, scilicet propter <i>bonum</i> utile, delectabile, et propter <i>bonum</i> honestum"".","p. 243, n. 143 ""Tripliciter fit amicitia, scilicet propter bonum utile, delectabile, et propter bonum honestum""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Auctoritates_Aristotelis,Auctoritates Aristotelis,Johannes de Fonte,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Johannes_de_Fonte,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
CONTINUANZA,"costanza nel tempo' (è sempre dottrina aristotelica che la vera amicizia, a differenza delle altre, non muta. Cfr. <i>Eth. Nic</i>. VIII, 3, 1156 b 11-12).","VIII, 3, 1156 b 11-12",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
LO VISO DISGIUNTO,"quando ormai la vista resta separata dalla realtà visibile. In questo paragone Dante sembra concepire la vista come un'attività che perde potenza man mano che si allontana dalla sua origine (l'occhio), concezione che sembrerebbe debitrice della teoria platonica, peraltro esplicitamente respinta in <i>Cv</i> III.ix.10 a favore di quella aristotelica. L' indebolimento della visione collegato alla lontananza dell'oggetto veniva spiegato con un modello geometrico che era comunque egualmente valido per entrambe le dottrine: come dice Tommaso nel commento al <i>De anima</i> II, <i>lectio</i> 15, n. 435  omne corpus videtur sub quodam angulo cuiusdam ... pyramidis, cuius basis est in re visa, et angulus in oculo videntis, nec differt quantum ad hoc utrum visus fiat extramittendo, ita quod lineae concludentes ... pyramidem sint lineae visuales progredientes a visu ad rem visam vel e converso"". In questo schema l'occhio costituisce il punto di arrivo della linea retta che parte dal centro della base della piramide e che determina la distanza dall'oggetto visto. Quanto più la linea è lunga tanto minore sarà l'angolo sotto cui avviene la vista; per conseguenza, sempre usando le parole di Tommaso, ""quanto a remotiori videtur, minus videtur, et tanta potest esse distantia quod omnino non videatur"". Vedi anche la parafrasi di Alberto al <i>De anima</i> (II, tr. 3, cap. 14, p. 120, 21-25 ""Quia lineae radiales, quanto plus procedunt a re visa tanto magis coeunt, si contingat quod concludantur antequam perveniant ad oculum, res omnino non videbitur"".","II, lectio 15, n. 435 ""omne corpus videtur sub quodam angulo cuiusdam ... pyramidis, cuius basis est in re visa, et angulus in oculo videntis, nec differt quantum ad hoc utrum visus fiat extramittendo, ita quod lineae concludentes ... pyramidem sint lineae visuales progredientes a visu ad rem visam vel e converso""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sentencia_libri_De_anima(Tommaso),Sentencia libri De anima,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
LO VISO DISGIUNTO,"quando ormai la vista resta separata dalla realtà visibile. In questo paragone Dante sembra concepire la vista come un'attività che perde potenza man mano che si allontana dalla sua origine (l'occhio), concezione che sembrerebbe debitrice della teoria platonica, peraltro esplicitamente respinta in <i>Cv</i> III.ix.10 a favore di quella aristotelica. L' indebolimento della visione collegato alla lontananza dell'oggetto veniva spiegato con un modello geometrico che era comunque egualmente valido per entrambe le dottrine: come dice Tommaso nel commento al <i>De anima</i> II, <i>lectio</i> 15, n. 435  omne corpus videtur sub quodam angulo cuiusdam ... pyramidis, cuius basis est in re visa, et angulus in oculo videntis, nec differt quantum ad hoc utrum visus fiat extramittendo, ita quod lineae concludentes ... pyramidem sint lineae visuales progredientes a visu ad rem visam vel e converso"". In questo schema l'occhio costituisce il punto di arrivo della linea retta che parte dal centro della base della piramide e che determina la distanza dall'oggetto visto. Quanto più la linea è lunga tanto minore sarà l'angolo sotto cui avviene la vista; per conseguenza, sempre usando le parole di Tommaso, ""quanto a remotiori videtur, minus videtur, et tanta potest esse distantia quod omnino non videatur"". Vedi anche la parafrasi di Alberto al <i>De anima</i> (II, tr. 3, cap. 14, p. 120, 21-25 ""Quia lineae radiales, quanto plus procedunt a re visa tanto magis coeunt, si contingat quod concludantur antequam perveniant ad oculum, res omnino non videbitur"".","II, tr. 3, cap. 14, p. 120, 21-25 ""Quia lineae radiales, quanto plus procedunt a re visa tanto magis coeunt, si contingat quod concludantur antequam perveniant ad oculum, res omnino non videbitur""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_anima(Alberto_Magno),De anima (Alberto Magno),Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
AVVEGNA CHE ... L'UOMO MEDESIMO,"nonostante che le cose approvate e condannate appartengano in qualche modo al soggetto stesso'. Il riferimento di Dante è ad <i>Eth. Nic</i>. III 1, 1109 b 30-34 dove la traduzione latina di Roberto Grossatesta usa appunto i termini <i>laus</i> e <i>vituperium</i>.","III 1, 1109 b 30-34,traduzione latina di Roberto Grossatesta",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PERCHÉ SIA DEL CORPO DA SUA NATIVITADE LAIDO,"per il fatto che fin dalla nascita sia brutto (laido"") nel corpo'. La precisazione ""da sua nativitade"" vuol dire che si può essere responsabili di una bruttezza fisica causata da una vita viziosa: cfr. <i>Eth. Nic</i>. III, 5, 1114 a 23-27.","III, 5, 1114 a 23-27",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
NON ESSINOI,"non noi noi stessi'. Come Dante ci dice immediatamente dopo si tratta di un versetto tratto dai Salmi (Saltero"") e più precisamente del versetto 3 del <i>Salmo</i> 99 (""Scitote quoniam dominus ipse est Deus ; ipse fecit nos et non ipsi nos"") tradotto letteralmente (""scritte né più né meno come nella risposta del prete"". Per la qualifica di profeta attribuita a David cfr. nota a <i>Cv</i> II i 6). L'aneddoto è raccontato dallo <i>Speculum Historiale</i> di Vincenzo di Beuvais (XXV, cap. 12, p. 1006), ma in una forma assai diversa: l'imperatore Enrico II il Santo non schernisce affatto la bruttezza del povero prete, ma, mentre assiste alla messa da lui celebrata e si meraviglia perché Dio permetta che i suoi misteri siano celebrati da un simile mostro di natura, lo sente pronunciare, nella liturgia del giorno, le parole del salmo. Colpito, cessa di disprezzarlo, anzi lo fa vescovo. E' possibilein linea di pricipio, ma poco probabile, che la storia sia arrivata a Dante da un'altra fonte; ancor meno probabile che si trattasse di un'aneddoto che correndo di bocca in bocca vestisse alla fine la forma presente nel <i>Convivio</i>. Certo è che un <i>exemplum</i> edificante (non a caso si tratta, in Vincenzo, di un imperatore santo) è stato trasformato in un 'fiore di parlare' in una 'bella risposta' che potrebbe trovare collocazione nel <i>Novellino</i>. C'è inoltre da notare che l'aneddoto non corrisponde affatto alla dottrina sostenuta immediatamente prima secondo la quale, per usare il linguaggio tecnico della <i>Monarchia</i> ""peccatum in rebus inferioribus est praeter intentionem Dei naturantis"".","versetto 3 del Salmo 99 ""Scitote quoniam dominus ipse est Deus ; ipse fecit nos et non ipsi nos""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Psalms,Salmi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
NON ESSINOI,"non noi noi stessi'. Come Dante ci dice immediatamente dopo si tratta di un versetto tratto dai Salmi (Saltero"") e più precisamente del versetto 3 del <i>Salmo</i> 99 (""Scitote quoniam dominus ipse est Deus ; ipse fecit nos et non ipsi nos"") tradotto letteralmente (""scritte né più né meno come nella risposta del prete"". Per la qualifica di profeta attribuita a David cfr. nota a <i>Cv</i> II i 6). L'aneddoto è raccontato dallo <i>Speculum Historiale</i> di Vincenzo di Beuvais (XXV, cap. 12, p. 1006), ma in una forma assai diversa: l'imperatore Enrico II il Santo non schernisce affatto la bruttezza del povero prete, ma, mentre assiste alla messa da lui celebrata e si meraviglia perché Dio permetta che i suoi misteri siano celebrati da un simile mostro di natura, lo sente pronunciare, nella liturgia del giorno, le parole del salmo. Colpito, cessa di disprezzarlo, anzi lo fa vescovo. E' possibilein linea di pricipio, ma poco probabile, che la storia sia arrivata a Dante da un'altra fonte; ancor meno probabile che si trattasse di un'aneddoto che correndo di bocca in bocca vestisse alla fine la forma presente nel <i>Convivio</i>. Certo è che un <i>exemplum</i> edificante (non a caso si tratta, in Vincenzo, di un imperatore santo) è stato trasformato in un 'fiore di parlare' in una 'bella risposta' che potrebbe trovare collocazione nel <i>Novellino</i>. C'è inoltre da notare che l'aneddoto non corrisponde affatto alla dottrina sostenuta immediatamente prima secondo la quale, per usare il linguaggio tecnico della <i>Monarchia</i> ""peccatum in rebus inferioribus est praeter intentionem Dei naturantis"".","XXV, cap. 12, p. 1006",CONCORDANZA STRINGENTE,http://it.dbpedia.org/resource/Speculum_historiale,Speculum Historiale,Vincenzo di Beauvais,http://dbpedia.org/resource/Vincent_of_Beauvais,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
DICO CHE NOSTRO INTELLETTO,"Dante dà la motivazione teorica della incapacità non solo del suo, ma in generale dell' intelletto umano (nostro intelletto"") a cogliere perfettamente la natura della donna gentile-filosofia. Esso non può infatti elevarsi (""salire"") alla conoscenza piena di alcune realtà come le sostanze separate (""partite"") dalla materia per incapacità (""difetto"") della facoltà (""virtù"") che gli fornisce il materiale da cui astrae i suoi concetti (""quello ch'el vede""). Si tratta della fantasia, o immaginazione, che è una facoltà (""virtù"") organica, cioè dotata di un organo, e dunque legata al corpo ed alla materia. Per questo non è in grado di dare all'intelletto alcun supporto nella conoscenza di realtà immateriali; essa infatti non può possederne alcuna immagine (""nol puote aiutare, che non ha lo di che""). Anche se qualcosa possiamo conoscerne (""le quali, etsi alcuna considerazione di quelle avere potemo""; ""etsi"" è un latinismo piuttosto crudo che sta per 'nonostante che') si tratterà sempre di una conoscenza imperfetta. La dottrina aristotelica della conoscenza, così come espressa nel <i>De anima</i>, ma anche nel <i>De memoria</i>, (cfr. <i>De an</i>. III 7, 431 a 17; 8, 432 a 9; <i>De mem</i>. I, 449 b 31 sgg.) sosteneva che nell'uomo l'atto dell'intelletto presuppone sempre un'immagine sensibile che lo accompagna. La presenza di tale immagine è il risultato dell'azione di una facoltà, la fantasia-immaginazione, appunto, che prolunga le sensazioni anche in assenza dell'oggetto. Pensatori come Avicenna ed Averroè avevano poi individuato ed analizzato in maniera più approfondita i processi di elaborazione del semplice dato sensibile iniziale necessari per orientare gli animali in un ambiente complesso e li avevano collegati ad una serie di facoltà, riassunte sotto il nome di sensi interni e localizzate nelle diverse regioni cerebrali. In particolare Averroè aveva disposto tali facoltà in un ordine ascendente a seconda della sempre minor materialità del dato elaborato. In questa scala l'immaginazione si colloca al livello più alto: nel caso specifico dell'uomo i contenuti da essa costruiti (in linguaggio tecnico i <i>phantasmata</i>) si distaccano dalla particolarità della materia nel grado maggiore possibile per una facoltà corporea; per questo essi contengono in potenza l'universale che l'intelletto incorporeo, e quindi privo di organi, fa passare all' atto (vedi Di Martino 2008). La dipendenza dell'attività intellettiva dai <i>phantasmata</i> viene sottolineata da Tommaso proprio per escludere che in questa vita l'uomo possa giungere alla conoscenza piena delle sostanze separate (alla critica delle posizioni opposte l'Aquinate dedica ben cinque capitoli, i nn. 41-45, del terzo libro della <i>Summa contra Gentiles</i>). Viceversa Alberto Magno, pur non negando il rapporto tra immaginazione-fantasia e attività intellettuale, è convinto che l'intelletto umano sia in grado di comprenderne l'essenza anche prima della morte (cfr. <i>De anima</i> III, tr. 3, capp. 6-11, pp. 214-233). In questo caso, dunque, Dante è tecnicamente tomista. Diverso però è il contesto in cui si iscrivono le due posizioni: nel caso di Tommaso l'impossibilità di cogliere intellettualmente l'essenza delle sostanze separate porta alla affermazione che la speculazione filosofica non può saziare il naturale desiderio di conoscenza e di felicità insito nell' uomo e deve quindi riconoscere la necessità della rivelazione e della grazia. Proprio su questo punto, come vedremo, l'autore del <i>Convivio</i> la pensa in maniera del tutto diversa.","III 7, 431 a 17; 8, 432 a 9",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DICO CHE NOSTRO INTELLETTO,"Dante dà la motivazione teorica della incapacità non solo del suo, ma in generale dell' intelletto umano (nostro intelletto"") a cogliere perfettamente la natura della donna gentile-filosofia. Esso non può infatti elevarsi (""salire"") alla conoscenza piena di alcune realtà come le sostanze separate (""partite"") dalla materia per incapacità (""difetto"") della facoltà (""virtù"") che gli fornisce il materiale da cui astrae i suoi concetti (""quello ch'el vede""). Si tratta della fantasia, o immaginazione, che è una facoltà (""virtù"") organica, cioè dotata di un organo, e dunque legata al corpo ed alla materia. Per questo non è in grado di dare all'intelletto alcun supporto nella conoscenza di realtà immateriali; essa infatti non può possederne alcuna immagine (""nol puote aiutare, che non ha lo di che""). Anche se qualcosa possiamo conoscerne (""le quali, etsi alcuna considerazione di quelle avere potemo""; ""etsi"" è un latinismo piuttosto crudo che sta per 'nonostante che') si tratterà sempre di una conoscenza imperfetta. La dottrina aristotelica della conoscenza, così come espressa nel <i>De anima</i>, ma anche nel <i>De memoria</i>, (cfr. <i>De an</i>. III 7, 431 a 17; 8, 432 a 9; <i>De mem</i>. I, 449 b 31 sgg.) sosteneva che nell'uomo l'atto dell'intelletto presuppone sempre un'immagine sensibile che lo accompagna. La presenza di tale immagine è il risultato dell'azione di una facoltà, la fantasia-immaginazione, appunto, che prolunga le sensazioni anche in assenza dell'oggetto. Pensatori come Avicenna ed Averroè avevano poi individuato ed analizzato in maniera più approfondita i processi di elaborazione del semplice dato sensibile iniziale necessari per orientare gli animali in un ambiente complesso e li avevano collegati ad una serie di facoltà, riassunte sotto il nome di sensi interni e localizzate nelle diverse regioni cerebrali. In particolare Averroè aveva disposto tali facoltà in un ordine ascendente a seconda della sempre minor materialità del dato elaborato. In questa scala l'immaginazione si colloca al livello più alto: nel caso specifico dell'uomo i contenuti da essa costruiti (in linguaggio tecnico i <i>phantasmata</i>) si distaccano dalla particolarità della materia nel grado maggiore possibile per una facoltà corporea; per questo essi contengono in potenza l'universale che l'intelletto incorporeo, e quindi privo di organi, fa passare all' atto (vedi Di Martino 2008). La dipendenza dell'attività intellettiva dai <i>phantasmata</i> viene sottolineata da Tommaso proprio per escludere che in questa vita l'uomo possa giungere alla conoscenza piena delle sostanze separate (alla critica delle posizioni opposte l'Aquinate dedica ben cinque capitoli, i nn. 41-45, del terzo libro della <i>Summa contra Gentiles</i>). Viceversa Alberto Magno, pur non negando il rapporto tra immaginazione-fantasia e attività intellettuale, è convinto che l'intelletto umano sia in grado di comprenderne l'essenza anche prima della morte (cfr. <i>De anima</i> III, tr. 3, capp. 6-11, pp. 214-233). In questo caso, dunque, Dante è tecnicamente tomista. Diverso però è il contesto in cui si iscrivono le due posizioni: nel caso di Tommaso l'impossibilità di cogliere intellettualmente l'essenza delle sostanze separate porta alla affermazione che la speculazione filosofica non può saziare il naturale desiderio di conoscenza e di felicità insito nell' uomo e deve quindi riconoscere la necessità della rivelazione e della grazia. Proprio su questo punto, come vedremo, l'autore del <i>Convivio</i> la pensa in maniera del tutto diversa.","III 8, 432 a 9",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DICO CHE NOSTRO INTELLETTO,"Dante dà la motivazione teorica della incapacità non solo del suo, ma in generale dell' intelletto umano (nostro intelletto"") a cogliere perfettamente la natura della donna gentile-filosofia. Esso non può infatti elevarsi (""salire"") alla conoscenza piena di alcune realtà come le sostanze separate (""partite"") dalla materia per incapacità (""difetto"") della facoltà (""virtù"") che gli fornisce il materiale da cui astrae i suoi concetti (""quello ch'el vede""). Si tratta della fantasia, o immaginazione, che è una facoltà (""virtù"") organica, cioè dotata di un organo, e dunque legata al corpo ed alla materia. Per questo non è in grado di dare all'intelletto alcun supporto nella conoscenza di realtà immateriali; essa infatti non può possederne alcuna immagine (""nol puote aiutare, che non ha lo di che""). Anche se qualcosa possiamo conoscerne (""le quali, etsi alcuna considerazione di quelle avere potemo""; ""etsi"" è un latinismo piuttosto crudo che sta per 'nonostante che') si tratterà sempre di una conoscenza imperfetta. La dottrina aristotelica della conoscenza, così come espressa nel <i>De anima</i>, ma anche nel <i>De memoria</i>, (cfr. <i>De an</i>. III 7, 431 a 17; 8, 432 a 9; <i>De mem</i>. I, 449 b 31 sgg.) sosteneva che nell'uomo l'atto dell'intelletto presuppone sempre un'immagine sensibile che lo accompagna. La presenza di tale immagine è il risultato dell'azione di una facoltà, la fantasia-immaginazione, appunto, che prolunga le sensazioni anche in assenza dell'oggetto. Pensatori come Avicenna ed Averroè avevano poi individuato ed analizzato in maniera più approfondita i processi di elaborazione del semplice dato sensibile iniziale necessari per orientare gli animali in un ambiente complesso e li avevano collegati ad una serie di facoltà, riassunte sotto il nome di sensi interni e localizzate nelle diverse regioni cerebrali. In particolare Averroè aveva disposto tali facoltà in un ordine ascendente a seconda della sempre minor materialità del dato elaborato. In questa scala l'immaginazione si colloca al livello più alto: nel caso specifico dell'uomo i contenuti da essa costruiti (in linguaggio tecnico i <i>phantasmata</i>) si distaccano dalla particolarità della materia nel grado maggiore possibile per una facoltà corporea; per questo essi contengono in potenza l'universale che l'intelletto incorporeo, e quindi privo di organi, fa passare all' atto (vedi Di Martino 2008). La dipendenza dell'attività intellettiva dai <i>phantasmata</i> viene sottolineata da Tommaso proprio per escludere che in questa vita l'uomo possa giungere alla conoscenza piena delle sostanze separate (alla critica delle posizioni opposte l'Aquinate dedica ben cinque capitoli, i nn. 41-45, del terzo libro della <i>Summa contra Gentiles</i>). Viceversa Alberto Magno, pur non negando il rapporto tra immaginazione-fantasia e attività intellettuale, è convinto che l'intelletto umano sia in grado di comprenderne l'essenza anche prima della morte (cfr. <i>De anima</i> III, tr. 3, capp. 6-11, pp. 214-233). In questo caso, dunque, Dante è tecnicamente tomista. Diverso però è il contesto in cui si iscrivono le due posizioni: nel caso di Tommaso l'impossibilità di cogliere intellettualmente l'essenza delle sostanze separate porta alla affermazione che la speculazione filosofica non può saziare il naturale desiderio di conoscenza e di felicità insito nell' uomo e deve quindi riconoscere la necessità della rivelazione e della grazia. Proprio su questo punto, come vedremo, l'autore del <i>Convivio</i> la pensa in maniera del tutto diversa.","I, 449 b 31 sgg.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_memoria_et_reminiscentia(Aristotele),De memoria et reminiscentia (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DICO CHE NOSTRO INTELLETTO,"Dante dà la motivazione teorica della incapacità non solo del suo, ma in generale dell' intelletto umano (nostro intelletto"") a cogliere perfettamente la natura della donna gentile-filosofia. Esso non può infatti elevarsi (""salire"") alla conoscenza piena di alcune realtà come le sostanze separate (""partite"") dalla materia per incapacità (""difetto"") della facoltà (""virtù"") che gli fornisce il materiale da cui astrae i suoi concetti (""quello ch'el vede""). Si tratta della fantasia, o immaginazione, che è una facoltà (""virtù"") organica, cioè dotata di un organo, e dunque legata al corpo ed alla materia. Per questo non è in grado di dare all'intelletto alcun supporto nella conoscenza di realtà immateriali; essa infatti non può possederne alcuna immagine (""nol puote aiutare, che non ha lo di che""). Anche se qualcosa possiamo conoscerne (""le quali, etsi alcuna considerazione di quelle avere potemo""; ""etsi"" è un latinismo piuttosto crudo che sta per 'nonostante che') si tratterà sempre di una conoscenza imperfetta. La dottrina aristotelica della conoscenza, così come espressa nel <i>De anima</i>, ma anche nel <i>De memoria</i>, (cfr. <i>De an</i>. III 7, 431 a 17; 8, 432 a 9; <i>De mem</i>. I, 449 b 31 sgg.) sosteneva che nell'uomo l'atto dell'intelletto presuppone sempre un'immagine sensibile che lo accompagna. La presenza di tale immagine è il risultato dell'azione di una facoltà, la fantasia-immaginazione, appunto, che prolunga le sensazioni anche in assenza dell'oggetto. Pensatori come Avicenna ed Averroè avevano poi individuato ed analizzato in maniera più approfondita i processi di elaborazione del semplice dato sensibile iniziale necessari per orientare gli animali in un ambiente complesso e li avevano collegati ad una serie di facoltà, riassunte sotto il nome di sensi interni e localizzate nelle diverse regioni cerebrali. In particolare Averroè aveva disposto tali facoltà in un ordine ascendente a seconda della sempre minor materialità del dato elaborato. In questa scala l'immaginazione si colloca al livello più alto: nel caso specifico dell'uomo i contenuti da essa costruiti (in linguaggio tecnico i <i>phantasmata</i>) si distaccano dalla particolarità della materia nel grado maggiore possibile per una facoltà corporea; per questo essi contengono in potenza l'universale che l'intelletto incorporeo, e quindi privo di organi, fa passare all' atto (vedi Di Martino 2008). La dipendenza dell'attività intellettiva dai <i>phantasmata</i> viene sottolineata da Tommaso proprio per escludere che in questa vita l'uomo possa giungere alla conoscenza piena delle sostanze separate (alla critica delle posizioni opposte l'Aquinate dedica ben cinque capitoli, i nn. 41-45, del terzo libro della <i>Summa contra Gentiles</i>). Viceversa Alberto Magno, pur non negando il rapporto tra immaginazione-fantasia e attività intellettuale, è convinto che l'intelletto umano sia in grado di comprenderne l'essenza anche prima della morte (cfr. <i>De anima</i> III, tr. 3, capp. 6-11, pp. 214-233). In questo caso, dunque, Dante è tecnicamente tomista. Diverso però è il contesto in cui si iscrivono le due posizioni: nel caso di Tommaso l'impossibilità di cogliere intellettualmente l'essenza delle sostanze separate porta alla affermazione che la speculazione filosofica non può saziare il naturale desiderio di conoscenza e di felicità insito nell' uomo e deve quindi riconoscere la necessità della rivelazione e della grazia. Proprio su questo punto, come vedremo, l'autore del <i>Convivio</i> la pensa in maniera del tutto diversa.","cinque capitoli, i nn. 41-45, del terzo libro",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_contra_Gentiles,Summa contra Gentiles,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
DICO CHE NOSTRO INTELLETTO,"Dante dà la motivazione teorica della incapacità non solo del suo, ma in generale dell' intelletto umano (nostro intelletto"") a cogliere perfettamente la natura della donna gentile-filosofia. Esso non può infatti elevarsi (""salire"") alla conoscenza piena di alcune realtà come le sostanze separate (""partite"") dalla materia per incapacità (""difetto"") della facoltà (""virtù"") che gli fornisce il materiale da cui astrae i suoi concetti (""quello ch'el vede""). Si tratta della fantasia, o immaginazione, che è una facoltà (""virtù"") organica, cioè dotata di un organo, e dunque legata al corpo ed alla materia. Per questo non è in grado di dare all'intelletto alcun supporto nella conoscenza di realtà immateriali; essa infatti non può possederne alcuna immagine (""nol puote aiutare, che non ha lo di che""). Anche se qualcosa possiamo conoscerne (""le quali, etsi alcuna considerazione di quelle avere potemo""; ""etsi"" è un latinismo piuttosto crudo che sta per 'nonostante che') si tratterà sempre di una conoscenza imperfetta. La dottrina aristotelica della conoscenza, così come espressa nel <i>De anima</i>, ma anche nel <i>De memoria</i>, (cfr. <i>De an</i>. III 7, 431 a 17; 8, 432 a 9; <i>De mem</i>. I, 449 b 31 sgg.) sosteneva che nell'uomo l'atto dell'intelletto presuppone sempre un'immagine sensibile che lo accompagna. La presenza di tale immagine è il risultato dell'azione di una facoltà, la fantasia-immaginazione, appunto, che prolunga le sensazioni anche in assenza dell'oggetto. Pensatori come Avicenna ed Averroè avevano poi individuato ed analizzato in maniera più approfondita i processi di elaborazione del semplice dato sensibile iniziale necessari per orientare gli animali in un ambiente complesso e li avevano collegati ad una serie di facoltà, riassunte sotto il nome di sensi interni e localizzate nelle diverse regioni cerebrali. In particolare Averroè aveva disposto tali facoltà in un ordine ascendente a seconda della sempre minor materialità del dato elaborato. In questa scala l'immaginazione si colloca al livello più alto: nel caso specifico dell'uomo i contenuti da essa costruiti (in linguaggio tecnico i <i>phantasmata</i>) si distaccano dalla particolarità della materia nel grado maggiore possibile per una facoltà corporea; per questo essi contengono in potenza l'universale che l'intelletto incorporeo, e quindi privo di organi, fa passare all' atto (vedi Di Martino 2008). La dipendenza dell'attività intellettiva dai <i>phantasmata</i> viene sottolineata da Tommaso proprio per escludere che in questa vita l'uomo possa giungere alla conoscenza piena delle sostanze separate (alla critica delle posizioni opposte l'Aquinate dedica ben cinque capitoli, i nn. 41-45, del terzo libro della <i>Summa contra Gentiles</i>). Viceversa Alberto Magno, pur non negando il rapporto tra immaginazione-fantasia e attività intellettuale, è convinto che l'intelletto umano sia in grado di comprenderne l'essenza anche prima della morte (cfr. <i>De anima</i> III, tr. 3, capp. 6-11, pp. 214-233). In questo caso, dunque, Dante è tecnicamente tomista. Diverso però è il contesto in cui si iscrivono le due posizioni: nel caso di Tommaso l'impossibilità di cogliere intellettualmente l'essenza delle sostanze separate porta alla affermazione che la speculazione filosofica non può saziare il naturale desiderio di conoscenza e di felicità insito nell' uomo e deve quindi riconoscere la necessità della rivelazione e della grazia. Proprio su questo punto, come vedremo, l'autore del <i>Convivio</i> la pensa in maniera del tutto diversa.","III, tr. 3, capp. 6-11, pp. 214-233",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_anima(Alberto_Magno),De anima (Alberto Magno),Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
PRESUNTUOSO SAREBBE A RAGIONARE,"sarebbe presunzione cercarne il motivo'. Nel caso della volontà divina bisogna rimanere al <i>quia</i>. Come aveva detto Boezio di Dacia la 'forma voluntatis divinae' sfugge completamente alla ragione umana (cfr. <i>De aeternitate mundi</i>, p. 355, ll. 537-547). Cfr. <i>Cv</i> II v 18.","p. 355, ll. 537-547",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_aeternitate_mundi,De aeternitate mundi,Boezio di Dacia,http://dbpedia.org/resource/Boetius_of_Dacia,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
VOLSE ... DICERE,"volle sostenere. Secondo un modello tipico delle parafrasi di Alberto Magno Dante fa precedere alla trattazione di un tema strettamente scientifico una sezione di carattere dossografico. Per la descrizione della dottrina di <i>Pitagora</i> secondo cui la terra è una delle stelle che ruota intorno ad un fuoco centrale ed ha diametralmente opposta un' antiterra (questo è il significato del termine greco <i>antichton</i>. ) esattamente eguale (così fatta"") la fonte diretta è il <i>De caelo</i> di Aristotele, citato da Dante stesso nel paragrafo successivo (cfr. <i>De caelo</i> II 13, 293 a 17-24). Dal medesimo brano di quest'opera Dante trae la motivazione pitagorica per cui il più nobile degli elementi, il fuoco, deve occupare il luogo più nobile tra tutti (""nobilissimo intra li luoghi delli quattro corpi semplici""), ovvero il centro (""lo mezzo"") dell'universo. Il testo aristotelico, peraltro, non dice che, secondo <i>Pitagora</i>, terra ed antiterra (""ambe"") si sarebbero mosse su di un orbita che va da occidente in oriente (""una spera che si volvea da occidente in oriente""); le affermazioni che, per i Pitagorici, la terra si muoverebbe come una stella, e soprattutto che questo movimento causerebbe il giorno e la notte a seconda delle diverse posizioni rispetto al sole implica invece che esso sia da oriente ad occidente. Inoltre il <i>De caelo</i> non dice che, nel modello pitagorico, il movimento circolare del sole attorno alla terra e quindi il suo periodico apparire e scomparire per ogni emisfero (""ora si vedea e ora non si vedea"") dipende dal movimento congiunto di terra ed antiterra attorno al fuoco centrale. Infine sembra propria di Dante l'osservazione che secondo questa teoria il movimento del fuoco verso il suo luogo naturale solo apparentemente è ascensionale (""quando parea salire""), ma nella realtà è discensionale (""discendea"") perché si indirizza verso il centro (""mezzo"") dell'universo occupato appunto dal fuoco centrale. Il ricorso ad Alberto Magno da parte di non pochi commentatori, si rivela ingannevole. Nella sua parafrasi del <i>De caelo</i>, infatti, il domenicano tedesco non aggiunge niente di sostanzialmente nuovo al testo di Aristotele ed interpreta correttamente il movimento della terra come un movimento diurno, così come fa Tommaso. Inoltre Alberto per indicare la seconda terra usa il termine <i>antigyon</i> (cfr. <i>De caelo et mundo</i> II, tr. 4, cap. 1, ed Hossfeld, p. 179, ll. 18-40) mentre Dante ha presente, usando <i>antichtona</i>, la traduzione dal greco di Guglielmo di Moerbeke su cui si basa il commento di Tommaso (cfr. <i>In libros Aristotelis <i>De caelo et mundo</i> expositio</i> II, <i>lectio</i> 20, n. 481). Si è dunque ipotizzato la conoscenza da parte di Dante di un qualche altro commento (peraltro finora non identificato) al testo di Aristotele (vedi G. Stabile, alla voce <i>Pitagora</i> della ED chiedere e la nota a <i>Cv</i> II xiv 7)","II 13, 293 a 17-24",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_caelo,De caelo,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
VOLSE ... DICERE,"volle sostenere. Secondo un modello tipico delle parafrasi di Alberto Magno Dante fa precedere alla trattazione di un tema strettamente scientifico una sezione di carattere dossografico. Per la descrizione della dottrina di <i>Pitagora</i> secondo cui la terra è una delle stelle che ruota intorno ad un fuoco centrale ed ha diametralmente opposta un' antiterra (questo è il significato del termine greco <i>antichton</i>. ) esattamente eguale (così fatta"") la fonte diretta è il <i>De caelo</i> di Aristotele, citato da Dante stesso nel paragrafo successivo (cfr. <i>De caelo</i> II 13, 293 a 17-24). Dal medesimo brano di quest'opera Dante trae la motivazione pitagorica per cui il più nobile degli elementi, il fuoco, deve occupare il luogo più nobile tra tutti (""nobilissimo intra li luoghi delli quattro corpi semplici""), ovvero il centro (""lo mezzo"") dell'universo. Il testo aristotelico, peraltro, non dice che, secondo <i>Pitagora</i>, terra ed antiterra (""ambe"") si sarebbero mosse su di un orbita che va da occidente in oriente (""una spera che si volvea da occidente in oriente""); le affermazioni che, per i Pitagorici, la terra si muoverebbe come una stella, e soprattutto che questo movimento causerebbe il giorno e la notte a seconda delle diverse posizioni rispetto al sole implica invece che esso sia da oriente ad occidente. Inoltre il <i>De caelo</i> non dice che, nel modello pitagorico, il movimento circolare del sole attorno alla terra e quindi il suo periodico apparire e scomparire per ogni emisfero (""ora si vedea e ora non si vedea"") dipende dal movimento congiunto di terra ed antiterra attorno al fuoco centrale. Infine sembra propria di Dante l'osservazione che secondo questa teoria il movimento del fuoco verso il suo luogo naturale solo apparentemente è ascensionale (""quando parea salire""), ma nella realtà è discensionale (""discendea"") perché si indirizza verso il centro (""mezzo"") dell'universo occupato appunto dal fuoco centrale. Il ricorso ad Alberto Magno da parte di non pochi commentatori, si rivela ingannevole. Nella sua parafrasi del <i>De caelo</i>, infatti, il domenicano tedesco non aggiunge niente di sostanzialmente nuovo al testo di Aristotele ed interpreta correttamente il movimento della terra come un movimento diurno, così come fa Tommaso. Inoltre Alberto per indicare la seconda terra usa il termine <i>antigyon</i> (cfr. <i>De caelo et mundo</i> II, tr. 4, cap. 1, ed Hossfeld, p. 179, ll. 18-40) mentre Dante ha presente, usando <i>antichtona</i>, la traduzione dal greco di Guglielmo di Moerbeke su cui si basa il commento di Tommaso (cfr. <i>In libros Aristotelis <i>De caelo et mundo</i> expositio</i> II, <i>lectio</i> 20, n. 481). Si è dunque ipotizzato la conoscenza da parte di Dante di un qualche altro commento (peraltro finora non identificato) al testo di Aristotele (vedi G. Stabile, alla voce <i>Pitagora</i> della ED chiedere e la nota a <i>Cv</i> II xiv 7)","II, tr. 4, cap. 1, ed Hossfeld, p. 179, ll. 18-40",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_Coelo_et_Mundo(Alberto_Magno),De coelo et mundo,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
VOLSE ... DICERE,"volle sostenere. Secondo un modello tipico delle parafrasi di Alberto Magno Dante fa precedere alla trattazione di un tema strettamente scientifico una sezione di carattere dossografico. Per la descrizione della dottrina di <i>Pitagora</i> secondo cui la terra è una delle stelle che ruota intorno ad un fuoco centrale ed ha diametralmente opposta un' antiterra (questo è il significato del termine greco <i>antichton</i>. ) esattamente eguale (così fatta"") la fonte diretta è il <i>De caelo</i> di Aristotele, citato da Dante stesso nel paragrafo successivo (cfr. <i>De caelo</i> II 13, 293 a 17-24). Dal medesimo brano di quest'opera Dante trae la motivazione pitagorica per cui il più nobile degli elementi, il fuoco, deve occupare il luogo più nobile tra tutti (""nobilissimo intra li luoghi delli quattro corpi semplici""), ovvero il centro (""lo mezzo"") dell'universo. Il testo aristotelico, peraltro, non dice che, secondo <i>Pitagora</i>, terra ed antiterra (""ambe"") si sarebbero mosse su di un orbita che va da occidente in oriente (""una spera che si volvea da occidente in oriente""); le affermazioni che, per i Pitagorici, la terra si muoverebbe come una stella, e soprattutto che questo movimento causerebbe il giorno e la notte a seconda delle diverse posizioni rispetto al sole implica invece che esso sia da oriente ad occidente. Inoltre il <i>De caelo</i> non dice che, nel modello pitagorico, il movimento circolare del sole attorno alla terra e quindi il suo periodico apparire e scomparire per ogni emisfero (""ora si vedea e ora non si vedea"") dipende dal movimento congiunto di terra ed antiterra attorno al fuoco centrale. Infine sembra propria di Dante l'osservazione che secondo questa teoria il movimento del fuoco verso il suo luogo naturale solo apparentemente è ascensionale (""quando parea salire""), ma nella realtà è discensionale (""discendea"") perché si indirizza verso il centro (""mezzo"") dell'universo occupato appunto dal fuoco centrale. Il ricorso ad Alberto Magno da parte di non pochi commentatori, si rivela ingannevole. Nella sua parafrasi del <i>De caelo</i>, infatti, il domenicano tedesco non aggiunge niente di sostanzialmente nuovo al testo di Aristotele ed interpreta correttamente il movimento della terra come un movimento diurno, così come fa Tommaso. Inoltre Alberto per indicare la seconda terra usa il termine <i>antigyon</i> (cfr. <i>De caelo et mundo</i> II, tr. 4, cap. 1, ed Hossfeld, p. 179, ll. 18-40) mentre Dante ha presente, usando <i>antichtona</i>, la traduzione dal greco di Guglielmo di Moerbeke su cui si basa il commento di Tommaso (cfr. <i>In libros Aristotelis <i>De caelo et mundo</i> expositio</i> II, <i>lectio</i> 20, n. 481). Si è dunque ipotizzato la conoscenza da parte di Dante di un qualche altro commento (peraltro finora non identificato) al testo di Aristotele (vedi G. Stabile, alla voce <i>Pitagora</i> della ED chiedere e la nota a <i>Cv</i> II xiv 7)","expositio II, lectio 20, n. 481, traduzione dal greco di Guglielmo di Moerbeke",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/In_libros_Aristotelis_De_caelo_et_mundo_expositio(Tommaso),In libros Aristotelis De caelo et mundo expositio,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
PLATONE FU POI,"nonostante il riferimento esplicito al <i>Timeo</i>, la esposizione delle dottrine platoniche dipende da quanto ne dice Aristotele sempre nel tredicesimo capitolo del secondo libro del <i>De caelo</i> (293b 30-32) con alcune differenze: dopo aver detto che, per Platone l'orbe terracqueo (la terra col mare"") era effettivamente (""bene"") il centro dell'universo (""lo mezzo di tutto"") Dante parla di un movimento di rotazione della sfera terrestre attorno al proprio centro ("" 'l suo tondo tutto si girava a torno al suo centro""); nel testo aristotelico questo movimento si svolgerebbe piuttosto intorno all'asse dell'universo, un termine che nelle due traduzioni latine, (quella quella dall'arabo di Gerardo da Cremona e quella dal greco di Guglielmo di Moerbeke) viene reso rispettivamente con ""orbe"" e ""polo"". Inoltre, come nel caso dei Pitagorici, anche qui vengono introdotte precisazioni non presenti nel <i>De caelo</i> e neppure nei commenti di Alberto Magno e di Tommaso, e cioè che questo movimento ha la medesima direzione di quello del primo cielo (""seguendo lo primo movimento del cielo""), quindi da oriente ad occidente, ma che la terra si muove assai più lentamente (""tardi molto"") a causa sia della sua pesantezza (""per la sua grossa matera""), sia della sua distanza dal primo mobile (""quello"") che è la più alta rispetto a tutti gli altri corpi celesti. Come per la discussione della natura della Galassia (cfr. <i>Cv</i> II xiv 5-7) potremmo ipotizzare che Dante abbia avuto a disposizione un qualche altro commento presente nelle librerie dei conventi fiorentini.",tredicesimo capitolo del secondo libro del De caelo (293b 30-32),CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_caelo,De caelo,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
NEL SECONDO DI CIELO E MONDO,"il riferimento è a <i>De caelo</i> II 13, 293 b 6-15; 14, 296 a 24 sgg .","II 13, 293 b 6-15;",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_caelo,De caelo,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
NEL SECONDO DI CIELO E MONDO,"il riferimento è a <i>De caelo</i> II 13, 293 b 6-15; 14, 296 a 24 sgg .","14, 296 a 24 sgg .",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_caelo,De caelo,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
QUIVI,"la dimostrazione aristoteliche della centralità e della immobilità della terra si trova sempre in <i>De caelo</i> II, al capitolo 14.","II, al capitolo 14",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_caelo,De caelo,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SETTEMILA CINQUECENTO MIGLIA,"sommate alle duemila settecento che dividono Roma dal Polo nord danno la cifra di 10.200 miglia che è quella appunto di un semimeridiano, ovvero la metà delle 20.400 miglia calcolate da Alfragano per la circonferenza terrestre nel cap. ottavo del <i>Liber aggregationis</i>, p. 89. Cfr. Toynbee, p. 73). Ovviamente nell'astronomo arabo non si trovano espresse le distanze di Roma dai due poli. La loro determinazione presuppone la conoscenza della latitudine della città (la corrispondenza tra gradi e miglia poteva invece essere ricavata a partire dal testo di Alfragano).","cap. Ottavo, p. 89. Cfr. Toynbee, p. 73",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Liber_aggregationis,Liber aggregationis,Alfragano,http://dbpedia.org/resource/Ahmad_ibn_Muhammad_ibn_Kath%C4%ABr_al-Fargh%C4%81n%C4%AB,http://purl.org/bncf/tid/7996,WORK
SÌ CHE LI CITTADINI DI MARIA ...DI LUCIA,"avere le piante dei piedi opposte le une alle altre è il significato primario del termine antipodi"", ed in questo senso era stato usato da Agostino nel <i>De civitate Dei</i> (XVI 9, p. 510): coloro che ""calcant adversa pedibus nostris vestigia"" sono appunto gli <i>antipodes</i>. Il passo del <i>De civitate</i> era stato poi ripreso quasi alla lettera dalle <i>Etymologiae</i> di Isidoro di Siviglia, uno dei testi di consultazione più diffuso tra i medievali (""ii qui Antipodae dicuntur eo quod contrarii esse vestigiis nostris putantur, ut qui sub terris positi adversa pedibus nostris calcent vestigia"" IX ii 133, vol. I, s.p.). Bisogna però ricordare che sia i cittadini di Maria che quelli di Lucia sono immaginari come le loro città. Dante, dunque non prende posizione sulla controversa questione dell'esistenza reale degli antipodi, negata da Agostino e dalla tradizione teologica successiva, ma ammessa da Alberto Magno.","XVI 9, p. 510",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/City_of_God_(book),De civitate Dei,Agostino,http://dbpedia.org/resource/Augustine_of_Hippo,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
SÌ CHE LI CITTADINI DI MARIA ...DI LUCIA,"avere le piante dei piedi opposte le une alle altre è il significato primario del termine antipodi"", ed in questo senso era stato usato da Agostino nel <i>De civitate Dei</i> (XVI 9, p. 510): coloro che ""calcant adversa pedibus nostris vestigia"" sono appunto gli <i>antipodes</i>. Il passo del <i>De civitate</i> era stato poi ripreso quasi alla lettera dalle <i>Etymologiae</i> di Isidoro di Siviglia, uno dei testi di consultazione più diffuso tra i medievali (""ii qui Antipodae dicuntur eo quod contrarii esse vestigiis nostris putantur, ut qui sub terris positi adversa pedibus nostris calcent vestigia"" IX ii 133, vol. I, s.p.). Bisogna però ricordare che sia i cittadini di Maria che quelli di Lucia sono immaginari come le loro città. Dante, dunque non prende posizione sulla controversa questione dell'esistenza reale degli antipodi, negata da Agostino e dalla tradizione teologica successiva, ma ammessa da Alberto Magno.","""ii qui Antipodae dicuntur eo quod contrarii esse vestigiis nostris putantur, ut qui sub terris positi adversa pedibus nostris calcent vestigia"" IX ii 133, vol. I, s.p.""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Etymologiae,Etymologiae,Isidoro di Siviglia,http://dbpedia.org/resource/Isidore_of_Seville,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
NEL LIBRO DELLA NATURA DE' LUOGHI E DELLE PROPIETADI DELLI ELEMENTI,"nella tradizione manoscritta le due opere di Alberto (il <i>De natura loci</i> e il <i>De causis proprietatum elementorum</i>) sono quasi sempre associate (e quindi non è necessario integrare il testo con in quello"" prima di ""delle propietadi"" come fa l'edizione Brambilla Ageno). In esse Dante poteva trovare la definizione del 'circulus aequinoctialis' (cioè dell'equatore) come linea che divide il globo terrestre in due parti eguali (lo stesso avevano già detto gli astronomi-astrologi Alfragano nel <i>Liber aggregationis</i> e Giovanni di Sacrobosco nel <i>Tractatus de sphera</i>) e la descrizione della prima zona climatica come una fascia che si estende fino al sedicesimo grado a nord dell'equatore il quale funge quindi in gran parte da suo limite estremo meridionale (""là nel mezzo die quasi per tutta l'estremità del primo climate"") e divide le terre emerse (""questa terra discoperta"") dalle acque dell'Oceano che coprono l'emisfero australe. (cfr. <i>De natura loci</i> tr.1, capp. 9 e 12, p. 16, ll. 50-2, 93-6; pp. 20-21; <i>De causis proprietatum elementorum</i> tr. 1, cap. 5, p. 57, ll. 23-5. In realtà che l'emisfero australe sia occupato dall'Oceano è opinione riportata, ma non condivisa, da Alberto). Infine Lucano dice nel nono libro della <i>Farsaglia</i> che ad un certo momento, nella ritirata attraverso il deserto libico per sfuggire al potere assoluto di Cesare (""la signoria di Cesare fuggendo"") Catone e le sue legioni repubblicane (indicate con metonimia come ""il popolo romano"") si sono imbattuti nei Garamanti che abitano là dove ""circulus alti / solstitii medium signorum percutit orbem"" (IX 531-2; 511-3), quindi alla estremità meridionale del primo clima. Né in Lucano, però, né comunque nella tradizione classica i Garamanti sono associati alla nudità (lo è invece la popolazione contermine dei Nasamoni), mentre Dante ripeterà la medesima caratterizzazione in <i>Mn</i> I i 6 (""Garamantes qui ... ob estus aeris nimietatem vestimentis operiri non possunt"").","tr.1, capp. 9 e 12, p. 16, ll. 50-2, 93-6; pp. 20-21",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_natura_locorum(Alberto_Magno),De natura locorum,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
NEL LIBRO DELLA NATURA DE' LUOGHI E DELLE PROPIETADI DELLI ELEMENTI,"nella tradizione manoscritta le due opere di Alberto (il <i>De natura loci</i> e il <i>De causis proprietatum elementorum</i>) sono quasi sempre associate (e quindi non è necessario integrare il testo con in quello"" prima di ""delle propietadi"" come fa l'edizione Brambilla Ageno). In esse Dante poteva trovare la definizione del 'circulus aequinoctialis' (cioè dell'equatore) come linea che divide il globo terrestre in due parti eguali (lo stesso avevano già detto gli astronomi-astrologi Alfragano nel <i>Liber aggregationis</i> e Giovanni di Sacrobosco nel <i>Tractatus de sphera</i>) e la descrizione della prima zona climatica come una fascia che si estende fino al sedicesimo grado a nord dell'equatore il quale funge quindi in gran parte da suo limite estremo meridionale (""là nel mezzo die quasi per tutta l'estremità del primo climate"") e divide le terre emerse (""questa terra discoperta"") dalle acque dell'Oceano che coprono l'emisfero australe. (cfr. <i>De natura loci</i> tr.1, capp. 9 e 12, p. 16, ll. 50-2, 93-6; pp. 20-21; <i>De causis proprietatum elementorum</i> tr. 1, cap. 5, p. 57, ll. 23-5. In realtà che l'emisfero australe sia occupato dall'Oceano è opinione riportata, ma non condivisa, da Alberto). Infine Lucano dice nel nono libro della <i>Farsaglia</i> che ad un certo momento, nella ritirata attraverso il deserto libico per sfuggire al potere assoluto di Cesare (""la signoria di Cesare fuggendo"") Catone e le sue legioni repubblicane (indicate con metonimia come ""il popolo romano"") si sono imbattuti nei Garamanti che abitano là dove ""circulus alti / solstitii medium signorum percutit orbem"" (IX 531-2; 511-3), quindi alla estremità meridionale del primo clima. Né in Lucano, però, né comunque nella tradizione classica i Garamanti sono associati alla nudità (lo è invece la popolazione contermine dei Nasamoni), mentre Dante ripeterà la medesima caratterizzazione in <i>Mn</i> I i 6 (""Garamantes qui ... ob estus aeris nimietatem vestimentis operiri non possunt"").","tr. 1, cap. 5, p. 57, ll. 23-5",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_causis_proprietatum_elementorum(Alberto_Magno),De causis proprietatum elementorum,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
NEL LIBRO DELLA NATURA DE' LUOGHI E DELLE PROPIETADI DELLI ELEMENTI,"nella tradizione manoscritta le due opere di Alberto (il <i>De natura loci</i> e il <i>De causis proprietatum elementorum</i>) sono quasi sempre associate (e quindi non è necessario integrare il testo con in quello"" prima di ""delle propietadi"" come fa l'edizione Brambilla Ageno). In esse Dante poteva trovare la definizione del 'circulus aequinoctialis' (cioè dell'equatore) come linea che divide il globo terrestre in due parti eguali (lo stesso avevano già detto gli astronomi-astrologi Alfragano nel <i>Liber aggregationis</i> e Giovanni di Sacrobosco nel <i>Tractatus de sphera</i>) e la descrizione della prima zona climatica come una fascia che si estende fino al sedicesimo grado a nord dell'equatore il quale funge quindi in gran parte da suo limite estremo meridionale (""là nel mezzo die quasi per tutta l'estremità del primo climate"") e divide le terre emerse (""questa terra discoperta"") dalle acque dell'Oceano che coprono l'emisfero australe. (cfr. <i>De natura loci</i> tr.1, capp. 9 e 12, p. 16, ll. 50-2, 93-6; pp. 20-21; <i>De causis proprietatum elementorum</i> tr. 1, cap. 5, p. 57, ll. 23-5. In realtà che l'emisfero australe sia occupato dall'Oceano è opinione riportata, ma non condivisa, da Alberto). Infine Lucano dice nel nono libro della <i>Farsaglia</i> che ad un certo momento, nella ritirata attraverso il deserto libico per sfuggire al potere assoluto di Cesare (""la signoria di Cesare fuggendo"") Catone e le sue legioni repubblicane (indicate con metonimia come ""il popolo romano"") si sono imbattuti nei Garamanti che abitano là dove ""circulus alti / solstitii medium signorum percutit orbem"" (IX 531-2; 511-3), quindi alla estremità meridionale del primo clima. Né in Lucano, però, né comunque nella tradizione classica i Garamanti sono associati alla nudità (lo è invece la popolazione contermine dei Nasamoni), mentre Dante ripeterà la medesima caratterizzazione in <i>Mn</i> I i 6 (""Garamantes qui ... ob estus aeris nimietatem vestimentis operiri non possunt"").",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Liber_aggregationis,Liber aggregationis,Alfragano,http://dbpedia.org/resource/Ahmad_ibn_Muhammad_ibn_Kath%C4%ABr_al-Fargh%C4%81n%C4%AB,http://purl.org/bncf/tid/7996,WORK
NEL LIBRO DELLA NATURA DE' LUOGHI E DELLE PROPIETADI DELLI ELEMENTI,"nella tradizione manoscritta le due opere di Alberto (il <i>De natura loci</i> e il <i>De causis proprietatum elementorum</i>) sono quasi sempre associate (e quindi non è necessario integrare il testo con in quello"" prima di ""delle propietadi"" come fa l'edizione Brambilla Ageno). In esse Dante poteva trovare la definizione del 'circulus aequinoctialis' (cioè dell'equatore) come linea che divide il globo terrestre in due parti eguali (lo stesso avevano già detto gli astronomi-astrologi Alfragano nel <i>Liber aggregationis</i> e Giovanni di Sacrobosco nel <i>Tractatus de sphera</i>) e la descrizione della prima zona climatica come una fascia che si estende fino al sedicesimo grado a nord dell'equatore il quale funge quindi in gran parte da suo limite estremo meridionale (""là nel mezzo die quasi per tutta l'estremità del primo climate"") e divide le terre emerse (""questa terra discoperta"") dalle acque dell'Oceano che coprono l'emisfero australe. (cfr. <i>De natura loci</i> tr.1, capp. 9 e 12, p. 16, ll. 50-2, 93-6; pp. 20-21; <i>De causis proprietatum elementorum</i> tr. 1, cap. 5, p. 57, ll. 23-5. In realtà che l'emisfero australe sia occupato dall'Oceano è opinione riportata, ma non condivisa, da Alberto). Infine Lucano dice nel nono libro della <i>Farsaglia</i> che ad un certo momento, nella ritirata attraverso il deserto libico per sfuggire al potere assoluto di Cesare (""la signoria di Cesare fuggendo"") Catone e le sue legioni repubblicane (indicate con metonimia come ""il popolo romano"") si sono imbattuti nei Garamanti che abitano là dove ""circulus alti / solstitii medium signorum percutit orbem"" (IX 531-2; 511-3), quindi alla estremità meridionale del primo clima. Né in Lucano, però, né comunque nella tradizione classica i Garamanti sono associati alla nudità (lo è invece la popolazione contermine dei Nasamoni), mentre Dante ripeterà la medesima caratterizzazione in <i>Mn</i> I i 6 (""Garamantes qui ... ob estus aeris nimietatem vestimentis operiri non possunt"").",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Tractatus_de_sphera,Tractatus de sphera,Giovanni di Sacrobosco,http://dbpedia.org/resource/Johannes_de_Sacrobosco,http://purl.org/bncf/tid/7996,WORK
NEL LIBRO DELLA NATURA DE' LUOGHI E DELLE PROPIETADI DELLI ELEMENTI,"nella tradizione manoscritta le due opere di Alberto (il <i>De natura loci</i> e il <i>De causis proprietatum elementorum</i>) sono quasi sempre associate (e quindi non è necessario integrare il testo con in quello"" prima di ""delle propietadi"" come fa l'edizione Brambilla Ageno). In esse Dante poteva trovare la definizione del 'circulus aequinoctialis' (cioè dell'equatore) come linea che divide il globo terrestre in due parti eguali (lo stesso avevano già detto gli astronomi-astrologi Alfragano nel <i>Liber aggregationis</i> e Giovanni di Sacrobosco nel <i>Tractatus de sphera</i>) e la descrizione della prima zona climatica come una fascia che si estende fino al sedicesimo grado a nord dell'equatore il quale funge quindi in gran parte da suo limite estremo meridionale (""là nel mezzo die quasi per tutta l'estremità del primo climate"") e divide le terre emerse (""questa terra discoperta"") dalle acque dell'Oceano che coprono l'emisfero australe. (cfr. <i>De natura loci</i> tr.1, capp. 9 e 12, p. 16, ll. 50-2, 93-6; pp. 20-21; <i>De causis proprietatum elementorum</i> tr. 1, cap. 5, p. 57, ll. 23-5. In realtà che l'emisfero australe sia occupato dall'Oceano è opinione riportata, ma non condivisa, da Alberto). Infine Lucano dice nel nono libro della <i>Farsaglia</i> che ad un certo momento, nella ritirata attraverso il deserto libico per sfuggire al potere assoluto di Cesare (""la signoria di Cesare fuggendo"") Catone e le sue legioni repubblicane (indicate con metonimia come ""il popolo romano"") si sono imbattuti nei Garamanti che abitano là dove ""circulus alti / solstitii medium signorum percutit orbem"" (IX 531-2; 511-3), quindi alla estremità meridionale del primo clima. Né in Lucano, però, né comunque nella tradizione classica i Garamanti sono associati alla nudità (lo è invece la popolazione contermine dei Nasamoni), mentre Dante ripeterà la medesima caratterizzazione in <i>Mn</i> I i 6 (""Garamantes qui ... ob estus aeris nimietatem vestimentis operiri non possunt"").",IX 531-2; 511-3,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Pharsalia,Pharsalia,Lucano,http://dbpedia.org/resource/Lucan,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
O INEFFABILE SAPIENZA,"per un singolo verso della canzone, che inoltre sembrerebbe di comprensione immediata (il sole che gira intorno al mondo), Dante ha costruito una spiegazione che si protrae per un intero capitolo facendo ricorso a nozioni di astronomia, di geografia fisica ed umana (i Garamanti ignudi"") ed anche di storia antica (Catone e la marcia nel deserto delle legioni repubblicane) arricchite da un uso affascinante, ma sempre controllato, dell'immaginazione (le due città poste sui due poli, i loro abitanti che hanno lo sguardo rivolto verso il sole). Non si tratta, come potrebbe sembrare a prima vista, di uno sfoggio piuttosto ridondante di competenze di seconda mano. Piuttosto si vuole mostrare al pubblico del <i>Convivio</i> (quelli ""a cui utilitade e diletto io scrivo"") come una esperienza comune ed irriflessa possa e debba essere inquadrata in un orizzonte dove le distanze immense, ma pur sempre misurabili, dei luoghi e l'ampiezza dei ritmi cosmici rimandano alla grandezza indicibile della mente divina che ha ordinato con sapienza i rapporti tra i tempi e gli spazi. Così l'apparentemente ovvio diventa motivo per rendersi conto di come debole (""povera"") sia la mente umana nella comprensione del disegno divino. Questa consapevolezza deve allora trasformarsi nel bisogno di levare lo sguardo, dalla ristrettezza cieca dei bisogni e degli interessi immediati (la ""cechitade"", il ""fango della vostra stoltezza"") all'ordine complessivo dell'universo, modello di ogni corretto ordine della vita umana, sia singola che associata. (cfr. <i>Pg</i> XIV 148-150  ""Chiamavi il cielo e 'ntorno vi si gira / mostrandovi le sue bellezze etterne / e l'occhio vostro pur a terra mira""; cfr. anche <i>Pd</i> X 7-25). L'appello all'ineffabile sapienza divina riecheggia quello di Paolo nella <i>Lettera ai Romani</i> (cfr. <i>Rm</i> 11, 33 ""O altitudo divitiarum sapientiae et scientiae Dei, quam incomprehensibilia sunt iudicia eius ... "") che peraltro lo applica a tutt'altra materia. Cfr. <i>Cv</i> IV v 9; xxi 6.","Lettera ai Romani (cfr. Rm 11, 33 ""O altitudo divitiarum sapientiae et scientiae Dei, quam incomprehensibilia sunt iudicia eius ... "")""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Epistle_to_the_Romans,Epistola ad Romanos,Paolo,http://dbpedia.org/resource/Paul_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
'ORA' PER DUE MODI SI PRENDE DALLI ASTROLOGI,"gli astronomi danno un doppio significato al termine ora"". Il testo di riferimento per le due definizioni è ancora una volta il <i>Liber aggregationis</i> di Alfragano (cap. XI <i>De quantitate temporis noctis et diei et diversitate horarum aequalium et temporalium</i>, pp. 106-7. Cfr. Toynbee, pp. 74-5).","(cap. XI De quantitate temporis noctis et diei et diversitate horarum aequalium et temporalium, pp. 106-7. Cfr. Toynbee, pp. 74-5",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Liber_aggregationis,Liber aggregationis,Alfragano,http://dbpedia.org/resource/Ahmad_ibn_Muhammad_ibn_Kath%C4%ABr_al-Fargh%C4%81n%C4%AB,http://purl.org/bncf/tid/7996,WORK
CIASCUNO INTELLETTO DI SOPRA ...,"Dante per spiegare come le Intelligenze angeliche (di sopra"" in contrapposizione alla gente di qua giù) conoscono la donna gentile ricorre alla dottrina del <i>Liber De causis</i> e più precisamente alla proposizione VII (VIII), p. 64, che afferma ""omnis Intelligentia scit quod est supra se et quod est sub se "": conosce ciò che le è inferiore in quanto ne è la causa (""conosce quello che è sotto di lei sì come suo effetto""; ""scit quod est sub se, quoniam est causa ei""); conosce ciò che le è superiore in quanto ne è causata (""e sa che ciò che le è superiore è la sua causa""; ""et scit quod illud quod est supra eam, est causa ei""). Ma mentre le affermazioni del <i>De causis</i> presuppongono una gerarchia di Intelligenze in cui ognuna è in contatto immediato solo con quella superiore, di cui è effetto, e con quella inferiore di cui è causa, Dante le mette tutte direttamente in relazione con Dio facendo di Lui la loro causa (""cagione"") immediata (la tesi di Bruno Nardi relativa ad una piena adesione di Dante al modello emanatistico di Avicenna dovrebbe dunque essere soggetta a cautele). In questo modo scatta il riferimento ad un meccanismo conoscitivo non presente nel <i>Liber</i>: poiché (""però che"") Dio è causa di tutto (""universalissima cagione di tutte le cose""), le Intelligenze, conoscendolo conoscono tutte le cose, ma le conoscono ""dentro di sé"" cioè secondo una modalità esclusivamente intellettuale (""secondo lo modo della Intelligenza""). Questo significa che oggetto della loro conoscenza non sono in primo luogo gli individui, ma le strutture formali (nel caso che interessa a Dante la ""forma umana"") presenti nella mente divina come regole della produzione delle cose (""in quanto per intenzione regolata""). Utilizzando la distinzione tra Angeli che esclusivamente contemplano Dio ed Angeli deputati invece al movimento dei cieli tracciata in <i>Cv</i> II iv (posizione anch'essa del tutto estranea alle dottrine del <i>De causis</i>) Dante afferma che questi ultimi (""le Intelligenze motrici"") hanno una conoscenza ancora più piena (""massimamente conoscono"") della forma dell'uomo: essi infatti, proprio attraverso il moto dei cieli da loro retti, sono causa della sua specificazione nei singoli individui che si generano nella realtà, e questo per quella come per ogni altra forma (""sono spezialissime cagioni di quella e d'ogni forma generata""). La conoscenza della forma umana in Dio, che ha tutte le perfezioni possibili (""perfettissima tanto quanto essere puote""), diventa per loro la regola e il modello (""essemplo"") in base a cui riprodurla in natura. Sembra dunque che soltanto le Intelligenze deputate al governo dei cieli producano in senso stretto effetti da loro pienamente conoscibili e che questi effetti si identifichino con le realtà del mondo sublunare: un altro elemento di distanza dal modello del <i>Liber de Causis</i>. La dottrina per cui, usando del movimento dei cieli come di uno strumento, le Intelligenze celesti, simili ad artigiani divini, riproducono nel mondo del divenire i modelli ideali (cioè le specie delle cose) è continuamente presente nelle parafrasi aristoteliche di Alberto Magno (basti per tutte Metaphysica XI = XII, tr. 3, cap. 2, vol. II, p. 537, ll. 5-34).",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Liber_de_Causis,Liber de causis,Aristotele (ps.),http://dbpedia.org/resource/Pseudo-Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
CIASCUNO INTELLETTO DI SOPRA ...,"Dante per spiegare come le Intelligenze angeliche (di sopra"" in contrapposizione alla gente di qua giù) conoscono la donna gentile ricorre alla dottrina del <i>Liber De causis</i> e più precisamente alla proposizione VII (VIII), p. 64, che afferma ""omnis Intelligentia scit quod est supra se et quod est sub se "": conosce ciò che le è inferiore in quanto ne è la causa (""conosce quello che è sotto di lei sì come suo effetto""; ""scit quod est sub se, quoniam est causa ei""); conosce ciò che le è superiore in quanto ne è causata (""e sa che ciò che le è superiore è la sua causa""; ""et scit quod illud quod est supra eam, est causa ei""). Ma mentre le affermazioni del <i>De causis</i> presuppongono una gerarchia di Intelligenze in cui ognuna è in contatto immediato solo con quella superiore, di cui è effetto, e con quella inferiore di cui è causa, Dante le mette tutte direttamente in relazione con Dio facendo di Lui la loro causa (""cagione"") immediata (la tesi di Bruno Nardi relativa ad una piena adesione di Dante al modello emanatistico di Avicenna dovrebbe dunque essere soggetta a cautele). In questo modo scatta il riferimento ad un meccanismo conoscitivo non presente nel <i>Liber</i>: poiché (""però che"") Dio è causa di tutto (""universalissima cagione di tutte le cose""), le Intelligenze, conoscendolo conoscono tutte le cose, ma le conoscono ""dentro di sé"" cioè secondo una modalità esclusivamente intellettuale (""secondo lo modo della Intelligenza""). Questo significa che oggetto della loro conoscenza non sono in primo luogo gli individui, ma le strutture formali (nel caso che interessa a Dante la ""forma umana"") presenti nella mente divina come regole della produzione delle cose (""in quanto per intenzione regolata""). Utilizzando la distinzione tra Angeli che esclusivamente contemplano Dio ed Angeli deputati invece al movimento dei cieli tracciata in <i>Cv</i> II iv (posizione anch'essa del tutto estranea alle dottrine del <i>De causis</i>) Dante afferma che questi ultimi (""le Intelligenze motrici"") hanno una conoscenza ancora più piena (""massimamente conoscono"") della forma dell'uomo: essi infatti, proprio attraverso il moto dei cieli da loro retti, sono causa della sua specificazione nei singoli individui che si generano nella realtà, e questo per quella come per ogni altra forma (""sono spezialissime cagioni di quella e d'ogni forma generata""). La conoscenza della forma umana in Dio, che ha tutte le perfezioni possibili (""perfettissima tanto quanto essere puote""), diventa per loro la regola e il modello (""essemplo"") in base a cui riprodurla in natura. Sembra dunque che soltanto le Intelligenze deputate al governo dei cieli producano in senso stretto effetti da loro pienamente conoscibili e che questi effetti si identifichino con le realtà del mondo sublunare: un altro elemento di distanza dal modello del <i>Liber de Causis</i>. La dottrina per cui, usando del movimento dei cieli come di uno strumento, le Intelligenze celesti, simili ad artigiani divini, riproducono nel mondo del divenire i modelli ideali (cioè le specie delle cose) è continuamente presente nelle parafrasi aristoteliche di Alberto Magno (basti per tutte Metaphysica XI = XII, tr. 3, cap. 2, vol. II, p. 537, ll. 5-34).","XI = XII, tr. 3, cap. 2, vol. II, p. 537, ll. 5-34",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Metaphysicorum(Alberto_Magno),Metaphysicorum,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
RIMAGNA,"rimanga'. Che ogni realtà tenda alla sua perfezione, come fine ultimo cui tutti gli altri sono subordinati, è dottrina di origine aristotelica riassunta da Tommaso negli stessi termini di Dante (cfr. <i>Summa contra Gentiles</i> I, cap. 37, n. 304  Ex hoc ...unumquodque bonum est quod perfectum est. Et inde est quod unumquodque suam perfectionem appetit sicut proprium bonum"") e comunque già utilizzata proprio all'inizio del <i>Convivio</i>. Nonostante la metafora della sete che sembra alludere all'episodio della Samaritana nel Vangelo di Giovanni (cfr. <i>Cv</i> I i 9) ed anticipare <i>Pg</i> XXI 1-3 non mi sembra che qui il raggiungimento della perfezione sia rinviato a dopo la morte. Il principio, infatti, riguarda tutti gli esseri e se anche il testo passa poi bruscamente a parlare dell'uomo (""l'anima nostra"") l'incapacità di ogni altra gioia a quietare il desiderio di raggiungere la perfezione non significa che esso non possa essere soddisfatto in questa vita. Come avevano detto i <i>magistri artium</i> parigini, riferendosi ad un testo di Averroè (<i>Metaph</i>. XI= XII, c.51, f. 335D) ""numquam satiatur appetitus sciendi donec sciatur ens increatum"": quello che appunto fa il filosofo, raggiungendo il grado ultimo della perfezione specificamente umana (cfr. Boezio di Dacia, <i>De summo bono</i>, p. 375, ll. 170-171). D'altra parte proprio nel paragrafo seguente Dante afferma chiaramente la possibilità di ""provare pace"" anche ""qua giù"", nella contemplazione della ""donna gentile"": essa, pur se non si identifica con la perfezione assoluta, è perfetta quanto può esserlo l'essenza umana e questo, come vedremo, basta a saziare la ""natural sete"" di perfezione.","I, cap. 37, n. 304  Ex hoc ...unumquodque bonum est quod perfectum est. Et inde est quod unumquodque suam perfectionem appetit sicut proprium bonum""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_contra_Gentiles,Summa contra Gentiles,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
RIMAGNA,"rimanga'. Che ogni realtà tenda alla sua perfezione, come fine ultimo cui tutti gli altri sono subordinati, è dottrina di origine aristotelica riassunta da Tommaso negli stessi termini di Dante (cfr. <i>Summa contra Gentiles</i> I, cap. 37, n. 304  Ex hoc ...unumquodque bonum est quod perfectum est. Et inde est quod unumquodque suam perfectionem appetit sicut proprium bonum"") e comunque già utilizzata proprio all'inizio del <i>Convivio</i>. Nonostante la metafora della sete che sembra alludere all'episodio della Samaritana nel Vangelo di Giovanni (cfr. <i>Cv</i> I i 9) ed anticipare <i>Pg</i> XXI 1-3 non mi sembra che qui il raggiungimento della perfezione sia rinviato a dopo la morte. Il principio, infatti, riguarda tutti gli esseri e se anche il testo passa poi bruscamente a parlare dell'uomo (""l'anima nostra"") l'incapacità di ogni altra gioia a quietare il desiderio di raggiungere la perfezione non significa che esso non possa essere soddisfatto in questa vita. Come avevano detto i <i>magistri artium</i> parigini, riferendosi ad un testo di Averroè (<i>Metaph</i>. XI= XII, c.51, f. 335D) ""numquam satiatur appetitus sciendi donec sciatur ens increatum"": quello che appunto fa il filosofo, raggiungendo il grado ultimo della perfezione specificamente umana (cfr. Boezio di Dacia, <i>De summo bono</i>, p. 375, ll. 170-171). D'altra parte proprio nel paragrafo seguente Dante afferma chiaramente la possibilità di ""provare pace"" anche ""qua giù"", nella contemplazione della ""donna gentile"": essa, pur se non si identifica con la perfezione assoluta, è perfetta quanto può esserlo l'essenza umana e questo, come vedremo, basta a saziare la ""natural sete"" di perfezione.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_John,Vangelo di Giovanni,Giovanni,http://dbpedia.org/resource/John_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
RIMAGNA,"rimanga'. Che ogni realtà tenda alla sua perfezione, come fine ultimo cui tutti gli altri sono subordinati, è dottrina di origine aristotelica riassunta da Tommaso negli stessi termini di Dante (cfr. <i>Summa contra Gentiles</i> I, cap. 37, n. 304  Ex hoc ...unumquodque bonum est quod perfectum est. Et inde est quod unumquodque suam perfectionem appetit sicut proprium bonum"") e comunque già utilizzata proprio all'inizio del <i>Convivio</i>. Nonostante la metafora della sete che sembra alludere all'episodio della Samaritana nel Vangelo di Giovanni (cfr. <i>Cv</i> I i 9) ed anticipare <i>Pg</i> XXI 1-3 non mi sembra che qui il raggiungimento della perfezione sia rinviato a dopo la morte. Il principio, infatti, riguarda tutti gli esseri e se anche il testo passa poi bruscamente a parlare dell'uomo (""l'anima nostra"") l'incapacità di ogni altra gioia a quietare il desiderio di raggiungere la perfezione non significa che esso non possa essere soddisfatto in questa vita. Come avevano detto i <i>magistri artium</i> parigini, riferendosi ad un testo di Averroè (<i>Metaph</i>. XI= XII, c.51, f. 335D) ""numquam satiatur appetitus sciendi donec sciatur ens increatum"": quello che appunto fa il filosofo, raggiungendo il grado ultimo della perfezione specificamente umana (cfr. Boezio di Dacia, <i>De summo bono</i>, p. 375, ll. 170-171). D'altra parte proprio nel paragrafo seguente Dante afferma chiaramente la possibilità di ""provare pace"" anche ""qua giù"", nella contemplazione della ""donna gentile"": essa, pur se non si identifica con la perfezione assoluta, è perfetta quanto può esserlo l'essenza umana e questo, come vedremo, basta a saziare la ""natural sete"" di perfezione.","p. 375, ll. 170-171",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_summo_bono,De summo bono,Boezio di Dacia,http://dbpedia.org/resource/Boetius_of_Dacia,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
CIASCUNO MAESTRO AMA ...,"che ogni produttore ami in generale il suo prodotto è detto nell' <i>Etica Nicomachea</i> (IX 7, 1167 b 34 - 1168 a 3) dove il termine <i>technites</i> viene tradotto con <i>artifex</i>, l'equivalente appunto di maestro"". Che ogni artigiano ami di più il suo 'capo d'opera' (""opera ottima"") è ovvia deduzione di Dante.","IX 7, 1167 b 34 - 1168 a 3",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SÌ COME DICE LO FILOSOFO,"la prova di quanto affermato viene condotta attraverso una catena di inferenze che partono dalla classica definizione aristotelica dell'anima (<i>De an.</i> II 1, 412 a 27-28 anima est actus primus corporis physici potentia vitam habentis""). Che dall'esser atto del corpo derivi all'anima l'essere la sua causa è pure dottrina esplicita del <i>De anima</i> (cfr. <i>De an.</i> II 4, 415 b 7 ""Est autem anima viventis corporis causa et principium""). Il termine ""conduce"" sembra rimandare ad un testo di Alberto Magno (<i>Summa de creaturis</i>, II, <i>De homine</i> I.1.1.3.1.1.2, <i>ad primum</i>, p.14, ll. 28-32) in cui si afferma che l'anima ""conducit corpus ad esse ... et ad operationes"". Vedi Gentili 2002, p. 23. Che ogni ogni causa trasmetta al proprio effetto le qualità (""infonde ... della bontade"") che essa stessa ha ricevuto dalla sua causa, invece, non è dottrina rintracciabile alla lettera nel già citato (""allegato"") <i>Liber de causis</i> (""Libro delle Cagioni""). Probabilmente Dante ha connesso ciò che vien detto nella proposizione prima, dove compare appunto il termine ""causa"" (""non figitur causatum causae secundae nisi per virtutem causae primae. Quod est quia causa secunda quando facit rem, influit causa prima quae est super eam super illam rem de virtute sua"") con un' affermazione della proposizione quarta dove si parla appunto di trasmissione di ""bontadi"" (""intelligentiae primae influunt super intelligentias secundas bonitates quas recipiunt a causa prima"", pp. 49, 56). Anche in questo caso, però, Dante, ignorando la catena gerarchica presentata dal <i>De causis</i>, mette l'anima direttamente in relazione con Dio (""la cagione sua, ch'è Dio""): l'anima trasmette al corpo tutte le perfezioni che da Dio ha ricevuto. Poiché dunque, per quanto riguarda il corpo, si vedono (""veggiono"") nella donna gentile bellezze stupende, che rendono chiunque la guarda (""ogni guardatore"") desideroso di contemplarle ulteriormente (""disioso di quelle vedere"") risulta evidente che la sua anima, che regge (""conduce"") il corpo come sua specifica causa (""come cagione propia"") accoglie miracolosamente (cioè, al di sopra delle perfezioni puramente naturali) il dono gratuito (""grazioso"") di Dio.","II 1, 412 a 27-28 anima est actus primus corporis physici potentia vitam habentis""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SÌ COME DICE LO FILOSOFO,"la prova di quanto affermato viene condotta attraverso una catena di inferenze che partono dalla classica definizione aristotelica dell'anima (<i>De an.</i> II 1, 412 a 27-28 anima est actus primus corporis physici potentia vitam habentis""). Che dall'esser atto del corpo derivi all'anima l'essere la sua causa è pure dottrina esplicita del <i>De anima</i> (cfr. <i>De an.</i> II 4, 415 b 7 ""Est autem anima viventis corporis causa et principium""). Il termine ""conduce"" sembra rimandare ad un testo di Alberto Magno (<i>Summa de creaturis</i>, II, <i>De homine</i> I.1.1.3.1.1.2, <i>ad primum</i>, p.14, ll. 28-32) in cui si afferma che l'anima ""conducit corpus ad esse ... et ad operationes"". Vedi Gentili 2002, p. 23. Che ogni ogni causa trasmetta al proprio effetto le qualità (""infonde ... della bontade"") che essa stessa ha ricevuto dalla sua causa, invece, non è dottrina rintracciabile alla lettera nel già citato (""allegato"") <i>Liber de causis</i> (""Libro delle Cagioni""). Probabilmente Dante ha connesso ciò che vien detto nella proposizione prima, dove compare appunto il termine ""causa"" (""non figitur causatum causae secundae nisi per virtutem causae primae. Quod est quia causa secunda quando facit rem, influit causa prima quae est super eam super illam rem de virtute sua"") con un' affermazione della proposizione quarta dove si parla appunto di trasmissione di ""bontadi"" (""intelligentiae primae influunt super intelligentias secundas bonitates quas recipiunt a causa prima"", pp. 49, 56). Anche in questo caso, però, Dante, ignorando la catena gerarchica presentata dal <i>De causis</i>, mette l'anima direttamente in relazione con Dio (""la cagione sua, ch'è Dio""): l'anima trasmette al corpo tutte le perfezioni che da Dio ha ricevuto. Poiché dunque, per quanto riguarda il corpo, si vedono (""veggiono"") nella donna gentile bellezze stupende, che rendono chiunque la guarda (""ogni guardatore"") desideroso di contemplarle ulteriormente (""disioso di quelle vedere"") risulta evidente che la sua anima, che regge (""conduce"") il corpo come sua specifica causa (""come cagione propia"") accoglie miracolosamente (cioè, al di sopra delle perfezioni puramente naturali) il dono gratuito (""grazioso"") di Dio.","II 4, 415 b 7 ""Est autem anima viventis corporis causa et principium""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SÌ COME DICE LO FILOSOFO,"la prova di quanto affermato viene condotta attraverso una catena di inferenze che partono dalla classica definizione aristotelica dell'anima (<i>De an.</i> II 1, 412 a 27-28 anima est actus primus corporis physici potentia vitam habentis""). Che dall'esser atto del corpo derivi all'anima l'essere la sua causa è pure dottrina esplicita del <i>De anima</i> (cfr. <i>De an.</i> II 4, 415 b 7 ""Est autem anima viventis corporis causa et principium""). Il termine ""conduce"" sembra rimandare ad un testo di Alberto Magno (<i>Summa de creaturis</i>, II, <i>De homine</i> I.1.1.3.1.1.2, <i>ad primum</i>, p.14, ll. 28-32) in cui si afferma che l'anima ""conducit corpus ad esse ... et ad operationes"". Vedi Gentili 2002, p. 23. Che ogni ogni causa trasmetta al proprio effetto le qualità (""infonde ... della bontade"") che essa stessa ha ricevuto dalla sua causa, invece, non è dottrina rintracciabile alla lettera nel già citato (""allegato"") <i>Liber de causis</i> (""Libro delle Cagioni""). Probabilmente Dante ha connesso ciò che vien detto nella proposizione prima, dove compare appunto il termine ""causa"" (""non figitur causatum causae secundae nisi per virtutem causae primae. Quod est quia causa secunda quando facit rem, influit causa prima quae est super eam super illam rem de virtute sua"") con un' affermazione della proposizione quarta dove si parla appunto di trasmissione di ""bontadi"" (""intelligentiae primae influunt super intelligentias secundas bonitates quas recipiunt a causa prima"", pp. 49, 56). Anche in questo caso, però, Dante, ignorando la catena gerarchica presentata dal <i>De causis</i>, mette l'anima direttamente in relazione con Dio (""la cagione sua, ch'è Dio""): l'anima trasmette al corpo tutte le perfezioni che da Dio ha ricevuto. Poiché dunque, per quanto riguarda il corpo, si vedono (""veggiono"") nella donna gentile bellezze stupende, che rendono chiunque la guarda (""ogni guardatore"") desideroso di contemplarle ulteriormente (""disioso di quelle vedere"") risulta evidente che la sua anima, che regge (""conduce"") il corpo come sua specifica causa (""come cagione propia"") accoglie miracolosamente (cioè, al di sopra delle perfezioni puramente naturali) il dono gratuito (""grazioso"") di Dio.","II, De homine I.1.1.3.1.1.2, ad primum, p.14, ll. 28-32",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Summa_de_creaturis,Summa de creaturis,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
SÌ COME DICE LO FILOSOFO,"la prova di quanto affermato viene condotta attraverso una catena di inferenze che partono dalla classica definizione aristotelica dell'anima (<i>De an.</i> II 1, 412 a 27-28 anima est actus primus corporis physici potentia vitam habentis""). Che dall'esser atto del corpo derivi all'anima l'essere la sua causa è pure dottrina esplicita del <i>De anima</i> (cfr. <i>De an.</i> II 4, 415 b 7 ""Est autem anima viventis corporis causa et principium""). Il termine ""conduce"" sembra rimandare ad un testo di Alberto Magno (<i>Summa de creaturis</i>, II, <i>De homine</i> I.1.1.3.1.1.2, <i>ad primum</i>, p.14, ll. 28-32) in cui si afferma che l'anima ""conducit corpus ad esse ... et ad operationes"". Vedi Gentili 2002, p. 23. Che ogni ogni causa trasmetta al proprio effetto le qualità (""infonde ... della bontade"") che essa stessa ha ricevuto dalla sua causa, invece, non è dottrina rintracciabile alla lettera nel già citato (""allegato"") <i>Liber de causis</i> (""Libro delle Cagioni""). Probabilmente Dante ha connesso ciò che vien detto nella proposizione prima, dove compare appunto il termine ""causa"" (""non figitur causatum causae secundae nisi per virtutem causae primae. Quod est quia causa secunda quando facit rem, influit causa prima quae est super eam super illam rem de virtute sua"") con un' affermazione della proposizione quarta dove si parla appunto di trasmissione di ""bontadi"" (""intelligentiae primae influunt super intelligentias secundas bonitates quas recipiunt a causa prima"", pp. 49, 56). Anche in questo caso, però, Dante, ignorando la catena gerarchica presentata dal <i>De causis</i>, mette l'anima direttamente in relazione con Dio (""la cagione sua, ch'è Dio""): l'anima trasmette al corpo tutte le perfezioni che da Dio ha ricevuto. Poiché dunque, per quanto riguarda il corpo, si vedono (""veggiono"") nella donna gentile bellezze stupende, che rendono chiunque la guarda (""ogni guardatore"") desideroso di contemplarle ulteriormente (""disioso di quelle vedere"") risulta evidente che la sua anima, che regge (""conduce"") il corpo come sua specifica causa (""come cagione propia"") accoglie miracolosamente (cioè, al di sopra delle perfezioni puramente naturali) il dono gratuito (""grazioso"") di Dio.",,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Liber_de_Causis,Liber de causis,Aristotele (ps.),http://dbpedia.org/resource/Pseudo-Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
CHE SOLA È INTELLETTUALE,"che è esclusivamente intelletto puro'. Il modo diverso con cui il flusso unico e semplice della bontà divina viene accolto dagli enti dipende dunque dal grado di purezza ed immaterialità della loro forma. Lo schema utilizzato da Dante è sicuramente presente in Alberto Magno, ma, come abbiamo già detto, nel capitolo del <i>De intellectu</i> parafrasato dal <i>Convivio</i> l'esempio della luce e dei corpi serve ad un altro scopo: quello di spiegare i diversi gradi di intelligibilità degli oggetti. L'immagine di un cosmo organizzato gerarchicamente a partire dalla nuda materia fino alla pura forma attraverso una serie continua di gradi intermedi si trova invece in un capitolo precedente (I, tr. 1, cap. 5 ) e soprattutto nel <i>De natura et origine animae</i> (tr. I, cap. 3, pp. 6 sgg.) dove si ripercorre la scala degli esseri, partendo dai minerali, le cui forme sono cosi immerse nella materia da non poter ricevere che quasi poco"" dello splendore divino (vedi Fioravanti 2001, p. 99). Ancora una volta Dante sembra utilizzare le sue fonti con una tecnica a bricolage.","I, tr. 1, cap. 5",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_intellectu_et_intelligibili(Alberto_Magno),De intellectu et intelligibili,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
CHE SOLA È INTELLETTUALE,"che è esclusivamente intelletto puro'. Il modo diverso con cui il flusso unico e semplice della bontà divina viene accolto dagli enti dipende dunque dal grado di purezza ed immaterialità della loro forma. Lo schema utilizzato da Dante è sicuramente presente in Alberto Magno, ma, come abbiamo già detto, nel capitolo del <i>De intellectu</i> parafrasato dal <i>Convivio</i> l'esempio della luce e dei corpi serve ad un altro scopo: quello di spiegare i diversi gradi di intelligibilità degli oggetti. L'immagine di un cosmo organizzato gerarchicamente a partire dalla nuda materia fino alla pura forma attraverso una serie continua di gradi intermedi si trova invece in un capitolo precedente (I, tr. 1, cap. 5 ) e soprattutto nel <i>De natura et origine animae</i> (tr. I, cap. 3, pp. 6 sgg.) dove si ripercorre la scala degli esseri, partendo dai minerali, le cui forme sono cosi immerse nella materia da non poter ricevere che quasi poco"" dello splendore divino (vedi Fioravanti 2001, p. 99). Ancora una volta Dante sembra utilizzare le sue fonti con una tecnica a bricolage.","tr. I, cap. 3, pp. 6 sgg.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_natura_et_origine_animae,De natura et origine animae,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
[NEL]L'ORDINE INTELLETTUALE DELL'UNIVERSO ... SI SALE E SI DISCENDE,"la scala ordinata delle realtà intellettuali, in maniera analoga a ciò che riscontriamo nelle realtà sensibili (sì come vedemo nell'ordine sensibile"") si estende quasi senza soluzioni di continuità (""per gradi quasi continui"") tra una forma più bassa ed una più alta in assoluto (""infima"" ""altissima""). In questa scala non ci sono intermediari (""non sia grado alcuno"" ""ancor mezzo alcuno non sia"") tra l' anima umana e l'angelo (""l'angelica natura"") né tra l'anima degli animali più perfetti (""l'anima più perfetta delli bruti animali"") e l'anima umana: esse si dispongono appunto in continuità graduale (""quasi l'uno all'altro continuo per li ordini di gradi""). Ma che ci siano uomini assai vicini, per indole e comportamento alle bestie è attestato dall'esperienza quotidiana (lo ""veggiamo""). Bisogna dunque ipotizzare (""porre"") e credere fermamente che anche l'altro estremo sia realizzato e che esista qualche essere umano quasi identico ad un Angelo. Diversamente verrebbe meno la continuità dell'uomo con gli esseri a lui superiori ed inferiori (""altrimenti non si continuerebbe l'umana spezie da ogni parte"") e questo non è possibile (""che esser non può""). Dante afferma, a conclusione del suo ragionamento, che questo è il caso della donna gentile (""cotale dico io che è questa donna""). Per questo la potenza divina (""la divina virtude"") viene infusa in lei nello stesso modo in cui viene infuso nell'angelo (""a guisa che discende nell'angelo""). A tali esseri umani Dante riserva l'aggettivo ""divino"" che Aristotele (<i>Eth. Nic</i>. VII 1, 1145 a 13-30) attribuiva a coloro che sono in possesso di un grado di virtù superiore al normale, la virtù eroica. Il lemma specifico 'homines divini' è usato nello stesso contesto dalla <i>Summa Alexandrinorum</i>, e di lì passa nel <i>Trésor</i>. La <i>Summa</i>, però, ha in più un termine, <i>angelici</i>, (""tales homines <i>angelici</i> dicuntur et quasi divini"", p. LXVIII). Il fatto che Dante non lo usi, proprio in un contesto in cui sarebbe giunto del tutto a proposito, testimonia che, almeno in questo caso, il testo di riferimento non può essere il compendio arabo. Commentando il passo dell' <i>Etica Nicomachea</i> in cui all'estremo della 'virtus heroica et divina' era contrapposto l'altro estremo della <i>bestialitas</i> (loc. cit.) Tommaso aveva fondato la possibilità, per alcuni, di elevarsi ""quasi in similitudinem substantiarum separatarum"", per altri di abbassarsi ""usque ad similitudinem bestiarum"" proprio sul principio generale utilizzato da Dante per cui ""ordo rerum se habet ut medium ex diversis partibus attingat utrumque extremum"". Applicato al caso della natura umana, che è media tra le sostanze divine ed i bruti, esso spiega come in essa esista ""aliquid quod attingit ad id quod est superius, aliquid quod coniungitur inferiori, aliquid vero quod medio modo se habet""o (VII, <i>lectio</i> 1, n. 1299). Ma per l'Aquinate si trattava appunto di una possibilità della cui realizzazione erano artefici gli uomini stessi, corrompendo o perfezionando le proprie facoltà. In Dante, per un principio di pienezza, queste possibilità sono comunque realizzate, indipendentemente, a quanto sembra, da ogni intenzionalità umana. Che anche all'interno di un'unica specie, ad esempio quella umana, i singoli individui si distribuiscano su una scala di maggiore o minore partecipazione alla forma specifica è piuttosto dottrina di teologi francescani come Matteo d'Aquasparta o Vitale Du Four (cfr. del primo le <i>Quaestiones disputatae de anima</i> XIII, q. 12, ed. Gondras, pp. 195 sgg. e del secondo il testo delle <i>Quaestiones disputatae de rerum principio</i> citato in Nardi 1985, p. 151). Sulla contrapposizione degli autori francescani alla posizione di Tommaso per cui le diverse capacità morali ed intellettuali registrabili tra gli uomini dovevano essere imputate ad una diversità dei corpi e non delle anime cfr.. Falzone 2010.","VII 1, 1145 a 13-30",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
[NEL]L'ORDINE INTELLETTUALE DELL'UNIVERSO ... SI SALE E SI DISCENDE,"la scala ordinata delle realtà intellettuali, in maniera analoga a ciò che riscontriamo nelle realtà sensibili (sì come vedemo nell'ordine sensibile"") si estende quasi senza soluzioni di continuità (""per gradi quasi continui"") tra una forma più bassa ed una più alta in assoluto (""infima"" ""altissima""). In questa scala non ci sono intermediari (""non sia grado alcuno"" ""ancor mezzo alcuno non sia"") tra l' anima umana e l'angelo (""l'angelica natura"") né tra l'anima degli animali più perfetti (""l'anima più perfetta delli bruti animali"") e l'anima umana: esse si dispongono appunto in continuità graduale (""quasi l'uno all'altro continuo per li ordini di gradi""). Ma che ci siano uomini assai vicini, per indole e comportamento alle bestie è attestato dall'esperienza quotidiana (lo ""veggiamo""). Bisogna dunque ipotizzare (""porre"") e credere fermamente che anche l'altro estremo sia realizzato e che esista qualche essere umano quasi identico ad un Angelo. Diversamente verrebbe meno la continuità dell'uomo con gli esseri a lui superiori ed inferiori (""altrimenti non si continuerebbe l'umana spezie da ogni parte"") e questo non è possibile (""che esser non può""). Dante afferma, a conclusione del suo ragionamento, che questo è il caso della donna gentile (""cotale dico io che è questa donna""). Per questo la potenza divina (""la divina virtude"") viene infusa in lei nello stesso modo in cui viene infuso nell'angelo (""a guisa che discende nell'angelo""). A tali esseri umani Dante riserva l'aggettivo ""divino"" che Aristotele (<i>Eth. Nic</i>. VII 1, 1145 a 13-30) attribuiva a coloro che sono in possesso di un grado di virtù superiore al normale, la virtù eroica. Il lemma specifico 'homines divini' è usato nello stesso contesto dalla <i>Summa Alexandrinorum</i>, e di lì passa nel <i>Trésor</i>. La <i>Summa</i>, però, ha in più un termine, <i>angelici</i>, (""tales homines <i>angelici</i> dicuntur et quasi divini"", p. LXVIII). Il fatto che Dante non lo usi, proprio in un contesto in cui sarebbe giunto del tutto a proposito, testimonia che, almeno in questo caso, il testo di riferimento non può essere il compendio arabo. Commentando il passo dell' <i>Etica Nicomachea</i> in cui all'estremo della 'virtus heroica et divina' era contrapposto l'altro estremo della <i>bestialitas</i> (loc. cit.) Tommaso aveva fondato la possibilità, per alcuni, di elevarsi ""quasi in similitudinem substantiarum separatarum"", per altri di abbassarsi ""usque ad similitudinem bestiarum"" proprio sul principio generale utilizzato da Dante per cui ""ordo rerum se habet ut medium ex diversis partibus attingat utrumque extremum"". Applicato al caso della natura umana, che è media tra le sostanze divine ed i bruti, esso spiega come in essa esista ""aliquid quod attingit ad id quod est superius, aliquid quod coniungitur inferiori, aliquid vero quod medio modo se habet""o (VII, <i>lectio</i> 1, n. 1299). Ma per l'Aquinate si trattava appunto di una possibilità della cui realizzazione erano artefici gli uomini stessi, corrompendo o perfezionando le proprie facoltà. In Dante, per un principio di pienezza, queste possibilità sono comunque realizzate, indipendentemente, a quanto sembra, da ogni intenzionalità umana. Che anche all'interno di un'unica specie, ad esempio quella umana, i singoli individui si distribuiscano su una scala di maggiore o minore partecipazione alla forma specifica è piuttosto dottrina di teologi francescani come Matteo d'Aquasparta o Vitale Du Four (cfr. del primo le <i>Quaestiones disputatae de anima</i> XIII, q. 12, ed. Gondras, pp. 195 sgg. e del secondo il testo delle <i>Quaestiones disputatae de rerum principio</i> citato in Nardi 1985, p. 151). Sulla contrapposizione degli autori francescani alla posizione di Tommaso per cui le diverse capacità morali ed intellettuali registrabili tra gli uomini dovevano essere imputate ad una diversità dei corpi e non delle anime cfr.. Falzone 2010.","VII, lectio 1, n. 1299",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
[NEL]L'ORDINE INTELLETTUALE DELL'UNIVERSO ... SI SALE E SI DISCENDE,"la scala ordinata delle realtà intellettuali, in maniera analoga a ciò che riscontriamo nelle realtà sensibili (sì come vedemo nell'ordine sensibile"") si estende quasi senza soluzioni di continuità (""per gradi quasi continui"") tra una forma più bassa ed una più alta in assoluto (""infima"" ""altissima""). In questa scala non ci sono intermediari (""non sia grado alcuno"" ""ancor mezzo alcuno non sia"") tra l' anima umana e l'angelo (""l'angelica natura"") né tra l'anima degli animali più perfetti (""l'anima più perfetta delli bruti animali"") e l'anima umana: esse si dispongono appunto in continuità graduale (""quasi l'uno all'altro continuo per li ordini di gradi""). Ma che ci siano uomini assai vicini, per indole e comportamento alle bestie è attestato dall'esperienza quotidiana (lo ""veggiamo""). Bisogna dunque ipotizzare (""porre"") e credere fermamente che anche l'altro estremo sia realizzato e che esista qualche essere umano quasi identico ad un Angelo. Diversamente verrebbe meno la continuità dell'uomo con gli esseri a lui superiori ed inferiori (""altrimenti non si continuerebbe l'umana spezie da ogni parte"") e questo non è possibile (""che esser non può""). Dante afferma, a conclusione del suo ragionamento, che questo è il caso della donna gentile (""cotale dico io che è questa donna""). Per questo la potenza divina (""la divina virtude"") viene infusa in lei nello stesso modo in cui viene infuso nell'angelo (""a guisa che discende nell'angelo""). A tali esseri umani Dante riserva l'aggettivo ""divino"" che Aristotele (<i>Eth. Nic</i>. VII 1, 1145 a 13-30) attribuiva a coloro che sono in possesso di un grado di virtù superiore al normale, la virtù eroica. Il lemma specifico 'homines divini' è usato nello stesso contesto dalla <i>Summa Alexandrinorum</i>, e di lì passa nel <i>Trésor</i>. La <i>Summa</i>, però, ha in più un termine, <i>angelici</i>, (""tales homines <i>angelici</i> dicuntur et quasi divini"", p. LXVIII). Il fatto che Dante non lo usi, proprio in un contesto in cui sarebbe giunto del tutto a proposito, testimonia che, almeno in questo caso, il testo di riferimento non può essere il compendio arabo. Commentando il passo dell' <i>Etica Nicomachea</i> in cui all'estremo della 'virtus heroica et divina' era contrapposto l'altro estremo della <i>bestialitas</i> (loc. cit.) Tommaso aveva fondato la possibilità, per alcuni, di elevarsi ""quasi in similitudinem substantiarum separatarum"", per altri di abbassarsi ""usque ad similitudinem bestiarum"" proprio sul principio generale utilizzato da Dante per cui ""ordo rerum se habet ut medium ex diversis partibus attingat utrumque extremum"". Applicato al caso della natura umana, che è media tra le sostanze divine ed i bruti, esso spiega come in essa esista ""aliquid quod attingit ad id quod est superius, aliquid quod coniungitur inferiori, aliquid vero quod medio modo se habet""o (VII, <i>lectio</i> 1, n. 1299). Ma per l'Aquinate si trattava appunto di una possibilità della cui realizzazione erano artefici gli uomini stessi, corrompendo o perfezionando le proprie facoltà. In Dante, per un principio di pienezza, queste possibilità sono comunque realizzate, indipendentemente, a quanto sembra, da ogni intenzionalità umana. Che anche all'interno di un'unica specie, ad esempio quella umana, i singoli individui si distribuiscano su una scala di maggiore o minore partecipazione alla forma specifica è piuttosto dottrina di teologi francescani come Matteo d'Aquasparta o Vitale Du Four (cfr. del primo le <i>Quaestiones disputatae de anima</i> XIII, q. 12, ed. Gondras, pp. 195 sgg. e del secondo il testo delle <i>Quaestiones disputatae de rerum principio</i> citato in Nardi 1985, p. 151). Sulla contrapposizione degli autori francescani alla posizione di Tommaso per cui le diverse capacità morali ed intellettuali registrabili tra gli uomini dovevano essere imputate ad una diversità dei corpi e non delle anime cfr.. Falzone 2010.","XIII, q. 12, ed. Gondras, pp. 195 sgg.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Quaestiones_disputatae_de_anima,Quaestiones disputatae de anima,Matteo d'Aquasparta,http://dbpedia.org/resource/Matthew_of_Aquasparta,http://purl.org/bncf/tid/762,WORK
[NEL]L'ORDINE INTELLETTUALE DELL'UNIVERSO ... SI SALE E SI DISCENDE,"la scala ordinata delle realtà intellettuali, in maniera analoga a ciò che riscontriamo nelle realtà sensibili (sì come vedemo nell'ordine sensibile"") si estende quasi senza soluzioni di continuità (""per gradi quasi continui"") tra una forma più bassa ed una più alta in assoluto (""infima"" ""altissima""). In questa scala non ci sono intermediari (""non sia grado alcuno"" ""ancor mezzo alcuno non sia"") tra l' anima umana e l'angelo (""l'angelica natura"") né tra l'anima degli animali più perfetti (""l'anima più perfetta delli bruti animali"") e l'anima umana: esse si dispongono appunto in continuità graduale (""quasi l'uno all'altro continuo per li ordini di gradi""). Ma che ci siano uomini assai vicini, per indole e comportamento alle bestie è attestato dall'esperienza quotidiana (lo ""veggiamo""). Bisogna dunque ipotizzare (""porre"") e credere fermamente che anche l'altro estremo sia realizzato e che esista qualche essere umano quasi identico ad un Angelo. Diversamente verrebbe meno la continuità dell'uomo con gli esseri a lui superiori ed inferiori (""altrimenti non si continuerebbe l'umana spezie da ogni parte"") e questo non è possibile (""che esser non può""). Dante afferma, a conclusione del suo ragionamento, che questo è il caso della donna gentile (""cotale dico io che è questa donna""). Per questo la potenza divina (""la divina virtude"") viene infusa in lei nello stesso modo in cui viene infuso nell'angelo (""a guisa che discende nell'angelo""). A tali esseri umani Dante riserva l'aggettivo ""divino"" che Aristotele (<i>Eth. Nic</i>. VII 1, 1145 a 13-30) attribuiva a coloro che sono in possesso di un grado di virtù superiore al normale, la virtù eroica. Il lemma specifico 'homines divini' è usato nello stesso contesto dalla <i>Summa Alexandrinorum</i>, e di lì passa nel <i>Trésor</i>. La <i>Summa</i>, però, ha in più un termine, <i>angelici</i>, (""tales homines <i>angelici</i> dicuntur et quasi divini"", p. LXVIII). Il fatto che Dante non lo usi, proprio in un contesto in cui sarebbe giunto del tutto a proposito, testimonia che, almeno in questo caso, il testo di riferimento non può essere il compendio arabo. Commentando il passo dell' <i>Etica Nicomachea</i> in cui all'estremo della 'virtus heroica et divina' era contrapposto l'altro estremo della <i>bestialitas</i> (loc. cit.) Tommaso aveva fondato la possibilità, per alcuni, di elevarsi ""quasi in similitudinem substantiarum separatarum"", per altri di abbassarsi ""usque ad similitudinem bestiarum"" proprio sul principio generale utilizzato da Dante per cui ""ordo rerum se habet ut medium ex diversis partibus attingat utrumque extremum"". Applicato al caso della natura umana, che è media tra le sostanze divine ed i bruti, esso spiega come in essa esista ""aliquid quod attingit ad id quod est superius, aliquid quod coniungitur inferiori, aliquid vero quod medio modo se habet""o (VII, <i>lectio</i> 1, n. 1299). Ma per l'Aquinate si trattava appunto di una possibilità della cui realizzazione erano artefici gli uomini stessi, corrompendo o perfezionando le proprie facoltà. In Dante, per un principio di pienezza, queste possibilità sono comunque realizzate, indipendentemente, a quanto sembra, da ogni intenzionalità umana. Che anche all'interno di un'unica specie, ad esempio quella umana, i singoli individui si distribuiscano su una scala di maggiore o minore partecipazione alla forma specifica è piuttosto dottrina di teologi francescani come Matteo d'Aquasparta o Vitale Du Four (cfr. del primo le <i>Quaestiones disputatae de anima</i> XIII, q. 12, ed. Gondras, pp. 195 sgg. e del secondo il testo delle <i>Quaestiones disputatae de rerum principio</i> citato in Nardi 1985, p. 151). Sulla contrapposizione degli autori francescani alla posizione di Tommaso per cui le diverse capacità morali ed intellettuali registrabili tra gli uomini dovevano essere imputate ad una diversità dei corpi e non delle anime cfr.. Falzone 2010.","Nardi 1985, p. 151",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Quaestiones_disputatae_de_rerum_principio,Quaestiones disputatae de rerum principio,Vital Du Four,http://dbpedia.org/resource/Vital_du_Four,http://purl.org/bncf/tid/762,WORK
INTENDONO ... RIPRESENTARE,"non vogliono, attraverso quelle parole e quegli atteggiamenti (per quello""), trasmettere alcun messaggio intenzionale (""alcuna cosa significare""), ma solo ripetere imitando (""ripresentare"") quel che vedono e sentono. Notazioni sulla capacità del pappagallo e della gazza di imitare il linguaggio umano si trovano nel dizionario di Uguccione da Pisa (<i>Derivationes</i>, s.v. <i>Poyo</i> , P 100, 10, 11, pp. 948-9). La causa per cui alcuni uccelli (tra cui appunto la gazza e il pappagallo) sono capaci di emettere voci articolate imitanti il linguaggio umano era stata data da Alberto Magno, che prende in considerazione anche l'imitazione dei comportamenti umani propria delle scimmie (cfr. <i>De animalibus</i> XXI, tr. 1, capp. 5 e 3, pp. 1335-7; 1329-1332). Non è dunque necessario ipotizzare una diretta conoscenza di pappagalli o di scimmie da parte di Dante. Una trattazione del tutto analoga del problema è presente in VE I ii 7.","s.v. Poyo , P 100, 10, 11, pp. 948-9",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Derivationes_Magnae,Derivationes Magnae,Uguccione da Pisa,http://dbpedia.org/resource/Huguccio,http://purl.org/bncf/tid/9228,WORK
INTENDONO ... RIPRESENTARE,"non vogliono, attraverso quelle parole e quegli atteggiamenti (per quello""), trasmettere alcun messaggio intenzionale (""alcuna cosa significare""), ma solo ripetere imitando (""ripresentare"") quel che vedono e sentono. Notazioni sulla capacità del pappagallo e della gazza di imitare il linguaggio umano si trovano nel dizionario di Uguccione da Pisa (<i>Derivationes</i>, s.v. <i>Poyo</i> , P 100, 10, 11, pp. 948-9). La causa per cui alcuni uccelli (tra cui appunto la gazza e il pappagallo) sono capaci di emettere voci articolate imitanti il linguaggio umano era stata data da Alberto Magno, che prende in considerazione anche l'imitazione dei comportamenti umani propria delle scimmie (cfr. <i>De animalibus</i> XXI, tr. 1, capp. 5 e 3, pp. 1335-7; 1329-1332). Non è dunque necessario ipotizzare una diretta conoscenza di pappagalli o di scimmie da parte di Dante. Una trattazione del tutto analoga del problema è presente in VE I ii 7.","XXI, tr. 1, capp. 5 e 3, pp. 1335-7; 1329-1332",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_animalibus,De animalibus (Alberto Magno),Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
LO QUALE CREÒ ...,"nel fatto miracoloso il potere divino dimostra di essere più ampio delle categorie della ragione che pure egli stesso ha creato. I miracoli, infatti, per dirla con le parole di Tommaso, <i>Summa contra Gentiles</i> III, cap. 101, n. 2763, divinitus fiunt praeter ordinem communiter observatum in rebus"" (il testo di Tommaso è esplicitamente citato in <i>Mn</i> II iv 1-2 ""Sicut dici Thomas in tertio suo contra Gentiles, miraculum est quod preter ordinem in rebus communiter institutum divinitus fit""). Sempre nella <i>Summa contra Gentiles</i> III, cap. 154, n. 3262 si trova la affermazione che i miracoli operati dagli Apostoli servirono come conferma della veridicità della loro predicazione (""Sed quia sermo propositus confirmatione indiget ad hoc quod recipiatur, nisi sit per se manifestus, ea autem quae sunt fidei sunt humanae rationi immanifesta, necessarium fuit aliquid adhiberi quo confirmaretur sermo praedicantium fidem. Non autem confirmari poterat per aliqua principia rationis per modum demonstrationis, cum ea quae sunt fidei rationem excedant. Oportuit igitur aliquibus indiciis confirmari praedicantium sermonem quibus manifeste ostenderetur huiusmodi sermonem processisse a Deo, dum praedicantes talia operarentur, sanando infirmos et alias virtutes operando quae non posset facere nisi Deus""). Che essi siano ""il principalissimo fondamento della nostra fede"" sembra però una esagerazione dantesca.","III, cap. 101, n. 2763, divinitus fiunt praeter ordinem communiter observatum in rebus""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_contra_Gentiles,Summa contra Gentiles,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
LO QUALE CREÒ ...,"nel fatto miracoloso il potere divino dimostra di essere più ampio delle categorie della ragione che pure egli stesso ha creato. I miracoli, infatti, per dirla con le parole di Tommaso, <i>Summa contra Gentiles</i> III, cap. 101, n. 2763, divinitus fiunt praeter ordinem communiter observatum in rebus"" (il testo di Tommaso è esplicitamente citato in <i>Mn</i> II iv 1-2 ""Sicut dici Thomas in tertio suo contra Gentiles, miraculum est quod preter ordinem in rebus communiter institutum divinitus fit""). Sempre nella <i>Summa contra Gentiles</i> III, cap. 154, n. 3262 si trova la affermazione che i miracoli operati dagli Apostoli servirono come conferma della veridicità della loro predicazione (""Sed quia sermo propositus confirmatione indiget ad hoc quod recipiatur, nisi sit per se manifestus, ea autem quae sunt fidei sunt humanae rationi immanifesta, necessarium fuit aliquid adhiberi quo confirmaretur sermo praedicantium fidem. Non autem confirmari poterat per aliqua principia rationis per modum demonstrationis, cum ea quae sunt fidei rationem excedant. Oportuit igitur aliquibus indiciis confirmari praedicantium sermonem quibus manifeste ostenderetur huiusmodi sermonem processisse a Deo, dum praedicantes talia operarentur, sanando infirmos et alias virtutes operando quae non posset facere nisi Deus""). Che essi siano ""il principalissimo fondamento della nostra fede"" sembra però una esagerazione dantesca.","III, cap. 154, n. 3262",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_contra_Gentiles,Summa contra Gentiles,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
FATTI POI NEL NOME SUO PER LI SANTI SUOI,"nel racconto degli <i>Atti degli apostoli</i> il primo miracolo della storia cristiana, la guarigione del mendicante storpio alla porta del Tempio, viene operato da Pietro nel nome del Cristo crocifisso e risorto (cfr. <i>Act</i> 4, 10) e questa cornice fungerà da modello per tutti i successivi resoconti di miracoli.","4, 10",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Acts_of_the_Apostles,Atti degli Apostoli,Luca,http://dbpedia.org/resource/Luke_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
MOLTI SIANO SÌ OSTINATI ...,"più che un rimando alla incredulità dell'apostolo Tommaso che chiese di constatare con i suoi sensi (fare sensibile esperienza"") la realtà del corpo glorioso di Cristo risorto (cfr. <i>Io</i> 20, 25), credo si trovi qui la constatazione, comune per altro a non pochi scrittori ecclesiastici precedenti, che nella storia della Chiesa il tempo dei miracoli si è in qualche modo concluso e che si tratta ora di credere al racconto dei miracoli avvenuti; come verrà detto subito dopo la donna gentile deve aiutare la fede dei contemporanei. Che qualcuno dubiti dei prodigi del passato e, come Tommaso, creda solo a miracoli effettivamente sperimentabili sembra descrivere una situazione reale e non solo letteraria.","20, 25",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_John,Vangelo di Giovanni,Giovanni,http://dbpedia.org/resource/John_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
DA ETTERNO ... FU ORDINATA NELLA MENTE DI DIO,"con questa citazione dal libro dei <i>Proverbi</i> (cfr. <i>Prv</i> 8, 23 ab aeterno ordinata sum"") la donna gentile di fatto diventa, anche prima della esegesi allegorica; la Filosofia. Proprio come donna, infatti, può essere esplicitamente identificata con la Sapienza divina secondo un modello che, come abbiamo visto (cfr. <i>Cv</i> II xii 9) risale ai commenti altomedievali al <i>De consolatione</i> di Boezio (vedi ad esempio il testo di Adalboldo di Utrecht citato in Courcelle1939, p. 74 ""Philosophia hic introducitur ad loquendum que cum creatore aderat quando formata sunt omnia""). Abbiamo già notato come questa personificazione permanga, sia pure a modo di <i>topos</i> retorico, anche nella cultura universitaria del XIII e XIV secolo.","Prv 8, 23 ab aeterno ordinata sum",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Proverbs,Libro dei Proverbi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
DA ETTERNO ... FU ORDINATA NELLA MENTE DI DIO,"con questa citazione dal libro dei <i>Proverbi</i> (cfr. <i>Prv</i> 8, 23 ab aeterno ordinata sum"") la donna gentile di fatto diventa, anche prima della esegesi allegorica; la Filosofia. Proprio come donna, infatti, può essere esplicitamente identificata con la Sapienza divina secondo un modello che, come abbiamo visto (cfr. <i>Cv</i> II xii 9) risale ai commenti altomedievali al <i>De consolatione</i> di Boezio (vedi ad esempio il testo di Adalboldo di Utrecht citato in Courcelle1939, p. 74 ""Philosophia hic introducitur ad loquendum que cum creatore aderat quando formata sunt omnia""). Abbiamo già notato come questa personificazione permanga, sia pure a modo di <i>topos</i> retorico, anche nella cultura universitaria del XIII e XIV secolo.",,CONCORDANZA GENERICA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commenti_altomedievali_al_De_consolatione_di_Boezio,Commenti altomedievali al De consolatione di Boezio,,,http://purl.org/bncf/tid/762,CONCEPT
INTRA LI EFFETTI ...,"con un procedimento abituale Dante inserice l'elogio della bellezza corporea della donna gentile in coordinate più generali. L'uomo è la cosa più bella prodotta dalla sapienza divina (mirabilissimo effetto"") se si riflette (""considerando"") come essa abbia unito in un'unica (""una"") forma, cioè nell'anima dell'uomo, e solo in quella, tre realtà (""nature""), cioè le facoltà vegetativa, sensitiva ed intellettiva (cfr. <i>Cv</i> III iii 5) e come dunque il corpo umano debba esser armoniosamente composto (""armoniato""), visto che mediante quasi tutte le sue facoltà (""per tutte quasi sue virtudi"") è strutturato (""organizzato"") in funzione di questa forma complessa (la limitazione espressa dal ""quasi"" si riferisce al fatto che la facoltà intellettiva non è organica, non si avvale cioè di organi corporei). Che l'uomo possedesse una complessione corporea più equilibrata di quella degli altri animali era dottrina comune: basterà anche in questo caso ricorrere ad un testo così diffuso come il <i>De regimine principum</i> (II i 1, p. 216) ""Homo inter cetera animalia habet ... meliorem complexionem ... puram et redactam ad medium"". Dal canto suo Tommaso, per il corpo umano, aveva parlato (che è lo stesso) di una ""complexio maxime aequalis"" (cfr. <i>Summa Contra Gentiles</i> II, cap. 90 n. 1760). Per Dante, però, questo è vero solo in linea di principio; proprio per l'alto grado di armonia (""per la molta concordia"") necessario (""che conviene"") ad una armoniosa corrispondenza (""a bene rispondersi"") di tanti organi, tra tutti gli uomini (""in tanto numero"") pochi sono gli individui che raggiungono la perfezione.","II, cap. 90 n. 1760",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_contra_Gentiles,Summa contra Gentiles,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
INTRA LI EFFETTI ...,"con un procedimento abituale Dante inserice l'elogio della bellezza corporea della donna gentile in coordinate più generali. L'uomo è la cosa più bella prodotta dalla sapienza divina (mirabilissimo effetto"") se si riflette (""considerando"") come essa abbia unito in un'unica (""una"") forma, cioè nell'anima dell'uomo, e solo in quella, tre realtà (""nature""), cioè le facoltà vegetativa, sensitiva ed intellettiva (cfr. <i>Cv</i> III iii 5) e come dunque il corpo umano debba esser armoniosamente composto (""armoniato""), visto che mediante quasi tutte le sue facoltà (""per tutte quasi sue virtudi"") è strutturato (""organizzato"") in funzione di questa forma complessa (la limitazione espressa dal ""quasi"" si riferisce al fatto che la facoltà intellettiva non è organica, non si avvale cioè di organi corporei). Che l'uomo possedesse una complessione corporea più equilibrata di quella degli altri animali era dottrina comune: basterà anche in questo caso ricorrere ad un testo così diffuso come il <i>De regimine principum</i> (II i 1, p. 216) ""Homo inter cetera animalia habet ... meliorem complexionem ... puram et redactam ad medium"". Dal canto suo Tommaso, per il corpo umano, aveva parlato (che è lo stesso) di una ""complexio maxime aequalis"" (cfr. <i>Summa Contra Gentiles</i> II, cap. 90 n. 1760). Per Dante, però, questo è vero solo in linea di principio; proprio per l'alto grado di armonia (""per la molta concordia"") necessario (""che conviene"") ad una armoniosa corrispondenza (""a bene rispondersi"") di tanti organi, tra tutti gli uomini (""in tanto numero"") pochi sono gli individui che raggiungono la perfezione.","II i 1, p. 216) ""Homo inter cetera animalia habet ... meliorem complexionem ... puram et redactam ad medium""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_regimine_principum,De regimine principum (Egidio Romano),Egidio Romano,http://dbpedia.org/resource/Giles_of_Rome,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
LA SAPIENZA ... CHI CERCAVA ?,"cfr. <i>Eccli</i> 1, 3 Sapientiam Dei praecedentem omnia quis investigavit?"".","1, 3 Sapientiam Dei praecedentem omnia quis investigavit?",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Sirach,Ecclesiastico,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
PER ALTRO MODO ...,"a differenza del piacere del Paradiso che è senza fine e senza interruzione (perpetuo""), quello offerto dalla contemplazione della donna gentile non può esser tale per nessun uomo (""non può ad alcuno esser questo""). Che la contemplazione filosofica avesse come limite l' esser soggetta ad interruzioni era stato detto da Aristotele e da Averroè, quando avevano sottolineato la differenza fra l'uomo e Dio per il quale l'attività di pensiero, identica con la sua stessa natura, è invece ininterrotta ed eterna (cfr. <i>Eth. Nic</i>. X 8, 1178 b 25-26; <i>Metaph</i>. XII 7, 1072 b 24-25; <i>In libros Metaphysicorum Aristotelis</i>, XI = XII, c. 38, f. 321 E-F). Ovviamente nessuno dei due ipotizzava un Paradiso in cui tutti avrebbero potuto fruire di una felicità simile a quella di Dio. Tommaso invece aveva fatto leva proprio su questa limitazione intrinseca al ""contentarsi"" per sostenere che il desiderio di beatitudine dell'uomo trovava il suo compimento solo in una vita futura attingibile non per natura, ma per grazia (il Paradiso, appunto). In Dante, come vedremo, limite della felicità filosofica ed esistenza di una piena felicità sovrannaturale rimarranno volutamente irrelati.","X 8, 1178 b 25-26",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PER ALTRO MODO ...,"a differenza del piacere del Paradiso che è senza fine e senza interruzione (perpetuo""), quello offerto dalla contemplazione della donna gentile non può esser tale per nessun uomo (""non può ad alcuno esser questo""). Che la contemplazione filosofica avesse come limite l' esser soggetta ad interruzioni era stato detto da Aristotele e da Averroè, quando avevano sottolineato la differenza fra l'uomo e Dio per il quale l'attività di pensiero, identica con la sua stessa natura, è invece ininterrotta ed eterna (cfr. <i>Eth. Nic</i>. X 8, 1178 b 25-26; <i>Metaph</i>. XII 7, 1072 b 24-25; <i>In libros Metaphysicorum Aristotelis</i>, XI = XII, c. 38, f. 321 E-F). Ovviamente nessuno dei due ipotizzava un Paradiso in cui tutti avrebbero potuto fruire di una felicità simile a quella di Dio. Tommaso invece aveva fatto leva proprio su questa limitazione intrinseca al ""contentarsi"" per sostenere che il desiderio di beatitudine dell'uomo trovava il suo compimento solo in una vita futura attingibile non per natura, ma per grazia (il Paradiso, appunto). In Dante, come vedremo, limite della felicità filosofica ed esistenza di una piena felicità sovrannaturale rimarranno volutamente irrelati.","XII 7, 1072 b 24-25",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PER ALTRO MODO ...,"a differenza del piacere del Paradiso che è senza fine e senza interruzione (perpetuo""), quello offerto dalla contemplazione della donna gentile non può esser tale per nessun uomo (""non può ad alcuno esser questo""). Che la contemplazione filosofica avesse come limite l' esser soggetta ad interruzioni era stato detto da Aristotele e da Averroè, quando avevano sottolineato la differenza fra l'uomo e Dio per il quale l'attività di pensiero, identica con la sua stessa natura, è invece ininterrotta ed eterna (cfr. <i>Eth. Nic</i>. X 8, 1178 b 25-26; <i>Metaph</i>. XII 7, 1072 b 24-25; <i>In libros Metaphysicorum Aristotelis</i>, XI = XII, c. 38, f. 321 E-F). Ovviamente nessuno dei due ipotizzava un Paradiso in cui tutti avrebbero potuto fruire di una felicità simile a quella di Dio. Tommaso invece aveva fatto leva proprio su questa limitazione intrinseca al ""contentarsi"" per sostenere che il desiderio di beatitudine dell'uomo trovava il suo compimento solo in una vita futura attingibile non per natura, ma per grazia (il Paradiso, appunto). In Dante, come vedremo, limite della felicità filosofica ed esistenza di una piena felicità sovrannaturale rimarranno volutamente irrelati.","In libros Metaphysicorum Aristotelis, XI = XII, c. 38, f. 321 E-F",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Metaphysicae(Tommaso),Sententia libri Metaphysicae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
TANTO MANIFESTA,"in modo così evidente'. Che gli occhi fossero lo specchio dell'anima era dottrina comune; cfr. lo <i>Speculum Naturale</i> di Vincenzo di Beauvais: Oculi inter omnes sensus animae viciniores existunt; in oculis enim omne mentis indicium est. Unde et animi perturbatio vel hilaritas in oculis apparet"" (XXVIII, cap. 47., p. 2023) e il <i>De animalibus</i> di Alberto Magno ""Dixit ... Palemon oculos esse tamquam fores animae et animam emicare per oculos, et solum oculorum dispositionem esse aditum per quem animus introspici possit"" (I, tr. 2, cap. 3, p. 51)","Oculi inter omnes sensus animae viciniores existunt; in oculis enim omne mentis indicium est. Unde et animi perturbatio vel hilaritas in oculis apparet"" (XXVIII, cap. 47., p. 2023)""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://it.dbpedia.org/resource/Speculum_historiale,Speculum Historiale,Vincenzo di Beauvais,http://dbpedia.org/resource/Vincent_of_Beauvais,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
TANTO MANIFESTA,"in modo così evidente'. Che gli occhi fossero lo specchio dell'anima era dottrina comune; cfr. lo <i>Speculum Naturale</i> di Vincenzo di Beauvais: Oculi inter omnes sensus animae viciniores existunt; in oculis enim omne mentis indicium est. Unde et animi perturbatio vel hilaritas in oculis apparet"" (XXVIII, cap. 47., p. 2023) e il <i>De animalibus</i> di Alberto Magno ""Dixit ... Palemon oculos esse tamquam fores animae et animam emicare per oculos, et solum oculorum dispositionem esse aditum per quem animus introspici possit"" (I, tr. 2, cap. 3, p. 51)","Dixit ... Palemon oculos esse tamquam fores animae et animam emicare per oculos, et solum oculorum dispositionem esse aditum per quem animus introspici possit (I, tr. 2, cap. 3, p. 51)""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_animalibus,De animalibus (Alberto Magno),Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
DELLE QUALI FA MENZIONE LO FILOSOFO,"nel secondo libro della <i>Retorica</i>, dedicato appunto all'analisi delle passioni, Aristotele parla effettivamente della <i>gratia</i> (c. 7), dello <i>zelus</i> (c.11), della <i>misericordia</i> (c.8), dello sdegno (<i>nemesis</i>, c. 9), della invidia (c. 10), dell'amore, o più precisamente dell'amare e della amicizia (c.4) e della vergogna (c. 6.; ma la traduzione latina ha <i>erubescentia</i>), insieme però a molte altre affezioni dell'animo, e non nello stesso ordine seguito da Dante. Il <i>Convivio</i> dipende qui direttamente dalla schematizzazione operata da Egidio Romano sul contenuto della <i>Retorica</i> aristotelica: cfr. <i>De regimine principum</i> I iii 10, p. 181, Sed praeter omnes has passiones Philosophus 2 Rhetoricorum sex alias passiones enumerare videtur, videlicet zelum, gratiam, nemesim (quod idem est quod indignatio de prosperitatibus malorum), misericordiam, invidiam et erubescentiam sive verecundiam"" . Si noterà che nel testo tradito del <i>Convivio</i> le passioni sono cinque: manca la <i>nemesis</i>, un termine che, semplicemente traslitterato nella traduzione latina, era stato chiarito con una parafrasi da Egidio e dal suo traduttore in volgare che parla di ""disdegno e corruccio del bene e dell'allegreza de' malvagi"" (Egidio Romano, <i>Del reggimento dei Principi. Volgarizzamento del 1288</i>, p.103). L'integrazione ""amore"" proposta dall'edizione Brambilla Ageno per raggiungere il numero di sei è dunque soggetta a cauzione.",secondo libro della Retorica,CITAZIONE ESPLICITA,http://it.dbpedia.org/resource/Retorica_(Aristotele),Rhetorica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DELLE QUALI FA MENZIONE LO FILOSOFO,"nel secondo libro della <i>Retorica</i>, dedicato appunto all'analisi delle passioni, Aristotele parla effettivamente della <i>gratia</i> (c. 7), dello <i>zelus</i> (c.11), della <i>misericordia</i> (c.8), dello sdegno (<i>nemesis</i>, c. 9), della invidia (c. 10), dell'amore, o più precisamente dell'amare e della amicizia (c.4) e della vergogna (c. 6.; ma la traduzione latina ha <i>erubescentia</i>), insieme però a molte altre affezioni dell'animo, e non nello stesso ordine seguito da Dante. Il <i>Convivio</i> dipende qui direttamente dalla schematizzazione operata da Egidio Romano sul contenuto della <i>Retorica</i> aristotelica: cfr. <i>De regimine principum</i> I iii 10, p. 181, Sed praeter omnes has passiones Philosophus 2 Rhetoricorum sex alias passiones enumerare videtur, videlicet zelum, gratiam, nemesim (quod idem est quod indignatio de prosperitatibus malorum), misericordiam, invidiam et erubescentiam sive verecundiam"" . Si noterà che nel testo tradito del <i>Convivio</i> le passioni sono cinque: manca la <i>nemesis</i>, un termine che, semplicemente traslitterato nella traduzione latina, era stato chiarito con una parafrasi da Egidio e dal suo traduttore in volgare che parla di ""disdegno e corruccio del bene e dell'allegreza de' malvagi"" (Egidio Romano, <i>Del reggimento dei Principi. Volgarizzamento del 1288</i>, p.103). L'integrazione ""amore"" proposta dall'edizione Brambilla Ageno per raggiungere il numero di sei è dunque soggetta a cauzione.","I iii 10, p. 181",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_regimine_principum,De regimine principum (Egidio Romano),Egidio Romano,http://dbpedia.org/resource/Giles_of_Rome,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
STAZIO POETA ... QUANDO DICE,"cfr. <i>Tebaide</i> I 47-8 merserat aeterna damnatum nocte pudorem / Oedipodes"" (il ""solvette"" della traduzione dantesca non corrisponde al ""merserat"" del testo e sembra piuttosto presupporre un ""solverat"" che per altro non è attestato come variante dalle moderne edizioni critiche). Publio Papinio Stazio, nato a Napoli verso il 50 d.C. e sempre a Napoli morto intorno al 96 d.C. è l'autore di due poemi epici, la <i>Tebaide</i> (la ""Tebana Istoria"") e l' <i>Achilleide</i>, ampiamente conosciuti e commentati nel tardo Medioevo.",Tebaide I 47-8 merserat aeterna damnatum nocte pudorem / Oedipodes,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Thebaid_(Latin_poem),Thebais,Stazio,http://dbpedia.org/resource/Statius,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
LO LIBRO ...,"si tratta del <i>Liber de quattuor virtutibus</i> (il titolo originale è <i>Formula honestae vitae</i>), testo di larga diffusione, opera di Martino arcivescovo di Braga ma attribuito dal Medioevo, e da Dante stesso (cfr <i>Mn</i> II v 3), a Seneca: Sales tui sine dente sint ... risus sine cachinno"". Questo medesimo brano era stato ripreso e volgarizzato sia dalla seconda redazione del <i>Trésor</i> (II LXXX 4, ed. Carmody, p. 258) che dal <i>Liber veterum preceptorum</i>, una raccolta di <i>auctoritates</i> compilata verso la fine del '200 dal domenicano pisano Bartolomeo da San Concordio, e da lui stesso tradotta in volgare sotto il titolo <i>Ammaestramenti degli antichi</i> (dist. vi, cap. 2 <i>De modificatione risus</i>, pp. 144-45. Il testo era dedicato a Geri Spini, personaggio che ha avuto qualche parte nelle vicende politiche di Dante); in nessun, però, appare il termine ""cachinno"" (riso sguaiato) che risulta un calco dantesco dal testo originale  .",,CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Liber_de_quattuor_virtutibus,Liber de quattuor virtutibus,Seneca (ps.),http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Pseudo_Seneca,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
"PER LO MODO CHE SOVERCHIA LO SOLE LO FRAGILE VISO, NON PUR LO SANO E FORTE","non solo (non pur"") nel modo in cui il sole vince una vista forte e sana, ma in quello (molto più potente) in cui ne vince una debole'. Compare nuovamente un' eco della affermazione di Aristotele nel secondo libro della <i>Metafisica</i> (1, 993 b 7-9) per cui rispetto alle realtà divine il nostro intelletto è nella medesima situazione degli occhi del pipistrello (o della civetta, a seconda delle diverse trasposizioni in latino del termine <i>nykteris</i>. Cfr. <i>Cv</i> II iv 17) nei confronti della luce del sole.","1, 993 b 7-9",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
POTEMO,"possiamo'. Che le sostanze separate siano conoscibili solo a partire dagli effetti era già stato detto in <i>Cv</i> II iv 16 . A maggior ragione questo vale per Dio, la cui essenza rimane inaccessibile all'intelletto umano non aiutato dalla grazia divina (cfr. Tommaso, <i>Summa Theologiae</i> I, q. 12, a. 4, <i>respondeo</i>). Anche la materia prima, aristotelicamente parlando, è in sé inconoscibile, in quanto pura privazione e pura potenza (cfr. <i>Metaph</i>. VII  10, 1036 a 8-9) ma, ad essere rigorosi, neppure produce alcun effetto (anche se è necessaria per spiegare tutti i mutamenti riscontrabili nel mondo fisico). Semmai, nella dottrina comune, essa è conoscibile per analogia alla forma (cfr. Alberto Magno, <i>Metaphysica</i> VII, tr. 3, cap. 5, vol. II, p. 361, ll. 70-73; Tommaso, <i>In duodecim libros Metaphysicorum Aristotelis expositio</i> VII, <i>lectio</i> 10, n. 1496). La sua inconoscibilità dipende infatti non da un eccesso, ma da una mancanza di essere (cfr. Alberto Magno, <i>De intellectu et intelligibili</i> tr. III,  cap. 2, p. 500. Vedi anche la nota a <i>Cv</i> III xv 6).","I, q. 12, a. 4, respondeo",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_Theologica,Summa Theologiae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
POTEMO,"possiamo'. Che le sostanze separate siano conoscibili solo a partire dagli effetti era già stato detto in <i>Cv</i> II iv 16 . A maggior ragione questo vale per Dio, la cui essenza rimane inaccessibile all'intelletto umano non aiutato dalla grazia divina (cfr. Tommaso, <i>Summa Theologiae</i> I, q. 12, a. 4, <i>respondeo</i>). Anche la materia prima, aristotelicamente parlando, è in sé inconoscibile, in quanto pura privazione e pura potenza (cfr. <i>Metaph</i>. VII  10, 1036 a 8-9) ma, ad essere rigorosi, neppure produce alcun effetto (anche se è necessaria per spiegare tutti i mutamenti riscontrabili nel mondo fisico). Semmai, nella dottrina comune, essa è conoscibile per analogia alla forma (cfr. Alberto Magno, <i>Metaphysica</i> VII, tr. 3, cap. 5, vol. II, p. 361, ll. 70-73; Tommaso, <i>In duodecim libros Metaphysicorum Aristotelis expositio</i> VII, <i>lectio</i> 10, n. 1496). La sua inconoscibilità dipende infatti non da un eccesso, ma da una mancanza di essere (cfr. Alberto Magno, <i>De intellectu et intelligibili</i> tr. III,  cap. 2, p. 500. Vedi anche la nota a <i>Cv</i> III xv 6).","VII 10, 1036 a 8-9",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
POTEMO,"possiamo'. Che le sostanze separate siano conoscibili solo a partire dagli effetti era già stato detto in <i>Cv</i> II iv 16 . A maggior ragione questo vale per Dio, la cui essenza rimane inaccessibile all'intelletto umano non aiutato dalla grazia divina (cfr. Tommaso, <i>Summa Theologiae</i> I, q. 12, a. 4, <i>respondeo</i>). Anche la materia prima, aristotelicamente parlando, è in sé inconoscibile, in quanto pura privazione e pura potenza (cfr. <i>Metaph</i>. VII  10, 1036 a 8-9) ma, ad essere rigorosi, neppure produce alcun effetto (anche se è necessaria per spiegare tutti i mutamenti riscontrabili nel mondo fisico). Semmai, nella dottrina comune, essa è conoscibile per analogia alla forma (cfr. Alberto Magno, <i>Metaphysica</i> VII, tr. 3, cap. 5, vol. II, p. 361, ll. 70-73; Tommaso, <i>In duodecim libros Metaphysicorum Aristotelis expositio</i> VII, <i>lectio</i> 10, n. 1496). La sua inconoscibilità dipende infatti non da un eccesso, ma da una mancanza di essere (cfr. Alberto Magno, <i>De intellectu et intelligibili</i> tr. III,  cap. 2, p. 500. Vedi anche la nota a <i>Cv</i> III xv 6).","VII, tr. 3, cap. 5, vol. II, p. 361, ll. 70-73",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Metaphysicorum(Alberto_Magno),Metaphysicorum,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
POTEMO,"possiamo'. Che le sostanze separate siano conoscibili solo a partire dagli effetti era già stato detto in <i>Cv</i> II iv 16 . A maggior ragione questo vale per Dio, la cui essenza rimane inaccessibile all'intelletto umano non aiutato dalla grazia divina (cfr. Tommaso, <i>Summa Theologiae</i> I, q. 12, a. 4, <i>respondeo</i>). Anche la materia prima, aristotelicamente parlando, è in sé inconoscibile, in quanto pura privazione e pura potenza (cfr. <i>Metaph</i>. VII  10, 1036 a 8-9) ma, ad essere rigorosi, neppure produce alcun effetto (anche se è necessaria per spiegare tutti i mutamenti riscontrabili nel mondo fisico). Semmai, nella dottrina comune, essa è conoscibile per analogia alla forma (cfr. Alberto Magno, <i>Metaphysica</i> VII, tr. 3, cap. 5, vol. II, p. 361, ll. 70-73; Tommaso, <i>In duodecim libros Metaphysicorum Aristotelis expositio</i> VII, <i>lectio</i> 10, n. 1496). La sua inconoscibilità dipende infatti non da un eccesso, ma da una mancanza di essere (cfr. Alberto Magno, <i>De intellectu et intelligibili</i> tr. III,  cap. 2, p. 500. Vedi anche la nota a <i>Cv</i> III xv 6).","vol. II, p. 361, ll. 70-73",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Metaphysicorum(Alberto_Magno),Metaphysicorum,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
POTEMO,"possiamo'. Che le sostanze separate siano conoscibili solo a partire dagli effetti era già stato detto in <i>Cv</i> II iv 16 . A maggior ragione questo vale per Dio, la cui essenza rimane inaccessibile all'intelletto umano non aiutato dalla grazia divina (cfr. Tommaso, <i>Summa Theologiae</i> I, q. 12, a. 4, <i>respondeo</i>). Anche la materia prima, aristotelicamente parlando, è in sé inconoscibile, in quanto pura privazione e pura potenza (cfr. <i>Metaph</i>. VII  10, 1036 a 8-9) ma, ad essere rigorosi, neppure produce alcun effetto (anche se è necessaria per spiegare tutti i mutamenti riscontrabili nel mondo fisico). Semmai, nella dottrina comune, essa è conoscibile per analogia alla forma (cfr. Alberto Magno, <i>Metaphysica</i> VII, tr. 3, cap. 5, vol. II, p. 361, ll. 70-73; Tommaso, <i>In duodecim libros Metaphysicorum Aristotelis expositio</i> VII, <i>lectio</i> 10, n. 1496). La sua inconoscibilità dipende infatti non da un eccesso, ma da una mancanza di essere (cfr. Alberto Magno, <i>De intellectu et intelligibili</i> tr. III,  cap. 2, p. 500. Vedi anche la nota a <i>Cv</i> III xv 6).","VII, lectio 10, n. 1496",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Metaphysicae(Tommaso),Sententia libri Metaphysicae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
POTEMO,"possiamo'. Che le sostanze separate siano conoscibili solo a partire dagli effetti era già stato detto in <i>Cv</i> II iv 16 . A maggior ragione questo vale per Dio, la cui essenza rimane inaccessibile all'intelletto umano non aiutato dalla grazia divina (cfr. Tommaso, <i>Summa Theologiae</i> I, q. 12, a. 4, <i>respondeo</i>). Anche la materia prima, aristotelicamente parlando, è in sé inconoscibile, in quanto pura privazione e pura potenza (cfr. <i>Metaph</i>. VII  10, 1036 a 8-9) ma, ad essere rigorosi, neppure produce alcun effetto (anche se è necessaria per spiegare tutti i mutamenti riscontrabili nel mondo fisico). Semmai, nella dottrina comune, essa è conoscibile per analogia alla forma (cfr. Alberto Magno, <i>Metaphysica</i> VII, tr. 3, cap. 5, vol. II, p. 361, ll. 70-73; Tommaso, <i>In duodecim libros Metaphysicorum Aristotelis expositio</i> VII, <i>lectio</i> 10, n. 1496). La sua inconoscibilità dipende infatti non da un eccesso, ma da una mancanza di essere (cfr. Alberto Magno, <i>De intellectu et intelligibili</i> tr. III,  cap. 2, p. 500. Vedi anche la nota a <i>Cv</i> III xv 6).","tr. III, cap. 2, p. 500.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_intellectu_et_intelligibili(Alberto_Magno),De intellectu et intelligibili,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
NON È EQUABILE ALLA NATURA,"non ha lo stesso peso della natura'. Cfr. Alberto Magno, <i>Super Ethica commentum et quaestiones</i>, VII, <i>lectio</i> 11, vol. II, p. 570 ll. 78-80 Consuetudo, quamvis imitetur naturam, non tamen pervenit ad firmitatem ipsius"". La terminologia usata in questi due paragrafi è certamente riconducibile all'etica aristotelica: aristotelici sono infatti i concetti di virtù e di vizio come 'qualità abituali' generate dalla consuetudine (cioè dalla ripetizione di azioni virtuose o viziose), e questo è il senso del rimando piuttosto generico al secondo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i>. Non è però pienamente aristotelica la distinzione tra vizi connaturati e vizi abitudinari. La stessa nozione di vizio innato sembra estranea al pensiero dello Stagirita: il testo di <i>Eth. Nic</i>. VII 5, 1148 b 15 sgg., citato dai commentatori, si riferisce alle depravazioni morbose (la <i>bestialitas</i>) alcune delle quali possono avere la loro origine in una degenerazione della natura umana, ma che comunque Aristotele distingue nettamente dai vizi normali. Allo stesso modo, all'osservazione per cui alcune inclinazioni, anche virtuose ci sono presenti per natura, segue un netto rifiuto di un loro carattere di virtù (cfr .<i>Eth. Nic</i>. VI 13, 1144 b4-10). L'unico accenno ad una possibile origine naturale dei vizi è presente in <i>Eth. Nic</i>. VII 10, 1152 a 27-30 dove Aristotele distingue tra incontinenza per natura e incontinenza per abitudine, collegando la prima alla <i>melancholia</i> ed affermando che l'abitudine è più correggibile della natura Proprio questo testo periferico darà modo ad Alberto Magno e a Tommaso di introdurre il tema delle <i>complexiones</i> ""Natura potest inclinari ad aliqua vitia secundum diversas <i>complexiones</i>"" (Alberto, <i>Super Ethica commentum et quaestiones</i> VII, <i>lectio</i> 11, vol. II, p. 570, ll. 59-62) ""Illi qui sunt incontinentes per consuetudinem sunt sanabiliores illis qui sunt incontinentes per naturam, scilicet corporalis complexionis ad id inclinantis"" (Tommaso, <i>In decem libros Ethicorum Aristotelis expositio</i> VII, <i>lectio</i> 10, n. 1467). Si tratta di una teoria medica presentata esaurientemente nel <i>Canon</i> di Avicenna, testo ufficiale di medicina nelle Università del Medioevo e del Rinascimento; riducendola alle sue linee fondamentali essa dice il corpo dell'uomo è costituito da una mescolanza dei quattro umori fondamentali (sangue, flegma, bile rossa, o collera, e bile nera o <i>melancholia</i>) il cui equilibrio non è mai così assoluto che uno dei quattro in qualche misura non sopravanzi gli altri, o a causa dell'età, o a causa del clima, o a causa della struttura individuale. Così si avranno, con gradazioni diverse per ogni individuo, quattro tipi psicosomatici (""caratteri"") il sanguigno, il flemmatico, il collerico, il melanconico (cfr. <i>Canon</i> I, doctr. 3, c. 1 <i>De complexionibus</i>, ff. 2ra-3rb). Che queste <i>distemperantie</i> producano inclinazione al vizio, come dice Alberto (ma come non aveva detto Avicenna) deriva da un assioma condiviso dalla cultura medievale: ""mores animi sequuntur complexionem corporis"" (cfr. <i>Cv</i> I i 2-5; IV ii 7). Sulle dottrine medico filosofiche relative alla <i>complexio</i> vedi Bertini Malgarini 1989, pp. 35-54.","VII, lectio 11, vol. II, p. 570 ll. 78-80",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Super_Ethica_commentum_et_quaestiones,Super Ethica commentum et quaestiones,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
NON È EQUABILE ALLA NATURA,"non ha lo stesso peso della natura'. Cfr. Alberto Magno, <i>Super Ethica commentum et quaestiones</i>, VII, <i>lectio</i> 11, vol. II, p. 570 ll. 78-80 Consuetudo, quamvis imitetur naturam, non tamen pervenit ad firmitatem ipsius"". La terminologia usata in questi due paragrafi è certamente riconducibile all'etica aristotelica: aristotelici sono infatti i concetti di virtù e di vizio come 'qualità abituali' generate dalla consuetudine (cioè dalla ripetizione di azioni virtuose o viziose), e questo è il senso del rimando piuttosto generico al secondo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i>. Non è però pienamente aristotelica la distinzione tra vizi connaturati e vizi abitudinari. La stessa nozione di vizio innato sembra estranea al pensiero dello Stagirita: il testo di <i>Eth. Nic</i>. VII 5, 1148 b 15 sgg., citato dai commentatori, si riferisce alle depravazioni morbose (la <i>bestialitas</i>) alcune delle quali possono avere la loro origine in una degenerazione della natura umana, ma che comunque Aristotele distingue nettamente dai vizi normali. Allo stesso modo, all'osservazione per cui alcune inclinazioni, anche virtuose ci sono presenti per natura, segue un netto rifiuto di un loro carattere di virtù (cfr .<i>Eth. Nic</i>. VI 13, 1144 b4-10). L'unico accenno ad una possibile origine naturale dei vizi è presente in <i>Eth. Nic</i>. VII 10, 1152 a 27-30 dove Aristotele distingue tra incontinenza per natura e incontinenza per abitudine, collegando la prima alla <i>melancholia</i> ed affermando che l'abitudine è più correggibile della natura Proprio questo testo periferico darà modo ad Alberto Magno e a Tommaso di introdurre il tema delle <i>complexiones</i> ""Natura potest inclinari ad aliqua vitia secundum diversas <i>complexiones</i>"" (Alberto, <i>Super Ethica commentum et quaestiones</i> VII, <i>lectio</i> 11, vol. II, p. 570, ll. 59-62) ""Illi qui sunt incontinentes per consuetudinem sunt sanabiliores illis qui sunt incontinentes per naturam, scilicet corporalis complexionis ad id inclinantis"" (Tommaso, <i>In decem libros Ethicorum Aristotelis expositio</i> VII, <i>lectio</i> 10, n. 1467). Si tratta di una teoria medica presentata esaurientemente nel <i>Canon</i> di Avicenna, testo ufficiale di medicina nelle Università del Medioevo e del Rinascimento; riducendola alle sue linee fondamentali essa dice il corpo dell'uomo è costituito da una mescolanza dei quattro umori fondamentali (sangue, flegma, bile rossa, o collera, e bile nera o <i>melancholia</i>) il cui equilibrio non è mai così assoluto che uno dei quattro in qualche misura non sopravanzi gli altri, o a causa dell'età, o a causa del clima, o a causa della struttura individuale. Così si avranno, con gradazioni diverse per ogni individuo, quattro tipi psicosomatici (""caratteri"") il sanguigno, il flemmatico, il collerico, il melanconico (cfr. <i>Canon</i> I, doctr. 3, c. 1 <i>De complexionibus</i>, ff. 2ra-3rb). Che queste <i>distemperantie</i> producano inclinazione al vizio, come dice Alberto (ma come non aveva detto Avicenna) deriva da un assioma condiviso dalla cultura medievale: ""mores animi sequuntur complexionem corporis"" (cfr. <i>Cv</i> I i 2-5; IV ii 7). Sulle dottrine medico filosofiche relative alla <i>complexio</i> vedi Bertini Malgarini 1989, pp. 35-54.","VII 5, 1148 b 15 sgg.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
NON È EQUABILE ALLA NATURA,"non ha lo stesso peso della natura'. Cfr. Alberto Magno, <i>Super Ethica commentum et quaestiones</i>, VII, <i>lectio</i> 11, vol. II, p. 570 ll. 78-80 Consuetudo, quamvis imitetur naturam, non tamen pervenit ad firmitatem ipsius"". La terminologia usata in questi due paragrafi è certamente riconducibile all'etica aristotelica: aristotelici sono infatti i concetti di virtù e di vizio come 'qualità abituali' generate dalla consuetudine (cioè dalla ripetizione di azioni virtuose o viziose), e questo è il senso del rimando piuttosto generico al secondo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i>. Non è però pienamente aristotelica la distinzione tra vizi connaturati e vizi abitudinari. La stessa nozione di vizio innato sembra estranea al pensiero dello Stagirita: il testo di <i>Eth. Nic</i>. VII 5, 1148 b 15 sgg., citato dai commentatori, si riferisce alle depravazioni morbose (la <i>bestialitas</i>) alcune delle quali possono avere la loro origine in una degenerazione della natura umana, ma che comunque Aristotele distingue nettamente dai vizi normali. Allo stesso modo, all'osservazione per cui alcune inclinazioni, anche virtuose ci sono presenti per natura, segue un netto rifiuto di un loro carattere di virtù (cfr .<i>Eth. Nic</i>. VI 13, 1144 b4-10). L'unico accenno ad una possibile origine naturale dei vizi è presente in <i>Eth. Nic</i>. VII 10, 1152 a 27-30 dove Aristotele distingue tra incontinenza per natura e incontinenza per abitudine, collegando la prima alla <i>melancholia</i> ed affermando che l'abitudine è più correggibile della natura Proprio questo testo periferico darà modo ad Alberto Magno e a Tommaso di introdurre il tema delle <i>complexiones</i> ""Natura potest inclinari ad aliqua vitia secundum diversas <i>complexiones</i>"" (Alberto, <i>Super Ethica commentum et quaestiones</i> VII, <i>lectio</i> 11, vol. II, p. 570, ll. 59-62) ""Illi qui sunt incontinentes per consuetudinem sunt sanabiliores illis qui sunt incontinentes per naturam, scilicet corporalis complexionis ad id inclinantis"" (Tommaso, <i>In decem libros Ethicorum Aristotelis expositio</i> VII, <i>lectio</i> 10, n. 1467). Si tratta di una teoria medica presentata esaurientemente nel <i>Canon</i> di Avicenna, testo ufficiale di medicina nelle Università del Medioevo e del Rinascimento; riducendola alle sue linee fondamentali essa dice il corpo dell'uomo è costituito da una mescolanza dei quattro umori fondamentali (sangue, flegma, bile rossa, o collera, e bile nera o <i>melancholia</i>) il cui equilibrio non è mai così assoluto che uno dei quattro in qualche misura non sopravanzi gli altri, o a causa dell'età, o a causa del clima, o a causa della struttura individuale. Così si avranno, con gradazioni diverse per ogni individuo, quattro tipi psicosomatici (""caratteri"") il sanguigno, il flemmatico, il collerico, il melanconico (cfr. <i>Canon</i> I, doctr. 3, c. 1 <i>De complexionibus</i>, ff. 2ra-3rb). Che queste <i>distemperantie</i> producano inclinazione al vizio, come dice Alberto (ma come non aveva detto Avicenna) deriva da un assioma condiviso dalla cultura medievale: ""mores animi sequuntur complexionem corporis"" (cfr. <i>Cv</i> I i 2-5; IV ii 7). Sulle dottrine medico filosofiche relative alla <i>complexio</i> vedi Bertini Malgarini 1989, pp. 35-54.","VI 13, 1144 b4-10",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
NON È EQUABILE ALLA NATURA,"non ha lo stesso peso della natura'. Cfr. Alberto Magno, <i>Super Ethica commentum et quaestiones</i>, VII, <i>lectio</i> 11, vol. II, p. 570 ll. 78-80 Consuetudo, quamvis imitetur naturam, non tamen pervenit ad firmitatem ipsius"". La terminologia usata in questi due paragrafi è certamente riconducibile all'etica aristotelica: aristotelici sono infatti i concetti di virtù e di vizio come 'qualità abituali' generate dalla consuetudine (cioè dalla ripetizione di azioni virtuose o viziose), e questo è il senso del rimando piuttosto generico al secondo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i>. Non è però pienamente aristotelica la distinzione tra vizi connaturati e vizi abitudinari. La stessa nozione di vizio innato sembra estranea al pensiero dello Stagirita: il testo di <i>Eth. Nic</i>. VII 5, 1148 b 15 sgg., citato dai commentatori, si riferisce alle depravazioni morbose (la <i>bestialitas</i>) alcune delle quali possono avere la loro origine in una degenerazione della natura umana, ma che comunque Aristotele distingue nettamente dai vizi normali. Allo stesso modo, all'osservazione per cui alcune inclinazioni, anche virtuose ci sono presenti per natura, segue un netto rifiuto di un loro carattere di virtù (cfr .<i>Eth. Nic</i>. VI 13, 1144 b4-10). L'unico accenno ad una possibile origine naturale dei vizi è presente in <i>Eth. Nic</i>. VII 10, 1152 a 27-30 dove Aristotele distingue tra incontinenza per natura e incontinenza per abitudine, collegando la prima alla <i>melancholia</i> ed affermando che l'abitudine è più correggibile della natura Proprio questo testo periferico darà modo ad Alberto Magno e a Tommaso di introdurre il tema delle <i>complexiones</i> ""Natura potest inclinari ad aliqua vitia secundum diversas <i>complexiones</i>"" (Alberto, <i>Super Ethica commentum et quaestiones</i> VII, <i>lectio</i> 11, vol. II, p. 570, ll. 59-62) ""Illi qui sunt incontinentes per consuetudinem sunt sanabiliores illis qui sunt incontinentes per naturam, scilicet corporalis complexionis ad id inclinantis"" (Tommaso, <i>In decem libros Ethicorum Aristotelis expositio</i> VII, <i>lectio</i> 10, n. 1467). Si tratta di una teoria medica presentata esaurientemente nel <i>Canon</i> di Avicenna, testo ufficiale di medicina nelle Università del Medioevo e del Rinascimento; riducendola alle sue linee fondamentali essa dice il corpo dell'uomo è costituito da una mescolanza dei quattro umori fondamentali (sangue, flegma, bile rossa, o collera, e bile nera o <i>melancholia</i>) il cui equilibrio non è mai così assoluto che uno dei quattro in qualche misura non sopravanzi gli altri, o a causa dell'età, o a causa del clima, o a causa della struttura individuale. Così si avranno, con gradazioni diverse per ogni individuo, quattro tipi psicosomatici (""caratteri"") il sanguigno, il flemmatico, il collerico, il melanconico (cfr. <i>Canon</i> I, doctr. 3, c. 1 <i>De complexionibus</i>, ff. 2ra-3rb). Che queste <i>distemperantie</i> producano inclinazione al vizio, come dice Alberto (ma come non aveva detto Avicenna) deriva da un assioma condiviso dalla cultura medievale: ""mores animi sequuntur complexionem corporis"" (cfr. <i>Cv</i> I i 2-5; IV ii 7). Sulle dottrine medico filosofiche relative alla <i>complexio</i> vedi Bertini Malgarini 1989, pp. 35-54.","VII, lectio 11, vol. II, p. 570, ll. 59-62",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Super_Ethica_commentum_et_quaestiones,Super Ethica commentum et quaestiones,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
NON È EQUABILE ALLA NATURA,"non ha lo stesso peso della natura'. Cfr. Alberto Magno, <i>Super Ethica commentum et quaestiones</i>, VII, <i>lectio</i> 11, vol. II, p. 570 ll. 78-80 Consuetudo, quamvis imitetur naturam, non tamen pervenit ad firmitatem ipsius"". La terminologia usata in questi due paragrafi è certamente riconducibile all'etica aristotelica: aristotelici sono infatti i concetti di virtù e di vizio come 'qualità abituali' generate dalla consuetudine (cioè dalla ripetizione di azioni virtuose o viziose), e questo è il senso del rimando piuttosto generico al secondo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i>. Non è però pienamente aristotelica la distinzione tra vizi connaturati e vizi abitudinari. La stessa nozione di vizio innato sembra estranea al pensiero dello Stagirita: il testo di <i>Eth. Nic</i>. VII 5, 1148 b 15 sgg., citato dai commentatori, si riferisce alle depravazioni morbose (la <i>bestialitas</i>) alcune delle quali possono avere la loro origine in una degenerazione della natura umana, ma che comunque Aristotele distingue nettamente dai vizi normali. Allo stesso modo, all'osservazione per cui alcune inclinazioni, anche virtuose ci sono presenti per natura, segue un netto rifiuto di un loro carattere di virtù (cfr .<i>Eth. Nic</i>. VI 13, 1144 b4-10). L'unico accenno ad una possibile origine naturale dei vizi è presente in <i>Eth. Nic</i>. VII 10, 1152 a 27-30 dove Aristotele distingue tra incontinenza per natura e incontinenza per abitudine, collegando la prima alla <i>melancholia</i> ed affermando che l'abitudine è più correggibile della natura Proprio questo testo periferico darà modo ad Alberto Magno e a Tommaso di introdurre il tema delle <i>complexiones</i> ""Natura potest inclinari ad aliqua vitia secundum diversas <i>complexiones</i>"" (Alberto, <i>Super Ethica commentum et quaestiones</i> VII, <i>lectio</i> 11, vol. II, p. 570, ll. 59-62) ""Illi qui sunt incontinentes per consuetudinem sunt sanabiliores illis qui sunt incontinentes per naturam, scilicet corporalis complexionis ad id inclinantis"" (Tommaso, <i>In decem libros Ethicorum Aristotelis expositio</i> VII, <i>lectio</i> 10, n. 1467). Si tratta di una teoria medica presentata esaurientemente nel <i>Canon</i> di Avicenna, testo ufficiale di medicina nelle Università del Medioevo e del Rinascimento; riducendola alle sue linee fondamentali essa dice il corpo dell'uomo è costituito da una mescolanza dei quattro umori fondamentali (sangue, flegma, bile rossa, o collera, e bile nera o <i>melancholia</i>) il cui equilibrio non è mai così assoluto che uno dei quattro in qualche misura non sopravanzi gli altri, o a causa dell'età, o a causa del clima, o a causa della struttura individuale. Così si avranno, con gradazioni diverse per ogni individuo, quattro tipi psicosomatici (""caratteri"") il sanguigno, il flemmatico, il collerico, il melanconico (cfr. <i>Canon</i> I, doctr. 3, c. 1 <i>De complexionibus</i>, ff. 2ra-3rb). Che queste <i>distemperantie</i> producano inclinazione al vizio, come dice Alberto (ma come non aveva detto Avicenna) deriva da un assioma condiviso dalla cultura medievale: ""mores animi sequuntur complexionem corporis"" (cfr. <i>Cv</i> I i 2-5; IV ii 7). Sulle dottrine medico filosofiche relative alla <i>complexio</i> vedi Bertini Malgarini 1989, pp. 35-54.","VII, lectio 10, n. 1467",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Metaphysicae(Tommaso),Sententia libri Metaphysicae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
NON È EQUABILE ALLA NATURA,"non ha lo stesso peso della natura'. Cfr. Alberto Magno, <i>Super Ethica commentum et quaestiones</i>, VII, <i>lectio</i> 11, vol. II, p. 570 ll. 78-80 Consuetudo, quamvis imitetur naturam, non tamen pervenit ad firmitatem ipsius"". La terminologia usata in questi due paragrafi è certamente riconducibile all'etica aristotelica: aristotelici sono infatti i concetti di virtù e di vizio come 'qualità abituali' generate dalla consuetudine (cioè dalla ripetizione di azioni virtuose o viziose), e questo è il senso del rimando piuttosto generico al secondo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i>. Non è però pienamente aristotelica la distinzione tra vizi connaturati e vizi abitudinari. La stessa nozione di vizio innato sembra estranea al pensiero dello Stagirita: il testo di <i>Eth. Nic</i>. VII 5, 1148 b 15 sgg., citato dai commentatori, si riferisce alle depravazioni morbose (la <i>bestialitas</i>) alcune delle quali possono avere la loro origine in una degenerazione della natura umana, ma che comunque Aristotele distingue nettamente dai vizi normali. Allo stesso modo, all'osservazione per cui alcune inclinazioni, anche virtuose ci sono presenti per natura, segue un netto rifiuto di un loro carattere di virtù (cfr .<i>Eth. Nic</i>. VI 13, 1144 b4-10). L'unico accenno ad una possibile origine naturale dei vizi è presente in <i>Eth. Nic</i>. VII 10, 1152 a 27-30 dove Aristotele distingue tra incontinenza per natura e incontinenza per abitudine, collegando la prima alla <i>melancholia</i> ed affermando che l'abitudine è più correggibile della natura Proprio questo testo periferico darà modo ad Alberto Magno e a Tommaso di introdurre il tema delle <i>complexiones</i> ""Natura potest inclinari ad aliqua vitia secundum diversas <i>complexiones</i>"" (Alberto, <i>Super Ethica commentum et quaestiones</i> VII, <i>lectio</i> 11, vol. II, p. 570, ll. 59-62) ""Illi qui sunt incontinentes per consuetudinem sunt sanabiliores illis qui sunt incontinentes per naturam, scilicet corporalis complexionis ad id inclinantis"" (Tommaso, <i>In decem libros Ethicorum Aristotelis expositio</i> VII, <i>lectio</i> 10, n. 1467). Si tratta di una teoria medica presentata esaurientemente nel <i>Canon</i> di Avicenna, testo ufficiale di medicina nelle Università del Medioevo e del Rinascimento; riducendola alle sue linee fondamentali essa dice il corpo dell'uomo è costituito da una mescolanza dei quattro umori fondamentali (sangue, flegma, bile rossa, o collera, e bile nera o <i>melancholia</i>) il cui equilibrio non è mai così assoluto che uno dei quattro in qualche misura non sopravanzi gli altri, o a causa dell'età, o a causa del clima, o a causa della struttura individuale. Così si avranno, con gradazioni diverse per ogni individuo, quattro tipi psicosomatici (""caratteri"") il sanguigno, il flemmatico, il collerico, il melanconico (cfr. <i>Canon</i> I, doctr. 3, c. 1 <i>De complexionibus</i>, ff. 2ra-3rb). Che queste <i>distemperantie</i> producano inclinazione al vizio, come dice Alberto (ma come non aveva detto Avicenna) deriva da un assioma condiviso dalla cultura medievale: ""mores animi sequuntur complexionem corporis"" (cfr. <i>Cv</i> I i 2-5; IV ii 7). Sulle dottrine medico filosofiche relative alla <i>complexio</i> vedi Bertini Malgarini 1989, pp. 35-54.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/The_Canon_of_Medicine,Liber canonis medicinae,Avicenna,http://dbpedia.org/resource/Avicenna,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PROSOPOPEIA,"definizioni analoghe a quella di Dante si trovano nelle <i>Etymologiae</i> di Isidoro di Siviglia (II xiii,controllare vol. I, s. p.) e nelle <i>Derivationes</i> di Uguccione da Pisa (s.v. <i>Poyo</i>,  P 100, 13, p. 949).","II xiii,controllare vol. I, s. p.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Etymologiae,Etymologiae,Isidoro di Siviglia,http://dbpedia.org/resource/Isidore_of_Seville,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
PROSOPOPEIA,"definizioni analoghe a quella di Dante si trovano nelle <i>Etymologiae</i> di Isidoro di Siviglia (II xiii,controllare vol. I, s. p.) e nelle <i>Derivationes</i> di Uguccione da Pisa (s.v. <i>Poyo</i>,  P 100, 13, p. 949).","II xiii,controllare vol. I, s. p.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Derivationes_Magnae,Derivationes Magnae,Uguccione da Pisa,http://dbpedia.org/resource/Huguccio,http://purl.org/bncf/tid/9228,WORK
DOVE È DA SAPERE,"e qui bisogna sapere'. Calco dal latino universitario: 'ubi est sciendum'. L'esempio promesso all'inizio si sviluppa per tutto quanto il capitolo, formando, come dirà Dante stesso all'inizio del capitolo seguente, una digressione sulla fisiologia e sulle cause di perturbazioni dell'atto visivo. Come sostiene Aristotele (come Aristotele vuole"": calco dal latino universitario: 'ut vult Aristotiles') oggetti propri della vista (""propiamente... visibili"") sono il colore e la luce in quanto costitutiva dei colori (i rimandi aristotelici sono a <i>De an</i>. II 7, 418 a 29- b3, <i>De sensu et sensato</i> I 437 a 5-9). Luce e colori possono essere percepiti solo dalla vista (""solo col viso comprendiamo ciò e non con altro senso""). Certamente anche altre realtà sono visibili (""Ben è altra cosa visibile""), ma non in senso proprio (""non propiamente"") poiché vengono colte anche da un altro senso (""però che altro senso sente quello""): si tratta dei sensibili chiamati comuni proprio perché percepiti con più sensi. Anche in questo caso si tratta di dottrina aristotelica e gli esempi portati: forma (""figura"") grandezza, numero, movimento e quiete (""lo stare fermo"") sono gli stessi di <i>De an</i>. III 1, 425 a 14-16. Nel testo del <i>De anima</i> non appare alcun riferimento diretto al tatto, ma quando si dice che un sensibile comune come la grandezza inerisce, oltre che ad un oggetto, visibile anche ad un oggetto percepito da un altro senso (ivi, 425 b 9-10) questo senso viene normalmente identificato dai commentatori proprio con il tatto (cfr. ad esempio Alberto Magno, <i>De anima</i> II, tr. 2, cap. 6, p. 154, ll. 25-32). Questo spiega perché Dante parli di sensibile comune ""né propiamente visibile né propiamente tangibile "".","II 7, 418 a 29- b3",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DOVE È DA SAPERE,"e qui bisogna sapere'. Calco dal latino universitario: 'ubi est sciendum'. L'esempio promesso all'inizio si sviluppa per tutto quanto il capitolo, formando, come dirà Dante stesso all'inizio del capitolo seguente, una digressione sulla fisiologia e sulle cause di perturbazioni dell'atto visivo. Come sostiene Aristotele (come Aristotele vuole"": calco dal latino universitario: 'ut vult Aristotiles') oggetti propri della vista (""propiamente... visibili"") sono il colore e la luce in quanto costitutiva dei colori (i rimandi aristotelici sono a <i>De an</i>. II 7, 418 a 29- b3, <i>De sensu et sensato</i> I 437 a 5-9). Luce e colori possono essere percepiti solo dalla vista (""solo col viso comprendiamo ciò e non con altro senso""). Certamente anche altre realtà sono visibili (""Ben è altra cosa visibile""), ma non in senso proprio (""non propiamente"") poiché vengono colte anche da un altro senso (""però che altro senso sente quello""): si tratta dei sensibili chiamati comuni proprio perché percepiti con più sensi. Anche in questo caso si tratta di dottrina aristotelica e gli esempi portati: forma (""figura"") grandezza, numero, movimento e quiete (""lo stare fermo"") sono gli stessi di <i>De an</i>. III 1, 425 a 14-16. Nel testo del <i>De anima</i> non appare alcun riferimento diretto al tatto, ma quando si dice che un sensibile comune come la grandezza inerisce, oltre che ad un oggetto, visibile anche ad un oggetto percepito da un altro senso (ivi, 425 b 9-10) questo senso viene normalmente identificato dai commentatori proprio con il tatto (cfr. ad esempio Alberto Magno, <i>De anima</i> II, tr. 2, cap. 6, p. 154, ll. 25-32). Questo spiega perché Dante parli di sensibile comune ""né propiamente visibile né propiamente tangibile "".",I 437 a 5-9,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Sense_and_Sensibilia_(Aristotle),De sensu et sensato (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DOVE È DA SAPERE,"e qui bisogna sapere'. Calco dal latino universitario: 'ubi est sciendum'. L'esempio promesso all'inizio si sviluppa per tutto quanto il capitolo, formando, come dirà Dante stesso all'inizio del capitolo seguente, una digressione sulla fisiologia e sulle cause di perturbazioni dell'atto visivo. Come sostiene Aristotele (come Aristotele vuole"": calco dal latino universitario: 'ut vult Aristotiles') oggetti propri della vista (""propiamente... visibili"") sono il colore e la luce in quanto costitutiva dei colori (i rimandi aristotelici sono a <i>De an</i>. II 7, 418 a 29- b3, <i>De sensu et sensato</i> I 437 a 5-9). Luce e colori possono essere percepiti solo dalla vista (""solo col viso comprendiamo ciò e non con altro senso""). Certamente anche altre realtà sono visibili (""Ben è altra cosa visibile""), ma non in senso proprio (""non propiamente"") poiché vengono colte anche da un altro senso (""però che altro senso sente quello""): si tratta dei sensibili chiamati comuni proprio perché percepiti con più sensi. Anche in questo caso si tratta di dottrina aristotelica e gli esempi portati: forma (""figura"") grandezza, numero, movimento e quiete (""lo stare fermo"") sono gli stessi di <i>De an</i>. III 1, 425 a 14-16. Nel testo del <i>De anima</i> non appare alcun riferimento diretto al tatto, ma quando si dice che un sensibile comune come la grandezza inerisce, oltre che ad un oggetto, visibile anche ad un oggetto percepito da un altro senso (ivi, 425 b 9-10) questo senso viene normalmente identificato dai commentatori proprio con il tatto (cfr. ad esempio Alberto Magno, <i>De anima</i> II, tr. 2, cap. 6, p. 154, ll. 25-32). Questo spiega perché Dante parli di sensibile comune ""né propiamente visibile né propiamente tangibile "".","III 1, 425 a 14-16",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DOVE È DA SAPERE,"e qui bisogna sapere'. Calco dal latino universitario: 'ubi est sciendum'. L'esempio promesso all'inizio si sviluppa per tutto quanto il capitolo, formando, come dirà Dante stesso all'inizio del capitolo seguente, una digressione sulla fisiologia e sulle cause di perturbazioni dell'atto visivo. Come sostiene Aristotele (come Aristotele vuole"": calco dal latino universitario: 'ut vult Aristotiles') oggetti propri della vista (""propiamente... visibili"") sono il colore e la luce in quanto costitutiva dei colori (i rimandi aristotelici sono a <i>De an</i>. II 7, 418 a 29- b3, <i>De sensu et sensato</i> I 437 a 5-9). Luce e colori possono essere percepiti solo dalla vista (""solo col viso comprendiamo ciò e non con altro senso""). Certamente anche altre realtà sono visibili (""Ben è altra cosa visibile""), ma non in senso proprio (""non propiamente"") poiché vengono colte anche da un altro senso (""però che altro senso sente quello""): si tratta dei sensibili chiamati comuni proprio perché percepiti con più sensi. Anche in questo caso si tratta di dottrina aristotelica e gli esempi portati: forma (""figura"") grandezza, numero, movimento e quiete (""lo stare fermo"") sono gli stessi di <i>De an</i>. III 1, 425 a 14-16. Nel testo del <i>De anima</i> non appare alcun riferimento diretto al tatto, ma quando si dice che un sensibile comune come la grandezza inerisce, oltre che ad un oggetto, visibile anche ad un oggetto percepito da un altro senso (ivi, 425 b 9-10) questo senso viene normalmente identificato dai commentatori proprio con il tatto (cfr. ad esempio Alberto Magno, <i>De anima</i> II, tr. 2, cap. 6, p. 154, ll. 25-32). Questo spiega perché Dante parli di sensibile comune ""né propiamente visibile né propiamente tangibile "".","ivi, 425 b 9-10",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DOVE È DA SAPERE,"e qui bisogna sapere'. Calco dal latino universitario: 'ubi est sciendum'. L'esempio promesso all'inizio si sviluppa per tutto quanto il capitolo, formando, come dirà Dante stesso all'inizio del capitolo seguente, una digressione sulla fisiologia e sulle cause di perturbazioni dell'atto visivo. Come sostiene Aristotele (come Aristotele vuole"": calco dal latino universitario: 'ut vult Aristotiles') oggetti propri della vista (""propiamente... visibili"") sono il colore e la luce in quanto costitutiva dei colori (i rimandi aristotelici sono a <i>De an</i>. II 7, 418 a 29- b3, <i>De sensu et sensato</i> I 437 a 5-9). Luce e colori possono essere percepiti solo dalla vista (""solo col viso comprendiamo ciò e non con altro senso""). Certamente anche altre realtà sono visibili (""Ben è altra cosa visibile""), ma non in senso proprio (""non propiamente"") poiché vengono colte anche da un altro senso (""però che altro senso sente quello""): si tratta dei sensibili chiamati comuni proprio perché percepiti con più sensi. Anche in questo caso si tratta di dottrina aristotelica e gli esempi portati: forma (""figura"") grandezza, numero, movimento e quiete (""lo stare fermo"") sono gli stessi di <i>De an</i>. III 1, 425 a 14-16. Nel testo del <i>De anima</i> non appare alcun riferimento diretto al tatto, ma quando si dice che un sensibile comune come la grandezza inerisce, oltre che ad un oggetto, visibile anche ad un oggetto percepito da un altro senso (ivi, 425 b 9-10) questo senso viene normalmente identificato dai commentatori proprio con il tatto (cfr. ad esempio Alberto Magno, <i>De anima</i> II, tr. 2, cap. 6, p. 154, ll. 25-32). Questo spiega perché Dante parli di sensibile comune ""né propiamente visibile né propiamente tangibile "".","II, tr. 2, cap. 6, p. 154, ll. 25-32",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_anima(Alberto_Magno),De anima (Alberto Magno),Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
QUESTE COSE VISIBILI,"secondo la teoria aristotelica nell'atto della vista gli oggetti visibili (quelli propri e quelli comuni, in quanto visibili) non imprimono nell'organo (vengono dentro l'occhio"") direttamente se stessi (""non le cose loro""), ma la propria forma (cfr. <i>De an</i>. III 8, 431 b 29 ""non lapis in anima est, sed <i>species</i> lapidis""). Il <i>De anima</i> però non diceva molto su come le immagini (<i>species</i>) dei corpi colorati passassero dagli oggetti all'organo di senso. Secondo il modello elaborato dai teorici arabi e latini dell'ottica, ma utilizzato anche da commentatori di Aristotele come Alberto Magno (cfr. <i>De sensu et sensato</i> tr. I, cap. 10, p. 26) e qui presupposto da Dante, la <i>species</i>, si moltiplica in linea retta attraverso un mezzo trasparente (""diafano""), sia esso aria o acqua, fino a raggiungere l'organo della vista e nel mezzo acquisisce uno <i>status</i> intermedio tra la determinazione materiale posseduta nell'oggetto e l' immaterialità che riceverà nell'atto della percezione, un <i>esse incompletum</i> chiamato <i>esse spirituale</i> o <i>intentionale</i>. Ora il nome ""intentio"" e l'aggettivo ""<i>intentionale</i>"" sono la traduzione del vocabolo arabo ""ma'na"", usato da Avicenna e da Averroè, che ha il valore generale di ""significare"", ""significato"". Dunque nel processo della vista (che è il modello di ogni altro processo sensoriale) la forma del colore ha una valenza rappresentativa, non è l'oggetto, ma sta per l'oggetto reale, è un suo <i>signum</i>, ne fornisce la <i>notitia</i> (cfr. Alberto Magno, <i>De anima</i> II, tr. 3, c. 4, p.102, ll. 28-51). Per questo Dante dice ""non realmente, ma intenzionalmente"". Il processo ha certamente basi organiche e fisiologiche: poiché però il punto terminale del percorso della forma attraverso il mezzo, cioè la pupilla, è di natura acquea (cfr. <i>De an</i>. III, 1, 425 a 4) e quindi della stessa natura del mezzo, le forme possono mantenere anche nell'occhio un <i>esse intentionale</i>. Proprio nell'acqua della pupilla il percorso (""discorso"") della forma visibile nel mezzo diafano si conclude (""si compie""); questo umore, infatti, (l' <i>humor glacialis</i> o cristallino della fisiologia medievale dell'occhio) non è esso stesso trasparente, bensì ""terminato"" cioè delimitato nella superficie posteriore da un corpo opaco, come in uno specchio il vetro lo è da una lamina di piombo. Così la forma non può passare oltre ma si ferma come una palla in movimento dopo aver rimbalzato contro un'ostacolo (""percossa""). Non visibile nel diafano trasparente, essa lo diventa sulla superficie tersa (""lucida""), ma non trasparente (""terminata"") della pupilla, proprio come un'immagine appare solo su di un vetro piombato e non su uno trasparente (""in altro""). Come nota <i>Vasoli</i> l'intera spiegazione del processo visivo, con la sua assimilazione al comportamento degli specchi, assente in Aristotele, si ritrova in Tommaso (cfr. <i>De sensu et sensato</i>, <i>lectio</i> 4, nn. 48-49); ma già prima Alberto Magno aveva sostenuto che la pupilla si comporta esattamente come uno specchio (cfr. <i>De anima</i> II, tr. 3, c. 15, p. 122, l. 4 sgg. ) ricorrendo appunto all'esempio della palla: l'arresto del percorso delle forme, infatti, è una ""repercussio"", una ""reflexio ad similitudinem pilae quae repercutitur proiecta ad parietem"". (l'esempio della palla che ""cum parietem percutit ... resilit retro"" era già presente in Avicenna, <i>De anima sive liber sextus de naturalibus</i>, II, 5, vol. I, p. 165, ma riferito al fenomeno dell'eco). In ogni modo la descrizione dell'atto visivo risulta qui molto semplificata rispetto alle trattazioni tecniche dei commentatori del <i>De anima</i> o degli autori di trattati di ottica (cfr. Lindberg 1983).","III 8, 431 b 29 ""non lapis in anima est, sed species lapidis""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
QUESTE COSE VISIBILI,"secondo la teoria aristotelica nell'atto della vista gli oggetti visibili (quelli propri e quelli comuni, in quanto visibili) non imprimono nell'organo (vengono dentro l'occhio"") direttamente se stessi (""non le cose loro""), ma la propria forma (cfr. <i>De an</i>. III 8, 431 b 29 ""non lapis in anima est, sed <i>species</i> lapidis""). Il <i>De anima</i> però non diceva molto su come le immagini (<i>species</i>) dei corpi colorati passassero dagli oggetti all'organo di senso. Secondo il modello elaborato dai teorici arabi e latini dell'ottica, ma utilizzato anche da commentatori di Aristotele come Alberto Magno (cfr. <i>De sensu et sensato</i> tr. I, cap. 10, p. 26) e qui presupposto da Dante, la <i>species</i>, si moltiplica in linea retta attraverso un mezzo trasparente (""diafano""), sia esso aria o acqua, fino a raggiungere l'organo della vista e nel mezzo acquisisce uno <i>status</i> intermedio tra la determinazione materiale posseduta nell'oggetto e l' immaterialità che riceverà nell'atto della percezione, un <i>esse incompletum</i> chiamato <i>esse spirituale</i> o <i>intentionale</i>. Ora il nome ""intentio"" e l'aggettivo ""<i>intentionale</i>"" sono la traduzione del vocabolo arabo ""ma'na"", usato da Avicenna e da Averroè, che ha il valore generale di ""significare"", ""significato"". Dunque nel processo della vista (che è il modello di ogni altro processo sensoriale) la forma del colore ha una valenza rappresentativa, non è l'oggetto, ma sta per l'oggetto reale, è un suo <i>signum</i>, ne fornisce la <i>notitia</i> (cfr. Alberto Magno, <i>De anima</i> II, tr. 3, c. 4, p.102, ll. 28-51). Per questo Dante dice ""non realmente, ma intenzionalmente"". Il processo ha certamente basi organiche e fisiologiche: poiché però il punto terminale del percorso della forma attraverso il mezzo, cioè la pupilla, è di natura acquea (cfr. <i>De an</i>. III, 1, 425 a 4) e quindi della stessa natura del mezzo, le forme possono mantenere anche nell'occhio un <i>esse intentionale</i>. Proprio nell'acqua della pupilla il percorso (""discorso"") della forma visibile nel mezzo diafano si conclude (""si compie""); questo umore, infatti, (l' <i>humor glacialis</i> o cristallino della fisiologia medievale dell'occhio) non è esso stesso trasparente, bensì ""terminato"" cioè delimitato nella superficie posteriore da un corpo opaco, come in uno specchio il vetro lo è da una lamina di piombo. Così la forma non può passare oltre ma si ferma come una palla in movimento dopo aver rimbalzato contro un'ostacolo (""percossa""). Non visibile nel diafano trasparente, essa lo diventa sulla superficie tersa (""lucida""), ma non trasparente (""terminata"") della pupilla, proprio come un'immagine appare solo su di un vetro piombato e non su uno trasparente (""in altro""). Come nota <i>Vasoli</i> l'intera spiegazione del processo visivo, con la sua assimilazione al comportamento degli specchi, assente in Aristotele, si ritrova in Tommaso (cfr. <i>De sensu et sensato</i>, <i>lectio</i> 4, nn. 48-49); ma già prima Alberto Magno aveva sostenuto che la pupilla si comporta esattamente come uno specchio (cfr. <i>De anima</i> II, tr. 3, c. 15, p. 122, l. 4 sgg. ) ricorrendo appunto all'esempio della palla: l'arresto del percorso delle forme, infatti, è una ""repercussio"", una ""reflexio ad similitudinem pilae quae repercutitur proiecta ad parietem"". (l'esempio della palla che ""cum parietem percutit ... resilit retro"" era già presente in Avicenna, <i>De anima sive liber sextus de naturalibus</i>, II, 5, vol. I, p. 165, ma riferito al fenomeno dell'eco). In ogni modo la descrizione dell'atto visivo risulta qui molto semplificata rispetto alle trattazioni tecniche dei commentatori del <i>De anima</i> o degli autori di trattati di ottica (cfr. Lindberg 1983).","tr. I, cap. 10, p. 26",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Sense_and_Sensibilia_(Aristotle),De sensu et sensato (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
QUESTE COSE VISIBILI,"secondo la teoria aristotelica nell'atto della vista gli oggetti visibili (quelli propri e quelli comuni, in quanto visibili) non imprimono nell'organo (vengono dentro l'occhio"") direttamente se stessi (""non le cose loro""), ma la propria forma (cfr. <i>De an</i>. III 8, 431 b 29 ""non lapis in anima est, sed <i>species</i> lapidis""). Il <i>De anima</i> però non diceva molto su come le immagini (<i>species</i>) dei corpi colorati passassero dagli oggetti all'organo di senso. Secondo il modello elaborato dai teorici arabi e latini dell'ottica, ma utilizzato anche da commentatori di Aristotele come Alberto Magno (cfr. <i>De sensu et sensato</i> tr. I, cap. 10, p. 26) e qui presupposto da Dante, la <i>species</i>, si moltiplica in linea retta attraverso un mezzo trasparente (""diafano""), sia esso aria o acqua, fino a raggiungere l'organo della vista e nel mezzo acquisisce uno <i>status</i> intermedio tra la determinazione materiale posseduta nell'oggetto e l' immaterialità che riceverà nell'atto della percezione, un <i>esse incompletum</i> chiamato <i>esse spirituale</i> o <i>intentionale</i>. Ora il nome ""intentio"" e l'aggettivo ""<i>intentionale</i>"" sono la traduzione del vocabolo arabo ""ma'na"", usato da Avicenna e da Averroè, che ha il valore generale di ""significare"", ""significato"". Dunque nel processo della vista (che è il modello di ogni altro processo sensoriale) la forma del colore ha una valenza rappresentativa, non è l'oggetto, ma sta per l'oggetto reale, è un suo <i>signum</i>, ne fornisce la <i>notitia</i> (cfr. Alberto Magno, <i>De anima</i> II, tr. 3, c. 4, p.102, ll. 28-51). Per questo Dante dice ""non realmente, ma intenzionalmente"". Il processo ha certamente basi organiche e fisiologiche: poiché però il punto terminale del percorso della forma attraverso il mezzo, cioè la pupilla, è di natura acquea (cfr. <i>De an</i>. III, 1, 425 a 4) e quindi della stessa natura del mezzo, le forme possono mantenere anche nell'occhio un <i>esse intentionale</i>. Proprio nell'acqua della pupilla il percorso (""discorso"") della forma visibile nel mezzo diafano si conclude (""si compie""); questo umore, infatti, (l' <i>humor glacialis</i> o cristallino della fisiologia medievale dell'occhio) non è esso stesso trasparente, bensì ""terminato"" cioè delimitato nella superficie posteriore da un corpo opaco, come in uno specchio il vetro lo è da una lamina di piombo. Così la forma non può passare oltre ma si ferma come una palla in movimento dopo aver rimbalzato contro un'ostacolo (""percossa""). Non visibile nel diafano trasparente, essa lo diventa sulla superficie tersa (""lucida""), ma non trasparente (""terminata"") della pupilla, proprio come un'immagine appare solo su di un vetro piombato e non su uno trasparente (""in altro""). Come nota <i>Vasoli</i> l'intera spiegazione del processo visivo, con la sua assimilazione al comportamento degli specchi, assente in Aristotele, si ritrova in Tommaso (cfr. <i>De sensu et sensato</i>, <i>lectio</i> 4, nn. 48-49); ma già prima Alberto Magno aveva sostenuto che la pupilla si comporta esattamente come uno specchio (cfr. <i>De anima</i> II, tr. 3, c. 15, p. 122, l. 4 sgg. ) ricorrendo appunto all'esempio della palla: l'arresto del percorso delle forme, infatti, è una ""repercussio"", una ""reflexio ad similitudinem pilae quae repercutitur proiecta ad parietem"". (l'esempio della palla che ""cum parietem percutit ... resilit retro"" era già presente in Avicenna, <i>De anima sive liber sextus de naturalibus</i>, II, 5, vol. I, p. 165, ma riferito al fenomeno dell'eco). In ogni modo la descrizione dell'atto visivo risulta qui molto semplificata rispetto alle trattazioni tecniche dei commentatori del <i>De anima</i> o degli autori di trattati di ottica (cfr. Lindberg 1983).","II, tr. 3, c. 4, p.102, ll. 28-51",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_anima(Alberto_Magno),De anima (Alberto Magno),Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
QUESTE COSE VISIBILI,"secondo la teoria aristotelica nell'atto della vista gli oggetti visibili (quelli propri e quelli comuni, in quanto visibili) non imprimono nell'organo (vengono dentro l'occhio"") direttamente se stessi (""non le cose loro""), ma la propria forma (cfr. <i>De an</i>. III 8, 431 b 29 ""non lapis in anima est, sed <i>species</i> lapidis""). Il <i>De anima</i> però non diceva molto su come le immagini (<i>species</i>) dei corpi colorati passassero dagli oggetti all'organo di senso. Secondo il modello elaborato dai teorici arabi e latini dell'ottica, ma utilizzato anche da commentatori di Aristotele come Alberto Magno (cfr. <i>De sensu et sensato</i> tr. I, cap. 10, p. 26) e qui presupposto da Dante, la <i>species</i>, si moltiplica in linea retta attraverso un mezzo trasparente (""diafano""), sia esso aria o acqua, fino a raggiungere l'organo della vista e nel mezzo acquisisce uno <i>status</i> intermedio tra la determinazione materiale posseduta nell'oggetto e l' immaterialità che riceverà nell'atto della percezione, un <i>esse incompletum</i> chiamato <i>esse spirituale</i> o <i>intentionale</i>. Ora il nome ""intentio"" e l'aggettivo ""<i>intentionale</i>"" sono la traduzione del vocabolo arabo ""ma'na"", usato da Avicenna e da Averroè, che ha il valore generale di ""significare"", ""significato"". Dunque nel processo della vista (che è il modello di ogni altro processo sensoriale) la forma del colore ha una valenza rappresentativa, non è l'oggetto, ma sta per l'oggetto reale, è un suo <i>signum</i>, ne fornisce la <i>notitia</i> (cfr. Alberto Magno, <i>De anima</i> II, tr. 3, c. 4, p.102, ll. 28-51). Per questo Dante dice ""non realmente, ma intenzionalmente"". Il processo ha certamente basi organiche e fisiologiche: poiché però il punto terminale del percorso della forma attraverso il mezzo, cioè la pupilla, è di natura acquea (cfr. <i>De an</i>. III, 1, 425 a 4) e quindi della stessa natura del mezzo, le forme possono mantenere anche nell'occhio un <i>esse intentionale</i>. Proprio nell'acqua della pupilla il percorso (""discorso"") della forma visibile nel mezzo diafano si conclude (""si compie""); questo umore, infatti, (l' <i>humor glacialis</i> o cristallino della fisiologia medievale dell'occhio) non è esso stesso trasparente, bensì ""terminato"" cioè delimitato nella superficie posteriore da un corpo opaco, come in uno specchio il vetro lo è da una lamina di piombo. Così la forma non può passare oltre ma si ferma come una palla in movimento dopo aver rimbalzato contro un'ostacolo (""percossa""). Non visibile nel diafano trasparente, essa lo diventa sulla superficie tersa (""lucida""), ma non trasparente (""terminata"") della pupilla, proprio come un'immagine appare solo su di un vetro piombato e non su uno trasparente (""in altro""). Come nota <i>Vasoli</i> l'intera spiegazione del processo visivo, con la sua assimilazione al comportamento degli specchi, assente in Aristotele, si ritrova in Tommaso (cfr. <i>De sensu et sensato</i>, <i>lectio</i> 4, nn. 48-49); ma già prima Alberto Magno aveva sostenuto che la pupilla si comporta esattamente come uno specchio (cfr. <i>De anima</i> II, tr. 3, c. 15, p. 122, l. 4 sgg. ) ricorrendo appunto all'esempio della palla: l'arresto del percorso delle forme, infatti, è una ""repercussio"", una ""reflexio ad similitudinem pilae quae repercutitur proiecta ad parietem"". (l'esempio della palla che ""cum parietem percutit ... resilit retro"" era già presente in Avicenna, <i>De anima sive liber sextus de naturalibus</i>, II, 5, vol. I, p. 165, ma riferito al fenomeno dell'eco). In ogni modo la descrizione dell'atto visivo risulta qui molto semplificata rispetto alle trattazioni tecniche dei commentatori del <i>De anima</i> o degli autori di trattati di ottica (cfr. Lindberg 1983).","III, 1, 425 a 4",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_anima(Alberto_Magno),De anima (Alberto Magno),Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
QUESTE COSE VISIBILI,"secondo la teoria aristotelica nell'atto della vista gli oggetti visibili (quelli propri e quelli comuni, in quanto visibili) non imprimono nell'organo (vengono dentro l'occhio"") direttamente se stessi (""non le cose loro""), ma la propria forma (cfr. <i>De an</i>. III 8, 431 b 29 ""non lapis in anima est, sed <i>species</i> lapidis""). Il <i>De anima</i> però non diceva molto su come le immagini (<i>species</i>) dei corpi colorati passassero dagli oggetti all'organo di senso. Secondo il modello elaborato dai teorici arabi e latini dell'ottica, ma utilizzato anche da commentatori di Aristotele come Alberto Magno (cfr. <i>De sensu et sensato</i> tr. I, cap. 10, p. 26) e qui presupposto da Dante, la <i>species</i>, si moltiplica in linea retta attraverso un mezzo trasparente (""diafano""), sia esso aria o acqua, fino a raggiungere l'organo della vista e nel mezzo acquisisce uno <i>status</i> intermedio tra la determinazione materiale posseduta nell'oggetto e l' immaterialità che riceverà nell'atto della percezione, un <i>esse incompletum</i> chiamato <i>esse spirituale</i> o <i>intentionale</i>. Ora il nome ""intentio"" e l'aggettivo ""<i>intentionale</i>"" sono la traduzione del vocabolo arabo ""ma'na"", usato da Avicenna e da Averroè, che ha il valore generale di ""significare"", ""significato"". Dunque nel processo della vista (che è il modello di ogni altro processo sensoriale) la forma del colore ha una valenza rappresentativa, non è l'oggetto, ma sta per l'oggetto reale, è un suo <i>signum</i>, ne fornisce la <i>notitia</i> (cfr. Alberto Magno, <i>De anima</i> II, tr. 3, c. 4, p.102, ll. 28-51). Per questo Dante dice ""non realmente, ma intenzionalmente"". Il processo ha certamente basi organiche e fisiologiche: poiché però il punto terminale del percorso della forma attraverso il mezzo, cioè la pupilla, è di natura acquea (cfr. <i>De an</i>. III, 1, 425 a 4) e quindi della stessa natura del mezzo, le forme possono mantenere anche nell'occhio un <i>esse intentionale</i>. Proprio nell'acqua della pupilla il percorso (""discorso"") della forma visibile nel mezzo diafano si conclude (""si compie""); questo umore, infatti, (l' <i>humor glacialis</i> o cristallino della fisiologia medievale dell'occhio) non è esso stesso trasparente, bensì ""terminato"" cioè delimitato nella superficie posteriore da un corpo opaco, come in uno specchio il vetro lo è da una lamina di piombo. Così la forma non può passare oltre ma si ferma come una palla in movimento dopo aver rimbalzato contro un'ostacolo (""percossa""). Non visibile nel diafano trasparente, essa lo diventa sulla superficie tersa (""lucida""), ma non trasparente (""terminata"") della pupilla, proprio come un'immagine appare solo su di un vetro piombato e non su uno trasparente (""in altro""). Come nota <i>Vasoli</i> l'intera spiegazione del processo visivo, con la sua assimilazione al comportamento degli specchi, assente in Aristotele, si ritrova in Tommaso (cfr. <i>De sensu et sensato</i>, <i>lectio</i> 4, nn. 48-49); ma già prima Alberto Magno aveva sostenuto che la pupilla si comporta esattamente come uno specchio (cfr. <i>De anima</i> II, tr. 3, c. 15, p. 122, l. 4 sgg. ) ricorrendo appunto all'esempio della palla: l'arresto del percorso delle forme, infatti, è una ""repercussio"", una ""reflexio ad similitudinem pilae quae repercutitur proiecta ad parietem"". (l'esempio della palla che ""cum parietem percutit ... resilit retro"" era già presente in Avicenna, <i>De anima sive liber sextus de naturalibus</i>, II, 5, vol. I, p. 165, ma riferito al fenomeno dell'eco). In ogni modo la descrizione dell'atto visivo risulta qui molto semplificata rispetto alle trattazioni tecniche dei commentatori del <i>De anima</i> o degli autori di trattati di ottica (cfr. Lindberg 1983).","lectio 4, nn. 48-49",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sentencia_libri_De_sensu_et_sensato,Sentencia libri De sensu et sensato,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
QUESTE COSE VISIBILI,"secondo la teoria aristotelica nell'atto della vista gli oggetti visibili (quelli propri e quelli comuni, in quanto visibili) non imprimono nell'organo (vengono dentro l'occhio"") direttamente se stessi (""non le cose loro""), ma la propria forma (cfr. <i>De an</i>. III 8, 431 b 29 ""non lapis in anima est, sed <i>species</i> lapidis""). Il <i>De anima</i> però non diceva molto su come le immagini (<i>species</i>) dei corpi colorati passassero dagli oggetti all'organo di senso. Secondo il modello elaborato dai teorici arabi e latini dell'ottica, ma utilizzato anche da commentatori di Aristotele come Alberto Magno (cfr. <i>De sensu et sensato</i> tr. I, cap. 10, p. 26) e qui presupposto da Dante, la <i>species</i>, si moltiplica in linea retta attraverso un mezzo trasparente (""diafano""), sia esso aria o acqua, fino a raggiungere l'organo della vista e nel mezzo acquisisce uno <i>status</i> intermedio tra la determinazione materiale posseduta nell'oggetto e l' immaterialità che riceverà nell'atto della percezione, un <i>esse incompletum</i> chiamato <i>esse spirituale</i> o <i>intentionale</i>. Ora il nome ""intentio"" e l'aggettivo ""<i>intentionale</i>"" sono la traduzione del vocabolo arabo ""ma'na"", usato da Avicenna e da Averroè, che ha il valore generale di ""significare"", ""significato"". Dunque nel processo della vista (che è il modello di ogni altro processo sensoriale) la forma del colore ha una valenza rappresentativa, non è l'oggetto, ma sta per l'oggetto reale, è un suo <i>signum</i>, ne fornisce la <i>notitia</i> (cfr. Alberto Magno, <i>De anima</i> II, tr. 3, c. 4, p.102, ll. 28-51). Per questo Dante dice ""non realmente, ma intenzionalmente"". Il processo ha certamente basi organiche e fisiologiche: poiché però il punto terminale del percorso della forma attraverso il mezzo, cioè la pupilla, è di natura acquea (cfr. <i>De an</i>. III, 1, 425 a 4) e quindi della stessa natura del mezzo, le forme possono mantenere anche nell'occhio un <i>esse intentionale</i>. Proprio nell'acqua della pupilla il percorso (""discorso"") della forma visibile nel mezzo diafano si conclude (""si compie""); questo umore, infatti, (l' <i>humor glacialis</i> o cristallino della fisiologia medievale dell'occhio) non è esso stesso trasparente, bensì ""terminato"" cioè delimitato nella superficie posteriore da un corpo opaco, come in uno specchio il vetro lo è da una lamina di piombo. Così la forma non può passare oltre ma si ferma come una palla in movimento dopo aver rimbalzato contro un'ostacolo (""percossa""). Non visibile nel diafano trasparente, essa lo diventa sulla superficie tersa (""lucida""), ma non trasparente (""terminata"") della pupilla, proprio come un'immagine appare solo su di un vetro piombato e non su uno trasparente (""in altro""). Come nota <i>Vasoli</i> l'intera spiegazione del processo visivo, con la sua assimilazione al comportamento degli specchi, assente in Aristotele, si ritrova in Tommaso (cfr. <i>De sensu et sensato</i>, <i>lectio</i> 4, nn. 48-49); ma già prima Alberto Magno aveva sostenuto che la pupilla si comporta esattamente come uno specchio (cfr. <i>De anima</i> II, tr. 3, c. 15, p. 122, l. 4 sgg. ) ricorrendo appunto all'esempio della palla: l'arresto del percorso delle forme, infatti, è una ""repercussio"", una ""reflexio ad similitudinem pilae quae repercutitur proiecta ad parietem"". (l'esempio della palla che ""cum parietem percutit ... resilit retro"" era già presente in Avicenna, <i>De anima sive liber sextus de naturalibus</i>, II, 5, vol. I, p. 165, ma riferito al fenomeno dell'eco). In ogni modo la descrizione dell'atto visivo risulta qui molto semplificata rispetto alle trattazioni tecniche dei commentatori del <i>De anima</i> o degli autori di trattati di ottica (cfr. Lindberg 1983).","II, tr. 3, c. 15, p. 122, l. 4 sgg.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_anima(Alberto_Magno),De anima (Alberto Magno),Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
DI QUESTA PUPILLA,"da questa pupilla'. Dante spiega ora come il processo fisico della vista si muti in vera e propria pecezione sensibile: lo spirito che presiede alla facoltà del vedere (lo spirito visivo"") istantaneamente (""subitamente e sanza tempo"") trasferisce e rappresenta (""ripresenta"") la forma del colore alla parte anteriore del cervello (""la parte del cerebro dinanzi"") da dove come dal suo principio originario deriva ogni capacità sensitiva (""dove è la sensibile virtute sì come in principio fontale"") e con cui è direttamente collegato (""si continua""): solo a questo punto si ha la percezione visiva vera e propria (""e così vedemo""). Mentre risale ad Aristotele l'idea che, nel caso della vista, la trasmissione della <i>species</i> all'organo di senso è istantanea, esattamente come la propagazione della luce, le componenti fisiologiche di questa descrizione rimandano piuttosto a Galeno. Se infatti nella fisiologia dello Stagirita il cervello non riveste un ruolo di rilievo, alle ricerche anatomiche di Galeno si deve la scoperta della sua funzione fondamentale nella percezione sensoriale, come il terminale cui, a partire dai cinque organi di senso, i nervi trasmettono le sensazioni. Questa trasmissione avviene attraverso un corpo sottile, lo <i>pneuma</i>, diversificato a secondo dei sensi (è lo ""spirito visivo"" di Dante; ciò che ""si continua"" dalla pupilla al cervello è più propriamente il nervo ottico). Da Avicenna viene la localizzazione cerebrale delle varie facoltà sensoriali interne (cfr. <i>De anima sive liber sextus de naturalibus</i>, I, 5, vol. I, pp. 87-90); il senso comune viene appunto situato ""in prima concavitate cerebri"", l' ""alta camera nella quale tutti li spiriti sensitivi portano le loro percezioni"" (<i>Vn</i> 1, 6). L'immagine del ""fonte"" applicata al senso comune si ritrova in Alberto Magno, <i>De anima</i> II, tr. 4, cap. 7, p. 156, ll. 87-90","I, 5, vol. I, pp. 87-90",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_anima_sive_liber_sextus_de_naturalibus(Avicenna),De anima sive liber sextus de naturalibus,Avicenna,http://dbpedia.org/resource/Avicenna,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DI QUESTA PUPILLA,"da questa pupilla'. Dante spiega ora come il processo fisico della vista si muti in vera e propria pecezione sensibile: lo spirito che presiede alla facoltà del vedere (lo spirito visivo"") istantaneamente (""subitamente e sanza tempo"") trasferisce e rappresenta (""ripresenta"") la forma del colore alla parte anteriore del cervello (""la parte del cerebro dinanzi"") da dove come dal suo principio originario deriva ogni capacità sensitiva (""dove è la sensibile virtute sì come in principio fontale"") e con cui è direttamente collegato (""si continua""): solo a questo punto si ha la percezione visiva vera e propria (""e così vedemo""). Mentre risale ad Aristotele l'idea che, nel caso della vista, la trasmissione della <i>species</i> all'organo di senso è istantanea, esattamente come la propagazione della luce, le componenti fisiologiche di questa descrizione rimandano piuttosto a Galeno. Se infatti nella fisiologia dello Stagirita il cervello non riveste un ruolo di rilievo, alle ricerche anatomiche di Galeno si deve la scoperta della sua funzione fondamentale nella percezione sensoriale, come il terminale cui, a partire dai cinque organi di senso, i nervi trasmettono le sensazioni. Questa trasmissione avviene attraverso un corpo sottile, lo <i>pneuma</i>, diversificato a secondo dei sensi (è lo ""spirito visivo"" di Dante; ciò che ""si continua"" dalla pupilla al cervello è più propriamente il nervo ottico). Da Avicenna viene la localizzazione cerebrale delle varie facoltà sensoriali interne (cfr. <i>De anima sive liber sextus de naturalibus</i>, I, 5, vol. I, pp. 87-90); il senso comune viene appunto situato ""in prima concavitate cerebri"", l' ""alta camera nella quale tutti li spiriti sensitivi portano le loro percezioni"" (<i>Vn</i> 1, 6). L'immagine del ""fonte"" applicata al senso comune si ritrova in Alberto Magno, <i>De anima</i> II, tr. 4, cap. 7, p. 156, ll. 87-90",,CONCORDANZA GENERICA,,,Galeno,http://dbpedia.org/resource/Galen,http://purl.org/bncf/tid/770,CONCEPT
DI QUESTA PUPILLA,"da questa pupilla'. Dante spiega ora come il processo fisico della vista si muti in vera e propria pecezione sensibile: lo spirito che presiede alla facoltà del vedere (lo spirito visivo"") istantaneamente (""subitamente e sanza tempo"") trasferisce e rappresenta (""ripresenta"") la forma del colore alla parte anteriore del cervello (""la parte del cerebro dinanzi"") da dove come dal suo principio originario deriva ogni capacità sensitiva (""dove è la sensibile virtute sì come in principio fontale"") e con cui è direttamente collegato (""si continua""): solo a questo punto si ha la percezione visiva vera e propria (""e così vedemo""). Mentre risale ad Aristotele l'idea che, nel caso della vista, la trasmissione della <i>species</i> all'organo di senso è istantanea, esattamente come la propagazione della luce, le componenti fisiologiche di questa descrizione rimandano piuttosto a Galeno. Se infatti nella fisiologia dello Stagirita il cervello non riveste un ruolo di rilievo, alle ricerche anatomiche di Galeno si deve la scoperta della sua funzione fondamentale nella percezione sensoriale, come il terminale cui, a partire dai cinque organi di senso, i nervi trasmettono le sensazioni. Questa trasmissione avviene attraverso un corpo sottile, lo <i>pneuma</i>, diversificato a secondo dei sensi (è lo ""spirito visivo"" di Dante; ciò che ""si continua"" dalla pupilla al cervello è più propriamente il nervo ottico). Da Avicenna viene la localizzazione cerebrale delle varie facoltà sensoriali interne (cfr. <i>De anima sive liber sextus de naturalibus</i>, I, 5, vol. I, pp. 87-90); il senso comune viene appunto situato ""in prima concavitate cerebri"", l' ""alta camera nella quale tutti li spiriti sensitivi portano le loro percezioni"" (<i>Vn</i> 1, 6). L'immagine del ""fonte"" applicata al senso comune si ritrova in Alberto Magno, <i>De anima</i> II, tr. 4, cap. 7, p. 156, ll. 87-90",,CONCORDANZA GENERICA,,,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,CONCEPT
DI QUESTA PUPILLA,"da questa pupilla'. Dante spiega ora come il processo fisico della vista si muti in vera e propria pecezione sensibile: lo spirito che presiede alla facoltà del vedere (lo spirito visivo"") istantaneamente (""subitamente e sanza tempo"") trasferisce e rappresenta (""ripresenta"") la forma del colore alla parte anteriore del cervello (""la parte del cerebro dinanzi"") da dove come dal suo principio originario deriva ogni capacità sensitiva (""dove è la sensibile virtute sì come in principio fontale"") e con cui è direttamente collegato (""si continua""): solo a questo punto si ha la percezione visiva vera e propria (""e così vedemo""). Mentre risale ad Aristotele l'idea che, nel caso della vista, la trasmissione della <i>species</i> all'organo di senso è istantanea, esattamente come la propagazione della luce, le componenti fisiologiche di questa descrizione rimandano piuttosto a Galeno. Se infatti nella fisiologia dello Stagirita il cervello non riveste un ruolo di rilievo, alle ricerche anatomiche di Galeno si deve la scoperta della sua funzione fondamentale nella percezione sensoriale, come il terminale cui, a partire dai cinque organi di senso, i nervi trasmettono le sensazioni. Questa trasmissione avviene attraverso un corpo sottile, lo <i>pneuma</i>, diversificato a secondo dei sensi (è lo ""spirito visivo"" di Dante; ciò che ""si continua"" dalla pupilla al cervello è più propriamente il nervo ottico). Da Avicenna viene la localizzazione cerebrale delle varie facoltà sensoriali interne (cfr. <i>De anima sive liber sextus de naturalibus</i>, I, 5, vol. I, pp. 87-90); il senso comune viene appunto situato ""in prima concavitate cerebri"", l' ""alta camera nella quale tutti li spiriti sensitivi portano le loro percezioni"" (<i>Vn</i> 1, 6). L'immagine del ""fonte"" applicata al senso comune si ritrova in Alberto Magno, <i>De anima</i> II, tr. 4, cap. 7, p. 156, ll. 87-90","II, tr. 4, cap. 7, p. 156, ll. 87-90",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_anima(Alberto_Magno),De anima (Alberto Magno),Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
SI MACOLEREBBE,"si macchierebbe. A proposito della convinzione secondo cui il mezzo attraverso cui si propagano i colori, così come quello attraverso cui si propagano i suoni, debba esserne privo se si vuole che la sensazione rispecchi fedelmente le cose vedi Alberto Magno (<i>De anima</i> II tr. 3, cap. 17, p 123, ll. 37 sgg)., il quale osserva che quando il mezzo"" è colorato ""tunc non videtur aliquid in ipso nisi quasi tectum illo colore"" e fa l'esempio della luce che passa attraverso un vetro colorato.","II tr. 3, cap. 17, p 123, ll. 37 sgg",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_anima(Alberto_Magno),De anima (Alberto Magno),Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
PLATO E ALTRI FILOSOFI,"Dante inserisce nella sua digressione una ulteriore digressione dossografica relativa alla teoria della visione come extramissione di raggi luminosi (la virtù visiva"") che dall'occhio raggiungono l'oggetto visibile (""andava fuori al visibile"") Presente nel <i>Timeo</i> essa era stata comunemente accettata dal medioevo latino fino a quando fu soppiantata, a partire dal XIII secolo, dal modello aristotelico in cui è l'oggetto visibile che attua la potenza visiva (""perché lo visibile venisse all'occhio""). Dante cita il testo di Platone in maniera indiretta, attraverso il riassunto (e la critica) che ne fa Aristotele, appunto nel <i>De sensu et sensato</i> (2, 437 b 10 sgg) , dove la medesima posizione viene attribuita anche ad Empedocle (""altri filosofi"").","2, 437 b 10 sgg",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Sense_and_Sensibilia_(Aristotle),De sensu et sensato (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PLATO E ALTRI FILOSOFI,"Dante inserisce nella sua digressione una ulteriore digressione dossografica relativa alla teoria della visione come extramissione di raggi luminosi (la virtù visiva"") che dall'occhio raggiungono l'oggetto visibile (""andava fuori al visibile"") Presente nel <i>Timeo</i> essa era stata comunemente accettata dal medioevo latino fino a quando fu soppiantata, a partire dal XIII secolo, dal modello aristotelico in cui è l'oggetto visibile che attua la potenza visiva (""perché lo visibile venisse all'occhio""). Dante cita il testo di Platone in maniera indiretta, attraverso il riassunto (e la critica) che ne fa Aristotele, appunto nel <i>De sensu et sensato</i> (2, 437 b 10 sgg) , dove la medesima posizione viene attribuita anche ad Empedocle (""altri filosofi"").",,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Timaeus_(dialogue),Timeo,Platone,http://dbpedia.org/resource/Plato,http://purl.org/bncf/tid/8332,WORK
NON RICEVA MUTAZIONE ALCUNA ...È  PROVATO,"nella teoria aristotelica i cieli sono esenti da ogni cambiamento (mutazione"") tranne quello che consiste nel loro movimento circolare (""movimento locale"" cioè da luogo a luogo). Il riferimento possibile è a due passi del <i>De caelo</i>: I 3, 270 a 23-35 e II 7, 289 a 13-16. Il termine ""ricevere"" sembra peraltro rimandare alle <i>Auctoritates Aristotelis</i>, p. 160, n. 17 ""Caelum non potest suscipere peregrinas impressiones"".","I 3, 270 a 23-35",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_caelo,De caelo,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
NON RICEVA MUTAZIONE ALCUNA ...È  PROVATO,"nella teoria aristotelica i cieli sono esenti da ogni cambiamento (mutazione"") tranne quello che consiste nel loro movimento circolare (""movimento locale"" cioè da luogo a luogo). Il riferimento possibile è a due passi del <i>De caelo</i>: I 3, 270 a 23-35 e II 7, 289 a 13-16. Il termine ""ricevere"" sembra peraltro rimandare alle <i>Auctoritates Aristotelis</i>, p. 160, n. 17 ""Caelum non potest suscipere peregrinas impressiones"".","7, 289 a 13-16",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_caelo,De caelo,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
NON RICEVA MUTAZIONE ALCUNA ...È  PROVATO,"nella teoria aristotelica i cieli sono esenti da ogni cambiamento (mutazione"") tranne quello che consiste nel loro movimento circolare (""movimento locale"" cioè da luogo a luogo). Il riferimento possibile è a due passi del <i>De caelo</i>: I 3, 270 a 23-35 e II 7, 289 a 13-16. Il termine ""ricevere"" sembra peraltro rimandare alle <i>Auctoritates Aristotelis</i>, p. 160, n. 17 ""Caelum non potest suscipere peregrinas impressiones"".","p. 160, n. 17 ""Caelum non potest suscipere peregrinas impressiones""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Auctoritates_Aristotelis,Auctoritates Aristotelis,Johannes de Fonte,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Johannes_de_Fonte,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
PERÒ PUOTE PARERE ...,"una prima causa per cui può capitarci di vedere opaco un astro, nonostante sia in sè luminoso, consiste nelle continue alterazioni qualitative del mezzo (continuamente si trasmuta"") Esso si altera in due modi: il primo riguarda la sua luminosità, ad esempio (""sì come"") alla presenza o all'assenza del sole il diafano si muta da molto a poco luminoso (""di molta luce in poca luce""); quando il sole è presente il mezzo trasparente (""diafano"") ne è così irradiato che supera (""è vincente"") la luminosità della stella e sembra più luminoso di lei (""e però pare più lucente""). Il secondo tipo di alterazione riguarda la sua densità. Infatti per l'azione dei vapori che salgono dalla superficie terrestre (""per li vapori della terra"") l'aria da rarefatta (""sottile"") si muta in densa (""grosso"") e da secca in umida. Queste alterazioni del diafano (""il mezzo così trasmutato"") alterano a loro volta (""trasmuta"") l'immagine dell'astro che attraverso di esso (""per esso"") giunge fino a noi: a motivo della densità (""per la grossezza"") muterà la sua lucentezza in opacità (""oscuritade""), a motivo dell'umidità varierà il suo colore. La teoria delle esalazioni come principio di tutti i fenomeni atmosferici è esposta da Aristotele nel quarto capitolo del primo libro dei <i>Meteorologica</i>. Essa postula l'esistenza due tipi di vapori: uno secco e uno umido, entrambi causati dal riscaldamento operato dal sole sulla superficie terrestre. Evidentemente è l'esalazione umida che ""ingrossa"" il diafano e attenua la luminosità di un oggetto (cfr. <i>Pg</i> XXX 25-27). Lo stesso tipo di esalazione, mutando il diafano da secco in umido, dovrebbe spiegare i mutamenti di colore. Tra tutti i testi di riferimento portati dai commentatori l'unico realmente significativo è quello del <i>De anima</i> di Alberto Magno (II, tr. 3, cap. 5, p. 103, ll. 46-53) indicato recentemente da S. A. Gilson: ""Et multae variationes possunt fieri circa sensatum, tam in medio quam in organo, quoniam si contingat aerem qui est medium in visu esse humidum multum, forte videbitur album esse perfusum rubore vel croceitate et si forte pupilla sit infirma ex humore ex oculo defluente, alterabit esse coloris"" (Gilson² 2000, p. 71)","II, tr. 3, cap. 5, p. 103, ll. 46-53",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_anima(Alberto_Magno),De anima (Alberto Magno),Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
PERÒ PUOTE ANCHE ...,"la seconda causa per cui un oggetto può apparire diverso da come è (puote parere così"") è una qualche modifica dell'organo di senso: o per malattia (""per infertade"") o per un eccessivo affaticamento (""per fatica""). Nel primo caso l'occhio presenta una alterazione del colore dei tessuti che lo compongono (""si trasmuta nel coloramento""), nel secondo è soggetto ad un indebolimento (""debilitade""). Ad esempio (""sì come"") spesso avviene che per un sanguinamento della membrana che circonda la pupilla (""per essere la tunica della pupilla sanguinosa molto"") causato da una alterazione morbosa del tessuto (""per corruzione d'infertade"") gli oggetti sembrino tutti colorati di rosso (""rubicondi""), e dunque (""però"") anche l'astro appaia rosso. Nel caso invece di un indebolimento della vista (""per essere lo viso debilitato"") in essa si verifica (""incontra"") una qualche dispersione (""alcuna disgregazione"") dello spirito visivo per cui le cose non appaiono più nitide (""unite"") ma confuse (""disgregate""), quasi come si comporta la nostra scrittura (""quasi come fa la nostra lettera"") su di un foglio bagnato (""carta umida""). Questo è il motivo per cui (""e questo è quello per che"") molti lettori (evidentemente i presbiti), allontanano i testi (""si dilungano le scritture"") dagli occhi, affinchè (""perché"") le immagini delle parole scritte entrino nell'occhio (""vegna dentro"") con meno forza (""più lievemente"") e più distintamente (""più sottile""). Facendo questo (""in ciò"") i caratteri dello scritto (""la lettera"") rimangono più distinti (""più ... discreta""). Per tutti questi motivi (""e però"") anche l'immagine di un astro può apparire perturbata. Di una ""dispersione"" della vista parla Alberto Magno proprio riguardo a coloro che vedono male da vicino; nel loro caso ""color ... quando prope est vincit oculum debilem et nimis dispergit ipsum, et tunc oculus non videt nisi confuse"" (<i>De anima</i> II, tr. 3, cap. 14, p. 121, ll. 12 sgg .). Sempre Alberto, nel descrivere alcune affezioni morbose della vista, accenna ad un ""humor turbidus defluens in pupillam oculi"" tale da alterare il colore dell'oggetto percepito (oltre al testo del <i>De anima</i> già citato vedi <i>Meteora</i> III, tr. 4, cap. 12, p. 188, ll. 28-30), ma l' esempio specifico di un versamento sanguigno in una delle membrane dell'occhio è proprio di Dante.","III, tr. 4, cap. 12, p. 188, ll. 28-30",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Meteororum(Alberto_Magno),Meteororum,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
"PER AFFATICARE LO VISO MOLTO, A STUDIO DI LEGGERE","'a causa dell'aver affaticato eccessivamente la vista con il continuo leggere'. Cfr. <i>Cv</i> III i 3. La testimonianza di una particolare venerazione di Dante verso Santa Lucia fornita da <i>If</i> II 97-99 (e in qualche modo anticipata nel nome della città immaginaria posta sul polo antartico) è stata collegata a questa malattia degli occhi. Il testo del <i>Convivio</i>, però, attribuisce la guarigione a rimedi puramente naturali, indicati tra l'altro dal testo base dell'insegnamento universitario di medicina, il <i>Canon</i> di Avicenna, opportunamente richiamato nel commento Busnelli",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/The_Canon_of_Medicine,Liber canonis medicinae,Avicenna,http://dbpedia.org/resource/Avicenna,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
QUANTO L'AGENTE PIÙ AL PAZIENTE...,"agente e paziente sono i termini tecnici che nella fisica aristotelica identificano, per ogni forma di mutamento, il motore ed il mosso (cfr. <i>Phys</i>. III 3, 202 a 22 sgg.) ed è vero che ogni mutamento può avvenire solo se i due termini si accostano l'uno all'altro fino a toccarsi (per Aristotele non esiste azione a distanza). In questo senso è giusto rimandare, come fanno i diversi commentatori, a <i>De generatione</i> I 6 ,322 b 22-24, integrato con il commento di Tommaso (I, <i>lectio</i> 23, n. 162) dove il termine latino usato è proprio <i>appropinquare</i>. L' affermazione secondo cui quanto più l'agente si avvicina al paziente, tanto più intensa (forte"") è per questo (""però"") la trasformazione che il paziente subisce (la ""passione""), sconosciuta alla fisica aristotelica, può avere un qualche fondamento nella trascrizione che Dante opera del rapporto tra movente e mosso nei termini di desiderato e desiderante. Egli attribuisce così alla donna gentile quella particolare capacità di muovere in quanto oggetto di desiderio che il XII libro della <i>Metafisica</i> sembra aver riservato a Dio. Entro questo schema (in cui però è il desiderante che si avvicina al desiderato) la maggior velocità dei corpi celesti era stata collegata dai commentatori di Aristotele alla loro maggiore vicinanza al Primo Principio e quindi ad un maggior desiderio di unirsi ad esso (vedi il commento a <i>Cv</i> III 8-10). Con tutta evidenza Dante, però vuole parlare di un altro desiderio, del desiderio-passione e della sua forza dirompente per cui l'anima che ne è presa (""passionata"") in vicinanza dell'oggetto desiderato abbandona la razionalità e quasi si identifica (""si unisce"") con la sua parte puramente appetitiva (""la parte concupiscibile""). In questo caso valuta la persona desiderata non come dovrebbe fare un essere razionale (""come uomo""), ma come farebbe ogni altro animale irrazionale, cioè solo in base a ciò che appare (""pur secondo l'apparenza""). Anche Tommaso aveva affermato che le passioni possono totalmente oscurare il giudizio della ragione e ridurre l'uomo a livello animale, ma aveva limitato questo caso alla pazzia, sia tranquilla che furiosa: ""Immutatio hominis per passionem duobus modis contingit. Uno modo sic quod totaliter ratio ligatur ita quod homo usum rationis non habet, sicut contingit in his qui propter vehementem iram vel concupiscentiam furiosi vel amentes fiunt, sicut et propter aliquam aliam perturbationem corporalem; huiusmodi enim passiones non sine corporali transmutatione accidunt. Et de talibus eadem ratio est sicut et de animalibus, quae ex necessitate sequuntur impetum passionis"" (cfr. <i>Summa Theologiae</i> Ia-IIae, q. 10, a. 3). In ogni caso il tipo di passione di cui qui si parla non ha molto a che fare con il modello aristotelico di agente e paziente. Ancora una volta la cultura delle ""scuole"" ha fornito a Dante una cornice entro cui strutturare un contenuto che non le appartiene.","III 3, 202 a 22 sgg.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
QUANTO L'AGENTE PIÙ AL PAZIENTE...,"agente e paziente sono i termini tecnici che nella fisica aristotelica identificano, per ogni forma di mutamento, il motore ed il mosso (cfr. <i>Phys</i>. III 3, 202 a 22 sgg.) ed è vero che ogni mutamento può avvenire solo se i due termini si accostano l'uno all'altro fino a toccarsi (per Aristotele non esiste azione a distanza). In questo senso è giusto rimandare, come fanno i diversi commentatori, a <i>De generatione</i> I 6 ,322 b 22-24, integrato con il commento di Tommaso (I, <i>lectio</i> 23, n. 162) dove il termine latino usato è proprio <i>appropinquare</i>. L' affermazione secondo cui quanto più l'agente si avvicina al paziente, tanto più intensa (forte"") è per questo (""però"") la trasformazione che il paziente subisce (la ""passione""), sconosciuta alla fisica aristotelica, può avere un qualche fondamento nella trascrizione che Dante opera del rapporto tra movente e mosso nei termini di desiderato e desiderante. Egli attribuisce così alla donna gentile quella particolare capacità di muovere in quanto oggetto di desiderio che il XII libro della <i>Metafisica</i> sembra aver riservato a Dio. Entro questo schema (in cui però è il desiderante che si avvicina al desiderato) la maggior velocità dei corpi celesti era stata collegata dai commentatori di Aristotele alla loro maggiore vicinanza al Primo Principio e quindi ad un maggior desiderio di unirsi ad esso (vedi il commento a <i>Cv</i> III 8-10). Con tutta evidenza Dante, però vuole parlare di un altro desiderio, del desiderio-passione e della sua forza dirompente per cui l'anima che ne è presa (""passionata"") in vicinanza dell'oggetto desiderato abbandona la razionalità e quasi si identifica (""si unisce"") con la sua parte puramente appetitiva (""la parte concupiscibile""). In questo caso valuta la persona desiderata non come dovrebbe fare un essere razionale (""come uomo""), ma come farebbe ogni altro animale irrazionale, cioè solo in base a ciò che appare (""pur secondo l'apparenza""). Anche Tommaso aveva affermato che le passioni possono totalmente oscurare il giudizio della ragione e ridurre l'uomo a livello animale, ma aveva limitato questo caso alla pazzia, sia tranquilla che furiosa: ""Immutatio hominis per passionem duobus modis contingit. Uno modo sic quod totaliter ratio ligatur ita quod homo usum rationis non habet, sicut contingit in his qui propter vehementem iram vel concupiscentiam furiosi vel amentes fiunt, sicut et propter aliquam aliam perturbationem corporalem; huiusmodi enim passiones non sine corporali transmutatione accidunt. Et de talibus eadem ratio est sicut et de animalibus, quae ex necessitate sequuntur impetum passionis"" (cfr. <i>Summa Theologiae</i> Ia-IIae, q. 10, a. 3). In ogni caso il tipo di passione di cui qui si parla non ha molto a che fare con il modello aristotelico di agente e paziente. Ancora una volta la cultura delle ""scuole"" ha fornito a Dante una cornice entro cui strutturare un contenuto che non le appartiene.","I 6 ,322 b 22-24",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/On_Generation_and_Corruption,De generatione et corruptione (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
QUANTO L'AGENTE PIÙ AL PAZIENTE...,"agente e paziente sono i termini tecnici che nella fisica aristotelica identificano, per ogni forma di mutamento, il motore ed il mosso (cfr. <i>Phys</i>. III 3, 202 a 22 sgg.) ed è vero che ogni mutamento può avvenire solo se i due termini si accostano l'uno all'altro fino a toccarsi (per Aristotele non esiste azione a distanza). In questo senso è giusto rimandare, come fanno i diversi commentatori, a <i>De generatione</i> I 6 ,322 b 22-24, integrato con il commento di Tommaso (I, <i>lectio</i> 23, n. 162) dove il termine latino usato è proprio <i>appropinquare</i>. L' affermazione secondo cui quanto più l'agente si avvicina al paziente, tanto più intensa (forte"") è per questo (""però"") la trasformazione che il paziente subisce (la ""passione""), sconosciuta alla fisica aristotelica, può avere un qualche fondamento nella trascrizione che Dante opera del rapporto tra movente e mosso nei termini di desiderato e desiderante. Egli attribuisce così alla donna gentile quella particolare capacità di muovere in quanto oggetto di desiderio che il XII libro della <i>Metafisica</i> sembra aver riservato a Dio. Entro questo schema (in cui però è il desiderante che si avvicina al desiderato) la maggior velocità dei corpi celesti era stata collegata dai commentatori di Aristotele alla loro maggiore vicinanza al Primo Principio e quindi ad un maggior desiderio di unirsi ad esso (vedi il commento a <i>Cv</i> III 8-10). Con tutta evidenza Dante, però vuole parlare di un altro desiderio, del desiderio-passione e della sua forza dirompente per cui l'anima che ne è presa (""passionata"") in vicinanza dell'oggetto desiderato abbandona la razionalità e quasi si identifica (""si unisce"") con la sua parte puramente appetitiva (""la parte concupiscibile""). In questo caso valuta la persona desiderata non come dovrebbe fare un essere razionale (""come uomo""), ma come farebbe ogni altro animale irrazionale, cioè solo in base a ciò che appare (""pur secondo l'apparenza""). Anche Tommaso aveva affermato che le passioni possono totalmente oscurare il giudizio della ragione e ridurre l'uomo a livello animale, ma aveva limitato questo caso alla pazzia, sia tranquilla che furiosa: ""Immutatio hominis per passionem duobus modis contingit. Uno modo sic quod totaliter ratio ligatur ita quod homo usum rationis non habet, sicut contingit in his qui propter vehementem iram vel concupiscentiam furiosi vel amentes fiunt, sicut et propter aliquam aliam perturbationem corporalem; huiusmodi enim passiones non sine corporali transmutatione accidunt. Et de talibus eadem ratio est sicut et de animalibus, quae ex necessitate sequuntur impetum passionis"" (cfr. <i>Summa Theologiae</i> Ia-IIae, q. 10, a. 3). In ogni caso il tipo di passione di cui qui si parla non ha molto a che fare con il modello aristotelico di agente e paziente. Ancora una volta la cultura delle ""scuole"" ha fornito a Dante una cornice entro cui strutturare un contenuto che non le appartiene.","I, lectio 23, n. 162",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/In_librum_Aristotelis_De_generatione_et_corruptione_expositio(Tommaso),In librum Aristotelis De generatione et corruptione expositio,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
QUANTO L'AGENTE PIÙ AL PAZIENTE...,"agente e paziente sono i termini tecnici che nella fisica aristotelica identificano, per ogni forma di mutamento, il motore ed il mosso (cfr. <i>Phys</i>. III 3, 202 a 22 sgg.) ed è vero che ogni mutamento può avvenire solo se i due termini si accostano l'uno all'altro fino a toccarsi (per Aristotele non esiste azione a distanza). In questo senso è giusto rimandare, come fanno i diversi commentatori, a <i>De generatione</i> I 6 ,322 b 22-24, integrato con il commento di Tommaso (I, <i>lectio</i> 23, n. 162) dove il termine latino usato è proprio <i>appropinquare</i>. L' affermazione secondo cui quanto più l'agente si avvicina al paziente, tanto più intensa (forte"") è per questo (""però"") la trasformazione che il paziente subisce (la ""passione""), sconosciuta alla fisica aristotelica, può avere un qualche fondamento nella trascrizione che Dante opera del rapporto tra movente e mosso nei termini di desiderato e desiderante. Egli attribuisce così alla donna gentile quella particolare capacità di muovere in quanto oggetto di desiderio che il XII libro della <i>Metafisica</i> sembra aver riservato a Dio. Entro questo schema (in cui però è il desiderante che si avvicina al desiderato) la maggior velocità dei corpi celesti era stata collegata dai commentatori di Aristotele alla loro maggiore vicinanza al Primo Principio e quindi ad un maggior desiderio di unirsi ad esso (vedi il commento a <i>Cv</i> III 8-10). Con tutta evidenza Dante, però vuole parlare di un altro desiderio, del desiderio-passione e della sua forza dirompente per cui l'anima che ne è presa (""passionata"") in vicinanza dell'oggetto desiderato abbandona la razionalità e quasi si identifica (""si unisce"") con la sua parte puramente appetitiva (""la parte concupiscibile""). In questo caso valuta la persona desiderata non come dovrebbe fare un essere razionale (""come uomo""), ma come farebbe ogni altro animale irrazionale, cioè solo in base a ciò che appare (""pur secondo l'apparenza""). Anche Tommaso aveva affermato che le passioni possono totalmente oscurare il giudizio della ragione e ridurre l'uomo a livello animale, ma aveva limitato questo caso alla pazzia, sia tranquilla che furiosa: ""Immutatio hominis per passionem duobus modis contingit. Uno modo sic quod totaliter ratio ligatur ita quod homo usum rationis non habet, sicut contingit in his qui propter vehementem iram vel concupiscentiam furiosi vel amentes fiunt, sicut et propter aliquam aliam perturbationem corporalem; huiusmodi enim passiones non sine corporali transmutatione accidunt. Et de talibus eadem ratio est sicut et de animalibus, quae ex necessitate sequuntur impetum passionis"" (cfr. <i>Summa Theologiae</i> Ia-IIae, q. 10, a. 3). In ogni caso il tipo di passione di cui qui si parla non ha molto a che fare con il modello aristotelico di agente e paziente. Ancora una volta la cultura delle ""scuole"" ha fornito a Dante una cornice entro cui strutturare un contenuto che non le appartiene.","Ia-IIae, q. 10, a. 3",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_Theologica,Summa Theologiae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
MA PERÒ CHE NATURALMENTE LE LODE,"dopo le digressioni astronomiche e fisiologiche collegate alla spiegazione letterale della canzone, nell'esegesi allegorica, in cui fin dall'inizio la donna gentile si rivela essere la Filosofia, Dante esordisce con un'argomentazione in forma le cui premesse si fondano su altrettanti testi autorevoli del Filosofo per eccellenza: è naturale che gli elogi inducano il desiderio di conoscere chi viene elogiato; ora conoscere qualcosa significa sapere la sua essenza (quello che ella è"": calco dal latino 'quod quid est') presa in se stessa (""in sé considerata"") e attraverso le cause che la producono (""per tutte le sue cause""); ma il nome di una cosa non ci fa vedere (""dimostra"") tutto questo, nonostante ne sia segno (""avegna che ciò significhi""); dunque è necessario prima di andare avanti (""convienesi prima che più oltre si proceda"") nel tessere l'elogio della Filosofia (""per le sue laude mostrare""), dire cos'è ciò cui vien dato il nome di Filosofia (""dire che è questo che si chiama Filosofia""), esplicitare cioè il referente reale significato dal nome (""quello che questo nome significa""). Le citazioni aristoteliche rimandano a <i>Phys</i> I 1, 184 a 12-13 (in realtà il testo non parla di tutte le cause, ma delle cause prime: ""tunc enim opinamur cognoscere unumquodque cum causas cognoscamus primas"" <i>Translatio Vetus</i>, p. 7, ll. 5-6) e <i>Metaph.</i> IV 7, 1012 a 23-24 , visto però attraverso il commento di Tommaso (cfr. <i>In duodecim libros Metaphysicorum Aristotelis expositio</i> IV, <i>lectio</i> 17, n. 733 ""ratio quam nomen significat est definitio rei"" ripreso da Dante alla lettera: ""la diffinizione è quella ragione che ' l nome significa"").","IV 7, 1012 a 23-24",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
MA PERÒ CHE NATURALMENTE LE LODE,"dopo le digressioni astronomiche e fisiologiche collegate alla spiegazione letterale della canzone, nell'esegesi allegorica, in cui fin dall'inizio la donna gentile si rivela essere la Filosofia, Dante esordisce con un'argomentazione in forma le cui premesse si fondano su altrettanti testi autorevoli del Filosofo per eccellenza: è naturale che gli elogi inducano il desiderio di conoscere chi viene elogiato; ora conoscere qualcosa significa sapere la sua essenza (quello che ella è"": calco dal latino 'quod quid est') presa in se stessa (""in sé considerata"") e attraverso le cause che la producono (""per tutte le sue cause""); ma il nome di una cosa non ci fa vedere (""dimostra"") tutto questo, nonostante ne sia segno (""avegna che ciò significhi""); dunque è necessario prima di andare avanti (""convienesi prima che più oltre si proceda"") nel tessere l'elogio della Filosofia (""per le sue laude mostrare""), dire cos'è ciò cui vien dato il nome di Filosofia (""dire che è questo che si chiama Filosofia""), esplicitare cioè il referente reale significato dal nome (""quello che questo nome significa""). Le citazioni aristoteliche rimandano a <i>Phys</i> I 1, 184 a 12-13 (in realtà il testo non parla di tutte le cause, ma delle cause prime: ""tunc enim opinamur cognoscere unumquodque cum causas cognoscamus primas"" <i>Translatio Vetus</i>, p. 7, ll. 5-6) e <i>Metaph.</i> IV 7, 1012 a 23-24 , visto però attraverso il commento di Tommaso (cfr. <i>In duodecim libros Metaphysicorum Aristotelis expositio</i> IV, <i>lectio</i> 17, n. 733 ""ratio quam nomen significat est definitio rei"" ripreso da Dante alla lettera: ""la diffinizione è quella ragione che ' l nome significa"").","I 1, 184 a 12-13",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
MA PERÒ CHE NATURALMENTE LE LODE,"dopo le digressioni astronomiche e fisiologiche collegate alla spiegazione letterale della canzone, nell'esegesi allegorica, in cui fin dall'inizio la donna gentile si rivela essere la Filosofia, Dante esordisce con un'argomentazione in forma le cui premesse si fondano su altrettanti testi autorevoli del Filosofo per eccellenza: è naturale che gli elogi inducano il desiderio di conoscere chi viene elogiato; ora conoscere qualcosa significa sapere la sua essenza (quello che ella è"": calco dal latino 'quod quid est') presa in se stessa (""in sé considerata"") e attraverso le cause che la producono (""per tutte le sue cause""); ma il nome di una cosa non ci fa vedere (""dimostra"") tutto questo, nonostante ne sia segno (""avegna che ciò significhi""); dunque è necessario prima di andare avanti (""convienesi prima che più oltre si proceda"") nel tessere l'elogio della Filosofia (""per le sue laude mostrare""), dire cos'è ciò cui vien dato il nome di Filosofia (""dire che è questo che si chiama Filosofia""), esplicitare cioè il referente reale significato dal nome (""quello che questo nome significa""). Le citazioni aristoteliche rimandano a <i>Phys</i> I 1, 184 a 12-13 (in realtà il testo non parla di tutte le cause, ma delle cause prime: ""tunc enim opinamur cognoscere unumquodque cum causas cognoscamus primas"" <i>Translatio Vetus</i>, p. 7, ll. 5-6) e <i>Metaph.</i> IV 7, 1012 a 23-24 , visto però attraverso il commento di Tommaso (cfr. <i>In duodecim libros Metaphysicorum Aristotelis expositio</i> IV, <i>lectio</i> 17, n. 733 ""ratio quam nomen significat est definitio rei"" ripreso da Dante alla lettera: ""la diffinizione è quella ragione che ' l nome significa"").","In duodecim libros Metaphysicorum Aristotelis expositio IV, lectio 17, n. 733 ""ratio quam nomen significat est definitio rei"" ripreso da Dante alla lettera: ""la diffinizione è quella ragione che ' l nome significa""",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Metaphysicae(Tommaso),Sententia libri Metaphysicae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
INCIDENTEMENTE,"incidentalmente'. In realtà Tito Livio aveva accostato Pitagora e Numa Pompilio solo per negare, su basi cronologiche, la loro contemporaneità e soprattutto la dipendenza dottrinale del primo dal secondo (cfr. <i>Ab urbe condita</i> I 18, 1-3). Il brano di Cicerone portato in campo dal commento di <i>Vasoli</i> come una possibile altra fonte che giustificherebbe questa svista di Dante nega anch'esso la contemporaneità tra i due personaggi, pur se intende giustificare l'errore di chi ha creduto Numa discepolo di Pitagora (cfr. <i>Tusculanae Disputationes</i> IV 1 3). In ogni modo, come ha giustamente notato Paul Renucci negli scritti di Dante i riferimenti allo storico romano risultano quasi sempre di seconda mano (Renucci 1954, p. 73). Per una analisi completa dei riferimenti danteschi allo storico patavino vedi la voce <i>Livio, Tito</i>, curata da Antonio Martina in ED, III, pp. 673-677.","I 18, 1-3",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Ab_Urbe_Condita_(book),Ab urbe condita,Livio,http://dbpedia.org/resource/Livy,http://purl.org/bncf/tid/9645,WORK
INCIDENTEMENTE,"incidentalmente'. In realtà Tito Livio aveva accostato Pitagora e Numa Pompilio solo per negare, su basi cronologiche, la loro contemporaneità e soprattutto la dipendenza dottrinale del primo dal secondo (cfr. <i>Ab urbe condita</i> I 18, 1-3). Il brano di Cicerone portato in campo dal commento di <i>Vasoli</i> come una possibile altra fonte che giustificherebbe questa svista di Dante nega anch'esso la contemporaneità tra i due personaggi, pur se intende giustificare l'errore di chi ha creduto Numa discepolo di Pitagora (cfr. <i>Tusculanae Disputationes</i> IV 1 3). In ogni modo, come ha giustamente notato Paul Renucci negli scritti di Dante i riferimenti allo storico romano risultano quasi sempre di seconda mano (Renucci 1954, p. 73). Per una analisi completa dei riferimenti danteschi allo storico patavino vedi la voce <i>Livio, Tito</i>, curata da Antonio Martina in ED, III, pp. 673-677.",IV 1 3,CONCORDANZA STRINGENTE,http://it.dbpedia.org/resource/Tusculanae_disputationes,Tusculanae Disputationes,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
QUELLI SETTE SAVI ANTICHISSIMI,"i sette sapienti formano un gruppo i cui nomi erano assai conosciuti nel Medioevo. Sorprende dunque che Dante commetta l'errore di non elencarne due (Talete e Pittaco) e di introdurne altri due non esistenti (Lindio e Prieneo). In realtà i termini Lindio e Prieneo non sono invenzione di Dante, ma indicano, negli elenchi corretti, il luogo di origine di Cleobulo (di Lindo) e di Biante (di Priene). La spiegazione più plausibile è dunque che Dante abbia inteso gli aggettivi Lindio e Prieneo come nomi propri. Ora la lista che contiene Cleobulo Lindio e Biante Prieneo come ultimi due, l'uno immediatamente dopo l'altro, è quella di Agostino (<i>De civitate Dei</i> XVIII 25, p. 616) dove tra l'altro Solone, Chilone, Periandro, Cleobulo e Biante vengono elencati separatamente da Talete e Pittaco (l'ordine seguito dallo <i>Speculum Historiale</i> di Vincenzo di Beauvais III, cap. 119, p. 85, è invece diverso: Thales Milesius, Solon Atheniensis, Pyttacus Mityleneus, Chilon Lacedemonius, Cleobulus Lindius, Periander Corinthius). Ma nella lista di Agostino come nelle altre il luogo di origine viene indicato anche per gli altri tre (Solon Atheniensis, Chilon Lacaedemonius, Periandrus Corinthius""). Al di là di queste difficoltà il testo di Dante postula comunque, più che un <i>lapsus</i> di memoria, un effettivo errore di lettura.","XVIII 25, p. 616",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/City_of_God_(book),De civitate Dei,Agostino,http://dbpedia.org/resource/Augustine_of_Hippo,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
TANTO VALE IN GRECO ...,"il termine <i>philos</i> ha lo stesso significato del termine <i>amor</i> in latino'. L'errore per cui, scambiando aggettivo per sostantivo, si dava a <i>philos</i> il significato di <i>amor</i> invece che <i>amicus</i> era presente in un testo autorevole come le <i>Derivationes</i> di Uguccione da Pisa (s.v. <i>Filos</i>, ed. Cecchini, F 36, 1, 8, p. 437).","s.v. Filos, ed. Cecchini, F 36, 1, 8, p. 437",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Derivationes_Magnae,Derivationes Magnae,Uguccione da Pisa,http://dbpedia.org/resource/Huguccio,http://purl.org/bncf/tid/9228,WORK
"NON D'ARROGANZA, MA D'UMILITADE È VOCABULO","è un termine che denota non arroganza ma modestia'. Il racconto relativo a Pitagora ed all'origine del nome filosofia"", risale ad Agostino (<i>De civitate Dei</i> VIII 2, p. 217), ripreso quasi alla lettera da Isidoro di Siviglia (cfr. <i>Etymologiae</i> VIII vi 1-3, vol. I, s.p.) cui a loro volta si rifanno le <i>Derivationes</i> di Uguccione da Pisa (s.v. <i>Filos</i>, F 36 10, p. 437). Nella sua definizione Dante sembra dipendere letteralmente dalla <i>Rettorica</i> di Brunetto Latini (17, 6, p. 29) ""il primo nome si è 'phylos', e vale tanto a dire quanto 'amore'; il secondo nome è 'sophya'e vale tanto a dire quanto 'sapienzia'. Onde 'filosofia' tanto vale a dire come 'amore della sapienza"". Cfr. Migliorini Fissi 1985-86. Non è invece presente in Brunetto il tema dell'arroganza e della umilitade, e qui è più difficile determinare quale sia stata la fonte diretta di Dante: la contrapposizione tra <i>l'arrogantia</i> del termine ""sapiente"" e la <i>verecundia</i> del termine ""filosofo"" si trova in maniera più esplicita in Isidoro e in Uguccione che non in Agostino. In tutti è peraltro è assente il richiamo ai sette sapienti, presente nei <i>Facta et dicta memorabilia</i> di Valerio Massimo (VIII vii, 2) ""Pythagoras ... quo cognomine censeretur interrogatus, non se sapientem, iam enim illud septem excellentes viri occupaverant, sed amatorem sapientiae, id est graece philosophon, edidit"", testo ripreso anche da un contemporaneo di Dante, Tolomeo di Lucca, nella sua continuazione del <i>De regno</i> di Tommaso (IV, 21). Che questa definizione etimologica compaia anche in molte delle Introduzioni alla filosofia della Facoltà delle Arti parigina (vedi i numerosi testi citati nel commento di <i>Cheneval</i>) non mi sembra particolarmente significativo. In questo caso, a mio avviso, Dante non è debitore della tradizione universitaria.","VIII 2, p. 217",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/City_of_God_(book),De civitate Dei,Agostino,http://dbpedia.org/resource/Augustine_of_Hippo,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
"NON D'ARROGANZA, MA D'UMILITADE È VOCABULO","è un termine che denota non arroganza ma modestia'. Il racconto relativo a Pitagora ed all'origine del nome filosofia"", risale ad Agostino (<i>De civitate Dei</i> VIII 2, p. 217), ripreso quasi alla lettera da Isidoro di Siviglia (cfr. <i>Etymologiae</i> VIII vi 1-3, vol. I, s.p.) cui a loro volta si rifanno le <i>Derivationes</i> di Uguccione da Pisa (s.v. <i>Filos</i>, F 36 10, p. 437). Nella sua definizione Dante sembra dipendere letteralmente dalla <i>Rettorica</i> di Brunetto Latini (17, 6, p. 29) ""il primo nome si è 'phylos', e vale tanto a dire quanto 'amore'; il secondo nome è 'sophya'e vale tanto a dire quanto 'sapienzia'. Onde 'filosofia' tanto vale a dire come 'amore della sapienza"". Cfr. Migliorini Fissi 1985-86. Non è invece presente in Brunetto il tema dell'arroganza e della umilitade, e qui è più difficile determinare quale sia stata la fonte diretta di Dante: la contrapposizione tra <i>l'arrogantia</i> del termine ""sapiente"" e la <i>verecundia</i> del termine ""filosofo"" si trova in maniera più esplicita in Isidoro e in Uguccione che non in Agostino. In tutti è peraltro è assente il richiamo ai sette sapienti, presente nei <i>Facta et dicta memorabilia</i> di Valerio Massimo (VIII vii, 2) ""Pythagoras ... quo cognomine censeretur interrogatus, non se sapientem, iam enim illud septem excellentes viri occupaverant, sed amatorem sapientiae, id est graece philosophon, edidit"", testo ripreso anche da un contemporaneo di Dante, Tolomeo di Lucca, nella sua continuazione del <i>De regno</i> di Tommaso (IV, 21). Che questa definizione etimologica compaia anche in molte delle Introduzioni alla filosofia della Facoltà delle Arti parigina (vedi i numerosi testi citati nel commento di <i>Cheneval</i>) non mi sembra particolarmente significativo. In questo caso, a mio avviso, Dante non è debitore della tradizione universitaria.","VIII vi 1-3, vol. I, s.p.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Etymologiae,Etymologiae,Isidoro di Siviglia,http://dbpedia.org/resource/Isidore_of_Seville,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
"NON D'ARROGANZA, MA D'UMILITADE È VOCABULO","è un termine che denota non arroganza ma modestia'. Il racconto relativo a Pitagora ed all'origine del nome filosofia"", risale ad Agostino (<i>De civitate Dei</i> VIII 2, p. 217), ripreso quasi alla lettera da Isidoro di Siviglia (cfr. <i>Etymologiae</i> VIII vi 1-3, vol. I, s.p.) cui a loro volta si rifanno le <i>Derivationes</i> di Uguccione da Pisa (s.v. <i>Filos</i>, F 36 10, p. 437). Nella sua definizione Dante sembra dipendere letteralmente dalla <i>Rettorica</i> di Brunetto Latini (17, 6, p. 29) ""il primo nome si è 'phylos', e vale tanto a dire quanto 'amore'; il secondo nome è 'sophya'e vale tanto a dire quanto 'sapienzia'. Onde 'filosofia' tanto vale a dire come 'amore della sapienza"". Cfr. Migliorini Fissi 1985-86. Non è invece presente in Brunetto il tema dell'arroganza e della umilitade, e qui è più difficile determinare quale sia stata la fonte diretta di Dante: la contrapposizione tra <i>l'arrogantia</i> del termine ""sapiente"" e la <i>verecundia</i> del termine ""filosofo"" si trova in maniera più esplicita in Isidoro e in Uguccione che non in Agostino. In tutti è peraltro è assente il richiamo ai sette sapienti, presente nei <i>Facta et dicta memorabilia</i> di Valerio Massimo (VIII vii, 2) ""Pythagoras ... quo cognomine censeretur interrogatus, non se sapientem, iam enim illud septem excellentes viri occupaverant, sed amatorem sapientiae, id est graece philosophon, edidit"", testo ripreso anche da un contemporaneo di Dante, Tolomeo di Lucca, nella sua continuazione del <i>De regno</i> di Tommaso (IV, 21). Che questa definizione etimologica compaia anche in molte delle Introduzioni alla filosofia della Facoltà delle Arti parigina (vedi i numerosi testi citati nel commento di <i>Cheneval</i>) non mi sembra particolarmente significativo. In questo caso, a mio avviso, Dante non è debitore della tradizione universitaria.","s.v. Filos, F 36 10, p. 437",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Derivationes_Magnae,Derivationes Magnae,Uguccione da Pisa,http://dbpedia.org/resource/Huguccio,http://purl.org/bncf/tid/9228,WORK
"NON D'ARROGANZA, MA D'UMILITADE È VOCABULO","è un termine che denota non arroganza ma modestia'. Il racconto relativo a Pitagora ed all'origine del nome filosofia"", risale ad Agostino (<i>De civitate Dei</i> VIII 2, p. 217), ripreso quasi alla lettera da Isidoro di Siviglia (cfr. <i>Etymologiae</i> VIII vi 1-3, vol. I, s.p.) cui a loro volta si rifanno le <i>Derivationes</i> di Uguccione da Pisa (s.v. <i>Filos</i>, F 36 10, p. 437). Nella sua definizione Dante sembra dipendere letteralmente dalla <i>Rettorica</i> di Brunetto Latini (17, 6, p. 29) ""il primo nome si è 'phylos', e vale tanto a dire quanto 'amore'; il secondo nome è 'sophya'e vale tanto a dire quanto 'sapienzia'. Onde 'filosofia' tanto vale a dire come 'amore della sapienza"". Cfr. Migliorini Fissi 1985-86. Non è invece presente in Brunetto il tema dell'arroganza e della umilitade, e qui è più difficile determinare quale sia stata la fonte diretta di Dante: la contrapposizione tra <i>l'arrogantia</i> del termine ""sapiente"" e la <i>verecundia</i> del termine ""filosofo"" si trova in maniera più esplicita in Isidoro e in Uguccione che non in Agostino. In tutti è peraltro è assente il richiamo ai sette sapienti, presente nei <i>Facta et dicta memorabilia</i> di Valerio Massimo (VIII vii, 2) ""Pythagoras ... quo cognomine censeretur interrogatus, non se sapientem, iam enim illud septem excellentes viri occupaverant, sed amatorem sapientiae, id est graece philosophon, edidit"", testo ripreso anche da un contemporaneo di Dante, Tolomeo di Lucca, nella sua continuazione del <i>De regno</i> di Tommaso (IV, 21). Che questa definizione etimologica compaia anche in molte delle Introduzioni alla filosofia della Facoltà delle Arti parigina (vedi i numerosi testi citati nel commento di <i>Cheneval</i>) non mi sembra particolarmente significativo. In questo caso, a mio avviso, Dante non è debitore della tradizione universitaria.","17, 6, p. 29",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/La_Rettorica,La Rettorica,Brunetto Latini,http://dbpedia.org/resource/Brunetto_Latini,http://purl.org/bncf/tid/4567,WORK
"NON D'ARROGANZA, MA D'UMILITADE È VOCABULO","è un termine che denota non arroganza ma modestia'. Il racconto relativo a Pitagora ed all'origine del nome filosofia"", risale ad Agostino (<i>De civitate Dei</i> VIII 2, p. 217), ripreso quasi alla lettera da Isidoro di Siviglia (cfr. <i>Etymologiae</i> VIII vi 1-3, vol. I, s.p.) cui a loro volta si rifanno le <i>Derivationes</i> di Uguccione da Pisa (s.v. <i>Filos</i>, F 36 10, p. 437). Nella sua definizione Dante sembra dipendere letteralmente dalla <i>Rettorica</i> di Brunetto Latini (17, 6, p. 29) ""il primo nome si è 'phylos', e vale tanto a dire quanto 'amore'; il secondo nome è 'sophya'e vale tanto a dire quanto 'sapienzia'. Onde 'filosofia' tanto vale a dire come 'amore della sapienza"". Cfr. Migliorini Fissi 1985-86. Non è invece presente in Brunetto il tema dell'arroganza e della umilitade, e qui è più difficile determinare quale sia stata la fonte diretta di Dante: la contrapposizione tra <i>l'arrogantia</i> del termine ""sapiente"" e la <i>verecundia</i> del termine ""filosofo"" si trova in maniera più esplicita in Isidoro e in Uguccione che non in Agostino. In tutti è peraltro è assente il richiamo ai sette sapienti, presente nei <i>Facta et dicta memorabilia</i> di Valerio Massimo (VIII vii, 2) ""Pythagoras ... quo cognomine censeretur interrogatus, non se sapientem, iam enim illud septem excellentes viri occupaverant, sed amatorem sapientiae, id est graece philosophon, edidit"", testo ripreso anche da un contemporaneo di Dante, Tolomeo di Lucca, nella sua continuazione del <i>De regno</i> di Tommaso (IV, 21). Che questa definizione etimologica compaia anche in molte delle Introduzioni alla filosofia della Facoltà delle Arti parigina (vedi i numerosi testi citati nel commento di <i>Cheneval</i>) non mi sembra particolarmente significativo. In questo caso, a mio avviso, Dante non è debitore della tradizione universitaria.","VIII vii, 2",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Facta_et_dicta_memorabilia,Facta et dicta memorabilia,Valerio Massimo,http://dbpedia.org/resource/Valerius_Maximus,http://purl.org/bncf/tid/9645,WORK
"NON D'ARROGANZA, MA D'UMILITADE È VOCABULO","è un termine che denota non arroganza ma modestia'. Il racconto relativo a Pitagora ed all'origine del nome filosofia"", risale ad Agostino (<i>De civitate Dei</i> VIII 2, p. 217), ripreso quasi alla lettera da Isidoro di Siviglia (cfr. <i>Etymologiae</i> VIII vi 1-3, vol. I, s.p.) cui a loro volta si rifanno le <i>Derivationes</i> di Uguccione da Pisa (s.v. <i>Filos</i>, F 36 10, p. 437). Nella sua definizione Dante sembra dipendere letteralmente dalla <i>Rettorica</i> di Brunetto Latini (17, 6, p. 29) ""il primo nome si è 'phylos', e vale tanto a dire quanto 'amore'; il secondo nome è 'sophya'e vale tanto a dire quanto 'sapienzia'. Onde 'filosofia' tanto vale a dire come 'amore della sapienza"". Cfr. Migliorini Fissi 1985-86. Non è invece presente in Brunetto il tema dell'arroganza e della umilitade, e qui è più difficile determinare quale sia stata la fonte diretta di Dante: la contrapposizione tra <i>l'arrogantia</i> del termine ""sapiente"" e la <i>verecundia</i> del termine ""filosofo"" si trova in maniera più esplicita in Isidoro e in Uguccione che non in Agostino. In tutti è peraltro è assente il richiamo ai sette sapienti, presente nei <i>Facta et dicta memorabilia</i> di Valerio Massimo (VIII vii, 2) ""Pythagoras ... quo cognomine censeretur interrogatus, non se sapientem, iam enim illud septem excellentes viri occupaverant, sed amatorem sapientiae, id est graece philosophon, edidit"", testo ripreso anche da un contemporaneo di Dante, Tolomeo di Lucca, nella sua continuazione del <i>De regno</i> di Tommaso (IV, 21). Che questa definizione etimologica compaia anche in molte delle Introduzioni alla filosofia della Facoltà delle Arti parigina (vedi i numerosi testi citati nel commento di <i>Cheneval</i>) non mi sembra particolarmente significativo. In questo caso, a mio avviso, Dante non è debitore della tradizione universitaria.","IV, 21",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_regimine_principum(Tolomeo_da_Lucca),De regimine principum (Tolomeo da Lucca),Tolomeo da Lucca,http://dbpedia.org/resource/Bartholomew_of_Lucca,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
[N]ELLA 'NTENZIONE ... NELL'OTTAVO DE L'ETICA,"in numerosi passi precedenti Dante aveva utilizzato incidentalmente l' ottavo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i>, dedicato all'amicizia. Qui abbiamo un riassunto di alcuni suoi capisaldi inteso a chiarire senza ombra di dubbio quale sia il vero amico del sapere, il vero filosofo. Con più precisione Dante riassume il capitolo 2 dell'ottavo libro dell' <i>Etica</i>, dando però una disposizione diversa alle sue parti: la definizione di amico (quelli si dice amico"") che nel testo aristotelico conclude il capitolo (cfr. 1155 b 33-1156 a 5) viene messa all'inizio e la distinzione dei tre tipi di amicizia che lo apre (cfr. 1155 b 13-27) viene invece posposta, con lo scopo evidente di costruire una sequenza più organica. Questo tipo di riorganizzazione del testo aristotelico risulta abbastanza frequente nei commenti alle opere etico-politiche dello Stagirita provenienti dagli <i>Studi</i> degli ordini mendicanti.","capitolo 2 dell'ottavo libro dell' Etica cfr. 1155 b 33-1156 a 5, cfr. 1155 b 13-27",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
O PER UTILITADE ... O ...O PER ONESTADE,"avendo come fine o l'utile, o il piacere o il bene' (cfr. <i>Eth. Nic</i>. VIII 2, 1155 b 18-19 hoc autem esse <i>bonum</i> aliquid vel delectabile vel utile"".<i>Translatio Grosseteste. Textus purus</i>, p. 300, ll. 6-7). Sulla sinonimia <i>bonum</i>-<i>honestum</i> cfr. <i>Cv</i> III iii 11 ).","VIII 2, 1155 b 18-19 hoc autem esse bonum aliquid vel delectabile vel utile"".Translatio Grosseteste. Textus purus, p. 300, ll. 6-7""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SÌ COME L'ETICA NE DIMOSTRA,"cfr. <i>Eth. Nic</i>. VIII 3, 1156 a 16-17.","VIII 3, 1156 a 16-17",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PER CHE ...,"in questi due paragrafi Dante prosegue il parallelo tra le caratteristiche dell'amicizia in generale e quelle della particolare specie di amicizia che è la filosofia. Le proprietà dell'amicizia basata sul bene (l'amistà per onestade fatta""), cioè l'esser vera, perfetta e durevole (""perpetua"") valgono anche per quella filosofia che nasce esclusivamente dal bene (""che è generata per onestade solamente""), senza alcuna relazione con altro (""senza altro respetto"": <i>respectus</i> è un termine tecnico usato nelle analisi filosofiche della categoria di relazione) che non sia il valore (""bontade"") dell'animo che ama il sapere (""l'anima amica"") e amandolo secondo un desiderio giusto e una ragione retta (""che è per diritto appetito e per diritta ragione""). E così si può affermare che come l'amicizia che gli uomini hanno tra di loro (""intra sé"") è vera quando ogni amico ama l'altro nella sua interezza (""che ciascuno ami tutto ciascuno"") così il vero filosofo è colui che ama la sapienza in tutte le sue articolazioni (""ciascuna parte della sapienza ama"") e che viene amato nella sua interezza dalla sapienza (""e la sapienza ciascuna parte del filosofo""). In questo caso però, a differenza dell'amicizia in generale, la sapienza ama il suo amico assimilandolo completamente a sé (""in quanto tutto a sé lo reduce"") e impedendogli così di volgere il suo pensiero ad altro che lei (""e nullo suo pensiero ad altre cose lascia distendere""). Che l' amore per la Sapienza dovesse essere totale era già stato affermato da Brunetto Latini: ""neuno puote essere filosofo se non ama la sapienza tanto ch'elli intralasci tutte altre cose e dia ogne studio et opera ad avere intera sapienza"" (<i>Rettorica</i> 17, 6, p. 29).","17, 6, p. 29",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/La_Rettorica,La Rettorica,Brunetto Latini,http://dbpedia.org/resource/Brunetto_Latini,http://purl.org/bncf/tid/4567,WORK
E SÌ COME LA VERA AMISTADE,"in questi due paragrafi Dante, dopo aver dato la definizione della filosofia secondo quanto proposto nel primo paragrafo del capitolo, ne indaga le cause seguendo il modello quaternario di Aristotele (causa materiale, formale, efficiente e finale) e continuando il parallelismo con l'amicizia in generale. La vera amicizia (amistade"") considerata in sé stessa (""solo in sé"") astraendo dai particolari individui che la esercitano (""astratta dell'animo""), ha come causa materiale (""subietto"", sostrato) e formale (""forma"") rispettivamente la conoscenza delle azioni virtuose (""dell'operazione buona"") e la volontà (""appetito"") di compierle, come causa efficiente la virtù (""virtude""), come causa finale il piacere (""dilettazione"") che deriva (""procede"") da una convivenza pienamente umana (""dal convivere secondo l'umanitade propiamente""); la filosofia, considerata sotto il medesimo punto di vista, ha come causa materiale l'attività del conoscere (""lo 'ntendere""), come causa formale un amore per il suo principio (""lo 'ntelletto""). (un tale amore viene definito quasi divino proprio perché, aristotelicamente, l'intelletto è la particella di divino presente nell'uomo; cfr. <i>Eth. Nic</i>. X  7, 1177 b 19), come causa efficiente la verità (""veritade""), come causa finale il piacere della contemplazione.  *","X 7, 1177 b 19",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
NEL NONO DELL'ETICA,"cfr. <i>Eth. Nic</i>. IX 9, 1170 b 5.","IX 9, 1170 b 5",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
CHE NON PATE ALCUNA INTERMISSIONE O VERO DIFETTO,"che non subisce alcuna interruzione o incompletezza'. Che la contemplazione della verità, e quindi la felicità che ne deriva, possano avere una continuità superiore ad ogni altra attività dell'uomo e possano estendersi per un'intera vita è detto da Aristotele (cfr. <i>Eth. Nic</i>. X 7, 1177 a 21-22; b 24-26): ma, come abbiamo già visto nello stesso libro decimo dell' <i>Etica</i> e nel dodicesimo libro della <i>Metafisica</i>, lo Stagirita aveva notato come solo per Dio vita e conoscenza si identifichino senza interruzioni. (cfr. nota a <i>Cv</i> III viii 5). Così nel capitolo XIII Dante osserverà che la natura umana, a differenza di quella angelica, non è in grado di esercitare in questa vita l'atto del conoscere in maniera ininterrotta. E in effetti vedremo che per Dante la Filosofia è in sé pienamente realizzata solo in Dio, nel suo perfetto Amore intratrinitario per la sua stessa Sapienza (cfr. <i>Cv</i> III xii 12).","X 7, 1177 a 21-22; b 24-26",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
NEL SECONDO DELLO ENEIDOS,"cfr. <i>Eneide</i> II 281 O lux Dardaniae, spes o fidissima Teucrum"". Come nel caso di ""Metamofoseos"" (cfr. Cv e di ""Thebaidos","II 281 O lux Dardaniae, spes o fidissima Teucrum",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Aeneid,Aeneis,Virgilio,http://dbpedia.org/resource/Virgil,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
STAZIO NEL QUINTO DEL THEBAIDOS,"cfr. <i>Tebaide</i> V 609-10 Archemore, o rerum et patriae solamen ademptae/servitiique decus"" (parla la nutrice Ipsipile).","V 609-10 Archemore, o rerum et patriae solamen ademptae/servitiique decus",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Thebaid_(Latin_poem),Thebais,Stazio,http://dbpedia.org/resource/Statius,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
"NELL'ABITO ACQUISTATO ADOPERA, USANDO QUELLO","che quando questo possesso è stato raggiunto, agisce (adopera"" con valore assoluto ed intransitivo) ponendolo in atto'. La distinzione tra un possesso ""abituale"" ed uno ""attuale"" della scienza è presente in <i>Eth Nic</i>. VII 5, 1146 b 31-33 e, in termini assai vicini a quelli usati da Dante, nel corrispondente commento di Tommaso (""Uno modo dicitur scire ille qui habet habitum sed non utitur eo ... alio modo dicitur scire qui utitur sua scientia, VII <i>lectio</i> 3, n. 1338).","VII 5, 1146 b 31-33",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
"NELL'ABITO ACQUISTATO ADOPERA, USANDO QUELLO","che quando questo possesso è stato raggiunto, agisce (adopera"" con valore assoluto ed intransitivo) ponendolo in atto'. La distinzione tra un possesso ""abituale"" ed uno ""attuale"" della scienza è presente in <i>Eth Nic</i>. VII 5, 1146 b 31-33 e, in termini assai vicini a quelli usati da Dante, nel corrispondente commento di Tommaso (""Uno modo dicitur scire ille qui habet habitum sed non utitur eo ... alio modo dicitur scire qui utitur sua scientia, VII <i>lectio</i> 3, n. 1338).","Uno modo dicitur scire ille qui habet habitum sed non utitur eo ... alio modo dicitur scire qui utitur sua scientia, VII lectio 3, n. 1338",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
MA CONVIENE QUELLO ...,"ma bisogna (conviene"") che il male (""quello"") sia puramente accidentale nella produzione intenzionale dell'effetto da parte di Dio (""nello processo dell'inteso effetto""). L'analogia tra Dio ed il sole, già presente nella <i>Repubblica</i> di Platone e poi in tutta la tradizione platonica, viene trasmessa dallo pseudo-Dionigi Areopagita alla teologia medievale (cfr. <i>De divinis nominibus</i> c. 4 ""Sicut enim super omnia existentis deitatis bonitas ... a supremis substantiis usque ad ultimas transit ... et illuminat illuminari valentia omnia ... ita quidem et divinae bonitatis manifesta imago, magnus iste et semper resplendens sol ... omnia quae participare ipso possunt illuminat"" PG 3, p. 367 C; <i>Dionysiaca</i> I, p.162) La distinzione tra due azioni del sole (illuminare e riscaldare) e la loro corrispondenza con altrettante azioni divine (diffondere intelligibilità e bene) sembra però originale di Dante.","c. 4 ""Sicut enim super omnia existentis deitatis bonitas ... a supremis substantiis usque ad ultimas transit ... et illuminat illuminari valentia omnia ... ita quidem et divinae bonitatis manifesta imago, magnus iste et semper resplendens sol ... omnia quae participare ipso possunt illuminat"" PG 3, p. 367 C; Dionysiaca I, p.162""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_divinis_nominibus,De divinis nominibus,Dionigi Areopagita (ps.),http://dbpedia.org/resource/Pseudo-Dionysius_the_Areopagite,http://purl.org/bncf/tid/8332,WORK
CHÉ SUO 'GIRARE' È SUO 'INTENDERE',"l' analogia tra il conoscere divino ed il girare"" si basa probabilmente su <i>Ps</i>. 147, 14-15 ""qui emittit eloquium suum terrae / velociter currit sermo eius"", già interpretato in questo senso da Giovanni Eriugena. Cfr. <i>Periphyseon</i>, I (ed. Sheldon - Williams I, p. 60, 22-31) ""cum a verbo theo, id est 'curro' theos (cioè ""dio"" in greco) deducitur, currens recte intelligitur ... non enim aliud est Deo currere per omnia quam videre omnia ... sicut scriptum est: velociter currit sermo eius"". Un' espressione assai simile al 'girare' è riferita alla Sapienza divina in <i>Eccli</i> 24, 8: ""Gyrum caeli circuivi sola""). Il commento <i>Busnelli</i> rimanda alla dottrina della <i>reditio</i>, cioè della capacità di un soggetto di tornare su stesso, passando dalla propria operazione alla propria essenza, capacità affermata dal <i>Liber de causis</i> e definita da Tommaso nel suo commento come una <i>circulatio</i>. Essa non è però esclusiva di Dio, ma caratterizza sia pure con modalità diverse, tutte le creature intellettuali. Cfr. nota a <i>Cv</i> IV ii 18.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Liber_de_Causis,Liber de causis,Aristotele (ps.),http://dbpedia.org/resource/Pseudo-Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
CHÉ SUO 'GIRARE' È SUO 'INTENDERE',"l' analogia tra il conoscere divino ed il girare"" si basa probabilmente su <i>Ps</i>. 147, 14-15 ""qui emittit eloquium suum terrae / velociter currit sermo eius"", già interpretato in questo senso da Giovanni Eriugena. Cfr. <i>Periphyseon</i>, I (ed. Sheldon - Williams I, p. 60, 22-31) ""cum a verbo theo, id est 'curro' theos (cioè ""dio"" in greco) deducitur, currens recte intelligitur ... non enim aliud est Deo currere per omnia quam videre omnia ... sicut scriptum est: velociter currit sermo eius"". Un' espressione assai simile al 'girare' è riferita alla Sapienza divina in <i>Eccli</i> 24, 8: ""Gyrum caeli circuivi sola""). Il commento <i>Busnelli</i> rimanda alla dottrina della <i>reditio</i>, cioè della capacità di un soggetto di tornare su stesso, passando dalla propria operazione alla propria essenza, capacità affermata dal <i>Liber de causis</i> e definita da Tommaso nel suo commento come una <i>circulatio</i>. Essa non è però esclusiva di Dio, ma caratterizza sia pure con modalità diverse, tutte le creature intellettuali. Cfr. nota a <i>Cv</i> IV ii 18.","24, 8: ""Gyrum caeli circuivi sola""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Sirach,Ecclesiastico,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
CHÉ AVVEGNA CHE ...,"poiché, anche se (avvegna che"") Dio conosce le cose contemplando se stesso (""esso medesimo mirando"") e in questo modo le vede tutte contemporaneamente (""veggia insiememente tutto""), ciò non toglie che abbia una conoscenza distinta di ognuna di esse (""vede quelle distinte""): infatti la stessa distinzione delle cose è presente in lui come una molteplicità di effetti rimane nella causa che li produce (""è in lui per lo modo che lo effetto è nella cagione""). La dottrina secondo cui Dio conosce distintamente le singole cose in quanto effetti particolari della sua causalità universale accomuna pensatori diversi, ma egualmente presenti nell'universo mentale di Dante, lo Pseudo Dionigi (cfr. <i>De divinis nominibus</i> 7, PG 3, p. 868C, <i>Dionysiaca</i> I, p. 393 ""Quare divina mens omnia continet ... secundum omnium causam in seipso omnium scientiam praeaccipiens ...non enim ex existentibus existentia discens novit divina mens, sed ex ipsa et in seipsa, secundum causam, omnium scientiam et cognitionem praaehabet et praeaccipit, non secundum visionem singulis se immittens, sed secundum unam causae continentiam omnia sciens et continens"") ed Averroè (cfr. <i>In libros Metaphysicorum</i> XI = XII, c. 51, f. 337 A ""Et veritas est quod Primum scit omnia secundum quod scit se tantum, scientia in esse quod est causa eorum esse""). In maniera più articolata Tommaso, commentando <i>Metaph</i>. XII, 9, 1074 b 22-27, adotterà, precisandolo, il medesimo schema: ""Nec tamen sequitur quod omnia alia a se sint ei ignota. Nam intelligendo se intelligit omnia alia. Quod sic patet. Cum enim ipse sit suum intelligere, ipsum autem est dignissimum et potentissimum, necesse est quod suum intelligere sit perfectissimum: perfectissime igitur intelligit seipsum. Quanto autem aliquod principium perfectius intelligitur, tanto magis intelligitur in eo effectus eius; nam principiata continentur in virtute principii. Cum igitur a primo principio quod est Deus dependeat caelum et tota natura ... patet quod Deus cognoscendo seipsum omnia cognoscit"" (<i>lectio</i> 11 ,nn. 2614-2615).","7, PG 3, p. 868C, Dionysiaca I, p. 393 ""Quare divina mens omnia continet ... secundum omnium causam in seipso omnium scientiam praeaccipiens ...non enim ex existentibus existentia discens novit divina mens, sed ex ipsa et in seipsa, secundum causam, omnium scientiam et cognitionem praaehabet et praeaccipit, non secundum visionem singulis se immittens, sed secundum unam causae continentiam omnia sciens et continens""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_divinis_nominibus,De divinis nominibus,Dionigi Areopagita (ps.),http://dbpedia.org/resource/Pseudo-Dionysius_the_Areopagite,http://purl.org/bncf/tid/8332,WORK
CHÉ AVVEGNA CHE ...,"poiché, anche se (avvegna che"") Dio conosce le cose contemplando se stesso (""esso medesimo mirando"") e in questo modo le vede tutte contemporaneamente (""veggia insiememente tutto""), ciò non toglie che abbia una conoscenza distinta di ognuna di esse (""vede quelle distinte""): infatti la stessa distinzione delle cose è presente in lui come una molteplicità di effetti rimane nella causa che li produce (""è in lui per lo modo che lo effetto è nella cagione""). La dottrina secondo cui Dio conosce distintamente le singole cose in quanto effetti particolari della sua causalità universale accomuna pensatori diversi, ma egualmente presenti nell'universo mentale di Dante, lo Pseudo Dionigi (cfr. <i>De divinis nominibus</i> 7, PG 3, p. 868C, <i>Dionysiaca</i> I, p. 393 ""Quare divina mens omnia continet ... secundum omnium causam in seipso omnium scientiam praeaccipiens ...non enim ex existentibus existentia discens novit divina mens, sed ex ipsa et in seipsa, secundum causam, omnium scientiam et cognitionem praaehabet et praeaccipit, non secundum visionem singulis se immittens, sed secundum unam causae continentiam omnia sciens et continens"") ed Averroè (cfr. <i>In libros Metaphysicorum</i> XI = XII, c. 51, f. 337 A ""Et veritas est quod Primum scit omnia secundum quod scit se tantum, scientia in esse quod est causa eorum esse""). In maniera più articolata Tommaso, commentando <i>Metaph</i>. XII, 9, 1074 b 22-27, adotterà, precisandolo, il medesimo schema: ""Nec tamen sequitur quod omnia alia a se sint ei ignota. Nam intelligendo se intelligit omnia alia. Quod sic patet. Cum enim ipse sit suum intelligere, ipsum autem est dignissimum et potentissimum, necesse est quod suum intelligere sit perfectissimum: perfectissime igitur intelligit seipsum. Quanto autem aliquod principium perfectius intelligitur, tanto magis intelligitur in eo effectus eius; nam principiata continentur in virtute principii. Cum igitur a primo principio quod est Deus dependeat caelum et tota natura ... patet quod Deus cognoscendo seipsum omnia cognoscit"" (<i>lectio</i> 11 ,nn. 2614-2615).","cfr. In libros Metaphysicorum XI = XII, c. 51, f. 337 A ""Et veritas est quod Primum scit omnia secundum quod scit se tantum, scientia in esse quod est causa eorum esse""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commento_alla_Metafisica(Averroè),Commento alla Metafisica,Averroè,http://dbpedia.org/resource/Averroes,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
CHÉ AVVEGNA CHE ...,"poiché, anche se (avvegna che"") Dio conosce le cose contemplando se stesso (""esso medesimo mirando"") e in questo modo le vede tutte contemporaneamente (""veggia insiememente tutto""), ciò non toglie che abbia una conoscenza distinta di ognuna di esse (""vede quelle distinte""): infatti la stessa distinzione delle cose è presente in lui come una molteplicità di effetti rimane nella causa che li produce (""è in lui per lo modo che lo effetto è nella cagione""). La dottrina secondo cui Dio conosce distintamente le singole cose in quanto effetti particolari della sua causalità universale accomuna pensatori diversi, ma egualmente presenti nell'universo mentale di Dante, lo Pseudo Dionigi (cfr. <i>De divinis nominibus</i> 7, PG 3, p. 868C, <i>Dionysiaca</i> I, p. 393 ""Quare divina mens omnia continet ... secundum omnium causam in seipso omnium scientiam praeaccipiens ...non enim ex existentibus existentia discens novit divina mens, sed ex ipsa et in seipsa, secundum causam, omnium scientiam et cognitionem praaehabet et praeaccipit, non secundum visionem singulis se immittens, sed secundum unam causae continentiam omnia sciens et continens"") ed Averroè (cfr. <i>In libros Metaphysicorum</i> XI = XII, c. 51, f. 337 A ""Et veritas est quod Primum scit omnia secundum quod scit se tantum, scientia in esse quod est causa eorum esse""). In maniera più articolata Tommaso, commentando <i>Metaph</i>. XII, 9, 1074 b 22-27, adotterà, precisandolo, il medesimo schema: ""Nec tamen sequitur quod omnia alia a se sint ei ignota. Nam intelligendo se intelligit omnia alia. Quod sic patet. Cum enim ipse sit suum intelligere, ipsum autem est dignissimum et potentissimum, necesse est quod suum intelligere sit perfectissimum: perfectissime igitur intelligit seipsum. Quanto autem aliquod principium perfectius intelligitur, tanto magis intelligitur in eo effectus eius; nam principiata continentur in virtute principii. Cum igitur a primo principio quod est Deus dependeat caelum et tota natura ... patet quod Deus cognoscendo seipsum omnia cognoscit"" (<i>lectio</i> 11 ,nn. 2614-2615).","lectio 11 ,nn. 2614-2615",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Metaphysicae(Tommaso),Sententia libri Metaphysicae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
AMOROSO USO DI SAPIENZA,"un atto di fruizione della sapienza da parte di chi la ama'. Il termine uso"" rimanda a <i>Cv</i> III xii 2 dove Dante aveva distinto tra un abito ed un uso attuale della scienza. Esso si trova al grado sommo (""massimamente"") in Dio: infatti sapienza, amore ed attualità (le tre componenti della definizione di filosofia) costituiscono la sua stessa essenza: sapienza corrisponde al Figlio, amore allo Spirito Santo, quanto al ""sommo atto"" in esso vengono a coincidere il Dio - Atto puro di Aristotele e la prima persona della Trinità, Dio Padre, più comunemente indicato come Potenza (vedi <i>If</i> III, 5-6 ""Fecemi la divina potestate / la somma sapienza e'l primo amore""). Questo ""amoroso uso"" si può rinvenire nelle altre creature (""altrove"") solo in quanto derivano (""procede"") da Dio. Il verbo ""procedere"" è tipico del lessico neoplatonico che indica la derivazione del molteplice (il mondo) dall'Uno (Dio). Che la conoscenza delle cause prime fosse in primo luogo un possesso divino e solo secondariamente umano era stato detto da Aristotele (cfr. <i>Metaph</i>. I, 2, 982 b 28-983 a 10). Vedi Nardi 1992, pp.50-51.","I, 2, 982 b 28-983 a 10",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
QUASI COME DRUDA,"non come una sposa, ma come una donna amata (druda"") con cui l'innamorato (""amadore"") non si unisce pienamente (""prende compiuta gioia"") dato che il desiderio (""vaghezza"") si appaga (""contentasene"") anche solo della sua vista e della sua presenza (""aspetto""). Questo breve e densissimo passo, a mio avviso centrale per comprendere tutto il complesso discorso sulla filosofia sotteso al <i>Convivio</i>, è anche un esempio di come Dante utilizzi linguaggi correnti e magari un po' usurati trasformandoli e volgendoli ad esprimere in maniera potente un contenuto del tutto nuovo. Situazioni ed espressioni tipiche della poesia erotica cortese (l'amante che ""vagheggia la sua druda contentandosi del suo aspetto"") si fondono qui con il linguaggio trinitario dell'eterna unione tra Dio e la sua Sapienza: l'espressione ""compiuta gioia"", che, nel linguaggio cortese nella lirica provenzale indica il grado ultimo del rapporto tra il poeta e la donna-domina, il congiungimento fisico cui si può accennare solo con una perifrasi e che è sempre un rapporto extraconiugale, viene risemantizzata nei termini della mistica nuziale già ampiamente presente nell'esegesi medievale del <i>Cantico dei Cantici</i>.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Song_of_Songs,Cantico dei cantici,Salomone,http://dbpedia.org/resource/Solomon,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
SUORA,"sorella. Gli epiteti di figlia, sposa e sorella dati alla filosofia derivano dall' <i>Ecclesiastico</i> (cfr. <i>Eccli</i> 24, 5) dove la Sapienza divina dice di sé Ego ex ore Altissimi prodivi, primogenita ante omnem creaturam"" e dal <i>Cantico Cantici</i> (cfr. <i>Ct</i> 4, 9) dove l'amata viene detta ""soror mea, sponsa mea"". Come abbiamo visto Dante, riportando l'episodio di Pitagora, aveva presentato la filosofia come abito ed atto di amore e di amicizia che ha per termini da una parte l'intelletto, dall'altra la Sapienza, appunto ""un amoroso uso di sapienza"". Proprio partendo da questa definizione Dante distingue tra una filosofia divina, una angelica e, come vedremo nel cap. XIII, una umana: nel primo caso il rapporto tra l' intelletto amante e la Sapienza è assoluto e perfetto: si identifica con l'essenza stessa di Dio. Nel secondo è continuo, ma non implica una fusione assoluta tra amore e sapienza (gli angeli infatti, a differenza di Dio, non contemplano se stessi, ma chi li ha creati). Nel terzo questo rapporto non solo non è assoluto, ma è anche discontinuo. L'archetipo di ogni filosofare rimane comunque quello divino, di cui gli altri sono solo derivati. Solo in Dio la filosofia si trova nella sua assolutezza e solo in questo caso la 'donna gentile' è identica alla Sapienza eterna. Non tener conto di questi tre livelli ed attribuire alla 'nostra' filosofia le caratteristiche di quella divina può dar luogo a fraintendimenti. Vedi in proposito le illuminanti precisazioni di Bruno Nardi (Nardi 1966, pp. 39-43.)","cfr. Eccli 24, 5",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Sirach,Ecclesiastico,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
SUORA,"sorella. Gli epiteti di figlia, sposa e sorella dati alla filosofia derivano dall' <i>Ecclesiastico</i> (cfr. <i>Eccli</i> 24, 5) dove la Sapienza divina dice di sé Ego ex ore Altissimi prodivi, primogenita ante omnem creaturam"" e dal <i>Cantico Cantici</i> (cfr. <i>Ct</i> 4, 9) dove l'amata viene detta ""soror mea, sponsa mea"". Come abbiamo visto Dante, riportando l'episodio di Pitagora, aveva presentato la filosofia come abito ed atto di amore e di amicizia che ha per termini da una parte l'intelletto, dall'altra la Sapienza, appunto ""un amoroso uso di sapienza"". Proprio partendo da questa definizione Dante distingue tra una filosofia divina, una angelica e, come vedremo nel cap. XIII, una umana: nel primo caso il rapporto tra l' intelletto amante e la Sapienza è assoluto e perfetto: si identifica con l'essenza stessa di Dio. Nel secondo è continuo, ma non implica una fusione assoluta tra amore e sapienza (gli angeli infatti, a differenza di Dio, non contemplano se stessi, ma chi li ha creati). Nel terzo questo rapporto non solo non è assoluto, ma è anche discontinuo. L'archetipo di ogni filosofare rimane comunque quello divino, di cui gli altri sono solo derivati. Solo in Dio la filosofia si trova nella sua assolutezza e solo in questo caso la 'donna gentile' è identica alla Sapienza eterna. Non tener conto di questi tre livelli ed attribuire alla 'nostra' filosofia le caratteristiche di quella divina può dar luogo a fraintendimenti. Vedi in proposito le illuminanti precisazioni di Bruno Nardi (Nardi 1966, pp. 39-43.)","Ct 4, 9",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Song_of_Songs,Cantico dei cantici,Salomone,http://dbpedia.org/resource/Solomon,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
L'UMANA NATURA,"come abbiamo già avuto modo di notare, il limite del filosofare umano è la sua discontinuità. Anche quando l'uomo è giunto ad amare la sapienza nell'attività contemplativa quest'ultima non può durare indefinitamente: l'intelletto e la ragione vi trovano il loro appagamento, ma la natura umana, che non è pura razionalità, ha altri bisogni che è necessario soddisfare per continuare ad esistere (per suo sostentamento""); dunque in alcuni momenti (""talvolta"") la conoscenza umana non è effettivamente esercitata (""non è attuale""), ma solo posseduta in potenza (in modo abituale). Questo non succede (""non incontra"") nelle Intelligenze separate: la perfezione della loro natura consiste infatti nell'essere sostanze esclusivamente intellettuali (""solo di natura intellettiva sono perfette""). Della necessità di soddisfare le necessità primarie per potersi dedicare alla vita di conoscenza aveva parlato Aristotele sia nel decimo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> (9, 1178 b 33-35) che nel primo libro della <i>Metafisica</i> (1, 981 b 20-25), senza però collegarla esplicitamente al tema della discontinuità. Esso, invece, era stato sfiorato, come abbiamo visto, sempre nel libro decimo dell' <i>Etica Nicomachea</i>, ma nell'ambito di un confronto tra conoscenza divina e conoscenza umana. Un accenno più preciso è invece presente nel commento di Tommaso che, nel sottolineare la distanza tra le sostanze separate per cui è possibile una contemplazione continua e l'uomo soggetto invece agli impedimenti della malattia e della ricerca del cibo, usa termini assai vicini a quelli di Dante (cfr. <i>In decem libros Ethicorum Aristotelis expositio</i> X, <i>lectio</i> 13, nn. 2126-27 ""humana natura ... ad sui sustentationem indiget exterioribus rebus"").","9, 1178 b 33-35",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
L'UMANA NATURA,"come abbiamo già avuto modo di notare, il limite del filosofare umano è la sua discontinuità. Anche quando l'uomo è giunto ad amare la sapienza nell'attività contemplativa quest'ultima non può durare indefinitamente: l'intelletto e la ragione vi trovano il loro appagamento, ma la natura umana, che non è pura razionalità, ha altri bisogni che è necessario soddisfare per continuare ad esistere (per suo sostentamento""); dunque in alcuni momenti (""talvolta"") la conoscenza umana non è effettivamente esercitata (""non è attuale""), ma solo posseduta in potenza (in modo abituale). Questo non succede (""non incontra"") nelle Intelligenze separate: la perfezione della loro natura consiste infatti nell'essere sostanze esclusivamente intellettuali (""solo di natura intellettiva sono perfette""). Della necessità di soddisfare le necessità primarie per potersi dedicare alla vita di conoscenza aveva parlato Aristotele sia nel decimo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> (9, 1178 b 33-35) che nel primo libro della <i>Metafisica</i> (1, 981 b 20-25), senza però collegarla esplicitamente al tema della discontinuità. Esso, invece, era stato sfiorato, come abbiamo visto, sempre nel libro decimo dell' <i>Etica Nicomachea</i>, ma nell'ambito di un confronto tra conoscenza divina e conoscenza umana. Un accenno più preciso è invece presente nel commento di Tommaso che, nel sottolineare la distanza tra le sostanze separate per cui è possibile una contemplazione continua e l'uomo soggetto invece agli impedimenti della malattia e della ricerca del cibo, usa termini assai vicini a quelli di Dante (cfr. <i>In decem libros Ethicorum Aristotelis expositio</i> X, <i>lectio</i> 13, nn. 2126-27 ""humana natura ... ad sui sustentationem indiget exterioribus rebus"").","1, 981 b 20-25",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
L'UMANA NATURA,"come abbiamo già avuto modo di notare, il limite del filosofare umano è la sua discontinuità. Anche quando l'uomo è giunto ad amare la sapienza nell'attività contemplativa quest'ultima non può durare indefinitamente: l'intelletto e la ragione vi trovano il loro appagamento, ma la natura umana, che non è pura razionalità, ha altri bisogni che è necessario soddisfare per continuare ad esistere (per suo sostentamento""); dunque in alcuni momenti (""talvolta"") la conoscenza umana non è effettivamente esercitata (""non è attuale""), ma solo posseduta in potenza (in modo abituale). Questo non succede (""non incontra"") nelle Intelligenze separate: la perfezione della loro natura consiste infatti nell'essere sostanze esclusivamente intellettuali (""solo di natura intellettiva sono perfette""). Della necessità di soddisfare le necessità primarie per potersi dedicare alla vita di conoscenza aveva parlato Aristotele sia nel decimo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> (9, 1178 b 33-35) che nel primo libro della <i>Metafisica</i> (1, 981 b 20-25), senza però collegarla esplicitamente al tema della discontinuità. Esso, invece, era stato sfiorato, come abbiamo visto, sempre nel libro decimo dell' <i>Etica Nicomachea</i>, ma nell'ambito di un confronto tra conoscenza divina e conoscenza umana. Un accenno più preciso è invece presente nel commento di Tommaso che, nel sottolineare la distanza tra le sostanze separate per cui è possibile una contemplazione continua e l'uomo soggetto invece agli impedimenti della malattia e della ricerca del cibo, usa termini assai vicini a quelli di Dante (cfr. <i>In decem libros Ethicorum Aristotelis expositio</i> X, <i>lectio</i> 13, nn. 2126-27 ""humana natura ... ad sui sustentationem indiget exterioribus rebus"").","In decem libros Ethicorum Aristotelis expositio X, lectio 13, nn. 2126-27 ""humana natura ... ad sui sustentationem indiget exterioribus rebus""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
TANTO QUANTO POSSIBILI SONO A VENIRE AD ESSA,"per quanto è possibile per loro essere assimilate'. Che nelle trasformazioni naturali l'agente tenda ad assimilare a sé il paziente è un principio ricavato dal <i>De generatione</i> di Aristotele (I, 7, 324 a 10-17 ).","I, 7, 324 a 10-17",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/On_Generation_and_Corruption,De generatione et corruptione (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DIO QUESTO AMORE A SUA SIMILITUDINE REDUCE,"che Dio elargisca alle cose, per quanto possibile, una sua somiglianza è dottrina presente nel <i>De divinis nominibus</i> dello pseudo-Dionigi Theologi autem existentem super omnia Deum secundum quod ipse est nulli dicunt esse similem, ipsum autem divinam similitudinem dare iis qui ad ipsum existentem super omnem det diffinitionem et rationem convertuntur secundum virtutem imitatione "" cap. 9, PG 3, p. 913 C, <i>Dionysiaca</i> I, p. 466). Ma ancora una volta Dante ne sposta il significato in funzione della sua personale argomentazione: più che su una <i>similitudo</i> diversamente partecipata da tutte le cose a seconda del loro statuto ontologico, l'accento viene messo su di un dinamico e particolare processo di assimilazione in cui l'attività sta tutta dalla parte di Dio.","autem existentem super omnia Deum secundum quod ipse est nulli dicunt esse similem, ipsum autem divinam similitudinem dare iis qui ad ipsum existentem super omnem det diffinitionem et rationem convertuntur secundum virtutem imitatione "" cap. 9, PG 3, p. 913 C, Dionysiaca I, p. 466""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_divinis_nominibus,De divinis nominibus,Dionigi Areopagita (ps.),http://dbpedia.org/resource/Pseudo-Dionysius_the_Areopagite,http://purl.org/bncf/tid/8332,WORK
NELL'ALTRE SI RIPERCUOTE DA QUESTE INTELLIGENZE,"le altre intelligenze sono illuminate dalla luce divina non direttamente ma in quanto essa si riflette su di loro (si ripercuote"") dalle Intelligenze che sono state illuminate anteriormente. I passi del <i>Liber de Causis</i> citati nel commento <i>Vasoli</i> non sono perfettamente attinenti. Essi infatti parlano di Intelligenze che accolgono l'illuminazione da quelle superiori e la riverberano su quelle inferiori, mentre per Dante (coerente in questo con <i>Cv</i> III vi 4-5), tutte le Intelligenze-Angeli sono direttamente illuminate da Dio. Più convincente il riferimento allo pseudo-Dionigi che definisce gli angeli, specchi puri e lucentissimi (""Imago est Dei angelus ... speculum purum, clarissimum ... suscipiens totam ... pulchritudinem boniformis deiformitatis et munde resplendere faciens in seipso"" <i>De divinis nominibus</i> 4, PG 3, p. 724 B; <i>Dionysiaca</i> I, p. 268) E' ciò che d'altra parte fa Dante stesso in <i>Pd</i> IX, 61: "" Su sono specchi / voi dicete Troni"", specchi che ricevono la luce da Dio e la riflettono addirittura sui beati. Che Dio parli agli uomini tramite gli Angeli era dottrina teologica comune, basata ovviamente su episodi biblici (cfr. ad esempio la <i>Summa de Creaturis</i> di Alberto Magno, I <i>De quattuor coaequevis</i>, tr. IV, q. 34, artt. 1-2, pp. 522-525), ma pensare che essi siano i tramiti esclusivi e necessari perché le illuminazioni divine raggiungano gli altri esseri riflette sicuramente, sia pure modificato, lo schema neoplatonico della mediazione indispensabile tra l'Uno e i molti. C'è peraltro da notare che questa affermazione sembra contrastare con quella di <i>Cv</i> III.ii.12 secondo cui ""la divina luce"" raggia direttamente nell'anima intellettiva proprio ""come in angelo"".","Imago est Dei angelus ... speculum purum, clarissimum ... suscipiens totam ... pulchritudinem boniformis deiformitatis et munde resplendere faciens in seipso De divinis nominibus 4, PG 3, p. 724 B; Dionysiaca I, p. 268",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_divinis_nominibus,De divinis nominibus,Dionigi Areopagita (ps.),http://dbpedia.org/resource/Pseudo-Dionysius_the_Areopagite,http://purl.org/bncf/tid/8332,WORK
NELL'ALTRE SI RIPERCUOTE DA QUESTE INTELLIGENZE,"le altre intelligenze sono illuminate dalla luce divina non direttamente ma in quanto essa si riflette su di loro (si ripercuote"") dalle Intelligenze che sono state illuminate anteriormente. I passi del <i>Liber de Causis</i> citati nel commento <i>Vasoli</i> non sono perfettamente attinenti. Essi infatti parlano di Intelligenze che accolgono l'illuminazione da quelle superiori e la riverberano su quelle inferiori, mentre per Dante (coerente in questo con <i>Cv</i> III vi 4-5), tutte le Intelligenze-Angeli sono direttamente illuminate da Dio. Più convincente il riferimento allo pseudo-Dionigi che definisce gli angeli, specchi puri e lucentissimi (""Imago est Dei angelus ... speculum purum, clarissimum ... suscipiens totam ... pulchritudinem boniformis deiformitatis et munde resplendere faciens in seipso"" <i>De divinis nominibus</i> 4, PG 3, p. 724 B; <i>Dionysiaca</i> I, p. 268) E' ciò che d'altra parte fa Dante stesso in <i>Pd</i> IX, 61: "" Su sono specchi / voi dicete Troni"", specchi che ricevono la luce da Dio e la riflettono addirittura sui beati. Che Dio parli agli uomini tramite gli Angeli era dottrina teologica comune, basata ovviamente su episodi biblici (cfr. ad esempio la <i>Summa de Creaturis</i> di Alberto Magno, I <i>De quattuor coaequevis</i>, tr. IV, q. 34, artt. 1-2, pp. 522-525), ma pensare che essi siano i tramiti esclusivi e necessari perché le illuminazioni divine raggiungano gli altri esseri riflette sicuramente, sia pure modificato, lo schema neoplatonico della mediazione indispensabile tra l'Uno e i molti. C'è peraltro da notare che questa affermazione sembra contrastare con quella di <i>Cv</i> III.ii.12 secondo cui ""la divina luce"" raggia direttamente nell'anima intellettiva proprio ""come in angelo"".","la Summa de Creaturis di Alberto Magno, I De quattuor coaequevis, tr. IV, q. 34, artt. 1-2, pp. 522-525",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Summa_de_creaturis,Summa de creaturis,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
IN QUANTO ESSO È IN ALTRA PARTE ALLUMINATA RIPERCUSSO,"in quanto viene riflesso (ripercusso"") da un altro oggetto già illuminato'. In Avicenna è effettivamente presente la distinzione tra <i>lux</i>, <i>radius</i> e <i>splendor</i>, ma il significato dei termini solo in parte corrisponde a quello fornito da Dante (cfr. <i>Liber de anima seu sextus de naturalibus</i> III, 1, p. 171). Un' enciclpedia assai diffusa come <i>Speculum Naturale</i> di Vincenzo di Beauvais contiene la medesima distinzione espressa in termini più vicini a quelli del <i>Convivio</i> (""Lux est in propria natura.... Radius exitus luminis secundum lineam rectam ... <i>splendor</i> est ipsa luminis reflexio a reflexione radiorum procedens"". Cit. in Gilson² 2000, p. 57, n. 34). Ma la fonte diretta di Dante, anche per quanto riguarda il riferimento ad Avicenna, sembra poter essere il <i>Tractatus de luce</i> del francescano Bartolomeo da Bologna. : ""Notandum quod sicut ... traditur ... ab Avicenna in 6 De Naturalibus, refert inter lucem, radium et splendorem. Lux enim nominat naturam lucis consideratam ut existentem in fonte suo, id est in ipso corpore lucidi. Radius autem dicit generationem similitudinis ... illius fontalis lucis... secundum diametralem processum factam in medio ... Splendor autem dicitur secundum quod radii procedentes a corpore lucido perveniunt ad aliud corpus tersum et politum et lucidum ... et repercutiuntur a corpore illo retrorsum "" (I, 1, ed. Squadrani, pp. 231-2). A cominciare all'uso dell'aggettivo ""fontale"", le corrispondenze sono effettivamente notevoli. Bartolomeo, maestro di teologia a Parigi negli anni settanta del XIII secolo, dal 1282 era tornato a Bologna per restarvi almeno fino al 1294 (Squadrati, pp. 202-205), in un periodo cioè coincidente con uno dei soggiorni danteschi nella città della Garisenda.","III, 1, p. 171",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Liber_de_anima_seu_sextus_de_naturalibus,Liber de anima seu sextus de naturalibus,Avicenna,http://dbpedia.org/resource/Avicenna,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
IN QUANTO ESSO È IN ALTRA PARTE ALLUMINATA RIPERCUSSO,"in quanto viene riflesso (ripercusso"") da un altro oggetto già illuminato'. In Avicenna è effettivamente presente la distinzione tra <i>lux</i>, <i>radius</i> e <i>splendor</i>, ma il significato dei termini solo in parte corrisponde a quello fornito da Dante (cfr. <i>Liber de anima seu sextus de naturalibus</i> III, 1, p. 171). Un' enciclpedia assai diffusa come <i>Speculum Naturale</i> di Vincenzo di Beauvais contiene la medesima distinzione espressa in termini più vicini a quelli del <i>Convivio</i> (""Lux est in propria natura.... Radius exitus luminis secundum lineam rectam ... <i>splendor</i> est ipsa luminis reflexio a reflexione radiorum procedens"". Cit. in Gilson² 2000, p. 57, n. 34). Ma la fonte diretta di Dante, anche per quanto riguarda il riferimento ad Avicenna, sembra poter essere il <i>Tractatus de luce</i> del francescano Bartolomeo da Bologna. : ""Notandum quod sicut ... traditur ... ab Avicenna in 6 De Naturalibus, refert inter lucem, radium et splendorem. Lux enim nominat naturam lucis consideratam ut existentem in fonte suo, id est in ipso corpore lucidi. Radius autem dicit generationem similitudinis ... illius fontalis lucis... secundum diametralem processum factam in medio ... Splendor autem dicitur secundum quod radii procedentes a corpore lucido perveniunt ad aliud corpus tersum et politum et lucidum ... et repercutiuntur a corpore illo retrorsum "" (I, 1, ed. Squadrani, pp. 231-2). A cominciare all'uso dell'aggettivo ""fontale"", le corrispondenze sono effettivamente notevoli. Bartolomeo, maestro di teologia a Parigi negli anni settanta del XIII secolo, dal 1282 era tornato a Bologna per restarvi almeno fino al 1294 (Squadrati, pp. 202-205), in un periodo cioè coincidente con uno dei soggiorni danteschi nella città della Garisenda.","Lux est in propria natura.... Radius exitus luminis secundum lineam rectam ... splendor est ipsa luminis reflexio a reflexione radiorum procedens. Cit. in Gilson² 2000, p. 57, n. 34",CONCORDANZA STRINGENTE,http://it.dbpedia.org/resource/Speculum_Naturale,Speculum Naturale,Vincenzo di Beauvais,http://dbpedia.org/resource/Vincent_of_Beauvais,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
IN QUANTO ESSO È IN ALTRA PARTE ALLUMINATA RIPERCUSSO,"in quanto viene riflesso (ripercusso"") da un altro oggetto già illuminato'. In Avicenna è effettivamente presente la distinzione tra <i>lux</i>, <i>radius</i> e <i>splendor</i>, ma il significato dei termini solo in parte corrisponde a quello fornito da Dante (cfr. <i>Liber de anima seu sextus de naturalibus</i> III, 1, p. 171). Un' enciclpedia assai diffusa come <i>Speculum Naturale</i> di Vincenzo di Beauvais contiene la medesima distinzione espressa in termini più vicini a quelli del <i>Convivio</i> (""Lux est in propria natura.... Radius exitus luminis secundum lineam rectam ... <i>splendor</i> est ipsa luminis reflexio a reflexione radiorum procedens"". Cit. in Gilson² 2000, p. 57, n. 34). Ma la fonte diretta di Dante, anche per quanto riguarda il riferimento ad Avicenna, sembra poter essere il <i>Tractatus de luce</i> del francescano Bartolomeo da Bologna. : ""Notandum quod sicut ... traditur ... ab Avicenna in 6 De Naturalibus, refert inter lucem, radium et splendorem. Lux enim nominat naturam lucis consideratam ut existentem in fonte suo, id est in ipso corpore lucidi. Radius autem dicit generationem similitudinis ... illius fontalis lucis... secundum diametralem processum factam in medio ... Splendor autem dicitur secundum quod radii procedentes a corpore lucido perveniunt ad aliud corpus tersum et politum et lucidum ... et repercutiuntur a corpore illo retrorsum "" (I, 1, ed. Squadrani, pp. 231-2). A cominciare all'uso dell'aggettivo ""fontale"", le corrispondenze sono effettivamente notevoli. Bartolomeo, maestro di teologia a Parigi negli anni settanta del XIII secolo, dal 1282 era tornato a Bologna per restarvi almeno fino al 1294 (Squadrati, pp. 202-205), in un periodo cioè coincidente con uno dei soggiorni danteschi nella città della Garisenda.","Notandum quod sicut ... traditur ... ab Avicenna in 6 De Naturalibus, refert inter lucem, radium et splendorem. Lux enim nominat naturam lucis consideratam ut existentem in fonte suo, id est in ipso corpore lucidi. Radius autem dicit generationem similitudinis ... illius fontalis lucis... secundum diametralem processum factam in medio ... Splendor autem dicitur secundum quod radii procedentes a corpore lucido perveniunt ad aliud corpus tersum et politum et lucidum ... et repercutiuntur a corpore illo retrorsum  (I, 1, ed. Squadrani, pp. 231-2)",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Tractatus_de_luce(Bartolomeo_da_Bologna),Tractatus de luce,Bartolomeo da Bologna,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Bartolomeo_da_Bologna,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
OND'È SCRITTO DI LEI,"cfr. <i>Eccli</i> 24, 14 Ab initio et ante saecula creata sum et usque in futurum saeculum non desinam"".","24, 14 Ab initio et ante saecula creata sum et usque in futurum saeculum non desinam""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Sirach,Ecclesiastico,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
NELLI PROVERBI DI SALOMONE,"cfr. <i>Prv</i> 8, 23 Ab aeterno ordinata sum"".","Prv 8, 23 Ab aeterno ordinata sum",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Proverbs,Libro dei Proverbi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
"NEL PRINCIPIO DI GIOVANNI, NELL'EVANGELIO","Dante si riferisce al prologo del Vangelo di Giovanni, da sempre considerato il testo speculativo per eccellenza della Scrittura, ed alla sua affermazione di un Verbo eterno, esistente da sempre presso Dio (cfr. <i>Io</i> 1, 1). L' identificazione del Verbo con la Sapienza dell'Antico Testamento era comune nell'esegesi cristiana.","Io 1, 1",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_John,Vangelo di Giovanni,Giovanni,http://dbpedia.org/resource/John_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
ZENO,"sia Zenone di Elea (il discepolo di Parmenide) che Zenone di Cizico (il padre dello stoicismo) erano visti dalla dossografia antica come modelli di disprezzo della vita e di amore della sapienza. Nell'elenco dei pensatori perseguitati che la Filosofia presenta a Boezio e che comprende anche Socrate e Seneca, Zenone è senza alcun dubbio Zenone di Elea (cfr. <i>De consolatione philosophiae</i> I, prosa 3, 9,  p. 10), ma la tradizione medievale aveva spesso confuso i due personaggi. Per quanto riguarda Aristotele e il suo rapporto con Platone Dante ha sicuramente presente il testo di <i>Eth. Nic</i>. I  6, 1096 a 14-17 (Videbitur ... oportere et pro salute veritatis et familiaria destruere. Ambobus enim existentibus amicis, sanctum prehonorare veritatem"" <i>Translatio Grosseteste. Textus Purus</i>, p. 146, ll. 14-16) un brano che non fa espressamente il nome di Platone, ma comunque prelude alla critica della dottrina platonica del bene (il testo verrà citato esplicitamente in <i>Cv</i> IV viii 15). Che Platone fosse discendente per parte di padre del mitico re di Atene Codro era notizia presente nel <i>De  dogmate Platonis</i> di Apuleio (I 1, p. 82), una fonte da cui i medievali traevano buona parte della loro conoscenza di Platone. Il testo del <i>Convivio</i> sembra presupporre che Platone abbia abdicato ad un diritto politicamente ancora esigibile; per questo si è pensato ad un rapporto con il <i>Liber philosophorum moralium antiquorum</i>,  testo dossografico di origine araba tradotto in latino alla fine del XIII secolo da una precedente traduzione spagnola, dove si narra come Platone abbia rifiutato la direzione politica (<i>dominatio</i>) della città offertagli dagli Ateniesi (vedi Nardi 1944 pp. 79-80). Ma, come ha giustamente notato Paul Renucci (vedi Renucci 1954, p. 166, nota 460) nella versione latina del <i>Liber</i> non solo non si parla di <i>regnum</i> né di diritti regali di Platone, ma il rifiuto stesso ha motivi politici e non filosofici (""Atheniensibus ipsum invitantibus ad dominationem sui, dominari noluit quia reperit mores eorum male ordinatos"". Cfr. Franceschini 1932, p. 462). Quanto a Democrito, la notizia relativa alla sua trascuratezza potrebbe derivare da una cattiva interpretazione dei vv. 295-8 dell' <i>Ars poetica</i> di Orazio (""Ingenium misera quia fortunatius arte / credit et excludit sanos Helicone poetas / Democritus, bona pars non unguis ponere curat / non barbam ...""). Sarebbe stato messo sul conto di Democrito il comportamento di alcuni poeti contemporanei di Orazio che, volendo recitare la parte del vate ispirato da una divina follia (teoria effettivamente democritea), derogavano anche alle più elementari regole igieniche.","I, prosa 3, 9,  p. 10",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
ZENO,"sia Zenone di Elea (il discepolo di Parmenide) che Zenone di Cizico (il padre dello stoicismo) erano visti dalla dossografia antica come modelli di disprezzo della vita e di amore della sapienza. Nell'elenco dei pensatori perseguitati che la Filosofia presenta a Boezio e che comprende anche Socrate e Seneca, Zenone è senza alcun dubbio Zenone di Elea (cfr. <i>De consolatione philosophiae</i> I, prosa 3, 9,  p. 10), ma la tradizione medievale aveva spesso confuso i due personaggi. Per quanto riguarda Aristotele e il suo rapporto con Platone Dante ha sicuramente presente il testo di <i>Eth. Nic</i>. I  6, 1096 a 14-17 (Videbitur ... oportere et pro salute veritatis et familiaria destruere. Ambobus enim existentibus amicis, sanctum prehonorare veritatem"" <i>Translatio Grosseteste. Textus Purus</i>, p. 146, ll. 14-16) un brano che non fa espressamente il nome di Platone, ma comunque prelude alla critica della dottrina platonica del bene (il testo verrà citato esplicitamente in <i>Cv</i> IV viii 15). Che Platone fosse discendente per parte di padre del mitico re di Atene Codro era notizia presente nel <i>De  dogmate Platonis</i> di Apuleio (I 1, p. 82), una fonte da cui i medievali traevano buona parte della loro conoscenza di Platone. Il testo del <i>Convivio</i> sembra presupporre che Platone abbia abdicato ad un diritto politicamente ancora esigibile; per questo si è pensato ad un rapporto con il <i>Liber philosophorum moralium antiquorum</i>,  testo dossografico di origine araba tradotto in latino alla fine del XIII secolo da una precedente traduzione spagnola, dove si narra come Platone abbia rifiutato la direzione politica (<i>dominatio</i>) della città offertagli dagli Ateniesi (vedi Nardi 1944 pp. 79-80). Ma, come ha giustamente notato Paul Renucci (vedi Renucci 1954, p. 166, nota 460) nella versione latina del <i>Liber</i> non solo non si parla di <i>regnum</i> né di diritti regali di Platone, ma il rifiuto stesso ha motivi politici e non filosofici (""Atheniensibus ipsum invitantibus ad dominationem sui, dominari noluit quia reperit mores eorum male ordinatos"". Cfr. Franceschini 1932, p. 462). Quanto a Democrito, la notizia relativa alla sua trascuratezza potrebbe derivare da una cattiva interpretazione dei vv. 295-8 dell' <i>Ars poetica</i> di Orazio (""Ingenium misera quia fortunatius arte / credit et excludit sanos Helicone poetas / Democritus, bona pars non unguis ponere curat / non barbam ...""). Sarebbe stato messo sul conto di Democrito il comportamento di alcuni poeti contemporanei di Orazio che, volendo recitare la parte del vate ispirato da una divina follia (teoria effettivamente democritea), derogavano anche alle più elementari regole igieniche.","I  6, 1096 a 14-17 (Videbitur ... oportere et pro salute veritatis et familiaria destruere. Ambobus enim existentibus amicis, sanctum prehonorare veritatem"" Translatio Grosseteste. Textus Purus, p. 146, ll. 14-16""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
ZENO,"sia Zenone di Elea (il discepolo di Parmenide) che Zenone di Cizico (il padre dello stoicismo) erano visti dalla dossografia antica come modelli di disprezzo della vita e di amore della sapienza. Nell'elenco dei pensatori perseguitati che la Filosofia presenta a Boezio e che comprende anche Socrate e Seneca, Zenone è senza alcun dubbio Zenone di Elea (cfr. <i>De consolatione philosophiae</i> I, prosa 3, 9,  p. 10), ma la tradizione medievale aveva spesso confuso i due personaggi. Per quanto riguarda Aristotele e il suo rapporto con Platone Dante ha sicuramente presente il testo di <i>Eth. Nic</i>. I  6, 1096 a 14-17 (Videbitur ... oportere et pro salute veritatis et familiaria destruere. Ambobus enim existentibus amicis, sanctum prehonorare veritatem"" <i>Translatio Grosseteste. Textus Purus</i>, p. 146, ll. 14-16) un brano che non fa espressamente il nome di Platone, ma comunque prelude alla critica della dottrina platonica del bene (il testo verrà citato esplicitamente in <i>Cv</i> IV viii 15). Che Platone fosse discendente per parte di padre del mitico re di Atene Codro era notizia presente nel <i>De  dogmate Platonis</i> di Apuleio (I 1, p. 82), una fonte da cui i medievali traevano buona parte della loro conoscenza di Platone. Il testo del <i>Convivio</i> sembra presupporre che Platone abbia abdicato ad un diritto politicamente ancora esigibile; per questo si è pensato ad un rapporto con il <i>Liber philosophorum moralium antiquorum</i>,  testo dossografico di origine araba tradotto in latino alla fine del XIII secolo da una precedente traduzione spagnola, dove si narra come Platone abbia rifiutato la direzione politica (<i>dominatio</i>) della città offertagli dagli Ateniesi (vedi Nardi 1944 pp. 79-80). Ma, come ha giustamente notato Paul Renucci (vedi Renucci 1954, p. 166, nota 460) nella versione latina del <i>Liber</i> non solo non si parla di <i>regnum</i> né di diritti regali di Platone, ma il rifiuto stesso ha motivi politici e non filosofici (""Atheniensibus ipsum invitantibus ad dominationem sui, dominari noluit quia reperit mores eorum male ordinatos"". Cfr. Franceschini 1932, p. 462). Quanto a Democrito, la notizia relativa alla sua trascuratezza potrebbe derivare da una cattiva interpretazione dei vv. 295-8 dell' <i>Ars poetica</i> di Orazio (""Ingenium misera quia fortunatius arte / credit et excludit sanos Helicone poetas / Democritus, bona pars non unguis ponere curat / non barbam ...""). Sarebbe stato messo sul conto di Democrito il comportamento di alcuni poeti contemporanei di Orazio che, volendo recitare la parte del vate ispirato da una divina follia (teoria effettivamente democritea), derogavano anche alle più elementari regole igieniche.","I 1, p. 82",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_dogmate_Platonis(Apuleio),De dogmate Platonis,Apuleio,http://dbpedia.org/resource/Apuleius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
ZENO,"sia Zenone di Elea (il discepolo di Parmenide) che Zenone di Cizico (il padre dello stoicismo) erano visti dalla dossografia antica come modelli di disprezzo della vita e di amore della sapienza. Nell'elenco dei pensatori perseguitati che la Filosofia presenta a Boezio e che comprende anche Socrate e Seneca, Zenone è senza alcun dubbio Zenone di Elea (cfr. <i>De consolatione philosophiae</i> I, prosa 3, 9,  p. 10), ma la tradizione medievale aveva spesso confuso i due personaggi. Per quanto riguarda Aristotele e il suo rapporto con Platone Dante ha sicuramente presente il testo di <i>Eth. Nic</i>. I  6, 1096 a 14-17 (Videbitur ... oportere et pro salute veritatis et familiaria destruere. Ambobus enim existentibus amicis, sanctum prehonorare veritatem"" <i>Translatio Grosseteste. Textus Purus</i>, p. 146, ll. 14-16) un brano che non fa espressamente il nome di Platone, ma comunque prelude alla critica della dottrina platonica del bene (il testo verrà citato esplicitamente in <i>Cv</i> IV viii 15). Che Platone fosse discendente per parte di padre del mitico re di Atene Codro era notizia presente nel <i>De  dogmate Platonis</i> di Apuleio (I 1, p. 82), una fonte da cui i medievali traevano buona parte della loro conoscenza di Platone. Il testo del <i>Convivio</i> sembra presupporre che Platone abbia abdicato ad un diritto politicamente ancora esigibile; per questo si è pensato ad un rapporto con il <i>Liber philosophorum moralium antiquorum</i>,  testo dossografico di origine araba tradotto in latino alla fine del XIII secolo da una precedente traduzione spagnola, dove si narra come Platone abbia rifiutato la direzione politica (<i>dominatio</i>) della città offertagli dagli Ateniesi (vedi Nardi 1944 pp. 79-80). Ma, come ha giustamente notato Paul Renucci (vedi Renucci 1954, p. 166, nota 460) nella versione latina del <i>Liber</i> non solo non si parla di <i>regnum</i> né di diritti regali di Platone, ma il rifiuto stesso ha motivi politici e non filosofici (""Atheniensibus ipsum invitantibus ad dominationem sui, dominari noluit quia reperit mores eorum male ordinatos"". Cfr. Franceschini 1932, p. 462). Quanto a Democrito, la notizia relativa alla sua trascuratezza potrebbe derivare da una cattiva interpretazione dei vv. 295-8 dell' <i>Ars poetica</i> di Orazio (""Ingenium misera quia fortunatius arte / credit et excludit sanos Helicone poetas / Democritus, bona pars non unguis ponere curat / non barbam ...""). Sarebbe stato messo sul conto di Democrito il comportamento di alcuni poeti contemporanei di Orazio che, volendo recitare la parte del vate ispirato da una divina follia (teoria effettivamente democritea), derogavano anche alle più elementari regole igieniche.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Liber_philosophorum_moralium_antiquorum,Liber philosophorum moralium antiquorum,Giovanni da Procida,http://dbpedia.org/resource/John_of_Procida,http://purl.org/bncf/tid/762,WORK
ZENO,"sia Zenone di Elea (il discepolo di Parmenide) che Zenone di Cizico (il padre dello stoicismo) erano visti dalla dossografia antica come modelli di disprezzo della vita e di amore della sapienza. Nell'elenco dei pensatori perseguitati che la Filosofia presenta a Boezio e che comprende anche Socrate e Seneca, Zenone è senza alcun dubbio Zenone di Elea (cfr. <i>De consolatione philosophiae</i> I, prosa 3, 9,  p. 10), ma la tradizione medievale aveva spesso confuso i due personaggi. Per quanto riguarda Aristotele e il suo rapporto con Platone Dante ha sicuramente presente il testo di <i>Eth. Nic</i>. I  6, 1096 a 14-17 (Videbitur ... oportere et pro salute veritatis et familiaria destruere. Ambobus enim existentibus amicis, sanctum prehonorare veritatem"" <i>Translatio Grosseteste. Textus Purus</i>, p. 146, ll. 14-16) un brano che non fa espressamente il nome di Platone, ma comunque prelude alla critica della dottrina platonica del bene (il testo verrà citato esplicitamente in <i>Cv</i> IV viii 15). Che Platone fosse discendente per parte di padre del mitico re di Atene Codro era notizia presente nel <i>De  dogmate Platonis</i> di Apuleio (I 1, p. 82), una fonte da cui i medievali traevano buona parte della loro conoscenza di Platone. Il testo del <i>Convivio</i> sembra presupporre che Platone abbia abdicato ad un diritto politicamente ancora esigibile; per questo si è pensato ad un rapporto con il <i>Liber philosophorum moralium antiquorum</i>,  testo dossografico di origine araba tradotto in latino alla fine del XIII secolo da una precedente traduzione spagnola, dove si narra come Platone abbia rifiutato la direzione politica (<i>dominatio</i>) della città offertagli dagli Ateniesi (vedi Nardi 1944 pp. 79-80). Ma, come ha giustamente notato Paul Renucci (vedi Renucci 1954, p. 166, nota 460) nella versione latina del <i>Liber</i> non solo non si parla di <i>regnum</i> né di diritti regali di Platone, ma il rifiuto stesso ha motivi politici e non filosofici (""Atheniensibus ipsum invitantibus ad dominationem sui, dominari noluit quia reperit mores eorum male ordinatos"". Cfr. Franceschini 1932, p. 462). Quanto a Democrito, la notizia relativa alla sua trascuratezza potrebbe derivare da una cattiva interpretazione dei vv. 295-8 dell' <i>Ars poetica</i> di Orazio (""Ingenium misera quia fortunatius arte / credit et excludit sanos Helicone poetas / Democritus, bona pars non unguis ponere curat / non barbam ...""). Sarebbe stato messo sul conto di Democrito il comportamento di alcuni poeti contemporanei di Orazio che, volendo recitare la parte del vate ispirato da una divina follia (teoria effettivamente democritea), derogavano anche alle più elementari regole igieniche.","vv. 295-8 dell' Ars poetica di Orazio (""Ingenium misera quia fortunatius arte / credit et excludit sanos Helicone poetas / Democritus, bona pars non unguis ponere curat / non barbam ..."")""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Ars_Poetica,Ars poetica,Orazio,http://dbpedia.org/resource/Horace,http://purl.org/bncf/tid/4567,WORK
E LO FILOSOFO DICE ... NON PER ALTRUI,"in realtà la definizione di libero come ciò che è fine a se stesso e non in funzione di altro si trova in <i>Metaph</i>. I 2, 982 b 25-26: per sua cagione è, non per altrui"" è infatti un calco della traduzione latina ""qui suimet et non alterius causa est"" (lo stesso testo verrà citato in <i>Mn</i> I xii 8. Nel linguaggio giuridico dei tempi di Dante, chi non è libero è appunto ""homo alterius""). Si è discusso tra i commentatori su quali siano le altre anime: esse non possono comunque essere quelle delle piante e degli animali. L'anima vegetativa nelle piante e l'anima sensitiva negli animali, infatti, non sono serve di niente. Se invece le si intende come facoltà vegetativa e sensitiva umane il passo del <i>Convivio</i> può essere messo in relazione con un'interpretazione di Aristotele che le vede esistere solo in funzione d'altro, cioè della facoltà razionale (cfr. Boezio di Dacia, <i>De summo bono</i>, p. 373, 120-22 ""Omnes virtutes inferiores quae sunt in homine naturaliter sunt propter virtutem supremam ... quae est intellectus""). Questo è proprio ciò che verrà detto in <i>Cv</i> III xv 4; ""la nobile anima d'ingegno"" indicherebbe dunque l'uomo che vive secondo ragione (e per questo è libero); nel richiamo alla ancillarità delle altre facoltà (fatto in sé naturale) potrebbe nascondersi un accenno alla servitù innaturale dell'uomo che ad esse subordina l'attività razionale. Ma è possibile anche una interpretazione molto più semplice per cui le ""altre anime"" sarebbero le anime umane non nobili.","I 2, 982 b 25-26",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
E LO FILOSOFO DICE ... NON PER ALTRUI,"in realtà la definizione di libero come ciò che è fine a se stesso e non in funzione di altro si trova in <i>Metaph</i>. I 2, 982 b 25-26: per sua cagione è, non per altrui"" è infatti un calco della traduzione latina ""qui suimet et non alterius causa est"" (lo stesso testo verrà citato in <i>Mn</i> I xii 8. Nel linguaggio giuridico dei tempi di Dante, chi non è libero è appunto ""homo alterius""). Si è discusso tra i commentatori su quali siano le altre anime: esse non possono comunque essere quelle delle piante e degli animali. L'anima vegetativa nelle piante e l'anima sensitiva negli animali, infatti, non sono serve di niente. Se invece le si intende come facoltà vegetativa e sensitiva umane il passo del <i>Convivio</i> può essere messo in relazione con un'interpretazione di Aristotele che le vede esistere solo in funzione d'altro, cioè della facoltà razionale (cfr. Boezio di Dacia, <i>De summo bono</i>, p. 373, 120-22 ""Omnes virtutes inferiores quae sunt in homine naturaliter sunt propter virtutem supremam ... quae est intellectus""). Questo è proprio ciò che verrà detto in <i>Cv</i> III xv 4; ""la nobile anima d'ingegno"" indicherebbe dunque l'uomo che vive secondo ragione (e per questo è libero); nel richiamo alla ancillarità delle altre facoltà (fatto in sé naturale) potrebbe nascondersi un accenno alla servitù innaturale dell'uomo che ad esse subordina l'attività razionale. Ma è possibile anche una interpretazione molto più semplice per cui le ""altre anime"" sarebbero le anime umane non nobili.","p. 373, 120-22 ""Omnes virtutes inferiores quae sunt in homine naturaliter sunt propter virtutem supremam ... quae est intellectus""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_summo_bono,De summo bono,Boezio di Dacia,http://dbpedia.org/resource/Boetius_of_Dacia,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
"ONDE, SÌ COME PER LEI ...","nell'ambito della filosofia vedere mediante una spiegazione razionale (per ragione"") significa, nel caso di molte realtà naturali (""molto di quello"") che per i non filosofi sembrano inspiegabili e miracolose (""che sanza lei par maraviglia""), sostituire alla meraviglia che inizialmente suscitano (e che è proprio lo stimolo iniziale al filosofare) una considerazione delle cause che le producono e che quindi (""per consequente"": calco dal latino filosofico universitario 'per consequens') le rendono possibili Proprio per questo la filosofia ci porta anche a credere che ciò che sfugge alla ragione umana (""ogni miracolo"") non è impossibile in assoluto, ma può trovare la sua causa (""ragione"") in una mente più alta della nostra; in questo modo essa fonda la possibilità e la ragionevolezza delle virtù soprannaturali. In primo luogo della fede dalla quale deriva (""segue"") la speranza, che è appunto il desiderare di possedere ciò che la fede ha antiveduto (""il proveduto""), mentre dal desiderio della speranza ha origine un'agire ispirato dall'amore per ciò in cui si crede e in cui si spera (""l'operazione della carità""). Il pensiero di Dante risulta in questi paragrafi particolarmente complesso: una Filosofia che sembra coincidere con la totalità della conoscenza, ce ne manifesta solo una parte e ci spinge a desiderare e a possedere ciò che contemporaneamente ci nasconde. I termini di questa evidente tensione possono in parte esser chiariti ricordando ancora una volta che esistono per il Dante del <i>Convivio</i> una filosofia divina, che coincide con la Sapienza e con il Verbo-verità, ed una filosofia umana che a questa Sapienza aspira senza poterla raggiungere compiutamente. Essa però può fondare la possibilità dell'esistenza di ciò che la trascende e far sì che 'ubi deficit ratio, ibi suppleat fides', e questo ragionevolmente. Ma a loro volta le virtù teologali non sono fine a se stesse, ma mezzo per ascendere alla città celeste (""per le quali virtudi si sale a quelle Atene celestiali"") dove si filosoferà sì, ma di una filosofia finalmente divina. In patria le diverse scuole filosofiche (Stoici, Peripatetici ed Epicurei) illuminate dalla verità eterna del Verbo, nel possesso della Sapienza trovano la concordia (""in uno volere concordemente concorrono"") abbandonate le differenze terrene (vale la pena ricordare che, proprio all'inizio del <i>De consolatione</i> di Boezio la veste lacerata indossata da Filosofia è simbolo delle controversie, qui sulla terra, tra le varie scuole. Cfr. I, prosa 3, 7-8, p. 10). Nel sostenere che attraverso la filosofia si pensa la possibilità di ciò che trascende le nostre capacità conoscitive, e quindi si apre uno spazio alla fede, Dante è vicino alle posizioni di alcuni maestri parigini, come Boezio di Dacia: nel <i>De aeternitate mundi</i> (p. 353, ll. 478-80) a proposito della creazione nel tempo, infatti egli sostiene che la filosofia non può dimostrarla, ma solo affermare che essa ""possibile est per causam cuius virtus est maior quam sit virtus causae naturalis"" (""per lei si crede ogni miracolo in più alto intelletto poter avere ragione"") Ancora in Boezio di Dacia, questa volta nel <i>De summo bono</i> (p. 372) si trova un accenno ad una possibile relazione tra la felicità che si acquista in questa vita attraverso la speculazione e la felicità che si spera possedere in patria nella visione di Dio ""qui enim perfectior est in beatitudine quam in hac vita homini possibilem esse per rationem scimus, ipse propinquior est beatitudini quam in vita futura per fidem expectamus"". Del resto già un testo autorevole come la <i>Metaphysica</i> di Al-Ghazzali dopo aver definito il risultato della contemplazione filosofica come ""descripcio universi esse in animabus nostris"" aveva detto che essa ""est summa nobilitas in presenti, et causa felicitatis in futuro"". (Ed. Muckle, p. 2). Mi pare particolarmente interessante che alcuni maestri parigini della prima metà del 200 avessero interpretato la 'felicitas in futuro' come 'felicitas vitae aeternae' ed avessero sostituto al termine ""causa"" quello più cristiano di ""spes"". Peraltro l'intreccio e la tensione tra filosofia in terra e filosofia in cielo, con la loro composizione in una città celeste che non è più Gerusalemme, ma Atene sono una novità assoluta di Dante. Per la cultura medievale, infatti, Atene incarna sì la città filosofica per eccellenza, ma essa è vista non come una meta futura, bensì come un mito del passato (vedi ad esempio le <i>Etymologiae</i> di Isidoro di Siviglia, XIV iv 10, vol. II, p. 123 ""Graecia, ubi fuit Athenae civitas ... philosophorum nutrix, qua nihil habuit Graecia clarius atque nobilius""). Improbabile mi sembra l'identificazione dell'Atene celeste con il 'nobile castello' del Limbo sostenuta da <i>Cheneval</i> nel suo commento. I filosofi che vi sono ospitati (ma che non ne sono gli esclusivi abitanti) non sono affatto giunti a cogliere quella verità eterna che li renderebbe concordi. Come ha giustamente notato Stephen Bemrose (Bemrose 1980, p. 13) sia Aristotele che Platone che molti altri filosofi non cristiani continueranno invano a desiderarla con quel desiderio che ""etternalmente è dato lor per lutto"" (cfr. <i>Pg</i> III 42 e Forster 1977, p. 190 sgg.). E del resto tutti gli abitanti del Limbo ""sanza speme vivono in disio"" (cfr. <i>If</i>. IV 41). Neppure mi sembra che fare dell'Atene celestiale un ""segno"" del Paradiso implichi che i grandi filosofi del passato possano così fruire della visione beatifica (il che andrebbe effettivamente contro tutto quello che Dante dice in proposito altrove, non solo nella <i>Commedia</i>, ma anche nel <i>Monarchia</i>): si parla qui di dottrine e del loro inveramento, non di uomini. Certo, queste ""Atene celestiali"" sono un paradiso così come creduto, sperato ed amato dalla filosofia giunta ad un punto di tensione che è anche il massimo delle sue possibilità. Egualmente fede, speranza e carità sono viste non nel loro contenuto specificamente teologico, ma dall'angolatura della loro possibilità filosofica. Di qui però a negar loro ogni caratterizzazione cristiana, come fa il commento <i>Cheneval</i>, il passo è davvero troppo lungo: in fondo anche Agostino, nei <i>Soliloquia</i> aveva parlato di queste virtù per quanto sono strumenti di cui la stessa ricerca razionale non può fare a meno. Vedi Fioravanti 2007.","p. 353, ll. 478-80",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_aeternitate_mundi,De aeternitate mundi,Boezio di Dacia,http://dbpedia.org/resource/Boetius_of_Dacia,_EMPTY,WORK
"ONDE, SÌ COME PER LEI ...","nell'ambito della filosofia vedere mediante una spiegazione razionale (per ragione"") significa, nel caso di molte realtà naturali (""molto di quello"") che per i non filosofi sembrano inspiegabili e miracolose (""che sanza lei par maraviglia""), sostituire alla meraviglia che inizialmente suscitano (e che è proprio lo stimolo iniziale al filosofare) una considerazione delle cause che le producono e che quindi (""per consequente"": calco dal latino filosofico universitario 'per consequens') le rendono possibili Proprio per questo la filosofia ci porta anche a credere che ciò che sfugge alla ragione umana (""ogni miracolo"") non è impossibile in assoluto, ma può trovare la sua causa (""ragione"") in una mente più alta della nostra; in questo modo essa fonda la possibilità e la ragionevolezza delle virtù soprannaturali. In primo luogo della fede dalla quale deriva (""segue"") la speranza, che è appunto il desiderare di possedere ciò che la fede ha antiveduto (""il proveduto""), mentre dal desiderio della speranza ha origine un'agire ispirato dall'amore per ciò in cui si crede e in cui si spera (""l'operazione della carità""). Il pensiero di Dante risulta in questi paragrafi particolarmente complesso: una Filosofia che sembra coincidere con la totalità della conoscenza, ce ne manifesta solo una parte e ci spinge a desiderare e a possedere ciò che contemporaneamente ci nasconde. I termini di questa evidente tensione possono in parte esser chiariti ricordando ancora una volta che esistono per il Dante del <i>Convivio</i> una filosofia divina, che coincide con la Sapienza e con il Verbo-verità, ed una filosofia umana che a questa Sapienza aspira senza poterla raggiungere compiutamente. Essa però può fondare la possibilità dell'esistenza di ciò che la trascende e far sì che 'ubi deficit ratio, ibi suppleat fides', e questo ragionevolmente. Ma a loro volta le virtù teologali non sono fine a se stesse, ma mezzo per ascendere alla città celeste (""per le quali virtudi si sale a quelle Atene celestiali"") dove si filosoferà sì, ma di una filosofia finalmente divina. In patria le diverse scuole filosofiche (Stoici, Peripatetici ed Epicurei) illuminate dalla verità eterna del Verbo, nel possesso della Sapienza trovano la concordia (""in uno volere concordemente concorrono"") abbandonate le differenze terrene (vale la pena ricordare che, proprio all'inizio del <i>De consolatione</i> di Boezio la veste lacerata indossata da Filosofia è simbolo delle controversie, qui sulla terra, tra le varie scuole. Cfr. I, prosa 3, 7-8, p. 10). Nel sostenere che attraverso la filosofia si pensa la possibilità di ciò che trascende le nostre capacità conoscitive, e quindi si apre uno spazio alla fede, Dante è vicino alle posizioni di alcuni maestri parigini, come Boezio di Dacia: nel <i>De aeternitate mundi</i> (p. 353, ll. 478-80) a proposito della creazione nel tempo, infatti egli sostiene che la filosofia non può dimostrarla, ma solo affermare che essa ""possibile est per causam cuius virtus est maior quam sit virtus causae naturalis"" (""per lei si crede ogni miracolo in più alto intelletto poter avere ragione"") Ancora in Boezio di Dacia, questa volta nel <i>De summo bono</i> (p. 372) si trova un accenno ad una possibile relazione tra la felicità che si acquista in questa vita attraverso la speculazione e la felicità che si spera possedere in patria nella visione di Dio ""qui enim perfectior est in beatitudine quam in hac vita homini possibilem esse per rationem scimus, ipse propinquior est beatitudini quam in vita futura per fidem expectamus"". Del resto già un testo autorevole come la <i>Metaphysica</i> di Al-Ghazzali dopo aver definito il risultato della contemplazione filosofica come ""descripcio universi esse in animabus nostris"" aveva detto che essa ""est summa nobilitas in presenti, et causa felicitatis in futuro"". (Ed. Muckle, p. 2). Mi pare particolarmente interessante che alcuni maestri parigini della prima metà del 200 avessero interpretato la 'felicitas in futuro' come 'felicitas vitae aeternae' ed avessero sostituto al termine ""causa"" quello più cristiano di ""spes"". Peraltro l'intreccio e la tensione tra filosofia in terra e filosofia in cielo, con la loro composizione in una città celeste che non è più Gerusalemme, ma Atene sono una novità assoluta di Dante. Per la cultura medievale, infatti, Atene incarna sì la città filosofica per eccellenza, ma essa è vista non come una meta futura, bensì come un mito del passato (vedi ad esempio le <i>Etymologiae</i> di Isidoro di Siviglia, XIV iv 10, vol. II, p. 123 ""Graecia, ubi fuit Athenae civitas ... philosophorum nutrix, qua nihil habuit Graecia clarius atque nobilius""). Improbabile mi sembra l'identificazione dell'Atene celeste con il 'nobile castello' del Limbo sostenuta da <i>Cheneval</i> nel suo commento. I filosofi che vi sono ospitati (ma che non ne sono gli esclusivi abitanti) non sono affatto giunti a cogliere quella verità eterna che li renderebbe concordi. Come ha giustamente notato Stephen Bemrose (Bemrose 1980, p. 13) sia Aristotele che Platone che molti altri filosofi non cristiani continueranno invano a desiderarla con quel desiderio che ""etternalmente è dato lor per lutto"" (cfr. <i>Pg</i> III 42 e Forster 1977, p. 190 sgg.). E del resto tutti gli abitanti del Limbo ""sanza speme vivono in disio"" (cfr. <i>If</i>. IV 41). Neppure mi sembra che fare dell'Atene celestiale un ""segno"" del Paradiso implichi che i grandi filosofi del passato possano così fruire della visione beatifica (il che andrebbe effettivamente contro tutto quello che Dante dice in proposito altrove, non solo nella <i>Commedia</i>, ma anche nel <i>Monarchia</i>): si parla qui di dottrine e del loro inveramento, non di uomini. Certo, queste ""Atene celestiali"" sono un paradiso così come creduto, sperato ed amato dalla filosofia giunta ad un punto di tensione che è anche il massimo delle sue possibilità. Egualmente fede, speranza e carità sono viste non nel loro contenuto specificamente teologico, ma dall'angolatura della loro possibilità filosofica. Di qui però a negar loro ogni caratterizzazione cristiana, come fa il commento <i>Cheneval</i>, il passo è davvero troppo lungo: in fondo anche Agostino, nei <i>Soliloquia</i> aveva parlato di queste virtù per quanto sono strumenti di cui la stessa ricerca razionale non può fare a meno. Vedi Fioravanti 2007.","p. 372 ""qui enim perfectior est in beatitudine quam in hac vita homini possibilem esse per rationem scimus, ipse propinquior est beatitudini quam in vita futura per fidem expectamus""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_summo_bono,De summo bono,Boezio di Dacia,http://dbpedia.org/resource/Boetius_of_Dacia,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
"ONDE, SÌ COME PER LEI ...","nell'ambito della filosofia vedere mediante una spiegazione razionale (per ragione"") significa, nel caso di molte realtà naturali (""molto di quello"") che per i non filosofi sembrano inspiegabili e miracolose (""che sanza lei par maraviglia""), sostituire alla meraviglia che inizialmente suscitano (e che è proprio lo stimolo iniziale al filosofare) una considerazione delle cause che le producono e che quindi (""per consequente"": calco dal latino filosofico universitario 'per consequens') le rendono possibili Proprio per questo la filosofia ci porta anche a credere che ciò che sfugge alla ragione umana (""ogni miracolo"") non è impossibile in assoluto, ma può trovare la sua causa (""ragione"") in una mente più alta della nostra; in questo modo essa fonda la possibilità e la ragionevolezza delle virtù soprannaturali. In primo luogo della fede dalla quale deriva (""segue"") la speranza, che è appunto il desiderare di possedere ciò che la fede ha antiveduto (""il proveduto""), mentre dal desiderio della speranza ha origine un'agire ispirato dall'amore per ciò in cui si crede e in cui si spera (""l'operazione della carità""). Il pensiero di Dante risulta in questi paragrafi particolarmente complesso: una Filosofia che sembra coincidere con la totalità della conoscenza, ce ne manifesta solo una parte e ci spinge a desiderare e a possedere ciò che contemporaneamente ci nasconde. I termini di questa evidente tensione possono in parte esser chiariti ricordando ancora una volta che esistono per il Dante del <i>Convivio</i> una filosofia divina, che coincide con la Sapienza e con il Verbo-verità, ed una filosofia umana che a questa Sapienza aspira senza poterla raggiungere compiutamente. Essa però può fondare la possibilità dell'esistenza di ciò che la trascende e far sì che 'ubi deficit ratio, ibi suppleat fides', e questo ragionevolmente. Ma a loro volta le virtù teologali non sono fine a se stesse, ma mezzo per ascendere alla città celeste (""per le quali virtudi si sale a quelle Atene celestiali"") dove si filosoferà sì, ma di una filosofia finalmente divina. In patria le diverse scuole filosofiche (Stoici, Peripatetici ed Epicurei) illuminate dalla verità eterna del Verbo, nel possesso della Sapienza trovano la concordia (""in uno volere concordemente concorrono"") abbandonate le differenze terrene (vale la pena ricordare che, proprio all'inizio del <i>De consolatione</i> di Boezio la veste lacerata indossata da Filosofia è simbolo delle controversie, qui sulla terra, tra le varie scuole. Cfr. I, prosa 3, 7-8, p. 10). Nel sostenere che attraverso la filosofia si pensa la possibilità di ciò che trascende le nostre capacità conoscitive, e quindi si apre uno spazio alla fede, Dante è vicino alle posizioni di alcuni maestri parigini, come Boezio di Dacia: nel <i>De aeternitate mundi</i> (p. 353, ll. 478-80) a proposito della creazione nel tempo, infatti egli sostiene che la filosofia non può dimostrarla, ma solo affermare che essa ""possibile est per causam cuius virtus est maior quam sit virtus causae naturalis"" (""per lei si crede ogni miracolo in più alto intelletto poter avere ragione"") Ancora in Boezio di Dacia, questa volta nel <i>De summo bono</i> (p. 372) si trova un accenno ad una possibile relazione tra la felicità che si acquista in questa vita attraverso la speculazione e la felicità che si spera possedere in patria nella visione di Dio ""qui enim perfectior est in beatitudine quam in hac vita homini possibilem esse per rationem scimus, ipse propinquior est beatitudini quam in vita futura per fidem expectamus"". Del resto già un testo autorevole come la <i>Metaphysica</i> di Al-Ghazzali dopo aver definito il risultato della contemplazione filosofica come ""descripcio universi esse in animabus nostris"" aveva detto che essa ""est summa nobilitas in presenti, et causa felicitatis in futuro"". (Ed. Muckle, p. 2). Mi pare particolarmente interessante che alcuni maestri parigini della prima metà del 200 avessero interpretato la 'felicitas in futuro' come 'felicitas vitae aeternae' ed avessero sostituto al termine ""causa"" quello più cristiano di ""spes"". Peraltro l'intreccio e la tensione tra filosofia in terra e filosofia in cielo, con la loro composizione in una città celeste che non è più Gerusalemme, ma Atene sono una novità assoluta di Dante. Per la cultura medievale, infatti, Atene incarna sì la città filosofica per eccellenza, ma essa è vista non come una meta futura, bensì come un mito del passato (vedi ad esempio le <i>Etymologiae</i> di Isidoro di Siviglia, XIV iv 10, vol. II, p. 123 ""Graecia, ubi fuit Athenae civitas ... philosophorum nutrix, qua nihil habuit Graecia clarius atque nobilius""). Improbabile mi sembra l'identificazione dell'Atene celeste con il 'nobile castello' del Limbo sostenuta da <i>Cheneval</i> nel suo commento. I filosofi che vi sono ospitati (ma che non ne sono gli esclusivi abitanti) non sono affatto giunti a cogliere quella verità eterna che li renderebbe concordi. Come ha giustamente notato Stephen Bemrose (Bemrose 1980, p. 13) sia Aristotele che Platone che molti altri filosofi non cristiani continueranno invano a desiderarla con quel desiderio che ""etternalmente è dato lor per lutto"" (cfr. <i>Pg</i> III 42 e Forster 1977, p. 190 sgg.). E del resto tutti gli abitanti del Limbo ""sanza speme vivono in disio"" (cfr. <i>If</i>. IV 41). Neppure mi sembra che fare dell'Atene celestiale un ""segno"" del Paradiso implichi che i grandi filosofi del passato possano così fruire della visione beatifica (il che andrebbe effettivamente contro tutto quello che Dante dice in proposito altrove, non solo nella <i>Commedia</i>, ma anche nel <i>Monarchia</i>): si parla qui di dottrine e del loro inveramento, non di uomini. Certo, queste ""Atene celestiali"" sono un paradiso così come creduto, sperato ed amato dalla filosofia giunta ad un punto di tensione che è anche il massimo delle sue possibilità. Egualmente fede, speranza e carità sono viste non nel loro contenuto specificamente teologico, ma dall'angolatura della loro possibilità filosofica. Di qui però a negar loro ogni caratterizzazione cristiana, come fa il commento <i>Cheneval</i>, il passo è davvero troppo lungo: in fondo anche Agostino, nei <i>Soliloquia</i> aveva parlato di queste virtù per quanto sono strumenti di cui la stessa ricerca razionale non può fare a meno. Vedi Fioravanti 2007.","XIV iv 10, vol. II, p. 123 ""Graecia, ubi fuit Athenae civitas ... philosophorum nutrix, qua nihil habuit Graecia clarius atque nobilius""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Etymologiae,Etymologiae,Isidoro di Siviglia,http://dbpedia.org/resource/Isidore_of_Seville,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
"ONDE, SÌ COME PER LEI ...","nell'ambito della filosofia vedere mediante una spiegazione razionale (per ragione"") significa, nel caso di molte realtà naturali (""molto di quello"") che per i non filosofi sembrano inspiegabili e miracolose (""che sanza lei par maraviglia""), sostituire alla meraviglia che inizialmente suscitano (e che è proprio lo stimolo iniziale al filosofare) una considerazione delle cause che le producono e che quindi (""per consequente"": calco dal latino filosofico universitario 'per consequens') le rendono possibili Proprio per questo la filosofia ci porta anche a credere che ciò che sfugge alla ragione umana (""ogni miracolo"") non è impossibile in assoluto, ma può trovare la sua causa (""ragione"") in una mente più alta della nostra; in questo modo essa fonda la possibilità e la ragionevolezza delle virtù soprannaturali. In primo luogo della fede dalla quale deriva (""segue"") la speranza, che è appunto il desiderare di possedere ciò che la fede ha antiveduto (""il proveduto""), mentre dal desiderio della speranza ha origine un'agire ispirato dall'amore per ciò in cui si crede e in cui si spera (""l'operazione della carità""). Il pensiero di Dante risulta in questi paragrafi particolarmente complesso: una Filosofia che sembra coincidere con la totalità della conoscenza, ce ne manifesta solo una parte e ci spinge a desiderare e a possedere ciò che contemporaneamente ci nasconde. I termini di questa evidente tensione possono in parte esser chiariti ricordando ancora una volta che esistono per il Dante del <i>Convivio</i> una filosofia divina, che coincide con la Sapienza e con il Verbo-verità, ed una filosofia umana che a questa Sapienza aspira senza poterla raggiungere compiutamente. Essa però può fondare la possibilità dell'esistenza di ciò che la trascende e far sì che 'ubi deficit ratio, ibi suppleat fides', e questo ragionevolmente. Ma a loro volta le virtù teologali non sono fine a se stesse, ma mezzo per ascendere alla città celeste (""per le quali virtudi si sale a quelle Atene celestiali"") dove si filosoferà sì, ma di una filosofia finalmente divina. In patria le diverse scuole filosofiche (Stoici, Peripatetici ed Epicurei) illuminate dalla verità eterna del Verbo, nel possesso della Sapienza trovano la concordia (""in uno volere concordemente concorrono"") abbandonate le differenze terrene (vale la pena ricordare che, proprio all'inizio del <i>De consolatione</i> di Boezio la veste lacerata indossata da Filosofia è simbolo delle controversie, qui sulla terra, tra le varie scuole. Cfr. I, prosa 3, 7-8, p. 10). Nel sostenere che attraverso la filosofia si pensa la possibilità di ciò che trascende le nostre capacità conoscitive, e quindi si apre uno spazio alla fede, Dante è vicino alle posizioni di alcuni maestri parigini, come Boezio di Dacia: nel <i>De aeternitate mundi</i> (p. 353, ll. 478-80) a proposito della creazione nel tempo, infatti egli sostiene che la filosofia non può dimostrarla, ma solo affermare che essa ""possibile est per causam cuius virtus est maior quam sit virtus causae naturalis"" (""per lei si crede ogni miracolo in più alto intelletto poter avere ragione"") Ancora in Boezio di Dacia, questa volta nel <i>De summo bono</i> (p. 372) si trova un accenno ad una possibile relazione tra la felicità che si acquista in questa vita attraverso la speculazione e la felicità che si spera possedere in patria nella visione di Dio ""qui enim perfectior est in beatitudine quam in hac vita homini possibilem esse per rationem scimus, ipse propinquior est beatitudini quam in vita futura per fidem expectamus"". Del resto già un testo autorevole come la <i>Metaphysica</i> di Al-Ghazzali dopo aver definito il risultato della contemplazione filosofica come ""descripcio universi esse in animabus nostris"" aveva detto che essa ""est summa nobilitas in presenti, et causa felicitatis in futuro"". (Ed. Muckle, p. 2). Mi pare particolarmente interessante che alcuni maestri parigini della prima metà del 200 avessero interpretato la 'felicitas in futuro' come 'felicitas vitae aeternae' ed avessero sostituto al termine ""causa"" quello più cristiano di ""spes"". Peraltro l'intreccio e la tensione tra filosofia in terra e filosofia in cielo, con la loro composizione in una città celeste che non è più Gerusalemme, ma Atene sono una novità assoluta di Dante. Per la cultura medievale, infatti, Atene incarna sì la città filosofica per eccellenza, ma essa è vista non come una meta futura, bensì come un mito del passato (vedi ad esempio le <i>Etymologiae</i> di Isidoro di Siviglia, XIV iv 10, vol. II, p. 123 ""Graecia, ubi fuit Athenae civitas ... philosophorum nutrix, qua nihil habuit Graecia clarius atque nobilius""). Improbabile mi sembra l'identificazione dell'Atene celeste con il 'nobile castello' del Limbo sostenuta da <i>Cheneval</i> nel suo commento. I filosofi che vi sono ospitati (ma che non ne sono gli esclusivi abitanti) non sono affatto giunti a cogliere quella verità eterna che li renderebbe concordi. Come ha giustamente notato Stephen Bemrose (Bemrose 1980, p. 13) sia Aristotele che Platone che molti altri filosofi non cristiani continueranno invano a desiderarla con quel desiderio che ""etternalmente è dato lor per lutto"" (cfr. <i>Pg</i> III 42 e Forster 1977, p. 190 sgg.). E del resto tutti gli abitanti del Limbo ""sanza speme vivono in disio"" (cfr. <i>If</i>. IV 41). Neppure mi sembra che fare dell'Atene celestiale un ""segno"" del Paradiso implichi che i grandi filosofi del passato possano così fruire della visione beatifica (il che andrebbe effettivamente contro tutto quello che Dante dice in proposito altrove, non solo nella <i>Commedia</i>, ma anche nel <i>Monarchia</i>): si parla qui di dottrine e del loro inveramento, non di uomini. Certo, queste ""Atene celestiali"" sono un paradiso così come creduto, sperato ed amato dalla filosofia giunta ad un punto di tensione che è anche il massimo delle sue possibilità. Egualmente fede, speranza e carità sono viste non nel loro contenuto specificamente teologico, ma dall'angolatura della loro possibilità filosofica. Di qui però a negar loro ogni caratterizzazione cristiana, come fa il commento <i>Cheneval</i>, il passo è davvero troppo lungo: in fondo anche Agostino, nei <i>Soliloquia</i> aveva parlato di queste virtù per quanto sono strumenti di cui la stessa ricerca razionale non può fare a meno. Vedi Fioravanti 2007.","Ed. Muckle, p. 2",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Metaphysics_(Al-Ghazzali),Metaphysica (Al-Ghazzali),Al-Ghazzali,http://dbpedia.org/resource/Al-Ghazali,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
LI STOICI ...,"Stoici, Epicurei e Peripatetici erano già per Alberto Magno, le tre grandi sette"" in cui si è storicamente articolata la ricerca filosofica. Ma la dossografia del domenicano tedesco è, almeno per i nostri standards, piuttosto curiosa: gli Epicurei non si identificano esclusivamente con i seguaci di Epicuro, ma incarnano la linea materialista della filosofia che comprende anche il monismo degli Eleati; gli Stoici, poi, non hanno niente a che vedere con Zenone di Cizico ed i suoi seguaci, ma comprendono Socrate, Platone e gli altri platonici; infine i Peripatetici indicano, oltre naturalmente ad Aristotele, i ""moderni"" filosofi arabi (Al Ghazzali, Avicenna, Averroè). Cfr. Santinello 1990. Nel quarto trattato del <i>Convivio</i> (IV vi 10 sgg.) Dante seguirà piuttosto la dossografia fornitagli dai dialoghi di Cicerone, che è anche alla base della storiografia filosofica moderna. Mi sembra però che in Dante i due modelli abbiano in qualche modo interagito (vedi il commento a <i>Cv</i> II viii 9 )",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Dialoghi(Cicerone),Dialoghi (Cicerone),Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,CONCEPT
DICE ADUNQUE LO TESTO ...,"Dante distingue nella Sapienza due aspetti che sono poi i due modi argomentativi della filosofia: uno in cui ci viene mostrata la verità direttamente e con assoluta certezza, l'altro che solo indirettamente la fa trasparire come luce dietro una qualche nube o un qualche velo (sotto alcuno velamento""). Nell'interpretazione allegorica il primo corrisponde agli occhi, l'organo di senso maggiormente capace di cogliere oggettivamente la realtà (cfr. <i>Metaph.</i> I 1, 980 a 21-27), il secondo al riso che, come era già stato detto in <i>Cv</i> III viii 11, è come ""uno lume apparente di fuori secondo sta dentro"", un lume che appare ""quasi come colore dietro vetro"". Il primo modo corrisponde alla dimostrazione in senso stretto, fondamento della <i>scientia</i>, che da premesse vere inferisce conclusioni necessariamente vere (cfr. Aristotele, <i>An. Post.</i> I, 2, 71 b 10). Un collegamento tra occhi della Filosofia descritti nel <i>De consolatione</i> come ""ardentes et ultra communem hominum valentiam perspicacibus"" (I, prosa 1, 1, pp. 4-5) e la conoscenza dimostrativa della verità propria dei filosofi viene fatto da una anonima <i>Laus Philosophiae</i> di ambiente universitario bolognese, peraltro posteriore a Dante. (Fioravanti 1993 p. 173). Più complesso il caso delle ""persuasioni"". Interpretarlo nel senso delle 'rationes probabiles tantum' proprie della dialettica (con riferimento ai <i>Topici</i> aristotelici ed alle <i>Summulae logicales</i> di Pietro Ispano) suscita difficoltà: non sembra infatti che nel volto della Sapienza il riso sia inferiore allo sguardo così come, nella valutazione comune, gli argomenti dialettici sono inferiori a quelli dimostrativi. Come giustamente nota il commento di <i>Cheneval</i> il termine rimanda piuttosto ai procedimenti retorici. Essi nella teorizzazione tardo medievale, a differenza di quelli dialettici, non producono una opinione su oggetti non suscettibili di dimostrazione, ma piuttosto ""fidem aggenerant sive credulitatem"". Il testo di Egidio Romano riportato dallo Cheneval nel suo commento dice chiaramente che essi non sono neutrali, ma rivolti al desiderio di chi li ascolta. Dunque, nella interpretazione allegorica del testo della canzone esiste una asimmetria tra il referente degli occhi e quello del riso. Mentre nel primo caso si tratta di quelle verità che la ragione umana può pienamente comprendere attraverso rigorose dimostrazioni, nel secondo si parla della 'luce interiore' della Sapienza, cioè della sua natura più intima, che non può essere posseduta dimostrativamente. Essa si manifesta attraverso segni (""sotto alcuno velamento"") che non dimostrano, ma persuadono relativamente alla esistenza di realtà intelligibili non inferiori, bensì superiori ad ogni umana dimostrazione.","I 1, 980 a 21-27",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DICE ADUNQUE LO TESTO ...,"Dante distingue nella Sapienza due aspetti che sono poi i due modi argomentativi della filosofia: uno in cui ci viene mostrata la verità direttamente e con assoluta certezza, l'altro che solo indirettamente la fa trasparire come luce dietro una qualche nube o un qualche velo (sotto alcuno velamento""). Nell'interpretazione allegorica il primo corrisponde agli occhi, l'organo di senso maggiormente capace di cogliere oggettivamente la realtà (cfr. <i>Metaph.</i> I 1, 980 a 21-27), il secondo al riso che, come era già stato detto in <i>Cv</i> III viii 11, è come ""uno lume apparente di fuori secondo sta dentro"", un lume che appare ""quasi come colore dietro vetro"". Il primo modo corrisponde alla dimostrazione in senso stretto, fondamento della <i>scientia</i>, che da premesse vere inferisce conclusioni necessariamente vere (cfr. Aristotele, <i>An. Post.</i> I, 2, 71 b 10). Un collegamento tra occhi della Filosofia descritti nel <i>De consolatione</i> come ""ardentes et ultra communem hominum valentiam perspicacibus"" (I, prosa 1, 1, pp. 4-5) e la conoscenza dimostrativa della verità propria dei filosofi viene fatto da una anonima <i>Laus Philosophiae</i> di ambiente universitario bolognese, peraltro posteriore a Dante. (Fioravanti 1993 p. 173). Più complesso il caso delle ""persuasioni"". Interpretarlo nel senso delle 'rationes probabiles tantum' proprie della dialettica (con riferimento ai <i>Topici</i> aristotelici ed alle <i>Summulae logicales</i> di Pietro Ispano) suscita difficoltà: non sembra infatti che nel volto della Sapienza il riso sia inferiore allo sguardo così come, nella valutazione comune, gli argomenti dialettici sono inferiori a quelli dimostrativi. Come giustamente nota il commento di <i>Cheneval</i> il termine rimanda piuttosto ai procedimenti retorici. Essi nella teorizzazione tardo medievale, a differenza di quelli dialettici, non producono una opinione su oggetti non suscettibili di dimostrazione, ma piuttosto ""fidem aggenerant sive credulitatem"". Il testo di Egidio Romano riportato dallo Cheneval nel suo commento dice chiaramente che essi non sono neutrali, ma rivolti al desiderio di chi li ascolta. Dunque, nella interpretazione allegorica del testo della canzone esiste una asimmetria tra il referente degli occhi e quello del riso. Mentre nel primo caso si tratta di quelle verità che la ragione umana può pienamente comprendere attraverso rigorose dimostrazioni, nel secondo si parla della 'luce interiore' della Sapienza, cioè della sua natura più intima, che non può essere posseduta dimostrativamente. Essa si manifesta attraverso segni (""sotto alcuno velamento"") che non dimostrano, ma persuadono relativamente alla esistenza di realtà intelligibili non inferiori, bensì superiori ad ogni umana dimostrazione.","I, 2, 71 b 10",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Analytica_posteriora,Analytica posteriora,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
[V]EDE TERMINATO,"vede condotto a termine, realizzato'. La dottrina aristotelica del desiderio naturale di perfezione, che nell'uomo si specifica come desiderio di sapere, era già stata utilizzata nelle righe iniziali del <i>Convivio</i> ed esposta, con parole quasi identiche a queste, in <i>Cv</i> III vi 7. Qui si sostiene in maniera più esplicita che l'uomo in questa vita può soddifare pienamente (terminare"") tale desiderio e raggiungere così la sua perfezione, precisando però: in quanto uomo (già in <i>Cv</i> III vi 8 si era detto che l'essenza umana diventava perfetta ""quanto sommamente esser puote l'umana essenzia""). Si tratta di una limitazione che ricalca in pieno il testo dell' <i>Etica Nicomachea</i> in cui Aristotele, dopo aver trattato della natura e delle condizioni della felicità ed aver definito ""beati"" coloro che le posseggono, aggiunge appunto: ""beati s'intende come possono esserlo gli uomini"" e questo proprio per distinguere la felicità umana da quella divina (I 10, 1101 a 19-21). Per Dante dunque la perfezione puramente umana è raggiungibile in questa vita esclusivamente attraverso l'uso della ragione: ciò non toglie che la nostra contemplazione sia sulla terra limitata sia nei contenuti che nella durata e che esistano realtà attingibili solo attraverso un dono divino che va ""oltre il debito della natura umana"" (cfr. <i>Cv</i> III vi 10 ).","I 10, 1101 a 19-21",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
NEL LIBRO DI SAPIENZA,"cfr. <i>Sap</i>. 3, 11 Sapientiam enim et disciplinam qui abicit infelix est"".","3, 11 Sapientiam enim et disciplinam qui abicit infelix est",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Wisdom,Sapienza,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
NEL LIBRO ALLEGATO DI SAPIENZA,"nel libro della Sapienza già citato. Cfr. <i>Sap</i>. 7, 26 Candor est ... lucis aeternae et speculum sine macula Dei maiestatis"" (questa citazione apre il primo libro delle <i>Sentenze</i> di Pier Lombardo, il testo base per l'insegnamento della teologia al tempo di Dante ed è spesso usato come tema iniziale dei <i>sermones</i> che i baccellieri pronunciavano negli <i>Studi</i> degli ordini mendicanti inaugurando il loro insegnamento).","Sap. 7, 26 Candor est ... lucis aeternae et speculum sine macula Dei maiestatis""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Wisdom,Sapienza,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
IN ALCUNO MODO QUESTE COSE ... SI PUÒ  APPRESSARE ALLA SUA CONOSCENZA,"le cose che appaiono negli occhi e nel riso della Sapienza, cioè le dimostrazioni e le persuasioni di <i>Cv</i> III xv 2, ci fanno conoscere l'esistenza (affermano essere"") di realtà la cui natura sfugge allo sguardo del nostro intelletto (""che lo 'ntelletto nostro guardare non può"") e facendo così ci aprono come uno spiraglio su una luce che in sé abbaglia (come il riso accenna allo splendore interno dell'anima). Queste realtà, come già in <i>Cv</i> III viii 15, sono identificate con Dio, l'eternità (""la etternitate"") e la materia prima. Che esse esistano lo si può sapere con la certezza assoluta della scienza (""certissimamente si veggiono"") e lo si può credere con fede salda (""con tutta fede si credono essere""), e tuttavia (""pur"") non possiamo capire a fondo (""intendere non potemo"") la loro essenza (""quello che sono""). Ci si può avvicinare (""si può appressare"": con valore impersonale) alla loro conoscenza solo per via negativa (""se non cose negando"") e non in altro modo (""e non altrimenti""). Come è stato giustamente notato dal Nardi queste tre realtà ""soverchiano"" il nostro intelletto in maniera diversa: Dio e l'eternità sono oggetti troppo potenti per l'intelletto umano (almeno per quello 'in via'); al contrario, la materia prima, in quanto pura potenzialità, priva di qualsiasi determinazione, sfugge alla comprensione proprio per il suo bassissimo grado di entità, e quindi di intelligibilità: come aveva affermato Alberto Magno ""Quae intelliguntur intellectu incomplete, sic intelliguntur duabus de causis, scilicet propter elevationem sui esse supra nostrum intellectum, et hoc modo intelligitur Deus incomplete ..., aut propter debilitatem sui esse, ut materia, tempus et motus"" (<i>Summa de creaturis</i>. II <i>De homine</i>, I.1.2.2, <i>ad primum</i>, p. 66, ll. 8-13). Un'altra possibile causa della inconoscibilità di Dio e della materia potrebbe essere la loro infinità, anche qui ben diversa nei due casi (cfr. Bonaventura da Bagnoregio, <i>In secundum librum Sententiarum</i>, dist. 3, pars. I, a. 1, q. 3, p. 100). L'appello alla via negativa era tradizionale per quanto riguarda la conoscenza di Dio (numerosi testi di Tommaso sono citati nel commento <i>Busnelli</i>) ma lo stesso vale anche per le altre due realtà: ci si avvicina infatti ad una conoscenza sia pur imperfetta della materia eliminando mentalmente tutte le determinazioni formali di un oggetto (cfr.. Rodolfi 2004, pp. 9-11) e nel caso dell'eternità negando le caratteristiche del tempo (successione, continuità etc.).","Quae intelliguntur intellectu incomplete, sic intelliguntur duabus de causis, scilicet propter elevationem sui esse supra nostrum intellectum, et hoc modo intelligitur Deus incomplete ..., aut propter debilitatem sui esse, ut materia, tempus et motus (Summa de creaturis. II De homine, I.1.2.2, ad primum, p. 66, ll. 8-13)",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Summa_de_creaturis,Summa de creaturis,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
IN ALCUNO MODO QUESTE COSE ... SI PUÒ  APPRESSARE ALLA SUA CONOSCENZA,"le cose che appaiono negli occhi e nel riso della Sapienza, cioè le dimostrazioni e le persuasioni di <i>Cv</i> III xv 2, ci fanno conoscere l'esistenza (affermano essere"") di realtà la cui natura sfugge allo sguardo del nostro intelletto (""che lo 'ntelletto nostro guardare non può"") e facendo così ci aprono come uno spiraglio su una luce che in sé abbaglia (come il riso accenna allo splendore interno dell'anima). Queste realtà, come già in <i>Cv</i> III viii 15, sono identificate con Dio, l'eternità (""la etternitate"") e la materia prima. Che esse esistano lo si può sapere con la certezza assoluta della scienza (""certissimamente si veggiono"") e lo si può credere con fede salda (""con tutta fede si credono essere""), e tuttavia (""pur"") non possiamo capire a fondo (""intendere non potemo"") la loro essenza (""quello che sono""). Ci si può avvicinare (""si può appressare"": con valore impersonale) alla loro conoscenza solo per via negativa (""se non cose negando"") e non in altro modo (""e non altrimenti""). Come è stato giustamente notato dal Nardi queste tre realtà ""soverchiano"" il nostro intelletto in maniera diversa: Dio e l'eternità sono oggetti troppo potenti per l'intelletto umano (almeno per quello 'in via'); al contrario, la materia prima, in quanto pura potenzialità, priva di qualsiasi determinazione, sfugge alla comprensione proprio per il suo bassissimo grado di entità, e quindi di intelligibilità: come aveva affermato Alberto Magno ""Quae intelliguntur intellectu incomplete, sic intelliguntur duabus de causis, scilicet propter elevationem sui esse supra nostrum intellectum, et hoc modo intelligitur Deus incomplete ..., aut propter debilitatem sui esse, ut materia, tempus et motus"" (<i>Summa de creaturis</i>. II <i>De homine</i>, I.1.2.2, <i>ad primum</i>, p. 66, ll. 8-13). Un'altra possibile causa della inconoscibilità di Dio e della materia potrebbe essere la loro infinità, anche qui ben diversa nei due casi (cfr. Bonaventura da Bagnoregio, <i>In secundum librum Sententiarum</i>, dist. 3, pars. I, a. 1, q. 3, p. 100). L'appello alla via negativa era tradizionale per quanto riguarda la conoscenza di Dio (numerosi testi di Tommaso sono citati nel commento <i>Busnelli</i>) ma lo stesso vale anche per le altre due realtà: ci si avvicina infatti ad una conoscenza sia pur imperfetta della materia eliminando mentalmente tutte le determinazioni formali di un oggetto (cfr.. Rodolfi 2004, pp. 9-11) e nel caso dell'eternità negando le caratteristiche del tempo (successione, continuità etc.).","dist. 3, pars. I, a. 1, q. 3, p. 100",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commentaria_in_quattuor_libros_sententiaru_Magistri_Petri_Lombardi(Bonaventura),Commentaria in quattuor libros sententiarum,Bonaventura da Bagnoregio,http://dbpedia.org/resource/Bonaventure,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
LA NATURA L'AVREBBE FATTO INDARNO,"la natura l'avrebbe prodotta invano'. Dante si appella qui ad un principio generale, valido per tutti gli enti e quindi, come vedremo immediatamente dopo, anche per l'uomo. Lo stesso aveva fatto Alberto Magno nella sua parafrasi dell' <i>Etica Nicomachea</i> Nihil appetitur ab aliquo naturali appetitu et ordinato nisi possibile obtineri, et quod proportionatum est principiis naturalibus quibus appetitus nititur obtinere illud"" (<i>Ethica</i> I, tr, 3, cap. 6, pp. 37-38).","Nihil appetitur ab aliquo naturali appetitu et ordinato nisi possibile obtineri, et quod proportionatum est principiis naturalibus quibus appetitus nititur obtinere illud"" (Ethica I, tr, 3, cap. 6, pp. 37-38).""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Super_Ethica_commentum_et_quaestiones,Super Ethica commentum et quaestiones,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
DELLA FELICITADE SECONDARIA A QUESTA PRIMA,"della felicità che viene immediatamente dopo quella della contemplazione. Che Aristotele avesse individuato due felicità possibili per l'uomo, la prima posta nella vita contemplativa, la seconda nella vita secondo virtù, era dottrina comune tra gli aristotelici del XIII secolo. Basterà citare ancora una volta il <i>De summo bono</i> di Boezio di Dacia: Summum bonum quod est homini possibile secundum potentiam intellectus speculativam est cognitio veri et delectatio in eodem ... Item, summum bonum quod est homini possibile secundum intellectum practicum est operatio boni et delectatio in eodem"" (pp. 370-71). A questa dottrina Dante si era già richiamato in <i>Cv</i> I v 11. Il termine ""secondaria"" indica anche un giudizio di valore: sia per Alberto Magno che per Tommaso d'Aquino, infatti, la felicità che consiste nell'esercizio delle virtù è inferiore alla felicità della speculazione teoretica ed è in qualche modo ad essa subordinata (cfr Alberto, <i>Ethica</i>, I, tr. 6, c. 4, pp. 88-89; Tommaso, <i>In decem libros Ethicorum Aristotelis expositio</i>, X, <i>lectio</i> 12, n. 2111 che usa proprio il termine ""secundarius""). In ogni caso, a differenza di Kant, per Aristotele e così per Alberto, Tommaso, Boezio di Dacia e Dante esercizio delle virtù e felicità coincidono senza residui.","Summum bonum quod est homini possibile secundum potentiam intellectus speculativam est cognitio veri et delectatio in eodem ... Item, summum bonum quod est homini possibile secundum intellectum practicum est operatio boni et delectatio in eodem"" (pp. 370-71)""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_summo_bono,De summo bono,Boezio di Dacia,http://dbpedia.org/resource/Boetius_of_Dacia,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
DELLA FELICITADE SECONDARIA A QUESTA PRIMA,"della felicità che viene immediatamente dopo quella della contemplazione. Che Aristotele avesse individuato due felicità possibili per l'uomo, la prima posta nella vita contemplativa, la seconda nella vita secondo virtù, era dottrina comune tra gli aristotelici del XIII secolo. Basterà citare ancora una volta il <i>De summo bono</i> di Boezio di Dacia: Summum bonum quod est homini possibile secundum potentiam intellectus speculativam est cognitio veri et delectatio in eodem ... Item, summum bonum quod est homini possibile secundum intellectum practicum est operatio boni et delectatio in eodem"" (pp. 370-71). A questa dottrina Dante si era già richiamato in <i>Cv</i> I v 11. Il termine ""secondaria"" indica anche un giudizio di valore: sia per Alberto Magno che per Tommaso d'Aquino, infatti, la felicità che consiste nell'esercizio delle virtù è inferiore alla felicità della speculazione teoretica ed è in qualche modo ad essa subordinata (cfr Alberto, <i>Ethica</i>, I, tr. 6, c. 4, pp. 88-89; Tommaso, <i>In decem libros Ethicorum Aristotelis expositio</i>, X, <i>lectio</i> 12, n. 2111 che usa proprio il termine ""secundarius""). In ogni caso, a differenza di Kant, per Aristotele e così per Alberto, Tommaso, Boezio di Dacia e Dante esercizio delle virtù e felicità coincidono senza residui.","I, tr. 6, c. 4, pp. 88-89",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Super_Ethica_commentum_et_quaestiones,Super Ethica commentum et quaestiones,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
DELLA FELICITADE SECONDARIA A QUESTA PRIMA,"della felicità che viene immediatamente dopo quella della contemplazione. Che Aristotele avesse individuato due felicità possibili per l'uomo, la prima posta nella vita contemplativa, la seconda nella vita secondo virtù, era dottrina comune tra gli aristotelici del XIII secolo. Basterà citare ancora una volta il <i>De summo bono</i> di Boezio di Dacia: Summum bonum quod est homini possibile secundum potentiam intellectus speculativam est cognitio veri et delectatio in eodem ... Item, summum bonum quod est homini possibile secundum intellectum practicum est operatio boni et delectatio in eodem"" (pp. 370-71). A questa dottrina Dante si era già richiamato in <i>Cv</i> I v 11. Il termine ""secondaria"" indica anche un giudizio di valore: sia per Alberto Magno che per Tommaso d'Aquino, infatti, la felicità che consiste nell'esercizio delle virtù è inferiore alla felicità della speculazione teoretica ed è in qualche modo ad essa subordinata (cfr Alberto, <i>Ethica</i>, I, tr. 6, c. 4, pp. 88-89; Tommaso, <i>In decem libros Ethicorum Aristotelis expositio</i>, X, <i>lectio</i> 12, n. 2111 che usa proprio il termine ""secundarius""). In ogni caso, a differenza di Kant, per Aristotele e così per Alberto, Tommaso, Boezio di Dacia e Dante esercizio delle virtù e felicità coincidono senza residui.","In decem libros Ethicorum Aristotelis expositio, X, lectio 12, n. 2111",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
CHE FANNO QUELLA PIACERE SENSIBILMENTE,"che la rendono fonte di piacere attraverso le azioni virtuose che sono percepibili attraverso i sensi'. Che le azioni secondo virtù fossero belle e piacevoli per gli amanti del bello era stato detto da Aristotele, <i>Eth. Nic</i>. I 8, 1099 a 11-15, e nel suo commento Tommaso aveva fatto ricorso alla definizione della bellezza come debita commensuratio partium"" (I, <i>lectio</i> 13, n. 159). Peraltro l'Aquinate individua questo ordine armonioso nell'insieme delle <i>circumstantiae</i> costitutive dell'azione virtuosa (tempo debito, persona giusta, motivazione corretta etc.), mentre Dante lo identifica proprio con il sistema delle virtù morali.","I 8, 1099 a 11-15",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
CHE FANNO QUELLA PIACERE SENSIBILMENTE,"che la rendono fonte di piacere attraverso le azioni virtuose che sono percepibili attraverso i sensi'. Che le azioni secondo virtù fossero belle e piacevoli per gli amanti del bello era stato detto da Aristotele, <i>Eth. Nic</i>. I 8, 1099 a 11-15, e nel suo commento Tommaso aveva fatto ricorso alla definizione della bellezza come debita commensuratio partium"" (I, <i>lectio</i> 13, n. 159). Peraltro l'Aquinate individua questo ordine armonioso nell'insieme delle <i>circumstantiae</i> costitutive dell'azione virtuosa (tempo debito, persona giusta, motivazione corretta etc.), mentre Dante lo identifica proprio con il sistema delle virtù morali.","I, lectio 13, n. 159",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
APPETITO DIRITTO,"desiderio retto, che segue ciò che è dettato dalla ragioneì (cfr. <i>Eth. Nic</i>. VI 2, 1139 a 22-27 ed il commento di Tommaso, <i>lectio</i> 2, n. 1129).","VI 2, 1139 a 22-27",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
APPETITO DIRITTO,"desiderio retto, che segue ciò che è dettato dalla ragioneì (cfr. <i>Eth. Nic</i>. VI 2, 1139 a 22-27 ed il commento di Tommaso, <i>lectio</i> 2, n. 1129).","lectio 2, n. 1129",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
DICENDO CHE È OPERAZIONE SECONDO VERTÙ IN VITA PERFETTA,"la definizione si trova piuttosto nel Commento di Tommaso che alla fine della <i>lectio</i> 10 del primo libro così riassume <i>Eth. Nic</i>. I 8, 1097 b 22- 1098 a 20: Sic ergo patet quod felicitas est operatio propria hominis secundum virtutem in vita perfecta"" (n. 130). In realtà Aristotele non ha di mira in modo specifico la virtù morale, ma parla in modo ancora generico di una ""virtù"" propria dell'uomo che si rivelerà poi essere il suo intelletto: con la sua doppia natura, teoretica e pratica, esso fonda l'esistenza di virtù sia contemplative che morali in senso stretto (cfr. <i>Eth. Nic</i>. I 13, 1102 a 5 sgg.)","I 8, 1097 b 22- 1098 a 20:",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DICENDO CHE È OPERAZIONE SECONDO VERTÙ IN VITA PERFETTA,"la definizione si trova piuttosto nel Commento di Tommaso che alla fine della <i>lectio</i> 10 del primo libro così riassume <i>Eth. Nic</i>. I 8, 1097 b 22- 1098 a 20: Sic ergo patet quod felicitas est operatio propria hominis secundum virtutem in vita perfecta"" (n. 130). In realtà Aristotele non ha di mira in modo specifico la virtù morale, ma parla in modo ancora generico di una ""virtù"" propria dell'uomo che si rivelerà poi essere il suo intelletto: con la sua doppia natura, teoretica e pratica, esso fonda l'esistenza di virtù sia contemplative che morali in senso stretto (cfr. <i>Eth. Nic</i>. I 13, 1102 a 5 sgg.)","I 13, 1102 a 5 sgg.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DICENDO CHE È OPERAZIONE SECONDO VERTÙ IN VITA PERFETTA,"la definizione si trova piuttosto nel Commento di Tommaso che alla fine della <i>lectio</i> 10 del primo libro così riassume <i>Eth. Nic</i>. I 8, 1097 b 22- 1098 a 20: Sic ergo patet quod felicitas est operatio propria hominis secundum virtutem in vita perfecta"" (n. 130). In realtà Aristotele non ha di mira in modo specifico la virtù morale, ma parla in modo ancora generico di una ""virtù"" propria dell'uomo che si rivelerà poi essere il suo intelletto: con la sua doppia natura, teoretica e pratica, esso fonda l'esistenza di virtù sia contemplative che morali in senso stretto (cfr. <i>Eth. Nic</i>. I 13, 1102 a 5 sgg.)",lla fine della lectio 10 del primo libro,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
ESSEMPLO D'UMILTÀ,"perché la partizione (parte"") della filosofia che corrisponde all'etica sia un modello di umiltà non è immediatamente chiaro. La spiegazione offerta da alcuni commentatori, secondo cui Dante si riferirebbe alla inferiorità e subordinazione della vita morale a quella teoretica, non mi sembra particolarmente centrata. Il difetto cui il ""virtuoso"" deve tenersi lontano è, come abbiamo visto, quello di gloriarsi delle proprie doti: il correttivo dovrebbe allora essere l'esercizio di una virtù speciale, l'umiltà, insegnata appunto dalla filosofia morale (e potremmo congetturare che l'ultimo trattato proprio all'umiltà fosse, almeno in parte, dedicato). Ma dal punto di vista di Aristotele l'umiltà è tutt'altro che una virtù: nel cap. 3 del IV libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> (1123 b 9 sgg.) dedicato alla magnanimità, lo Stagirita tratta in modo sprezzante coloro che si ritengono inferiori a quanto meritano: la vanità è un vizio solo quando ci si stima degni di grandi cose senza esserlo; chi possiede effettivamente la virtù può trarne legittimo vanto. Questo aspetto dell'etica aristotelica aveva suscitato notevole imbarazzo tra i lettori cristiani dello Stagirita (vedi Gauthier 1951, pp. 443 sgg. e la nota a <i>Cv</i> I xi 20).",nel cap. 3 del IV libro dell' Etica Nicomachea (1123 b 9 sgg.),CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
E SPEZIALMENTE LO MOVIMENTO DEL CIELO ... DAL QUALE OGNI MOVIMENTO È PRINCIPIATO E MOSSO,"l'inizio del mondo coincide con l'inizio del movimento del cielo, e con più precisione (spezialmente"") con quello del primo mobile: da esso ha origine (""è principiato"") e dipende (""e mosso"") ogni altro movimento e mutamento; mediante questi movimenti ""secondi"" il movimento primo produce (""genera"") tutte le realtà del mondo sublunare. Che Dio abbia prodotto e produca le cose composte mediante il movimento dei cieli, riservando a se stesso la creazione iniziale delle forme pure (gli angeli), della materia prima e dei cieli stessi, in cui materia e forma sono indissolubilmente legate, viene detto in <i>Pd</i> VII 124 sgg. e XXIX 22 sgg.). Già Alberto Magno aveva ripetutamente affermato la funzione insostituibile dei cieli nel ciclo delle generazioni e delle distruzioni che caratterizza le realtà presenti nel mondo sublunare (cfr. <i>Physica</i> II, tr. 2, cap. 20, vol. I, p. 124, ll. 45-50; <i>De generatione</i> II, tr.1. cap. 5, p. 180, ll. 27-30 ). Questo modello cosmologico, insieme fisico e metafisico, peraltro, sembrava presupporre l'eternità delle sue componenti: da sempre Dio, come oggetto di desiderio, imprimeva al primo mobile il suo movimento, e mediante questo movimento eterno regolava sulla terra l'alternarsi delle nascite e delle morti. Qui Dante parla invece, molto chiaramente, di ""cominciamento"" dimostrando di accettare, anche filosoficamente, la tesi dell'inizio del mondo nel tempo.","II, tr. 2, cap. 20, vol. I, p. 124, ll. 45-50",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Physicorum(Alberto_Magno),Physicorum,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
E SPEZIALMENTE LO MOVIMENTO DEL CIELO ... DAL QUALE OGNI MOVIMENTO È PRINCIPIATO E MOSSO,"l'inizio del mondo coincide con l'inizio del movimento del cielo, e con più precisione (spezialmente"") con quello del primo mobile: da esso ha origine (""è principiato"") e dipende (""e mosso"") ogni altro movimento e mutamento; mediante questi movimenti ""secondi"" il movimento primo produce (""genera"") tutte le realtà del mondo sublunare. Che Dio abbia prodotto e produca le cose composte mediante il movimento dei cieli, riservando a se stesso la creazione iniziale delle forme pure (gli angeli), della materia prima e dei cieli stessi, in cui materia e forma sono indissolubilmente legate, viene detto in <i>Pd</i> VII 124 sgg. e XXIX 22 sgg.). Già Alberto Magno aveva ripetutamente affermato la funzione insostituibile dei cieli nel ciclo delle generazioni e delle distruzioni che caratterizza le realtà presenti nel mondo sublunare (cfr. <i>Physica</i> II, tr. 2, cap. 20, vol. I, p. 124, ll. 45-50; <i>De generatione</i> II, tr.1. cap. 5, p. 180, ll. 27-30 ). Questo modello cosmologico, insieme fisico e metafisico, peraltro, sembrava presupporre l'eternità delle sue componenti: da sempre Dio, come oggetto di desiderio, imprimeva al primo mobile il suo movimento, e mediante questo movimento eterno regolava sulla terra l'alternarsi delle nascite e delle morti. Qui Dante parla invece, molto chiaramente, di ""cominciamento"" dimostrando di accettare, anche filosoficamente, la tesi dell'inizio del mondo nel tempo.","II, tr.1. cap. 5, p. 180, ll. 27-30",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_Generatione_et_Corruptione(Alberto_Magno),De generatione et corruptione (Alberto Magno),Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
QUANDO IDDIO ... PER CIASCUNO DIE,"traduzione letterale di <i>Prv</i>. 8, 27-30 Quando praeparabat caelos, aderam; quando certa lege et gyro vallabat abyssos; quando aethera firmabat sursum et librabat fontes aquarum; quando circumdabat mari terminum suum, et legem ponebat aquis ne transirent fines suos; quando appendebat fundamenta terrae, cum eo eram cuncta componens, et delectabar per singulos dies"" (probabilmente Dante legge ""circuibat"" al posto di ""circumdabat"").","8, 27-30 Quando praeparabat caelos, aderam; quando certa lege et gyro vallabat abyssos; quando aethera firmabat sursum et librabat fontes aquarum; quando circumdabat mari terminum suum, et legem ponebat aquis ne transirent fines suos; quando appendebat fundamenta terrae, cum eo eram cuncta componens, et delectabar per singulos dies"" """,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Proverbs,Libro dei Proverbi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
IN VOSTRA SIMILITUDINE VENNE A VOI,"venne tra di voi diventando a voi simile'. Tutto il paragrafo presuppone un'identificazione tra la Sapienza dei Proverbi ed il Verbo del Vangelo di Giovanni già presente nella tradizione esegetica cristiana: per mezzo del Verbo, infatti, sono state prodotte tutte le cose (cfr. <i>Io</i>. 1, 3). Anche l' innanzi che voi foste, ella fu amatrice di voi"" riecheggia contemporaneamente <i>Io</i> 15, 16: ""Non vos me elegisti, sed ego elegi vos"" e 8, 58 in cui Gesù dice di sé ""antequam Abraham esset, ego eram"", mentre per parlare della venuta della Sapienza tra gli uomini, Dante usa termini vicini a quelli del brano della lettera ai Filippesi in cui Paolo parla della discesa del Figlio: ""semetipsum exinanivit, formam servi accipiens, in similitudinem hominum factus"" (Phip 2, 7).","Io. 1, 3",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_John,Vangelo di Giovanni,Giovanni,http://dbpedia.org/resource/John_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
IN VOSTRA SIMILITUDINE VENNE A VOI,"venne tra di voi diventando a voi simile'. Tutto il paragrafo presuppone un'identificazione tra la Sapienza dei Proverbi ed il Verbo del Vangelo di Giovanni già presente nella tradizione esegetica cristiana: per mezzo del Verbo, infatti, sono state prodotte tutte le cose (cfr. <i>Io</i>. 1, 3). Anche l' innanzi che voi foste, ella fu amatrice di voi"" riecheggia contemporaneamente <i>Io</i> 15, 16: ""Non vos me elegisti, sed ego elegi vos"" e 8, 58 in cui Gesù dice di sé ""antequam Abraham esset, ego eram"", mentre per parlare della venuta della Sapienza tra gli uomini, Dante usa termini vicini a quelli del brano della lettera ai Filippesi in cui Paolo parla della discesa del Figlio: ""semetipsum exinanivit, formam servi accipiens, in similitudinem hominum factus"" (Phip 2, 7).","15, 16: ""Non vos me elegisti, sed ego elegi vos""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_John,Vangelo di Giovanni,Giovanni,http://dbpedia.org/resource/John_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
IN VOSTRA SIMILITUDINE VENNE A VOI,"venne tra di voi diventando a voi simile'. Tutto il paragrafo presuppone un'identificazione tra la Sapienza dei Proverbi ed il Verbo del Vangelo di Giovanni già presente nella tradizione esegetica cristiana: per mezzo del Verbo, infatti, sono state prodotte tutte le cose (cfr. <i>Io</i>. 1, 3). Anche l' innanzi che voi foste, ella fu amatrice di voi"" riecheggia contemporaneamente <i>Io</i> 15, 16: ""Non vos me elegisti, sed ego elegi vos"" e 8, 58 in cui Gesù dice di sé ""antequam Abraham esset, ego eram"", mentre per parlare della venuta della Sapienza tra gli uomini, Dante usa termini vicini a quelli del brano della lettera ai Filippesi in cui Paolo parla della discesa del Figlio: ""semetipsum exinanivit, formam servi accipiens, in similitudinem hominum factus"" (Phip 2, 7).","8, 58 in cui Gesù dice di sé ""antequam Abraham esset, ego eram""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_John,Vangelo di Giovanni,Giovanni,http://dbpedia.org/resource/John_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
IN VOSTRA SIMILITUDINE VENNE A VOI,"venne tra di voi diventando a voi simile'. Tutto il paragrafo presuppone un'identificazione tra la Sapienza dei Proverbi ed il Verbo del Vangelo di Giovanni già presente nella tradizione esegetica cristiana: per mezzo del Verbo, infatti, sono state prodotte tutte le cose (cfr. <i>Io</i>. 1, 3). Anche l' innanzi che voi foste, ella fu amatrice di voi"" riecheggia contemporaneamente <i>Io</i> 15, 16: ""Non vos me elegisti, sed ego elegi vos"" e 8, 58 in cui Gesù dice di sé ""antequam Abraham esset, ego eram"", mentre per parlare della venuta della Sapienza tra gli uomini, Dante usa termini vicini a quelli del brano della lettera ai Filippesi in cui Paolo parla della discesa del Figlio: ""semetipsum exinanivit, formam servi accipiens, in similitudinem hominum factus"" (Phip 2, 7).","semetipsum exinanivit, formam servi accipiens, in similitudinem hominum factus (Phip 2, 7).",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Epistle_to_the_Philippians,Epistola ad Philippenses,Paolo,http://dbpedia.org/resource/Paul_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
E SE TUTTI ... ONORATE LEI,"l'esortazione, in sé generica, sembra però destinata in particolare al pubblico già individuato da Dante nel trattato introduttivo: coloro che per giustificati motivi non possono fare filosofia in prima persona (non possono venire al suo cospetto"") possono però incontrarla in chi la esercita realmente (i suoi ""amici""): onorandoli e seguendo le loro esortazioni (""comandamenti"") che proclamano (""nunziano"") ciò che la filosofia vuole, la onoreranno almeno in via indiretta. Come abbiamo visto (<i>Cv</i> II.xii.9) il titolo di imperatrice ('imperialis domina') era già stato conferito alla filosofia da un testo diffusissimo nel Medioevo, il <i>De disciplina scolarium</i>, attribuito a Boezio (ed. Weijers, p. 97, 3-4).","ed. Weijers, p. 97, 3-4",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_disciplina_scolarium,De disciplina scolarium,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
SALOMONE ... DICENDO,"cfr. <i>Prv</i> 4, 8 iustorum ... semita quasi lux splendens procedit et crescit usque ad perfectam diem"". Nella sua traduzione Dante ha volutamente modificato le parole finali, interpretando il 'giorno perfetto' come il raggiungimento della felicità collegata al filosofare.","Prv 4, 8 iustorum ... semita quasi lux splendens procedit et crescit usque ad perfectam diem",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Proverbs,Libro dei Proverbi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
NELL'AMISTÀ SI FA UNO DI PIÙ,"nell' amicizia, di più persone se ne fa una'. La frase è messa sulla bocca di Pitagora da Cicerone nel <i>De officiis</i> I, 17, 56: efficitur id quod Pythagoras vult in amicitia, ut unus fiat ex pluribus"". La <i>sententia</i> pitagorica anche nello <i>Speculum Historiale</i> III, cap. 26, p. 95.","I, 17, 56: efficitur id quod Pythagoras vult in amicitia, ut unus fiat ex pluribus""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/De_Officiis,De officiis,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
IN GRECO PROVERBIO È DETTO ...,"la forma della citazione rimanda, più che all' <i>Etica Nicomachea</i>, di nuovo al <i>De officiis</i> di Cicerone (I, 16 51) dove quel che nel testo aristotelico veniva indicato solo come proverbio (VIII 9, 1159 b 31-32) riceve appunto la specificazione di origine: ut in graecorum proverbio est, amicorum esse communia omnia"". Ancora una volta Dante inserisce uno scambio di affetti e di passioni umane nelle coordinate più ampie di un processo naturale, quello della alterazione qualitativa in cui i termini sono a contatto l'uno con l'altro (le ""cose congiunte"") e l'agente tende ad imprimere nel paziente le proprie caratteristiche (cfr. <i>Phys</i>. VII 2, 244 b 2-5).","I, 16 51",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/De_Officiis,De officiis,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
IN GRECO PROVERBIO È DETTO ...,"la forma della citazione rimanda, più che all' <i>Etica Nicomachea</i>, di nuovo al <i>De officiis</i> di Cicerone (I, 16 51) dove quel che nel testo aristotelico veniva indicato solo come proverbio (VIII 9, 1159 b 31-32) riceve appunto la specificazione di origine: ut in graecorum proverbio est, amicorum esse communia omnia"". Ancora una volta Dante inserisce uno scambio di affetti e di passioni umane nelle coordinate più ampie di un processo naturale, quello della alterazione qualitativa in cui i termini sono a contatto l'uno con l'altro (le ""cose congiunte"") e l'agente tende ad imprimere nel paziente le proprie caratteristiche (cfr. <i>Phys</i>. VII 2, 244 b 2-5).","VII 2, 244 b 2-5",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
ORA S'INTENDE,"sto attualmente per dedicarmi'. La dichiarazione di un allontanamento dalla Filosofia, che tanto ha colpito chi ha voluto vedervi il segno di uno scarto cronologico nella composizione del <i>Convivio</i> e di una frattura dottrinale nella vita spirituale di Dante (vedi Corti 1983) va del tutto ridimensionata: nei due trattati precedenti, infatti, a rigor di termini Dante non fa filosofia, ma piuttosto parla della Filosofia, in un contesto autobiografico nel secondo, tessendone le lodi nel terzo con uno schema che almeno in parte ricalca quello universitario degli elogi, dove, anche tra i maestri di Parigi e di Bologna, l'allegoria era ammessa. I contenuti scientifico-filosofici funzionano qui come digressioni, volte essenzialmente a dimostrare lo spessore culturale dell'autore. Con il quarto trattato, invece, cessa l'autobiografia e viene affrontato <i>ex professo</i> il tema della nobiltà: un problema di vasto impatto socio-culturale, non appannaggio esclusivo delle aule universitarie, ma che Dante vuole consapevolmente trattare, a differenza di altri, con metodo rigorosamente filosofico. Lo stesso abbandono dell'allegoria di cui ci parlerà il paragrafo seguente avvicina ancora di più il trattato al modello di lingua e di scrittura proprio della filosofia universitaria. Come ha detto Bruno Nardi, riconoscendo che la struttura propria del quarto trattato corrisponde tecnicamente a quella di una <i>quaestio disputata</i>: La Filosofia cui ormai è rivolto l'animo di Dante, più che la Sapienza eterna che è solo in Dio, è quella delle scuole in terra"" (Nardi 1966, p. 50).  .","uno schema che almeno in parte ricalca quello universitario degli elogi, dove, anche tra i maestri di Parigi e di Bologna",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Elogi_della_filosofia,Elogi della Filosofia,,,http://purl.org/bncf/tid/762,CONCEPT
"NUMERO DI MOVIMENTO, SECONDO PRIMA E POI","si tratta della traduzione letterale del testo latino di <i>Phys</i>. IV 11, 219 b 1-2 hoc ... est tempus: numerus motus secundum prius et posterius"" (<i>Translatio Vetus</i>, p. 175, ll. 16-17). La stessa definizione è peraltro presente nelle <i>Auctoritates Aristotelis</i>, p. 151, n. 137).","IV 11, 219 b 1-2 hoc ... est tempus: numerus motus secundum prius et posterius (Translatio Vetus, p. 175, ll. 16-17)",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
"NUMERO DI MOVIMENTO, SECONDO PRIMA E POI","si tratta della traduzione letterale del testo latino di <i>Phys</i>. IV 11, 219 b 1-2 hoc ... est tempus: numerus motus secundum prius et posterius"" (<i>Translatio Vetus</i>, p. 175, ll. 16-17). La stessa definizione è peraltro presente nelle <i>Auctoritates Aristotelis</i>, p. 151, n. 137).","p. 151, n. 137",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Auctoritates_Aristotelis,Auctoritates Aristotelis,Johannes de Fonte,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Johannes_de_Fonte,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
NUMERO DI MOVIMENTO CELESTIALE ... ALCUNA INFORMAZIONE,"che il movimento misurato dal tempo sia in primo luogo quello della sfera celeste (movimento celestiale""), l'unico ad essere continuo, è effettivamente detto da Aristotele nella <i>Fisica</i>, anche se non con le stesse parole di Dante (cfr. <i>Phys</i>. IV 14, 223 b 22-23 ""unde et videtur tempus esse sphere motus"". <i>Translatio Vetus</i>, p. 190, ll. 8-9); il richiamo all'azione del cielo che, con i suoi diversi movimenti, ed in particolare con quello del sole lungo l'eclittica, prepara (""dispone"") le realtà terrestri (""le cose di qua giù"") ad accogliere in stagioni diverse forme diverse (""diversamente a ricevere alcuna informazione"") non si trova invece nella <i>Fisica</i>, ma piuttosto nel <i>De generatione</i> (II 10).",II 10,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/On_Generation_and_Corruption,De generatione et corruptione (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
NUMERO DI MOVIMENTO CELESTIALE ... ALCUNA INFORMAZIONE,"che il movimento misurato dal tempo sia in primo luogo quello della sfera celeste (movimento celestiale""), l'unico ad essere continuo, è effettivamente detto da Aristotele nella <i>Fisica</i>, anche se non con le stesse parole di Dante (cfr. <i>Phys</i>. IV 14, 223 b 22-23 ""unde et videtur tempus esse sphere motus"". <i>Translatio Vetus</i>, p. 190, ll. 8-9); il richiamo all'azione del cielo che, con i suoi diversi movimenti, ed in particolare con quello del sole lungo l'eclittica, prepara (""dispone"") le realtà terrestri (""le cose di qua giù"") ad accogliere in stagioni diverse forme diverse (""diversamente a ricevere alcuna informazione"") non si trova invece nella <i>Fisica</i>, ma piuttosto nel <i>De generatione</i> (II 10).","IV 14, 223 b 22-23 ""unde et videtur tempus esse sphere motus"". Translatio Vetus, p. 190, ll. 8-9""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
NELLO ECCLESIASTE,"cfr. <i>Ecl</i> 3, 7  tempus tacendi et tempus loquendi"".","3, 7  tempus tacendi et tempus loquendi",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Ecclesiastes,Ecclesiaste,Salomone,http://dbpedia.org/resource/Solomon,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
PISTOLA,"Epistola. Cfr. <i>Iac</i> 5, 7 Ecce agricola expectat pretiosum fructum terre patienter ferens donec accipiat temporaneum et serotinum"". Dante traduce alla lettera. ""Temporaneum"" sta per messe precoce, ""serotinum"" per messe tardiva.","Iac 5, 7 Ecce agricola expectat pretiosum fructum terre patienter ferens donec accipiat temporaneum et serotinum",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Epistle_of_James,Lettera di Giacomo,Giacomo,http://dbpedia.org/resource/James_the_Just,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
LO MAESTRO DELL'UMANA RAGIONE,"già Averroè aveva esaltato Aristotele come punto massimo e regola della razionalità umana (cfr. il prologo del Commento alla <i>Fisica</i>, f. 5 A-B . Cfr. anche <i>Cv</i> I vi 8, 15 ).","Prologo, f. 5 A-B",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commento_alla_Fisica(Averroè),Commento alla Fisica,Averroè,http://dbpedia.org/resource/Averroes,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
MOSTROE,"mostrò, fece vedere'. Arrivare alla verità esaminando preliminarmente le soluzioni erronee o insoddisfacenti date al problema è un procedimento correttamente attribuito ad Aristotele (cfr. ad esempio, nel primo libro del <i>De anima</i> e nel primo libro della <i>Metafisica</i> la discussione delle dottrine dei pensatori precedenti relative alla natura dell'anima ed al numero dei principi delle cose) ma soprattutto comunemente usato nel modo universitario di far filosofia: qui accanto alla lettura dei testi (<i>lectio</i>) regnava la discussione formalizzata dei problemi (<i>quaestio</i>) dove i partecipanti, prima che il maestro fornisse la sua risposta, presentavano una nutrita serie di argomenti in favore dell'opinione opposta, tutti da risolvere 'ut magis veritas elucesceret'.",primo libro,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
MOSTROE,"mostrò, fece vedere'. Arrivare alla verità esaminando preliminarmente le soluzioni erronee o insoddisfacenti date al problema è un procedimento correttamente attribuito ad Aristotele (cfr. ad esempio, nel primo libro del <i>De anima</i> e nel primo libro della <i>Metafisica</i> la discussione delle dottrine dei pensatori precedenti relative alla natura dell'anima ed al numero dei principi delle cose) ma soprattutto comunemente usato nel modo universitario di far filosofia: qui accanto alla lettura dei testi (<i>lectio</i>) regnava la discussione formalizzata dei problemi (<i>quaestio</i>) dove i partecipanti, prima che il maestro fornisse la sua risposta, presentavano una nutrita serie di argomenti in favore dell'opinione opposta, tutti da risolvere 'ut magis veritas elucesceret'.",primo libro,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
CHÉ A LEI DISPOSATA,"quando l'anima le è unita'. (lei"" si riferisce a ""Filosofia""). La metafora nuziale era già stata usata in Cv II xii 13 a proposito del rapporto tra la Filosofia e Dio. L'anima-sposa era comunque una protagonista dell'esegesi allegorica del <i>Cantico dei Cantici</i> (cfr. i <i>Sermones in Cantica Canticorum</i> di Bernardo da Chiaravalle, PL 183, p. 865 sgg. e la <i>Explicatio in Cantica Canticorum</i> di Riccardo da San Vittore, PL 196, p. 406 sgg.).","PL 183, p. 865 sgg.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sermones_super_Cantica_Canticorum,Sermones super Cantica Canticorum,Bernardo di Chiaravalle,http://dbpedia.org/resource/Bernard_of_Clairvaux,http://purl.org/bncf/tid/1546,WORK
CHÉ A LEI DISPOSATA,"quando l'anima le è unita'. (lei"" si riferisce a ""Filosofia""). La metafora nuziale era già stata usata in Cv II xii 13 a proposito del rapporto tra la Filosofia e Dio. L'anima-sposa era comunque una protagonista dell'esegesi allegorica del <i>Cantico dei Cantici</i> (cfr. i <i>Sermones in Cantica Canticorum</i> di Bernardo da Chiaravalle, PL 183, p. 865 sgg. e la <i>Explicatio in Cantica Canticorum</i> di Riccardo da San Vittore, PL 196, p. 406 sgg.).","PL 196, p. 406 sgg.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Explicatio_in_Cantica_Canticorum(Riccardo_da_San_Vittore),Explicatio in Cantica Canticorum,Riccardo di San Vittore,http://dbpedia.org/resource/Richard_of_Saint_Victor,http://purl.org/bncf/tid/1546,WORK
CONTEMPLA LO SUO CONTEMPLARE ... RIVOLGENDOSI SOVRA SE STESSA,"secondo la prop. XIV (XV) del Liber <i>De causis</i>, gli esseri dotati di razionalità, in ogni atto di pensiero sono capaci, oltre che di conoscere le cose, di ritornare (redire"") su se stessi possedendosi completamente (p. 79). La 'reditio completa' verrà considerata sia da Avicenna che da Tommaso come ciò che distingue l'attività intellettuale da quella sensoriale (cfr. di Avicenna il <i>Liber de anima seu sextus de naturalibus</i>, V, 2, vol. II, pp. 93-97, e di Tommaso, il commento al <i>De causis</i>, <i>lectio</i> 15, ed. Saffrey, pp. 88-92). Nel discorso di Dante l'anima filosofante è in qualche modo simile al Dio della <i>Metafisica</i> aristotelica: pensiero di pensiero. Suggestivo, ma meno convincente mi sembra il rinvio al <i>Timeo</i> ed alla sua concezione del pensiero dell'anima del mondo come movimento circolare che torna su se stesso. (vedi Bonfils Templer 1987 che peraltro rimanda giustamente a <i>Pg</i> XXV 74-75 "" ... e fassi un'alma sola / che vive e sente e sé in sé rigira"")","V, 2, vol. II, pp. 93-97",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Liber_de_anima_seu_sextus_de_naturalibus,Liber de anima seu sextus de naturalibus,Avicenna,http://dbpedia.org/resource/Avicenna,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
CONTEMPLA LO SUO CONTEMPLARE ... RIVOLGENDOSI SOVRA SE STESSA,"secondo la prop. XIV (XV) del Liber <i>De causis</i>, gli esseri dotati di razionalità, in ogni atto di pensiero sono capaci, oltre che di conoscere le cose, di ritornare (redire"") su se stessi possedendosi completamente (p. 79). La 'reditio completa' verrà considerata sia da Avicenna che da Tommaso come ciò che distingue l'attività intellettuale da quella sensoriale (cfr. di Avicenna il <i>Liber de anima seu sextus de naturalibus</i>, V, 2, vol. II, pp. 93-97, e di Tommaso, il commento al <i>De causis</i>, <i>lectio</i> 15, ed. Saffrey, pp. 88-92). Nel discorso di Dante l'anima filosofante è in qualche modo simile al Dio della <i>Metafisica</i> aristotelica: pensiero di pensiero. Suggestivo, ma meno convincente mi sembra il rinvio al <i>Timeo</i> ed alla sua concezione del pensiero dell'anima del mondo come movimento circolare che torna su se stesso. (vedi Bonfils Templer 1987 che peraltro rimanda giustamente a <i>Pg</i> XXV 74-75 "" ... e fassi un'alma sola / che vive e sente e sé in sé rigira"")","lectio 15, ed. Saffrey, pp. 88-92",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Super_librum_De_causis(Tommaso),Super librum De causis,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
CONTEMPLA LO SUO CONTEMPLARE ... RIVOLGENDOSI SOVRA SE STESSA,"secondo la prop. XIV (XV) del Liber <i>De causis</i>, gli esseri dotati di razionalità, in ogni atto di pensiero sono capaci, oltre che di conoscere le cose, di ritornare (redire"") su se stessi possedendosi completamente (p. 79). La 'reditio completa' verrà considerata sia da Avicenna che da Tommaso come ciò che distingue l'attività intellettuale da quella sensoriale (cfr. di Avicenna il <i>Liber de anima seu sextus de naturalibus</i>, V, 2, vol. II, pp. 93-97, e di Tommaso, il commento al <i>De causis</i>, <i>lectio</i> 15, ed. Saffrey, pp. 88-92). Nel discorso di Dante l'anima filosofante è in qualche modo simile al Dio della <i>Metafisica</i> aristotelica: pensiero di pensiero. Suggestivo, ma meno convincente mi sembra il rinvio al <i>Timeo</i> ed alla sua concezione del pensiero dell'anima del mondo come movimento circolare che torna su se stesso. (vedi Bonfils Templer 1987 che peraltro rimanda giustamente a <i>Pg</i> XXV 74-75 "" ... e fassi un'alma sola / che vive e sente e sé in sé rigira"")",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
A DISTRIGARE LO TESTO PERFETTAMENTE SECONDO LA SENTENZA CHE ESSO PORTA,"per chiarire esaustivamente il testo cogliendone il preciso significato'. Con queste parole Dante giustifica l'uso a tutto campo di una tecnica espositiva particolarmente complessa: proprio il fatto che una materia così alta non ha ancora avuto una trattazione autorevole richiede, senza sconti, la strumentazione propria della cultura alta ed universitaria. E' stato giustamente notato che il tema della vera nobiltà di cuore opposta alla nobiltà di lignaggio aveva già appassionato nel tardo Medioevo ampie fasce di intellettuali ed era stato trattato in opere e contesti diversissimi, dai trattati d'amore agli 'specula principum', dalle <i>Summae</i> morali alla lirica guittoniana fino allo stesso <i>Trésor</i> di Brunetto (cfr. Corti 1959). Ma evidentemente gli autori"" per Dante erano altri, quelli della cultura universitaria dove il tema della nobiltà era stato affrontato solo saltuariamente, in relazione a testi aristotelici non centrali come la <i>Politica</i> e la <i>Retorica</i>, oppure nelle disputazioni <i>de quolibet</i> (ai testi di Pietro d' Alvernia e Giovanni Vate citati da Marco Toste - cfr. Toste 2005- sono da aggiungere quelli di Enrico di Gand e di Nicolas de Vaudemont. Vedi <i>Introduzione</i> ). Basterà notare lo spazio assai limitato, in confronto con la trattazione del <i>Convivio</i>, riservato da Egidio Romano alla nozione di <i>vera nobilitas</i> e per di più in un contesto parenetico e non argomentativo (cfr. <i>De regimine principum</i> II iii 18, pp. 391-4). Il quarto trattato del <i>Convivio</i> aspira dunque a raggiungere il livello di questa cultura sia per la 'forma tractatus' (il contenuto), che per la 'forma tractandi' (il metodo) e contemporaneamente a colmarne una lacuna. Ancora verso la metà del XIV secolo uno dei più insigni rappresentanti della cultura giuridica universitaria, Bartolo da Sassoferrato, che aveva letto sì e criticato la posizione di Dante, ma che conosceva solo la canzone e non il <i>Convivio</i>, affermerà che ""sub nomine nobilitatis non habemus aliquem specialem tractatum"" (cfr. Borsa 2007, p. 86)",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Politics_(Aristotle),Politica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
A DISTRIGARE LO TESTO PERFETTAMENTE SECONDO LA SENTENZA CHE ESSO PORTA,"per chiarire esaustivamente il testo cogliendone il preciso significato'. Con queste parole Dante giustifica l'uso a tutto campo di una tecnica espositiva particolarmente complessa: proprio il fatto che una materia così alta non ha ancora avuto una trattazione autorevole richiede, senza sconti, la strumentazione propria della cultura alta ed universitaria. E' stato giustamente notato che il tema della vera nobiltà di cuore opposta alla nobiltà di lignaggio aveva già appassionato nel tardo Medioevo ampie fasce di intellettuali ed era stato trattato in opere e contesti diversissimi, dai trattati d'amore agli 'specula principum', dalle <i>Summae</i> morali alla lirica guittoniana fino allo stesso <i>Trésor</i> di Brunetto (cfr. Corti 1959). Ma evidentemente gli autori"" per Dante erano altri, quelli della cultura universitaria dove il tema della nobiltà era stato affrontato solo saltuariamente, in relazione a testi aristotelici non centrali come la <i>Politica</i> e la <i>Retorica</i>, oppure nelle disputazioni <i>de quolibet</i> (ai testi di Pietro d' Alvernia e Giovanni Vate citati da Marco Toste - cfr. Toste 2005- sono da aggiungere quelli di Enrico di Gand e di Nicolas de Vaudemont. Vedi <i>Introduzione</i> ). Basterà notare lo spazio assai limitato, in confronto con la trattazione del <i>Convivio</i>, riservato da Egidio Romano alla nozione di <i>vera nobilitas</i> e per di più in un contesto parenetico e non argomentativo (cfr. <i>De regimine principum</i> II iii 18, pp. 391-4). Il quarto trattato del <i>Convivio</i> aspira dunque a raggiungere il livello di questa cultura sia per la 'forma tractatus' (il contenuto), che per la 'forma tractandi' (il metodo) e contemporaneamente a colmarne una lacuna. Ancora verso la metà del XIV secolo uno dei più insigni rappresentanti della cultura giuridica universitaria, Bartolo da Sassoferrato, che aveva letto sì e criticato la posizione di Dante, ma che conosceva solo la canzone e non il <i>Convivio</i>, affermerà che ""sub nomine nobilitatis non habemus aliquem specialem tractatum"" (cfr. Borsa 2007, p. 86)",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://it.dbpedia.org/resource/Retorica_(Aristotele),Rhetorica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
A DISTRIGARE LO TESTO PERFETTAMENTE SECONDO LA SENTENZA CHE ESSO PORTA,"per chiarire esaustivamente il testo cogliendone il preciso significato'. Con queste parole Dante giustifica l'uso a tutto campo di una tecnica espositiva particolarmente complessa: proprio il fatto che una materia così alta non ha ancora avuto una trattazione autorevole richiede, senza sconti, la strumentazione propria della cultura alta ed universitaria. E' stato giustamente notato che il tema della vera nobiltà di cuore opposta alla nobiltà di lignaggio aveva già appassionato nel tardo Medioevo ampie fasce di intellettuali ed era stato trattato in opere e contesti diversissimi, dai trattati d'amore agli 'specula principum', dalle <i>Summae</i> morali alla lirica guittoniana fino allo stesso <i>Trésor</i> di Brunetto (cfr. Corti 1959). Ma evidentemente gli autori"" per Dante erano altri, quelli della cultura universitaria dove il tema della nobiltà era stato affrontato solo saltuariamente, in relazione a testi aristotelici non centrali come la <i>Politica</i> e la <i>Retorica</i>, oppure nelle disputazioni <i>de quolibet</i> (ai testi di Pietro d' Alvernia e Giovanni Vate citati da Marco Toste - cfr. Toste 2005- sono da aggiungere quelli di Enrico di Gand e di Nicolas de Vaudemont. Vedi <i>Introduzione</i> ). Basterà notare lo spazio assai limitato, in confronto con la trattazione del <i>Convivio</i>, riservato da Egidio Romano alla nozione di <i>vera nobilitas</i> e per di più in un contesto parenetico e non argomentativo (cfr. <i>De regimine principum</i> II iii 18, pp. 391-4). Il quarto trattato del <i>Convivio</i> aspira dunque a raggiungere il livello di questa cultura sia per la 'forma tractatus' (il contenuto), che per la 'forma tractandi' (il metodo) e contemporaneamente a colmarne una lacuna. Ancora verso la metà del XIV secolo uno dei più insigni rappresentanti della cultura giuridica universitaria, Bartolo da Sassoferrato, che aveva letto sì e criticato la posizione di Dante, ma che conosceva solo la canzone e non il <i>Convivio</i>, affermerà che ""sub nomine nobilitatis non habemus aliquem specialem tractatum"" (cfr. Borsa 2007, p. 86)","II iii 18, pp. 391-4",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_regimine_principum,De regimine principum (Egidio Romano),Egidio Romano,http://dbpedia.org/resource/Giles_of_Rome,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
ANTICA RICCHEZZA E BELLI COSTUMI,"ricchezze da lungo tempo possedute unite a comportamenti cortesi'. Per questa presunta risposta di Federico non è stata individuata alcuna fonte soddisfacente: nell'ambiente della Curia federiciana, così come in un componimento dello stesso Federico, sembra semmai aver avuto corso proprio l'identificazione della nobiltà con la virtù"" personale (cfr. Delle Donne 1999, Peirone 2005). Anche l'affermazione secondo cui la definizione coincide con quella data da Aristotele nel quarto libro della <i>Politica</i> (8, 1294 a 20-22) è vera solo in parte: lo Stagirita infatti parla di 'antica ricchezza', ma non di 'belli costumi', bensì proprio di ""virtù"" (""quod vocant ingenuitatem assequitur duobus: ingenuitas enim est virtus et divitiae antiquae""), anche se, nel libro quinto (1, 1302 a 1) essa verrà specificata come 'virtus generis', dunque non personale, ma tramandata di padre in figlio (""Nobiles esse videntur quibus existunt progenitorum virtus et divitiae"").","quarto libro della Politica (8, 1294 a 20-22)",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Politics_(Aristotle),Politica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
ANTICA RICCHEZZA E BELLI COSTUMI,"ricchezze da lungo tempo possedute unite a comportamenti cortesi'. Per questa presunta risposta di Federico non è stata individuata alcuna fonte soddisfacente: nell'ambiente della Curia federiciana, così come in un componimento dello stesso Federico, sembra semmai aver avuto corso proprio l'identificazione della nobiltà con la virtù"" personale (cfr. Delle Donne 1999, Peirone 2005). Anche l'affermazione secondo cui la definizione coincide con quella data da Aristotele nel quarto libro della <i>Politica</i> (8, 1294 a 20-22) è vera solo in parte: lo Stagirita infatti parla di 'antica ricchezza', ma non di 'belli costumi', bensì proprio di ""virtù"" (""quod vocant ingenuitatem assequitur duobus: ingenuitas enim est virtus et divitiae antiquae""), anche se, nel libro quinto (1, 1302 a 1) essa verrà specificata come 'virtus generis', dunque non personale, ma tramandata di padre in figlio (""Nobiles esse videntur quibus existunt progenitorum virtus et divitiae"").","libro quinto (1, 1302 a 1)",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Politics_(Aristotle),Politica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
LATRANO,"abbaiano rabbiosamente' L'immagine del latrare"" sottolinea la violenta irrazionalità con cui l'opinione condannata da Dante viene sostenuta. Cfr. <i>If</i> VI 12-13 ""Cerbero, fiera crudele e diversa / con tre gole caninamente latra"". Che la concezione della nobiltà come 'antiquae divitiae' sia propria della massa è detto dal <i>De regimine principum</i> di Egidio Romano: "" nobilitas secundum communem acceptionem hominum nihil est aliud quam antiquatae divitiae"" (I iv 5, p. 204).","nobilitas secundum communem acceptionem hominum nihil est aliud quam antiquatae divitiae"" (I iv 5, p. 204)""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_regimine_principum,De regimine principum (Egidio Romano),Egidio Romano,http://dbpedia.org/resource/Giles_of_Rome,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
IMPOSSIBILE È ... ESSERE,"è impossibile che sia'. L'affermazione per cui ciò che i più ritengono vero non può essere del tutto falso non si trova alla lettera in Aristotele (ancora una volta il Filosofo per eccellenza). Tuttavia alcuni luoghi aristotelici erano già stati interpretati in questo senso dai commentatori medievale. Per esempio, relativamente alla notazione presente nel <i>De somno et vigilia</i> secondo cui è difficile rifiutare in assoluto l'esistenza di una previsione del futuro mediante i sogni, dato che quasi tutti ne hanno fatto esperienza, Averroè così glossava: ea que sunt famosa apud omnes, aut sunt necessaria secundum totum aut secundum partem; impossibile enim est ut famosum sit falsum secundum totum"" (<i>Compendium de somno et vigilia</i>, p. 95, ll. 31-33 ) e commentando un passo del settimo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> in cui Aristotele dice che se tutti cercano il piacere, questo è un segno che esso è veramente il bene sommo (VII 13, 1153 b 25-26) Tommaso afferma: ""Illud ... in quod omnes vel plures consentiunt, non potest esse omnino falsum"" (<i>lectio</i> 13, n. 1509).","p. 95, ll. 31-33",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Compendium_de_somno_et_vigilia(Averroè),Compendium de somno et vigilia,Averroè,http://dbpedia.org/resource/Averroes,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
IMPOSSIBILE È ... ESSERE,"è impossibile che sia'. L'affermazione per cui ciò che i più ritengono vero non può essere del tutto falso non si trova alla lettera in Aristotele (ancora una volta il Filosofo per eccellenza). Tuttavia alcuni luoghi aristotelici erano già stati interpretati in questo senso dai commentatori medievale. Per esempio, relativamente alla notazione presente nel <i>De somno et vigilia</i> secondo cui è difficile rifiutare in assoluto l'esistenza di una previsione del futuro mediante i sogni, dato che quasi tutti ne hanno fatto esperienza, Averroè così glossava: ea que sunt famosa apud omnes, aut sunt necessaria secundum totum aut secundum partem; impossibile enim est ut famosum sit falsum secundum totum"" (<i>Compendium de somno et vigilia</i>, p. 95, ll. 31-33 ) e commentando un passo del settimo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> in cui Aristotele dice che se tutti cercano il piacere, questo è un segno che esso è veramente il bene sommo (VII 13, 1153 b 25-26) Tommaso afferma: ""Illud ... in quod omnes vel plures consentiunt, non potest esse omnino falsum"" (<i>lectio</i> 13, n. 1509).","lectio 13, n. 1509",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
È LA NECESSITÀ DELLA UMANA CIVILITADE,"si basa sulla necessità che esista una comunità politica'. Il lemma umana civilitade"" è ripreso alla lettera in <i>Mn</i> I iii 1: ""Nunc autem videndum est quid sit finis totius humane civilitatis"". Il termine <i>civilitas</i> come equivalente al greco <i>politeia</i>, ha poche occorrenze nel lessico dei traduttori latini di Aristotele: cfr. <i>Eth. Nic</i>. II 1, 1103 b 6, sia nella traduzione di Burgundio da Pisa della cosiddetta <i>Ethica Vetus</i> che in quella, posteriore, di Roberto Grossatesta; III 9, 1113 a 8, solo nella traduzione di Burgundio (Roberto utilizza qui il termine <i>urbanitas</i>, ma nel suo commento Tommaso glossa: ""id est <i>civilitas</i>""). Con questo unico termine viene indicato dai commentatori medievali (Alberto, Tommaso, Tolomeo da Lucca) ciò che il pensiero moderno ha distinto: le strutture politiche (lo Stato, la costituzione) e le relazioni interne alla società civile che, nel loro rapporto inscindibile caratterizzano la vita umana rispetto a quella degli animali. Il termine ""civilitade"" era già stato usato in <i>Cv</i> II iv 13 a proposito dell'ordine interno all'universo. Cfr. Minio-Paluello 1993, Rosier-Catach 2011a","II 1, 1103 b 6 sia nella traduzione di Burgundio da Pisa della cosiddetta Ethica Vetus che in quella, posteriore, di Roberto Grossatesta; III 9, 1113 a 8, solo nella traduzione di Burgundio",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
VITA FELICE,"cfr. <i>Pol</i> I 1, 1253b 30 Facta quidem igitur civitas vivendi gratia, existens autem gratia bene vivendi"".","1, 1253b 30 Facta quidem igitur civitas vivendi gratia, existens autem gratia bene vivendi",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Politics_(Aristotle),Politica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SATISFARE,"soddisfare'. La concezione dell'uomo come essere dotato di bisogni che la natura non soddisfa immediatamente come avviene per gli altri animali, ma cui si deve ovviare attraverso una collaborazione tra individui, e l'idea che questa sia la radice e l'origine delle varie realtà civili e politiche, non è di stretta ascendenza aristotelica. Essa si trova piuttosto in Tommaso d'Aquino di cui Dante sembra proprio seguire da vicino le espressioni presenti nel Commento all' <i>Etica Nicomachea</i> (I, <i>lectio</i> 1, n. 4) homo naturaliter est animal sociale, utpote qui indiget ad suam vitam multis quae sibi ipse solus praeparare non potest"".","(I, lectio 1, n. 4) homo naturaliter est animal sociale, utpote qui indiget ad suam vitam multis quae sibi ipse solus praeparare non potest",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
DICE LO FILOSOFO CHE L'UOMO NATURALMENTE È COMPAGNEVOLE ANIMALE,"il termine compagnevole"" non corrisponde del tutto né a <i>civile</i> né a <i>politicum</i> usati alternativamente nelle traduzioni latine dei testi aristotelici là dove parlano dell'uomo come <i>zóon politikón</i> (cfr. ad esempio <i>Pol</i>. I 2, 1253 a 1-3; III 6, 1278 b 19; <i>Eth. Nic</i>. I 7, 1097 b 11; IX 9, 1169 b 18). Il lemma 'animal sociale' che potrebbe aver dato luogo al ""compagnevole"" è presente, come abbiamo appena visto, in un testo di Tommaso che Dante ha avuto sicuramente presente. L'aggettivo ""compagnevole"" viene comunque usato nel volgarizzamento italiano del <i>De regimine principum</i>: ""l'uomo die vivare in compagnia naturalmente ed essere compagnevole per natura"" (p. 127).","I 7, 1097 b 11;",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Politics_(Aristotle),Politica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DICE LO FILOSOFO CHE L'UOMO NATURALMENTE È COMPAGNEVOLE ANIMALE,"il termine compagnevole"" non corrisponde del tutto né a <i>civile</i> né a <i>politicum</i> usati alternativamente nelle traduzioni latine dei testi aristotelici là dove parlano dell'uomo come <i>zóon politikón</i> (cfr. ad esempio <i>Pol</i>. I 2, 1253 a 1-3; III 6, 1278 b 19; <i>Eth. Nic</i>. I 7, 1097 b 11; IX 9, 1169 b 18). Il lemma 'animal sociale' che potrebbe aver dato luogo al ""compagnevole"" è presente, come abbiamo appena visto, in un testo di Tommaso che Dante ha avuto sicuramente presente. L'aggettivo ""compagnevole"" viene comunque usato nel volgarizzamento italiano del <i>De regimine principum</i>: ""l'uomo die vivare in compagnia naturalmente ed essere compagnevole per natura"" (p. 127).","I 7, 1097 b 11;",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DICE LO FILOSOFO CHE L'UOMO NATURALMENTE È COMPAGNEVOLE ANIMALE,"il termine compagnevole"" non corrisponde del tutto né a <i>civile</i> né a <i>politicum</i> usati alternativamente nelle traduzioni latine dei testi aristotelici là dove parlano dell'uomo come <i>zóon politikón</i> (cfr. ad esempio <i>Pol</i>. I 2, 1253 a 1-3; III 6, 1278 b 19; <i>Eth. Nic</i>. I 7, 1097 b 11; IX 9, 1169 b 18). Il lemma 'animal sociale' che potrebbe aver dato luogo al ""compagnevole"" è presente, come abbiamo appena visto, in un testo di Tommaso che Dante ha avuto sicuramente presente. L'aggettivo ""compagnevole"" viene comunque usato nel volgarizzamento italiano del <i>De regimine principum</i>: ""l'uomo die vivare in compagnia naturalmente ed essere compagnevole per natura"" (p. 127).","IX 9, 1169 b 18",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DICE LO FILOSOFO CHE L'UOMO NATURALMENTE È COMPAGNEVOLE ANIMALE,"il termine compagnevole"" non corrisponde del tutto né a <i>civile</i> né a <i>politicum</i> usati alternativamente nelle traduzioni latine dei testi aristotelici là dove parlano dell'uomo come <i>zóon politikón</i> (cfr. ad esempio <i>Pol</i>. I 2, 1253 a 1-3; III 6, 1278 b 19; <i>Eth. Nic</i>. I 7, 1097 b 11; IX 9, 1169 b 18). Il lemma 'animal sociale' che potrebbe aver dato luogo al ""compagnevole"" è presente, come abbiamo appena visto, in un testo di Tommaso che Dante ha avuto sicuramente presente. L'aggettivo ""compagnevole"" viene comunque usato nel volgarizzamento italiano del <i>De regimine principum</i>: ""l'uomo die vivare in compagnia naturalmente ed essere compagnevole per natura"" (p. 127).",l'uomo die vivare in compagnia naturalmente ed essere compagnevole per natura (p. 127),CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_regimine_principum,De regimine principum (Egidio Romano),Egidio Romano,http://dbpedia.org/resource/Giles_of_Rome,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
DICE LO FILOSOFO CHE L'UOMO NATURALMENTE È COMPAGNEVOLE ANIMALE,"il termine compagnevole"" non corrisponde del tutto né a <i>civile</i> né a <i>politicum</i> usati alternativamente nelle traduzioni latine dei testi aristotelici là dove parlano dell'uomo come <i>zóon politikón</i> (cfr. ad esempio <i>Pol</i>. I 2, 1253 a 1-3; III 6, 1278 b 19; <i>Eth. Nic</i>. I 7, 1097 b 11; IX 9, 1169 b 18). Il lemma 'animal sociale' che potrebbe aver dato luogo al ""compagnevole"" è presente, come abbiamo appena visto, in un testo di Tommaso che Dante ha avuto sicuramente presente. L'aggettivo ""compagnevole"" viene comunque usato nel volgarizzamento italiano del <i>De regimine principum</i>: ""l'uomo die vivare in compagnia naturalmente ed essere compagnevole per natura"" (p. 127).","(I, lectio 1, n. 4) homo naturaliter est animal sociale, utpote qui indiget ad suam vitam multis quae sibi ipse solus praeparare non potest",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
CIRCAVICINE,"circonvicine'. In questo paragrafo Dante riassume brevemente il primo capitolo del primo libro della <i>Politica</i>, (1252 a 1 sgg ) in cui Aristotele presenta l'evoluzione naturale dei rapporti politico-sociali, dalla famiglia al villaggio (vicinanza""), che raggiunge nella <i>polis</i>-<i>civitas</i> la pienezza di autosufficienza solo parzialmente realizzata dalle tappe intermedie. Il regno, che per Aristotele è solo una delle forme costituzionali possibili della <i>polis</i>, viene invece introdotto come ultima e più perfetta struttura statuale dalle teorie politiche di molti pensatori tardo medievali che insieme ne registrano l'esistenza, ne fondano filosoficamente la necessità e ne esaltano la funzione, particolarmente per quel che riguarda la monarchia francese (cfr. Renna 1978). Il testo più significativo e il più diffuso, anche in ambienti non universitari è il <i>De regimine principum</i> di Egidio Romano, dedicato a Filippo, erede del trono di Francia, il futuro Filippo il Bello (cfr. III i 5 ""Quod praeter communitatem civitatis, utile fuit in vita humana esse communitatem regni"", pp. 411-2). L' opera di Egidio, certamente nota a Dante, contiene una teoria della formazione del <i>regnum</i> come federazione di <i>civitates</i> in funzione sia della difesa comune che dello scambio di beni cui il <i>Convivio</i> avrebbe potuto ispirarsi.",1252 a 1 sgg,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Politics_(Aristotle),Politica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
CIRCAVICINE,"circonvicine'. In questo paragrafo Dante riassume brevemente il primo capitolo del primo libro della <i>Politica</i>, (1252 a 1 sgg ) in cui Aristotele presenta l'evoluzione naturale dei rapporti politico-sociali, dalla famiglia al villaggio (vicinanza""), che raggiunge nella <i>polis</i>-<i>civitas</i> la pienezza di autosufficienza solo parzialmente realizzata dalle tappe intermedie. Il regno, che per Aristotele è solo una delle forme costituzionali possibili della <i>polis</i>, viene invece introdotto come ultima e più perfetta struttura statuale dalle teorie politiche di molti pensatori tardo medievali che insieme ne registrano l'esistenza, ne fondano filosoficamente la necessità e ne esaltano la funzione, particolarmente per quel che riguarda la monarchia francese (cfr. Renna 1978). Il testo più significativo e il più diffuso, anche in ambienti non universitari è il <i>De regimine principum</i> di Egidio Romano, dedicato a Filippo, erede del trono di Francia, il futuro Filippo il Bello (cfr. III i 5 ""Quod praeter communitatem civitatis, utile fuit in vita humana esse communitatem regni"", pp. 411-2). L' opera di Egidio, certamente nota a Dante, contiene una teoria della formazione del <i>regnum</i> come federazione di <i>civitates</i> in funzione sia della difesa comune che dello scambio di beni cui il <i>Convivio</i> avrebbe potuto ispirarsi.","III i 5 ""Quod praeter communitatem civitatis, utile fuit in vita humana esse communitatem regni"", pp. 411-2""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_regimine_principum,De regimine principum (Egidio Romano),Egidio Romano,http://dbpedia.org/resource/Giles_of_Rome,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
MONARCHIA,"nell'uso attuale il termine si riferisce ad una particolare forma di governo che si specifica in una pluralità di istanze compresenti geograficamente e storicamente (quindi può essere usato anche al plurale: le 'monarchie'europee sono quella inglese, quella olandese etc.). Ed è questo il senso che la tradizione lessicografica, prima con le <i>Etymologiae</i> di Isidoro di Siviglia e poi con le <i>Derivationes</i> di Uguccione, dà al vocabolo latino, di cui quello volgare è un semplice calco (Monarchae sunt qui singularem possident principatum ... Hinc et <i>monarchia</i> dicitur"" IX iii 23, vol. I, s. p. ""<i>Monarcha</i>-e, princeps unius civitatis ... vel unicus princeps in aliquo regno, et inde hec <i>monarchia</i>-chie, eius potestas "" s.v. <i>Archos</i>, A, 312, 5, p. 86 ). Nel linguaggio politico aristotelico <i>monarchia</i> indica un genere di costituzione (il comando di uno solo) che può dare luogo a diverse specie (""regnum, tyrannis, <i>monarchia</i> temperata"") come sottolineeranno ad esempio Pietro d'Alvernia nella continuazione del commento di Tommaso alla Politica e Marsilio da Padova nel <i>Defensor Pacis</i>. Dante gli dà invece il significato di dominio universale (""tutta la terra""). Un precedente potrebbe essere individuato nel <i>Trésor</i> , dove, a proposito dei grandi imperi mondiali (Assiri e Romani) si dice che ciascuno di essi tenne ""la monarchie de tout le monde"" (I XIX 1, p. 36). Occorrenze volgari del termine in questo senso, anteriori o contemporanee di Dante, sono pressoché inesistenti.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Etymologiae,Etymologiae,Isidoro di Siviglia,http://dbpedia.org/resource/Isidore_of_Seville,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
MONARCHIA,"nell'uso attuale il termine si riferisce ad una particolare forma di governo che si specifica in una pluralità di istanze compresenti geograficamente e storicamente (quindi può essere usato anche al plurale: le 'monarchie'europee sono quella inglese, quella olandese etc.). Ed è questo il senso che la tradizione lessicografica, prima con le <i>Etymologiae</i> di Isidoro di Siviglia e poi con le <i>Derivationes</i> di Uguccione, dà al vocabolo latino, di cui quello volgare è un semplice calco (Monarchae sunt qui singularem possident principatum ... Hinc et <i>monarchia</i> dicitur"" IX iii 23, vol. I, s. p. ""<i>Monarcha</i>-e, princeps unius civitatis ... vel unicus princeps in aliquo regno, et inde hec <i>monarchia</i>-chie, eius potestas "" s.v. <i>Archos</i>, A, 312, 5, p. 86 ). Nel linguaggio politico aristotelico <i>monarchia</i> indica un genere di costituzione (il comando di uno solo) che può dare luogo a diverse specie (""regnum, tyrannis, <i>monarchia</i> temperata"") come sottolineeranno ad esempio Pietro d'Alvernia nella continuazione del commento di Tommaso alla Politica e Marsilio da Padova nel <i>Defensor Pacis</i>. Dante gli dà invece il significato di dominio universale (""tutta la terra""). Un precedente potrebbe essere individuato nel <i>Trésor</i> , dove, a proposito dei grandi imperi mondiali (Assiri e Romani) si dice che ciascuno di essi tenne ""la monarchie de tout le monde"" (I XIX 1, p. 36). Occorrenze volgari del termine in questo senso, anteriori o contemporanee di Dante, sono pressoché inesistenti.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Derivationes_Magnae,Derivationes Magnae,Uguccione da Pisa,http://dbpedia.org/resource/Huguccio,http://purl.org/bncf/tid/9228,WORK
MONARCHIA,"nell'uso attuale il termine si riferisce ad una particolare forma di governo che si specifica in una pluralità di istanze compresenti geograficamente e storicamente (quindi può essere usato anche al plurale: le 'monarchie'europee sono quella inglese, quella olandese etc.). Ed è questo il senso che la tradizione lessicografica, prima con le <i>Etymologiae</i> di Isidoro di Siviglia e poi con le <i>Derivationes</i> di Uguccione, dà al vocabolo latino, di cui quello volgare è un semplice calco (Monarchae sunt qui singularem possident principatum ... Hinc et <i>monarchia</i> dicitur"" IX iii 23, vol. I, s. p. ""<i>Monarcha</i>-e, princeps unius civitatis ... vel unicus princeps in aliquo regno, et inde hec <i>monarchia</i>-chie, eius potestas "" s.v. <i>Archos</i>, A, 312, 5, p. 86 ). Nel linguaggio politico aristotelico <i>monarchia</i> indica un genere di costituzione (il comando di uno solo) che può dare luogo a diverse specie (""regnum, tyrannis, <i>monarchia</i> temperata"") come sottolineeranno ad esempio Pietro d'Alvernia nella continuazione del commento di Tommaso alla Politica e Marsilio da Padova nel <i>Defensor Pacis</i>. Dante gli dà invece il significato di dominio universale (""tutta la terra""). Un precedente potrebbe essere individuato nel <i>Trésor</i> , dove, a proposito dei grandi imperi mondiali (Assiri e Romani) si dice che ciascuno di essi tenne ""la monarchie de tout le monde"" (I XIX 1, p. 36). Occorrenze volgari del termine in questo senso, anteriori o contemporanee di Dante, sono pressoché inesistenti.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Defensor_pacis,Defensor pacis,Marsilio da Padova,http://dbpedia.org/resource/Marsilius_of_Padua,http://purl.org/bncf/tid/5750,WORK
MONARCHIA,"nell'uso attuale il termine si riferisce ad una particolare forma di governo che si specifica in una pluralità di istanze compresenti geograficamente e storicamente (quindi può essere usato anche al plurale: le 'monarchie'europee sono quella inglese, quella olandese etc.). Ed è questo il senso che la tradizione lessicografica, prima con le <i>Etymologiae</i> di Isidoro di Siviglia e poi con le <i>Derivationes</i> di Uguccione, dà al vocabolo latino, di cui quello volgare è un semplice calco (Monarchae sunt qui singularem possident principatum ... Hinc et <i>monarchia</i> dicitur"" IX iii 23, vol. I, s. p. ""<i>Monarcha</i>-e, princeps unius civitatis ... vel unicus princeps in aliquo regno, et inde hec <i>monarchia</i>-chie, eius potestas "" s.v. <i>Archos</i>, A, 312, 5, p. 86 ). Nel linguaggio politico aristotelico <i>monarchia</i> indica un genere di costituzione (il comando di uno solo) che può dare luogo a diverse specie (""regnum, tyrannis, <i>monarchia</i> temperata"") come sottolineeranno ad esempio Pietro d'Alvernia nella continuazione del commento di Tommaso alla Politica e Marsilio da Padova nel <i>Defensor Pacis</i>. Dante gli dà invece il significato di dominio universale (""tutta la terra""). Un precedente potrebbe essere individuato nel <i>Trésor</i> , dove, a proposito dei grandi imperi mondiali (Assiri e Romani) si dice che ciascuno di essi tenne ""la monarchie de tout le monde"" (I XIX 1, p. 36). Occorrenze volgari del termine in questo senso, anteriori o contemporanee di Dante, sono pressoché inesistenti.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Continuatio_S.Thomae_in_Politicam,Continuatio S.Thomae in Politicam,Pietro d'Alvernia,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Pietro_d_Alvernia,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
MONARCHIA,"nell'uso attuale il termine si riferisce ad una particolare forma di governo che si specifica in una pluralità di istanze compresenti geograficamente e storicamente (quindi può essere usato anche al plurale: le 'monarchie'europee sono quella inglese, quella olandese etc.). Ed è questo il senso che la tradizione lessicografica, prima con le <i>Etymologiae</i> di Isidoro di Siviglia e poi con le <i>Derivationes</i> di Uguccione, dà al vocabolo latino, di cui quello volgare è un semplice calco (Monarchae sunt qui singularem possident principatum ... Hinc et <i>monarchia</i> dicitur"" IX iii 23, vol. I, s. p. ""<i>Monarcha</i>-e, princeps unius civitatis ... vel unicus princeps in aliquo regno, et inde hec <i>monarchia</i>-chie, eius potestas "" s.v. <i>Archos</i>, A, 312, 5, p. 86 ). Nel linguaggio politico aristotelico <i>monarchia</i> indica un genere di costituzione (il comando di uno solo) che può dare luogo a diverse specie (""regnum, tyrannis, <i>monarchia</i> temperata"") come sottolineeranno ad esempio Pietro d'Alvernia nella continuazione del commento di Tommaso alla Politica e Marsilio da Padova nel <i>Defensor Pacis</i>. Dante gli dà invece il significato di dominio universale (""tutta la terra""). Un precedente potrebbe essere individuato nel <i>Trésor</i> , dove, a proposito dei grandi imperi mondiali (Assiri e Romani) si dice che ciascuno di essi tenne ""la monarchie de tout le monde"" (I XIX 1, p. 36). Occorrenze volgari del termine in questo senso, anteriori o contemporanee di Dante, sono pressoché inesistenti.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Tresor,Trésor,Brunetto Latini,http://dbpedia.org/resource/Brunetto_Latini,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
PRENDANO OGNI LORO BISOGNO,"soddisfino ogni loro necessità'. Se nell'assenza di una autorità superiore che tenga a freno i re, la discordia tra regno e regno esercita la sua nefasta influenza su tutte le entità politiche e sociali inferiori fino a render impossibile per l' individuo una vita buona, l'esistenza di un arbitro unico (e quindi privo di ogni stimolo competitivo) è fonte di una pace che pervade tutte le strutture della vita associata ed è così capace di assicurare ai singoli le condizioni necessarie per raggiungere e godere della felicità. Dante sembra qui anticipare l'ideale di un Buon Governo i cui benefici effetti, come negli affreschi di Ambrogio Lorenzetti, si riverberano su ogni aspetto dell'esistenza, solo che si tratta di un governo che riguarda non una singola città, ma l'intero genere umano. Anche i <i>magistri</i> parigini avevano sostenuto che compito della della autorità politica è garantire ai cittadini la possibilità di dedicarsi in pace alla attività intellettuale e all'esercizio delle virtù morali, ma il loro orizzonte era rimasto quello dei conflitti tra le diverse <i>civitates</i> (Propter hoc enim ars militaris ordinata est in civitate a legislatore, ut expulsis hostibus, cives possint vacare virtutibus intellectualibus contemplantes verum et virtutibus moralibus operantes bonum et vivant vitam beatam"" Boezio di Dacia, <i>De summo bono</i>, p. 371, ll. 67-71).","Propter hoc enim ars militaris ordinata est in civitate a legislatore, ut expulsis hostibus, cives possint vacare virtutibus intellectualibus contemplantes verum et virtutibus moralibus operantes bonum et vivant vitam beatam"" Boezio di Dacia, De summo bono, p. 371, ll. 67-71""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_summo_bono,De summo bono,Boezio di Dacia,http://dbpedia.org/resource/Boetius_of_Dacia,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
PAROLE DEL FILOSOFO... NELLA POLITICA,"anche se il concetto è effettivamente presente in <i>Pol</i>. I, 5, 1254 a 28-31 (Quandocumque ... ex pluribus constituta sunt ... in omnibus videtur principans et subiectum""), il testo di riferimento è sicuramente il proemio del commento di Tommaso alla <i>Metafisica</i>: ""Sicut docet Philosophus in Politicis suis, quando aliqua plura ordinantur ad unum, oportet unum eorum esse regulans, sive regens, et alia regulata sive recta"" (Dante leggeva ""dicit"" al posto di ""docet""?).","Pol. I, 5, 1254 a 28-31 (Quandocumque ... ex pluribus constituta sunt ... in omnibus videtur principans et subiectum"")""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Politics_(Aristotle),Politica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PAROLE DEL FILOSOFO... NELLA POLITICA,"anche se il concetto è effettivamente presente in <i>Pol</i>. I, 5, 1254 a 28-31 (Quandocumque ... ex pluribus constituta sunt ... in omnibus videtur principans et subiectum""), il testo di riferimento è sicuramente il proemio del commento di Tommaso alla <i>Metafisica</i>: ""Sicut docet Philosophus in Politicis suis, quando aliqua plura ordinantur ad unum, oportet unum eorum esse regulans, sive regens, et alia regulata sive recta"" (Dante leggeva ""dicit"" al posto di ""docet""?).","Sicut docet Philosophus in Politicis suis, quando aliqua plura ordinantur ad unum, oportet unum eorum esse regulans, sive regens, et alia regulata sive recta",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Metaphysicae(Tommaso),Sententia libri Metaphysicae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
ESSERCITI,"cfr. <i>Metaph.</i> XII 10, 1075 a 11-15; 1076 a 3","XII 10, 1075 a 11-15; 1076 a 3",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
GENTE LATINA,"qui ""gente latina"" vale per gli abitanti dell Italia in generale; il popolo santo che aveva mescolato (""mischiato"") il suo sangue con il sangue nobilissimo (""alto"") dei Troiani sono invece i Latini in senso stretto, che secondo il racconto dell'<i>Eneide</i>, si erano uniti attraverso matrimoni ad Enea ed ai suoi compagni dando origine al popolo romano. Almeno in questo caso, dunque, Dante dà credito alla nobiltà non individuale, ma di stirpe. Sulla nobiltà del sangue di Enea Dante si diffonderà ampiamente in <i>Mn</i> II iii.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Aeneid,Aeneis,Virgilio,http://dbpedia.org/resource/Virgil,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
GRANDISSIMA E UMANISSIMA BENIGNITADE,"della mitezza e della eccezionale umana benevolenza (umanissima benignitade"") dimostrata dai Romani verso i popoli soggetti aveva già parlato Tolomeo da Lucca nella continuazione del <i>De regno</i> di Tommaso, III 6 (""Quomodo Romanis concessum est dominium propter ipsorum civilem benevolentiam"").","III 6 (""Quomodo Romanis concessum est dominium propter ipsorum civilem benevolentiam"")""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_regimine_principum(Tolomeo_da_Lucca),De regimine principum (Tolomeo da Lucca),Tolomeo da Lucca,http://dbpedia.org/resource/Bartholomew_of_Lucca,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
DISPOSTO,"predisposto, adatto per natura'. Cfr. <i>Mn</i> II vi 7  Propter quod videmus quod quidam ... populi apti sunt nati principari""; 11 ""Satis persuasum est quod romanus populus a natura ordinatus fuit ad imperandum"". Che alcune razze o popoli fossero per natura disposti al comando era stato già sostenuto da Aristotele nel settimo libro della <i>Politica</i>, ma si trattava in questo caso non dei Romani, ma dei Greci (cfr. <i>Pol</i>. VII  7, 1327 b20 sgg).","VII 7, 1327 b20 sgg",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Politics_(Aristotle),Politica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
A COSTORO ...,"Dante traduce <i>Eneide</i> I 278-279 His ergo nec metas rerum nec tempora pono / Imperium sine fine dedi"". Chi parla è Giove, quel 'sommo Giove' che la Commedia identifica appunto con il Dio cristiano (cfr. <i>If</i> XXXI 91-93 e soprattutto <i>Pg</i> VI 118-119 ""E se licito m'è o sommo Giove / che fosti in terra per noi crucifisso ... "").","I 278-279 His ergo nec metas rerum nec tempora pono / Imperium sine fine dedi""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Aeneid,Aeneis,Virgilio,http://dbpedia.org/resource/Virgil,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
CAGIONE [INSTRUMENTALE],"causa strumentale'. Nel modello aristotelico (cfr. <i>Phys</i>. II 3, 194 b 29-31) la causa efficiente è ciò che dà inizio al movimento di generazione di un ente naturale (il padre che genera il figlio) o di produzione di un ente artificiale (lo scultore che scolpisce la statua o, appunto, il fabbro che produce il coltello). In questo secondo caso la causa efficiente si identifica con il progetto consapevole dell'artefice, cioè con il suo pensiero e quindi con la sua anima. Anche se si serve di uno strumento come il martello, il fabbro rimane la vera causa efficiente del coltello. Allo stesso modo un progetto razionale (ragione"") e per di più (""ancora"") divino, è stata la causa primaria dell'impero romano universale, e la forza delle armi è stata solo lo strumento di cui la provvidenza si è servita per raggiungere questo fine. L'esempio del fabbro, del coltello e del martello era già stato usato in <i>Cv</i> I xiii 4.","II 3, 194 b 29-31",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
IN PERSONA DE LA SAPIENZA,"mettendo queste parole in bocca alla Sapienza'. Cfr. <i>Prv</i> 8, 6 Audite quoniam de rebus magnis locutura sum"".","Prv 8, 6 Audite quoniam de rebus magnis locutura sum""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Proverbs,Libro dei Proverbi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
CHE CIÒ DOVEA COMPIERE,"cioè l'unificazione del mondo sotto un unico comando. Che l'impero di Cesare Augusto, la pace da lui imposta all'orbe ed il censimento universale fossero stati preordinati da Dio in funzione della nascita del Salvatore era stato sostenuto dallo storico cristiano Orosio (cfr. nota a <i>Cv</i> IV v 8).",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Historiae_adversus_paganos,Historiae adversus paganos,Orosio,http://dbpedia.org/resource/Orosius,http://purl.org/bncf/tid/9645,WORK
MONDISSIMO,"privo di ogni macchia'. La metafora di casa, albergo, dimora che Dante userà di nuovo in <i>Pd</i> XXIII, 103-105 (Io sono amore angelico, che giro / l'alta letizia che spira dal ventre / che fu albergo del nostro disiro"") per indicare la gestazione del Verbo incarnato nel seno di Maria era comune anche nella letteratura volgare del tempo. Già Rabano Mauro aveva detto che i termini <i>thalamus</i>, <i>tabernaculum</i> usati dalla Scrittura potevano essere applicati alla madre di Cristo (<i>Allegoriae in Sacram Scripturam</i>, PL 112, pp. 1062-63).","PL 112, pp. 1062-63",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Allegoriae_in_Universam_Sacram_Scripturam(Rabano_Mauro),Allegoriae in Sacram Scripturam,Rabano Mauro,http://dbpedia.org/resource/Rabanus_Maurus,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/esegesi_biblica,WORK
DOPO MOLTI MERITI,"probabilmente Dante si riferisce ai meriti degli antenati di Maria, i santi padri dui cui Tommaso dice che ex congruo meruerunt incarnationem desiderando et petendo"" (<i>Summa</i> <i>Theologiae</i> III, q. 2, a. 11).","III, q. 2, a. 11",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_Theologica,Summa Theologiae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
BALDEZZA ... DELL'UMANA GENERAZIONE,"gioiosa fiducia, allegrezza del genere umano. L'elogio ricalca quello rivolto nella Bibbia a Giuditta Tu gloria Jerusalem, tu laetitia Israel, tu honorificentia populi nostri"" (<i>Idt</i> 15, 10) applicato dalla liturgia alla Vergine'.","Idt 15, 10",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Judith,Libro di Giuditta,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
È SCRITTO IN ISAIA,"cfr: <i>Is</i>. 11.1 Et egredietur virga de radice Jesse, et flos de radice eius ascendet"".","Is. 11.1 Et egredietur virga de radice Jesse, et flos de radice eius ascendet",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Isaiah,Libro di Isaia,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
E IESSE FU PADRE,"Dante segue le genealogie di Gesù presenti sia in Matteo (1,1-17) che in Luca (3, 23-38). In realtà in entrambi chi discende da David non è Maria, bensì Giuseppe. Ma nell'esegesi cristiana del testo di Isaia, almeno a partire da San Girolamo, il virgulto che uscirà dalla radice di Jesse è sempre stata identificato con Maria (mentre il fiore indica il Cristo): Nos virgam de radice Jesse sanctam Mariam virginem intelligimus ... et florem dominum Salvatorem"" (PL 24, 144). Aimone di Halberstadt ne dedurrà che Maria stessa è della stirpe di David (""Virga de radice Jesse egressa est, quia virgo Maria ex propagine David orta est"" <i>Commentariorum in Isaiam libri tres</i> II, 11, PL 116, p. 779).","1,1-17",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Matthew,Vangelo di Matteo,Matteo,http://dbpedia.org/resource/Matthew_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
E IESSE FU PADRE,"Dante segue le genealogie di Gesù presenti sia in Matteo (1,1-17) che in Luca (3, 23-38). In realtà in entrambi chi discende da David non è Maria, bensì Giuseppe. Ma nell'esegesi cristiana del testo di Isaia, almeno a partire da San Girolamo, il virgulto che uscirà dalla radice di Jesse è sempre stata identificato con Maria (mentre il fiore indica il Cristo): Nos virgam de radice Jesse sanctam Mariam virginem intelligimus ... et florem dominum Salvatorem"" (PL 24, 144). Aimone di Halberstadt ne dedurrà che Maria stessa è della stirpe di David (""Virga de radice Jesse egressa est, quia virgo Maria ex propagine David orta est"" <i>Commentariorum in Isaiam libri tres</i> II, 11, PL 116, p. 779).","3, 23-38",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Luke,Vangelo di Luca,Luca,http://dbpedia.org/resource/Luke_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
E IESSE FU PADRE,"Dante segue le genealogie di Gesù presenti sia in Matteo (1,1-17) che in Luca (3, 23-38). In realtà in entrambi chi discende da David non è Maria, bensì Giuseppe. Ma nell'esegesi cristiana del testo di Isaia, almeno a partire da San Girolamo, il virgulto che uscirà dalla radice di Jesse è sempre stata identificato con Maria (mentre il fiore indica il Cristo): Nos virgam de radice Jesse sanctam Mariam virginem intelligimus ... et florem dominum Salvatorem"" (PL 24, 144). Aimone di Halberstadt ne dedurrà che Maria stessa è della stirpe di David (""Virga de radice Jesse egressa est, quia virgo Maria ex propagine David orta est"" <i>Commentariorum in Isaiam libri tres</i> II, 11, PL 116, p. 779).","PL 24, 144",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Isaiah,Libro di Isaia,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
E IESSE FU PADRE,"Dante segue le genealogie di Gesù presenti sia in Matteo (1,1-17) che in Luca (3, 23-38). In realtà in entrambi chi discende da David non è Maria, bensì Giuseppe. Ma nell'esegesi cristiana del testo di Isaia, almeno a partire da San Girolamo, il virgulto che uscirà dalla radice di Jesse è sempre stata identificato con Maria (mentre il fiore indica il Cristo): Nos virgam de radice Jesse sanctam Mariam virginem intelligimus ... et florem dominum Salvatorem"" (PL 24, 144). Aimone di Halberstadt ne dedurrà che Maria stessa è della stirpe di David (""Virga de radice Jesse egressa est, quia virgo Maria ex propagine David orta est"" <i>Commentariorum in Isaiam libri tres</i> II, 11, PL 116, p. 779).","II, 11, PL 116, p. 779 (Migne, Patrologia Latina, vol. 116)",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commentariorum_in_Isaiam_libri_tres(Aimone_di_Halberstadt),Commentariorum in Isaiam libri tres,Aimone di Halberstadt,http://dbpedia.org/resource/Haymo_of_Halberstadt,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/esegesi_biblica_vecchio_testamento,WORK
COME TESTIMONIANO LE SCRITTURE,"gli scritti degli storici'. La ricerca di corrispondenze tra la storia sacra biblica e quella profana dei regni terreni, messe per così dire in parallelo, risale almeno al <i>Chronicon</i> di Eusebio di Cesarea tradotto in latino da San Girolamo. Il modello, anche se a volte con variazioni dei calcoli, era stato utilizzato sia da Agostino nel <i>De civitate Dei</i>, sia da Orosio nelle <i>Historiae adversum paganos</i> ed era passato in compilazioni medievali come lo <i>Speculum Historiale</i> di Vincenzo di Beauvais.",,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Chronicon_(Jerome),Chronicon,Girolamo,http://dbpedia.org/resource/Jerome,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
COME TESTIMONIANO LE SCRITTURE,"gli scritti degli storici'. La ricerca di corrispondenze tra la storia sacra biblica e quella profana dei regni terreni, messe per così dire in parallelo, risale almeno al <i>Chronicon</i> di Eusebio di Cesarea tradotto in latino da San Girolamo. Il modello, anche se a volte con variazioni dei calcoli, era stato utilizzato sia da Agostino nel <i>De civitate Dei</i>, sia da Orosio nelle <i>Historiae adversum paganos</i> ed era passato in compilazioni medievali come lo <i>Speculum Historiale</i> di Vincenzo di Beauvais.",,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Chronicon_(Jerome),Chronicon,Girolamo,http://dbpedia.org/resource/Jerome,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
COME TESTIMONIANO LE SCRITTURE,"gli scritti degli storici'. La ricerca di corrispondenze tra la storia sacra biblica e quella profana dei regni terreni, messe per così dire in parallelo, risale almeno al <i>Chronicon</i> di Eusebio di Cesarea tradotto in latino da San Girolamo. Il modello, anche se a volte con variazioni dei calcoli, era stato utilizzato sia da Agostino nel <i>De civitate Dei</i>, sia da Orosio nelle <i>Historiae adversum paganos</i> ed era passato in compilazioni medievali come lo <i>Speculum Historiale</i> di Vincenzo di Beauvais.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/City_of_God_(book),De civitate Dei,Agostino,http://dbpedia.org/resource/Augustine_of_Hippo,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
COME TESTIMONIANO LE SCRITTURE,"gli scritti degli storici'. La ricerca di corrispondenze tra la storia sacra biblica e quella profana dei regni terreni, messe per così dire in parallelo, risale almeno al <i>Chronicon</i> di Eusebio di Cesarea tradotto in latino da San Girolamo. Il modello, anche se a volte con variazioni dei calcoli, era stato utilizzato sia da Agostino nel <i>De civitate Dei</i>, sia da Orosio nelle <i>Historiae adversum paganos</i> ed era passato in compilazioni medievali come lo <i>Speculum Historiale</i> di Vincenzo di Beauvais.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Historiae_adversus_paganos,Historiae adversus paganos,Orosio,http://dbpedia.org/resource/Orosius,http://purl.org/bncf/tid/9645,WORK
COME TESTIMONIANO LE SCRITTURE,"gli scritti degli storici'. La ricerca di corrispondenze tra la storia sacra biblica e quella profana dei regni terreni, messe per così dire in parallelo, risale almeno al <i>Chronicon</i> di Eusebio di Cesarea tradotto in latino da San Girolamo. Il modello, anche se a volte con variazioni dei calcoli, era stato utilizzato sia da Agostino nel <i>De civitate Dei</i>, sia da Orosio nelle <i>Historiae adversum paganos</i> ed era passato in compilazioni medievali come lo <i>Speculum Historiale</i> di Vincenzo di Beauvais.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://it.dbpedia.org/resource/Speculum_historiale,Speculum Historiale,Vincenzo di Beauvais,http://dbpedia.org/resource/Vincent_of_Beauvais,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
PER CHE,"per la qual cosa, cioè per il fatto che la nascita di Roma (denominata città santa"", come Gerusalemme) ha coinciso temporalmente con la nascita di Davide, antenato di Cristo, risulta evidente (""manifesto"") che l'esistenza dell'impero romano deriva da scelta divina In realtà i dati cronologici offerti dalle possibili fonti (Orosio, Vincenzo di Beauvais) danno un certo scarto tra i due avvenimenti Ma nel <i>Trésor</i> (I XL 4-5, pp. 74-76) Dante poteva leggere che lo sbarco di Enea aveva di poco preceduto il regno di David, tra la fine della terza e l'inzio della quarta era del mondo: dunque era ben possibile che la conquista del Lazio e la nascita del futuro re di Israele fossero cronologicamente contigue (vedi Scott 1972).","I XL 4-5, pp. 74-76",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Tresor,Trésor,Brunetto Latini,http://dbpedia.org/resource/Brunetto_Latini,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
SÌ COME ANCORA PER VIRTÙ DI LORO ARTI LI MATEMATICI POSSONO RITROVARE,"come anche oggi attraverso i metodi esatti della loro scienza gli astrologi possono riscontrare'. Il termine <i>mathematici</i> indicava comunemente, fin da Agostino e da Isidoro di Siviglia, gli astrologi, all'inizio con un' accentuazione decisamente negativa . I <i>mathematici</i> sono quegli astrologi che seguono una scienza superstitiosa"", "" in stellis auguriantur ... siderumque cursu nativitates hominum et mores praedicare (praedicere?) conantur"" (<i>Etymologiae</i> III xxvii 2, vol. I, s.p.). Non è affatto detto che con questo inciso Dante voglia collegare la situazione del cielo al concepimento di Cristo e riportare in qualche modo agli astri quella singolare eccellenza della sua natura umana cui si allude in <i>Cv</i> IV xxiii 10, come afferma il commento di <i>Vasoli</i>, attingendo a Nardi 1967, pp. 52-54.","III xxvii 2, vol. I, s.p.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Etymologiae,Etymologiae,Isidoro di Siviglia,http://dbpedia.org/resource/Isidore_of_Seville,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
LUCA EVANGELISTA,"cfr. <i>Lc</i> 2,1 Exiit edictum a Caesare Augusto ut describeretur universus orbis"". Nelle parole di Luca è centrale, per Dante, la specificazione che il censimento riguardava tutto il mondo abitato ('universus orbis'): esse diventano dunque la testimonianza della universalità dell'Impero romano. Cfr. <i>Mn</i> II viii 14.","Lc 2,1 Exiit edictum a Caesare Augusto ut describeretur universus orbis",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Luke,Vangelo di Luca,Luca,http://dbpedia.org/resource/Luke_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
FIA,"sarà'. In quanto universale la <i>pax Augusti</i> potrà esser restaurata ma mai accresciuta. Il collegamento tra la pace per cui fu serrato a Giano il suo delubro"" (<i>Pd</i> VI 81) e la nascita di Cristo, profetizzato da Isaia come principe della pace (cfr. <i>Is</i> 9, 6)  era già stato effettuato da Orosio (<i>Historiae adversum paganos</i> VI 22 1, dove leggiamo appunto che Augusto ""cunctis gentibus una pace conpositis, Iani portas ... ipse tunc clausit"")",VI 22 1,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Historiae_adversus_paganos,Historiae adversus paganos,Orosio,http://dbpedia.org/resource/Orosius,http://purl.org/bncf/tid/9645,WORK
OH INEFFABILE E INCOMPRENSIBILE SAPIENZA DI DIO,"l'appello alla incomprensibilità della sapienza divina con cui Paolo chiudeva il cap. 11 della Lettera ai Romani parlando del mistero della vocazione dei Gentili, viene da Dante audacemente usato per parlare del disegno con cui di Dio avrebbe preparato, attraverso i fatti e i personaggi dei Romani, la venuta di suo Figlio sulla terra. Il testo verrà di nuovo citato in <i>Cv</i> IV xxi 6 a proposito dell'infusione nell'uomo dell'anima intellettuale al termine di un lungo processo di formazione ed animazione dell'embrione",con cui Paolo chiudeva il cap. 11 della Lettera ai Romani,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Epistle_to_the_Romans,Epistola ad Romanos,Paolo,http://dbpedia.org/resource/Paul_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
IN SIRIA SUSO,"nell'accezione antica ed anche medievale la regione della Siria comprendeva tutto il Medio Oriente, dall'Eufrate ai confini con l'Egitto e inglobava quindi la Palestina. Bisogna poi ricordare che nel Vangelo di Luca si dice che il censimento si svolse mentre Quirino era proconsole (<i>praeses</i>, <i>hegemón</i> in greco) appunto della Siria. Quanto al suso"" riferito alla Siria rispetto al ""qua"" dell'Italia Dante quasi sicuramente aveva presente una delle rappresentazioni cartografiche del mondo detta a T-O con l' Est, e quindi l'Asia e la Siria, nella parte alta della mappa. Cfr. Harley -Woodward 1987, pp. 295 sgg.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Luke,Vangelo di Luca,Luca,http://dbpedia.org/resource/Luke_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
ALLA SUA PERFETTISSIMA ETADE,"alla piena maturità' (il predetto imperatore"" è ovviamente Cesare Augusto). Dante applica allo sviluppo di Roma il modello delle quattro età della vita umana così come aveva fatto lo storico Floro, vissuto sotto il principato di Adriano (o secondo un'altra ipotesi, sotto quello di Marco Aurelio) nella introduzione alle sue <i>Epitomae</i> delle <i>Storie</i> di Tito Livio: delle quattro suddivisioni (<i>infantia</i>, <i>adolescentia</i>, <i>juventus</i>, <i>senectus</i>) vengono qui usate solo le prime due, e se l'arco cronologico della prima (l'età dei re) coincide con quello offerto dal suo modello, nel caso della seconda (la <i>adolescentia</i>), mentre Floro la fa terminare con il consolato di Appio Claudio (corrispondente alla piena conquista dell'Italia), Dante la protrae fino al termine dell'età repubblicana, che coincide con il governo non di Ottaviano, ma di Giulio Cesare (vedi al § 12). Bisogna notare che nell' ampia trattazione delle quattro età dell'uomo presente in <i>Cv</i> IV xxiv sgg. Dante non menziona l'infanzia, assorbita nella <i>adolescentia</i>.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Epitomae_de_Tito_Livio(Floro),Epitomae de Tito Livio,Floro,http://dbpedia.org/resource/Florus,http://purl.org/bncf/tid/9645,WORK
SECONDO L'OPPORTUNITADE DEL PROCEDENTE TEMPO,"rispondendo ai bisogni dei diversi momenti dello sviluppo di Roma'. Nonostante il rimando a Tito Livio Dante dipende direttamente da Floro <i>Epitomae</i> I ii: Haec est prima aetas populi romani et quasi infantia, quam habuit sub regibus septem, quadam fatorum industria tam variis ingenio ut rei publicae ratio et utilitas postulabat"".","I ii: Haec est prima aetas populi romani et quasi infantia, quam habuit sub regibus septem, quadam fatorum industria tam variis ingenio ut rei publicae ratio et utilitas postulabat",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Epitomae_de_Tito_Livio(Floro),Epitomae de Tito Livio,Floro,http://dbpedia.org/resource/Florus,http://purl.org/bncf/tid/9645,WORK
TROVEREMO LEI ...  DIVINI,"ci renderemo conto che Roma è stata innalzata dall'azione di cittadini che superavano le comuni capacità umane'. Il termine divini"" echeggia con tutta probabilità il brano dell' <i>Etica Nicomachea</i> (VII, 1, 1145 a 18-25) in cui Aristotele parla della possibilità che alcuni uomini siano dotati di virtù tanto superiori al normale da potere esser detti divini e che le <i>Auctoritates Aristotelis</i> (p. 241, n.122) così sintetizzano: ""Homines dicuntur fieri dei propter virtutum excellentias""; cfr. nota a <i>Cv</i> III vii 6-7 e IV xx 10.","VII, 1, 1145 a 18-25",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
TROVEREMO LEI ...  DIVINI,"ci renderemo conto che Roma è stata innalzata dall'azione di cittadini che superavano le comuni capacità umane'. Il termine divini"" echeggia con tutta probabilità il brano dell' <i>Etica Nicomachea</i> (VII, 1, 1145 a 18-25) in cui Aristotele parla della possibilità che alcuni uomini siano dotati di virtù tanto superiori al normale da potere esser detti divini e che le <i>Auctoritates Aristotelis</i> (p. 241, n.122) così sintetizzano: ""Homines dicuntur fieri dei propter virtutum excellentias""; cfr. nota a <i>Cv</i> III vii 6-7 e IV xx 10.","p. 241, n.122 ""Homines dicuntur fieri dei propter virtutum excellentias""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Auctoritates_Aristotelis,Auctoritates Aristotelis,Johannes de Fonte,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Johannes_de_Fonte,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
ABBANDONARE,"lasciare'. Si tratta di Caio Fabrizio Luscinio, a proposito del quale Dante sembra aver contaminato diverse fonti: Valerio Massimo, che parla di un tentativo di corruzione da parte dei Sanniti (cfr. <i>Facta et Dicta Memorabilia</i> IV iii 6) e Agostino che aggiunge la proposta fattagli da Pirro di passare dalla sua parte abbandonando Roma (cfr. <i>De civitate Dei</i> V 18, p. 153).",IV iii 6,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Facta_et_dicta_memorabilia,Facta et dicta memorabilia,Valerio Massimo,http://dbpedia.org/resource/Valerius_Maximus,http://purl.org/bncf/tid/9645,WORK
ABBANDONARE,"lasciare'. Si tratta di Caio Fabrizio Luscinio, a proposito del quale Dante sembra aver contaminato diverse fonti: Valerio Massimo, che parla di un tentativo di corruzione da parte dei Sanniti (cfr. <i>Facta et Dicta Memorabilia</i> IV iii 6) e Agostino che aggiunge la proposta fattagli da Pirro di passare dalla sua parte abbandonando Roma (cfr. <i>De civitate Dei</i> V 18, p. 153).","V 18, p. 153",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/City_of_God_(book),De civitate Dei,Agostino,http://dbpedia.org/resource/Augustine_of_Hippo,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
DICENDO ... VOLEANO,"la fonte è il <i>De senectute</i> di Cicerone (xvi 55) Curio ad focum sedenti magnum auri pondus Samnites cum attulissent, repudiati sunt; non enim aurum habere praeclarum sibi videri dixit, sed eis qui haberent aurum imperare"". A differenza del testo latino Dante, mette come soggetto della oggettiva i cittadini romani e non Curio stesso. Questo ha fatto pensare che egli abbia contaminato Cicerone con Servio che attribuisce non a Curio, ma a Fabrizio, anche in questo caso in risposta agli ambasciatori dei Sanniti, la frase "" Romanos non aurum habere velle, sed aurum habentibus imperare"" (cfr. Silverstein 1938, pp. 337-8).",xvi 55,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Cato_Maior_de_Senectute,De senectute,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
FALLATO AVEA LO COLPO,"aveva fallito il colpo' (nell'attentato alla vita di Porsenna. Cfr. Floro, <i>Epitomae</i> I iv).",I iv,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Epitomae_de_Tito_Livio(Floro),Epitomae de Tito Livio,Floro,http://dbpedia.org/resource/Florus,http://purl.org/bncf/tid/9645,WORK
E BRUTO PREDETTO SIMILEMENTE,"e lo stesso si dica di quel Bruto di cui abbiamo parlato prima'. Tito Manlio Torquato e Bruto, il primo consolo"", avevano condannato a morte i propri figli, Torquato perché, nonostante avesse poi vinto, aveva trasgredito l'ordine paterno di non attaccare battaglia contro i Latini (cfr. Floro, <i>Epitomae</i> I ix ; Agostino, <i>De civitate Dei</i> V 18, p. 151), Bruto perché avevano cospirato contro la Repubblica appena nata (cfr. Floro, <i>Epitomae</i> I iii; Agostino, loc. cit.) ).",I ix,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Epitomae_de_Tito_Livio(Floro),Epitomae de Tito Livio,Floro,http://dbpedia.org/resource/Florus,http://purl.org/bncf/tid/9645,WORK
E BRUTO PREDETTO SIMILEMENTE,"e lo stesso si dica di quel Bruto di cui abbiamo parlato prima'. Tito Manlio Torquato e Bruto, il primo consolo"", avevano condannato a morte i propri figli, Torquato perché, nonostante avesse poi vinto, aveva trasgredito l'ordine paterno di non attaccare battaglia contro i Latini (cfr. Floro, <i>Epitomae</i> I ix ; Agostino, <i>De civitate Dei</i> V 18, p. 151), Bruto perché avevano cospirato contro la Repubblica appena nata (cfr. Floro, <i>Epitomae</i> I iii; Agostino, loc. cit.) ).","V 18, p. 151",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/City_of_God_(book),De civitate Dei,Agostino,http://dbpedia.org/resource/Augustine_of_Hippo,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
DECI,"membri della stessa famiglia romana che, in diverse circostanze, votarono se stessi alla morte per impetrare dagli Dei la sconfitta dei nemici di Roma. Cfr. Cicerone, <i>De finibus bonorum et malorum</i> II, 19, 61  citato in <i>Mn</i> II v 16. In realtà la dipendenza sembra essere piuttosto da <i>De civitate Dei</i> V 18, p. 152, che parla di 'Decii' al plurale (Se occidendos certis verbis quodam modo consecrantes Decii se devoverunt ut, illis cadentibus ... romanus liberaretur exercitus ..."") mentre Cicerone parla dei singoli membri della famiglia.","II, 19, 61",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/De_finibus_bonorum_et_malorum,De finibus bonorum et malorum,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
DECI,"membri della stessa famiglia romana che, in diverse circostanze, votarono se stessi alla morte per impetrare dagli Dei la sconfitta dei nemici di Roma. Cfr. Cicerone, <i>De finibus bonorum et malorum</i> II, 19, 61  citato in <i>Mn</i> II v 16. In realtà la dipendenza sembra essere piuttosto da <i>De civitate Dei</i> V 18, p. 152, che parla di 'Decii' al plurale (Se occidendos certis verbis quodam modo consecrantes Decii se devoverunt ut, illis cadentibus ... romanus liberaretur exercitus ..."") mentre Cicerone parla dei singoli membri della famiglia.","V 18, p. 152",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/City_of_God_(book),De civitate Dei,Agostino,http://dbpedia.org/resource/Augustine_of_Hippo,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
DRUSI,"è stato notato come le fonti storiche romane non parlino di nessun membro di questa famiglia come di chi si sia sacrificato per la patria. Nell' <i>Eneide</i>, però, la profezia di Anchise accomuna i Drusi ai Deci (VI 824- 5).",VI 824- 5,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Aeneid,Aeneis,Virgilio,http://dbpedia.org/resource/Virgil,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
DOPO LA LEGAZIONE RITRATTA,"se diamo a ritrarre"" il senso di ""esporre"" il senso è che Regolo, dopo aver riferito le proposte cartaginesi (""legazione"" nel senso del contenuto dell'ambasceria) sconsigliò i Romani dall'accettarle. Se invece intendiamo ""ritrarre"" come ""ritirarsi"", si alluderebbe al fatto che Regolo formulò il suo parere dopo che gli ambasciatori (""legazione"" nel senso dei componenti dell'ambasceria) si erano ritirati. La fonte è qui sicuramente Valerio Massimo (<i>Facta et dicta memorabilia</i> I 14)controllare: Floro (<i>Epitomae</i> I, xviii) non parla dell'oggetto dell'ambasciata e la trattazione di Agostino (<i>De civitate Dei</i> V 18, p. 153) è completamente diversa.",I 14,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Facta_et_dicta_memorabilia,Facta et dicta memorabilia,Valerio Massimo,http://dbpedia.org/resource/Valerius_Maximus,http://purl.org/bncf/tid/9645,WORK
CHI DIRÀ ... ALLO ARARE ESSERE RITORNATO,"chi dirà che sia tornato ad arare' (è sottinteso ciò che viene detto dopo per Camillo: sanza divina istigazione"", senza un fortissimo suggerimento divino). La fonte è Floro (cfr. <i>Epitomae</i>, I v ""Redit ad boves rursus triumphalis agricola"").","I v ""Redit ad boves rursus triumphalis agricola""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Epitomae_de_Tito_Livio(Floro),Epitomae de Tito Livio,Floro,http://dbpedia.org/resource/Florus,http://purl.org/bncf/tid/9645,WORK
CONTRA LI SUOI NIMICI,"contro i Galli, che avevano conquistato Roma (cfr. Floro, <i>Epitomae</i> I xvii).",I xvii,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Epitomae_de_Tito_Livio(Floro),Epitomae de Tito Livio,Floro,http://dbpedia.org/resource/Florus,http://purl.org/bncf/tid/9645,WORK
SENATORIA AUTORITADE,"autorità del Senato'. Di un secondo esilio di Furio Camillo non parlano né Livio né il suo epitomatore. La fonte sembra essere il Commento di Servio all' <i>Eneide</i> (vedi Renucci 1954, p.16).",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commentarii_in_Vergilii_Aeneidos_libros,Commentarii in Vergilii Aeneidos libros,Servio Mario Onorato,http://dbpedia.org/resource/Maurus_Servius_Honoratus,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/epica_latina_commenti,WORK
O SACRATISSIMO PETTO,"del 'sacro petto' di Catone Uticense aveva parlato Lucano nella <i>Farsaglia</i> (IX 255 erupere ducis sacro de pectore voces"").",IX 255 erupere ducis sacro de pectore voces,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Pharsalia,Pharsalia,Lucano,http://dbpedia.org/resource/Lucan,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
NEL PROEMIO DELLA BIBBIA,"nella prefazione alla sua traduzione della Bibbia'. Si tratta della lettera a Paolino, <i>De studio scripturarum</i> (PL 22, pp. 540-49) che nel Medioevo (ma non nelle edizioni a stampa posteriori alla revisione cinquecentesca della Vulgata) fungeva appunto da prologo all'intera Bibbia tradotta da Girolamo.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Epistula_Ad_Paulinum_De_Studio_Scripturarum(Girolamo),Epistula Ad Paulinum De Studio Scripturarum,Girolamo,http://dbpedia.org/resource/Jerome,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/esegesi_biblica,WORK
POCO,"troppo poco' (cfr. <i>De studio scripturarum</i>, 548:  Paulus apostolus ... super quo tacere melius puto quam pauca scribere"").",548:  Paulus apostolus ... super quo tacere melius puto quam pauca scribere,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Epistula_Ad_Paulinum_De_Studio_Scripturarum(Girolamo),Epistula Ad Paulinum De Studio Scripturarum,Girolamo,http://dbpedia.org/resource/Jerome,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/esegesi_biblica,WORK
ESSE BRACCIA,"il braccio stesso' (lat. <i>ipsa</i>). Il 'braccio di Dio' è un'immagine assai frequente nel linguaggio biblico per indicare un potente intervento divino. Cfr. ad esempio, <i>Is</i> 40, 10 Dominus in fortitudine veniet et brachium eius dominabitur""; <i>Ps</i> 76, 16 ""Redemisti in brachio tuo populum tuum"" e, soprattutto, nel nuovo Testamento, il <i>Magnificat</i> (<i>Lc</i>, 1 51) ""Fecit potentiam in brachio suo"".","Is 40, 10 Dominus in fortitudine veniet et brachium eius dominabitur",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Isaiah,Libro di Isaia,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
ESSE BRACCIA,"il braccio stesso' (lat. <i>ipsa</i>). Il 'braccio di Dio' è un'immagine assai frequente nel linguaggio biblico per indicare un potente intervento divino. Cfr. ad esempio, <i>Is</i> 40, 10 Dominus in fortitudine veniet et brachium eius dominabitur""; <i>Ps</i> 76, 16 ""Redemisti in brachio tuo populum tuum"" e, soprattutto, nel nuovo Testamento, il <i>Magnificat</i> (<i>Lc</i>, 1 51) ""Fecit potentiam in brachio suo"".","(Lc, 1 51) ""Fecit potentiam in brachio suo""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Luke,Vangelo di Luca,Luca,http://dbpedia.org/resource/Luke_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
ESSE BRACCIA,"il braccio stesso' (lat. <i>ipsa</i>). Il 'braccio di Dio' è un'immagine assai frequente nel linguaggio biblico per indicare un potente intervento divino. Cfr. ad esempio, <i>Is</i> 40, 10 Dominus in fortitudine veniet et brachium eius dominabitur""; <i>Ps</i> 76, 16 ""Redemisti in brachio tuo populum tuum"" e, soprattutto, nel nuovo Testamento, il <i>Magnificat</i> (<i>Lc</i>, 1 51) ""Fecit potentiam in brachio suo"".","76, 16 ""Redemisti in brachio tuo populum tuum""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Psalms,Salmi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
NON PUOSE IDDIO LE MANI PROPIE,"non intervenne Dio direttamente'. Anche la 'mano di Dio' è un'espressione biblica, spesso associata alla metafora del braccio. Cfr. <i>Ps</i> 135, 12 Eduxisti Israel de Aegypto in manu potenti et brachio excelso"".","135, 12 Eduxisti Israel de Aegypto in manu potenti et brachio excelso""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Psalms,Salmi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
DOVE LI ALBANI,si allude all'episodio del duello tra Orazi e Curiazi (cfr. Floro <i>Epitomae</i> I i).,I i,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Epitomae_de_Tito_Livio(Floro),Epitomae de Tito Livio,Floro,http://dbpedia.org/resource/Florus,http://purl.org/bncf/tid/9645,WORK
FÉ CIÒ SENTIRE,"fece sì che ci se ne accorgesse'. In questo caso le fonti possono essere sia Floro (cfr. <i>Epitomae</i> I vii) che Virgilio (<i>Eneide</i> VIII 655, citato in <i>Mn</i> II iv 8): entrambi infatti, a differenza di Livio, cui pure Dante si riferirà nel luogo già citato del <i>Monarchia</i>, parlano non delle oche, ma dell'oca del Campidoglio (cfr. Moore, p. 275).",I vii,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Epitomae_de_Tito_Livio(Floro),Epitomae de Tito Livio,Floro,http://dbpedia.org/resource/Florus,http://purl.org/bncf/tid/9645,WORK
FÉ CIÒ SENTIRE,"fece sì che ci se ne accorgesse'. In questo caso le fonti possono essere sia Floro (cfr. <i>Epitomae</i> I vii) che Virgilio (<i>Eneide</i> VIII 655, citato in <i>Mn</i> II iv 8): entrambi infatti, a differenza di Livio, cui pure Dante si riferirà nel luogo già citato del <i>Monarchia</i>, parlano non delle oche, ma dell'oca del Campidoglio (cfr. Moore, p. 275).","VIII 655, citato in Mn II iv 8",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Aeneid,Aeneis,Virgilio,http://dbpedia.org/resource/Virgil,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
TRE MOGGIA D'ANELLA,"tre moggi di anelli, tolti dalle dita dei cavalieri e dei senatori caduti appunto a Canne. Il moggio era ancora ai tempi di Dante una unità di misura di capacità usata per le granaglie, come il latino <i>modius</i>. La fonte è con tutta probabilità Orosio (<i>Historiae adversum paganos</i> IV 16 5).",IV 16 5,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Historiae_adversus_paganos,Historiae adversus paganos,Orosio,http://dbpedia.org/resource/Orosius,http://purl.org/bncf/tid/9645,WORK
PER LA SUA FRANCHEZZA,per la liberazione di Roma': Anche qui fonte diretta di Dante sembra essere stato Orosio (<i>Historiae adversum paganos</i> IV 16 6).,IV 16 6,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Historiae_adversus_paganos,Historiae adversus paganos,Orosio,http://dbpedia.org/resource/Orosius,http://purl.org/bncf/tid/9645,WORK
CATELLINA,"Lucio Sergio Catilina. Si allude alla congiura di Catilina, scoperta e sventata da Cicerone che in quel momento ricopriva la carica di console. L'episodio è ampiamente narrato nel <i>De coniuratione Catilinae</i> di Sallustio e riassunto nei suoi dati essenziali dall' Epitome di <i>Floro</i> (cfr. <i>Epitomae</i> II xii). Né bisogna dimenticare che la storia di Catilina, della sua fuga in Etruria e dell'ultima battaglia sui monti di Pistoia faceva parte di quel complesso di storie e miti di fondazione delle città toscane ben presenti anche agli 'illitterati'.",II xii,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Epitomae_de_Tito_Livio(Floro),Epitomae de Tito Livio,Floro,http://dbpedia.org/resource/Florus,http://purl.org/bncf/tid/9645,WORK
OLTRE QUELLO ... APPROVATO,"al di là di quanto è già comunemente detto ed accettato'. Roma riceve da Dante l'appellativo che per tutti richiamava Gerusalemme: quello di città santa (santa cittade""), non per esser stata il luogo del martirio di Pietro (e Paolo) ed essere ora la sede del suo successore, bensì perché culla e base dell'autorità politica più alta, direttamente voluta da Dio. Il discorso, costruito sapientemente su di una serie di anafore (""Chi dirà ... e chi dirà?"" ""E non puose Iddio le mani proprie  ... E non puose Iddio le mani?"") ha volutamente una struttura non logico-argomentativa, bensì retorico-persuasiva: come verrà detto nella <i>Monarchia</i>, l'argomento trattato, per sua natura, non permette l'uso di prove rigorose, ma deve fondarsi su 'signa' e 'auctoritates sapientum' (II ii 7). E infatti anche il trattatto latino procede per anafore interrogative (""Nonne Cincinnatus ... nonne Fabricius ... Nonne Brutus ...?"" III v 9, 11,13 ). Tranne Regolo, Curio e i misteriosi Drusi, tutti gli esempi di cittadini ""divini"" presenti nel <i>Convivio</i> passeranno nella <i>Monarchia</i>. Il trattato latino rimaneggerà invece la distinzione operata dal <i>Convivio</i> tra episodi dove Dio si è servito strumentalmente delle virtù degli uomini e avvenimenti in cui è intervenuto direttamente con il suo braccio: porrà i primi come segni indubitabili che nelle sue conquiste il popolo romano ha sempre avuto di mira il bene comune (II v 6 sgg.) mentre definirà apertamente miracoli i secondi (farà così ricorso alla misteriosa caduta dal cielo degli scudi ancili ed alla tempesta di grandine che impedì ad Annibale di impadronirsi di Roma, non presenti nel <i>Convivio</i>. Cfr. <i>Mn</i> II.iv). Come abbiamo visto, Dante attinge le sue notizie essenzialmente da Floro e, in parte, da Valerio Massimo. L'uso di Agostino (e anche di Orosio) merita un discorso particolare: nel cap. 18 del quinto libro del <i>De civitate Dei</i> il vescovo di Ippona aveva presentato la stessa galleria di personaggi e di gesta che troviamo esaltati nel <i>Convivio</i>: Bruto, Torquato, Camillo, Muzio Scevola, Attilio Regolo, Cincinnato, i Deci ... Per Agostino essi avevano sì un valore paradigmatico, ma solo nel senso che, legati all' ottica puramente umana della città terrena, incitavano i cristiani a riflettere su ""quanta dilectio debeatur supernae patriae propter vitam aeternam, si tantum a suis civibus terrena dilecta est propter hominum gloria"" (<i>De civitate Dei</i> V 16 , p. 149)  Si trattava, insomma, di ombre di virtù, e se l'impero romano era stato voluto da Dio, questo non comportava nessun privilegio rispetto agli altri che l'avevano preceduto; non solo quindi ""quando voluit"", ma anche ""quantum voluit"", il che nell'ottica di Agostino indica un periodo limitato, in cui il potere conferito ad un individuo o a un popolo non ha alcuna relazione con i suoi meriti, ma solo con l'imperscrutabile volontà divina (cfr. <i>De civitate Dei</i> V 2, p. 157). Per Dante, invece, fin dal <i>Convivio</i>,questi episodi diventano segni, doni e strumenti di una Provvidenza divina, che parla attraverso la bocca di Virgilio quando promette ai Romani, a differenza degli altri popoli, un dominio senza limiti spaziali e temporali. Peraltro, qualche anno prima di Dante, Tolomeo da Lucca nella sua continuazione del <i>De regno</i> di Tommaso aveva messo una analoga esaltazione delle virtù romane proprio sotto l'egida del cap. 18 del quinto libro del <i>De civitate Dei</i> (cfr. Silverstein 1938, pp. 326-30). Per il domenicano lucchese il vescovo di Ippona, narrando con approvazione quegli episodi , riconosceva una divina legittimità dell'Impero romano (""multa similia ibidem dicit, per quae definire videtur eorum dominium fuisse legitimum et eis a Deo collatum"") Questo poteva avvenire solo attraverso un completo stravolgimento della posizione di Agostino, facendo dell' <i>amor patriae</i> dei Romani non un aspetto del vano amore di gloria proprio dei migliori cittadini della città terrena, ma addirittura la più alta manifestazione della <i>charitas</i>, meritevole di ricevere in premio il più alto grado di onore, e cioè il dominio universale (<i>De regno</i> III, 4)",De civitate Dei V 16,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/City_of_God_(book),De civitate Dei,Agostino,http://dbpedia.org/resource/Augustine_of_Hippo,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
OLTRE QUELLO ... APPROVATO,"al di là di quanto è già comunemente detto ed accettato'. Roma riceve da Dante l'appellativo che per tutti richiamava Gerusalemme: quello di città santa (santa cittade""), non per esser stata il luogo del martirio di Pietro (e Paolo) ed essere ora la sede del suo successore, bensì perché culla e base dell'autorità politica più alta, direttamente voluta da Dio. Il discorso, costruito sapientemente su di una serie di anafore (""Chi dirà ... e chi dirà?"" ""E non puose Iddio le mani proprie  ... E non puose Iddio le mani?"") ha volutamente una struttura non logico-argomentativa, bensì retorico-persuasiva: come verrà detto nella <i>Monarchia</i>, l'argomento trattato, per sua natura, non permette l'uso di prove rigorose, ma deve fondarsi su 'signa' e 'auctoritates sapientum' (II ii 7). E infatti anche il trattatto latino procede per anafore interrogative (""Nonne Cincinnatus ... nonne Fabricius ... Nonne Brutus ...?"" III v 9, 11,13 ). Tranne Regolo, Curio e i misteriosi Drusi, tutti gli esempi di cittadini ""divini"" presenti nel <i>Convivio</i> passeranno nella <i>Monarchia</i>. Il trattato latino rimaneggerà invece la distinzione operata dal <i>Convivio</i> tra episodi dove Dio si è servito strumentalmente delle virtù degli uomini e avvenimenti in cui è intervenuto direttamente con il suo braccio: porrà i primi come segni indubitabili che nelle sue conquiste il popolo romano ha sempre avuto di mira il bene comune (II v 6 sgg.) mentre definirà apertamente miracoli i secondi (farà così ricorso alla misteriosa caduta dal cielo degli scudi ancili ed alla tempesta di grandine che impedì ad Annibale di impadronirsi di Roma, non presenti nel <i>Convivio</i>. Cfr. <i>Mn</i> II.iv). Come abbiamo visto, Dante attinge le sue notizie essenzialmente da Floro e, in parte, da Valerio Massimo. L'uso di Agostino (e anche di Orosio) merita un discorso particolare: nel cap. 18 del quinto libro del <i>De civitate Dei</i> il vescovo di Ippona aveva presentato la stessa galleria di personaggi e di gesta che troviamo esaltati nel <i>Convivio</i>: Bruto, Torquato, Camillo, Muzio Scevola, Attilio Regolo, Cincinnato, i Deci ... Per Agostino essi avevano sì un valore paradigmatico, ma solo nel senso che, legati all' ottica puramente umana della città terrena, incitavano i cristiani a riflettere su ""quanta dilectio debeatur supernae patriae propter vitam aeternam, si tantum a suis civibus terrena dilecta est propter hominum gloria"" (<i>De civitate Dei</i> V 16 , p. 149)  Si trattava, insomma, di ombre di virtù, e se l'impero romano era stato voluto da Dio, questo non comportava nessun privilegio rispetto agli altri che l'avevano preceduto; non solo quindi ""quando voluit"", ma anche ""quantum voluit"", il che nell'ottica di Agostino indica un periodo limitato, in cui il potere conferito ad un individuo o a un popolo non ha alcuna relazione con i suoi meriti, ma solo con l'imperscrutabile volontà divina (cfr. <i>De civitate Dei</i> V 2, p. 157). Per Dante, invece, fin dal <i>Convivio</i>,questi episodi diventano segni, doni e strumenti di una Provvidenza divina, che parla attraverso la bocca di Virgilio quando promette ai Romani, a differenza degli altri popoli, un dominio senza limiti spaziali e temporali. Peraltro, qualche anno prima di Dante, Tolomeo da Lucca nella sua continuazione del <i>De regno</i> di Tommaso aveva messo una analoga esaltazione delle virtù romane proprio sotto l'egida del cap. 18 del quinto libro del <i>De civitate Dei</i> (cfr. Silverstein 1938, pp. 326-30). Per il domenicano lucchese il vescovo di Ippona, narrando con approvazione quegli episodi , riconosceva una divina legittimità dell'Impero romano (""multa similia ibidem dicit, per quae definire videtur eorum dominium fuisse legitimum et eis a Deo collatum"") Questo poteva avvenire solo attraverso un completo stravolgimento della posizione di Agostino, facendo dell' <i>amor patriae</i> dei Romani non un aspetto del vano amore di gloria proprio dei migliori cittadini della città terrena, ma addirittura la più alta manifestazione della <i>charitas</i>, meritevole di ricevere in premio il più alto grado di onore, e cioè il dominio universale (<i>De regno</i> III, 4)","V 2, p. 157",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/City_of_God_(book),De civitate Dei,Agostino,http://dbpedia.org/resource/Augustine_of_Hippo,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
OLTRE QUELLO ... APPROVATO,"al di là di quanto è già comunemente detto ed accettato'. Roma riceve da Dante l'appellativo che per tutti richiamava Gerusalemme: quello di città santa (santa cittade""), non per esser stata il luogo del martirio di Pietro (e Paolo) ed essere ora la sede del suo successore, bensì perché culla e base dell'autorità politica più alta, direttamente voluta da Dio. Il discorso, costruito sapientemente su di una serie di anafore (""Chi dirà ... e chi dirà?"" ""E non puose Iddio le mani proprie  ... E non puose Iddio le mani?"") ha volutamente una struttura non logico-argomentativa, bensì retorico-persuasiva: come verrà detto nella <i>Monarchia</i>, l'argomento trattato, per sua natura, non permette l'uso di prove rigorose, ma deve fondarsi su 'signa' e 'auctoritates sapientum' (II ii 7). E infatti anche il trattatto latino procede per anafore interrogative (""Nonne Cincinnatus ... nonne Fabricius ... Nonne Brutus ...?"" III v 9, 11,13 ). Tranne Regolo, Curio e i misteriosi Drusi, tutti gli esempi di cittadini ""divini"" presenti nel <i>Convivio</i> passeranno nella <i>Monarchia</i>. Il trattato latino rimaneggerà invece la distinzione operata dal <i>Convivio</i> tra episodi dove Dio si è servito strumentalmente delle virtù degli uomini e avvenimenti in cui è intervenuto direttamente con il suo braccio: porrà i primi come segni indubitabili che nelle sue conquiste il popolo romano ha sempre avuto di mira il bene comune (II v 6 sgg.) mentre definirà apertamente miracoli i secondi (farà così ricorso alla misteriosa caduta dal cielo degli scudi ancili ed alla tempesta di grandine che impedì ad Annibale di impadronirsi di Roma, non presenti nel <i>Convivio</i>. Cfr. <i>Mn</i> II.iv). Come abbiamo visto, Dante attinge le sue notizie essenzialmente da Floro e, in parte, da Valerio Massimo. L'uso di Agostino (e anche di Orosio) merita un discorso particolare: nel cap. 18 del quinto libro del <i>De civitate Dei</i> il vescovo di Ippona aveva presentato la stessa galleria di personaggi e di gesta che troviamo esaltati nel <i>Convivio</i>: Bruto, Torquato, Camillo, Muzio Scevola, Attilio Regolo, Cincinnato, i Deci ... Per Agostino essi avevano sì un valore paradigmatico, ma solo nel senso che, legati all' ottica puramente umana della città terrena, incitavano i cristiani a riflettere su ""quanta dilectio debeatur supernae patriae propter vitam aeternam, si tantum a suis civibus terrena dilecta est propter hominum gloria"" (<i>De civitate Dei</i> V 16 , p. 149)  Si trattava, insomma, di ombre di virtù, e se l'impero romano era stato voluto da Dio, questo non comportava nessun privilegio rispetto agli altri che l'avevano preceduto; non solo quindi ""quando voluit"", ma anche ""quantum voluit"", il che nell'ottica di Agostino indica un periodo limitato, in cui il potere conferito ad un individuo o a un popolo non ha alcuna relazione con i suoi meriti, ma solo con l'imperscrutabile volontà divina (cfr. <i>De civitate Dei</i> V 2, p. 157). Per Dante, invece, fin dal <i>Convivio</i>,questi episodi diventano segni, doni e strumenti di una Provvidenza divina, che parla attraverso la bocca di Virgilio quando promette ai Romani, a differenza degli altri popoli, un dominio senza limiti spaziali e temporali. Peraltro, qualche anno prima di Dante, Tolomeo da Lucca nella sua continuazione del <i>De regno</i> di Tommaso aveva messo una analoga esaltazione delle virtù romane proprio sotto l'egida del cap. 18 del quinto libro del <i>De civitate Dei</i> (cfr. Silverstein 1938, pp. 326-30). Per il domenicano lucchese il vescovo di Ippona, narrando con approvazione quegli episodi , riconosceva una divina legittimità dell'Impero romano (""multa similia ibidem dicit, per quae definire videtur eorum dominium fuisse legitimum et eis a Deo collatum"") Questo poteva avvenire solo attraverso un completo stravolgimento della posizione di Agostino, facendo dell' <i>amor patriae</i> dei Romani non un aspetto del vano amore di gloria proprio dei migliori cittadini della città terrena, ma addirittura la più alta manifestazione della <i>charitas</i>, meritevole di ricevere in premio il più alto grado di onore, e cioè il dominio universale (<i>De regno</i> III, 4)",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Facta_et_dicta_memorabilia,Facta et dicta memorabilia,Valerio Massimo,http://dbpedia.org/resource/Valerius_Maximus,http://purl.org/bncf/tid/9645,WORK
OLTRE QUELLO ... APPROVATO,"al di là di quanto è già comunemente detto ed accettato'. Roma riceve da Dante l'appellativo che per tutti richiamava Gerusalemme: quello di città santa (santa cittade""), non per esser stata il luogo del martirio di Pietro (e Paolo) ed essere ora la sede del suo successore, bensì perché culla e base dell'autorità politica più alta, direttamente voluta da Dio. Il discorso, costruito sapientemente su di una serie di anafore (""Chi dirà ... e chi dirà?"" ""E non puose Iddio le mani proprie  ... E non puose Iddio le mani?"") ha volutamente una struttura non logico-argomentativa, bensì retorico-persuasiva: come verrà detto nella <i>Monarchia</i>, l'argomento trattato, per sua natura, non permette l'uso di prove rigorose, ma deve fondarsi su 'signa' e 'auctoritates sapientum' (II ii 7). E infatti anche il trattatto latino procede per anafore interrogative (""Nonne Cincinnatus ... nonne Fabricius ... Nonne Brutus ...?"" III v 9, 11,13 ). Tranne Regolo, Curio e i misteriosi Drusi, tutti gli esempi di cittadini ""divini"" presenti nel <i>Convivio</i> passeranno nella <i>Monarchia</i>. Il trattato latino rimaneggerà invece la distinzione operata dal <i>Convivio</i> tra episodi dove Dio si è servito strumentalmente delle virtù degli uomini e avvenimenti in cui è intervenuto direttamente con il suo braccio: porrà i primi come segni indubitabili che nelle sue conquiste il popolo romano ha sempre avuto di mira il bene comune (II v 6 sgg.) mentre definirà apertamente miracoli i secondi (farà così ricorso alla misteriosa caduta dal cielo degli scudi ancili ed alla tempesta di grandine che impedì ad Annibale di impadronirsi di Roma, non presenti nel <i>Convivio</i>. Cfr. <i>Mn</i> II.iv). Come abbiamo visto, Dante attinge le sue notizie essenzialmente da Floro e, in parte, da Valerio Massimo. L'uso di Agostino (e anche di Orosio) merita un discorso particolare: nel cap. 18 del quinto libro del <i>De civitate Dei</i> il vescovo di Ippona aveva presentato la stessa galleria di personaggi e di gesta che troviamo esaltati nel <i>Convivio</i>: Bruto, Torquato, Camillo, Muzio Scevola, Attilio Regolo, Cincinnato, i Deci ... Per Agostino essi avevano sì un valore paradigmatico, ma solo nel senso che, legati all' ottica puramente umana della città terrena, incitavano i cristiani a riflettere su ""quanta dilectio debeatur supernae patriae propter vitam aeternam, si tantum a suis civibus terrena dilecta est propter hominum gloria"" (<i>De civitate Dei</i> V 16 , p. 149)  Si trattava, insomma, di ombre di virtù, e se l'impero romano era stato voluto da Dio, questo non comportava nessun privilegio rispetto agli altri che l'avevano preceduto; non solo quindi ""quando voluit"", ma anche ""quantum voluit"", il che nell'ottica di Agostino indica un periodo limitato, in cui il potere conferito ad un individuo o a un popolo non ha alcuna relazione con i suoi meriti, ma solo con l'imperscrutabile volontà divina (cfr. <i>De civitate Dei</i> V 2, p. 157). Per Dante, invece, fin dal <i>Convivio</i>,questi episodi diventano segni, doni e strumenti di una Provvidenza divina, che parla attraverso la bocca di Virgilio quando promette ai Romani, a differenza degli altri popoli, un dominio senza limiti spaziali e temporali. Peraltro, qualche anno prima di Dante, Tolomeo da Lucca nella sua continuazione del <i>De regno</i> di Tommaso aveva messo una analoga esaltazione delle virtù romane proprio sotto l'egida del cap. 18 del quinto libro del <i>De civitate Dei</i> (cfr. Silverstein 1938, pp. 326-30). Per il domenicano lucchese il vescovo di Ippona, narrando con approvazione quegli episodi , riconosceva una divina legittimità dell'Impero romano (""multa similia ibidem dicit, per quae definire videtur eorum dominium fuisse legitimum et eis a Deo collatum"") Questo poteva avvenire solo attraverso un completo stravolgimento della posizione di Agostino, facendo dell' <i>amor patriae</i> dei Romani non un aspetto del vano amore di gloria proprio dei migliori cittadini della città terrena, ma addirittura la più alta manifestazione della <i>charitas</i>, meritevole di ricevere in premio il più alto grado di onore, e cioè il dominio universale (<i>De regno</i> III, 4)",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Historiae_adversus_paganos,Historiae adversus paganos,Orosio,http://dbpedia.org/resource/Orosius,http://purl.org/bncf/tid/9645,WORK
OLTRE QUELLO ... APPROVATO,"al di là di quanto è già comunemente detto ed accettato'. Roma riceve da Dante l'appellativo che per tutti richiamava Gerusalemme: quello di città santa (santa cittade""), non per esser stata il luogo del martirio di Pietro (e Paolo) ed essere ora la sede del suo successore, bensì perché culla e base dell'autorità politica più alta, direttamente voluta da Dio. Il discorso, costruito sapientemente su di una serie di anafore (""Chi dirà ... e chi dirà?"" ""E non puose Iddio le mani proprie  ... E non puose Iddio le mani?"") ha volutamente una struttura non logico-argomentativa, bensì retorico-persuasiva: come verrà detto nella <i>Monarchia</i>, l'argomento trattato, per sua natura, non permette l'uso di prove rigorose, ma deve fondarsi su 'signa' e 'auctoritates sapientum' (II ii 7). E infatti anche il trattatto latino procede per anafore interrogative (""Nonne Cincinnatus ... nonne Fabricius ... Nonne Brutus ...?"" III v 9, 11,13 ). Tranne Regolo, Curio e i misteriosi Drusi, tutti gli esempi di cittadini ""divini"" presenti nel <i>Convivio</i> passeranno nella <i>Monarchia</i>. Il trattato latino rimaneggerà invece la distinzione operata dal <i>Convivio</i> tra episodi dove Dio si è servito strumentalmente delle virtù degli uomini e avvenimenti in cui è intervenuto direttamente con il suo braccio: porrà i primi come segni indubitabili che nelle sue conquiste il popolo romano ha sempre avuto di mira il bene comune (II v 6 sgg.) mentre definirà apertamente miracoli i secondi (farà così ricorso alla misteriosa caduta dal cielo degli scudi ancili ed alla tempesta di grandine che impedì ad Annibale di impadronirsi di Roma, non presenti nel <i>Convivio</i>. Cfr. <i>Mn</i> II.iv). Come abbiamo visto, Dante attinge le sue notizie essenzialmente da Floro e, in parte, da Valerio Massimo. L'uso di Agostino (e anche di Orosio) merita un discorso particolare: nel cap. 18 del quinto libro del <i>De civitate Dei</i> il vescovo di Ippona aveva presentato la stessa galleria di personaggi e di gesta che troviamo esaltati nel <i>Convivio</i>: Bruto, Torquato, Camillo, Muzio Scevola, Attilio Regolo, Cincinnato, i Deci ... Per Agostino essi avevano sì un valore paradigmatico, ma solo nel senso che, legati all' ottica puramente umana della città terrena, incitavano i cristiani a riflettere su ""quanta dilectio debeatur supernae patriae propter vitam aeternam, si tantum a suis civibus terrena dilecta est propter hominum gloria"" (<i>De civitate Dei</i> V 16 , p. 149)  Si trattava, insomma, di ombre di virtù, e se l'impero romano era stato voluto da Dio, questo non comportava nessun privilegio rispetto agli altri che l'avevano preceduto; non solo quindi ""quando voluit"", ma anche ""quantum voluit"", il che nell'ottica di Agostino indica un periodo limitato, in cui il potere conferito ad un individuo o a un popolo non ha alcuna relazione con i suoi meriti, ma solo con l'imperscrutabile volontà divina (cfr. <i>De civitate Dei</i> V 2, p. 157). Per Dante, invece, fin dal <i>Convivio</i>,questi episodi diventano segni, doni e strumenti di una Provvidenza divina, che parla attraverso la bocca di Virgilio quando promette ai Romani, a differenza degli altri popoli, un dominio senza limiti spaziali e temporali. Peraltro, qualche anno prima di Dante, Tolomeo da Lucca nella sua continuazione del <i>De regno</i> di Tommaso aveva messo una analoga esaltazione delle virtù romane proprio sotto l'egida del cap. 18 del quinto libro del <i>De civitate Dei</i> (cfr. Silverstein 1938, pp. 326-30). Per il domenicano lucchese il vescovo di Ippona, narrando con approvazione quegli episodi , riconosceva una divina legittimità dell'Impero romano (""multa similia ibidem dicit, per quae definire videtur eorum dominium fuisse legitimum et eis a Deo collatum"") Questo poteva avvenire solo attraverso un completo stravolgimento della posizione di Agostino, facendo dell' <i>amor patriae</i> dei Romani non un aspetto del vano amore di gloria proprio dei migliori cittadini della città terrena, ma addirittura la più alta manifestazione della <i>charitas</i>, meritevole di ricevere in premio il più alto grado di onore, e cioè il dominio universale (<i>De regno</i> III, 4)","III, 4",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_regimine_principum(Tolomeo_da_Lucca),De regimine principum (Tolomeo da Lucca),Tolomeo da Lucca,http://dbpedia.org/resource/Bartholomew_of_Lucca,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
AUIEO,"del verbo <i>viere</i> (presente anche nella forma <i>aviere</i>) abbiamo testimonianza solo negli eruditi e nei grammatici latini (in Varrone, che cita un verso perduto di Ennio, in Festo e Nonio). Da qui, tramite Isidoro di Siviglia (cfr. <i>Etymologiae</i> VIII vii 3, vol. I, s.p.) passa nei lessici medievali più usati: il <i>Catholicon</i> di Pietro Balbi e soprattutto le <i>Derivationes Magnae</i> di Uguccione da Pisa. Proprio dalle <i>Derivationes</i>, come è esplicitamente detto nel paragrafo 5 di questo stesso capitolo, Dante ricava le sue conoscenze in materia. Il termine avientes"" per indicare gli autori di composizioni in versi, contrapposti ai ""prosaycantes"", è usato nel <i>De vulgari eloquentia</i> II i 2.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Derivationes_Magnae,Derivationes Magnae,Uguccione da Pisa,http://dbpedia.org/resource/Huguccio,http://purl.org/bncf/tid/9228,WORK
LEGARE PAROLE,"in realtà il verbo di per sé significherebbe semplicemente legare"", ma già in Varrone e poi in Uguccione esso specifica quel particolare legame che i poeti operano mediante il metro e la rima (cfr. <i>Derivationes</i>, s.v. <i>Vieo</i>, U 25, 2, p. 1272).","s.v. Vieo, U 25, 2, p. 1272",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Derivationes_Magnae,Derivationes Magnae,Uguccione da Pisa,http://dbpedia.org/resource/Huguccio,http://purl.org/bncf/tid/9228,WORK
DERIVAZIONI,"si tratta, come abbiamo già avuto modo di accennare, delle <i>Derivationes magnae</i>, una monumentale opera lessicografica composta verso la fine del XII secolo dal canonista pisano Uguccione. Diventata il dizionario più utilizzato nel tardo Medioevo. Essa, come dice il titolo stesso, tratta il significato delle parole derivandolo da radici comuni (spesso fantasiose). Nel testo che, come i vocabolari moderni, segue l'ordine alfabetico la voce <i>Augeo</i>, da cui derivano <i>auctor</i> e <i>autor</i>, è effettivamente la prima (A 1, 1, p. 5).",,CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Derivationes_Magnae,Derivationes Magnae,Uguccione da Pisa,http://dbpedia.org/resource/Huguccio,http://purl.org/bncf/tid/9228,WORK
AUTENTIN,"si tratta della traslitterazione del termine greco <i>authentes</i>, che tra i vari significati, indica anche chi agisce da sé, come padrone assoluto e che Uguccione interpreta come la radice da cui derivano non solo <i>autor</i>, ma anche <i>autenticus</i>, <i>autorizo</i> etc.",,CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Derivationes_Magnae,Derivationes Magnae,Uguccione da Pisa,http://dbpedia.org/resource/Huguccio,http://purl.org/bncf/tid/9228,WORK
OPERARII E ARTEFICI DI DIVERSE ARTI E OPERAZIONI,"cfr. la versione latina di <i>Eth. Nic</i>. I 1, 1094 a 6-8 multis autem autem operacionibus entibus et artibus"". (<i>Translatio Grosseteste</i>.<i>Textus purus</i>, p. 141, l. 12) dove <i>operacio</i> (""operazioni"", ""operarii"") sta per azione etico-politica (in greco <i>praxis</i>) e <i>ars</i> (""artefici"" ""arti"") sta per attività produttiva (in greco <i>techne</i>). Il concetto di una molteplicità di attività o di produzioni ordinate ad una attività o ad una produzione che funge da fine, su cui Aristotele fonda l' idea di un fine ultimo cui tutte le operazioni umane siano subordinate (cfr. <i>Eth. Nic</i>. I 1-2) viene usato da Dante per dimostrare la superiorità e l'eccellenza di chi esercita questa attività ""finale"": esso deve essere assolutamente (""massimamente"") obbedito e creduto in quanto è l'unico (""solo"") che ha presente (""considera"") lo scopo ultimo cui gli scopi delle altre attività sono subordinati (""l'ultimo fine di tutti li altri fini""). L'esempio del cavaliere deriva anch'esso dallo scritto aristotelico (cfr. <i>Eth Nic</i>. I 1, 1094 a 10-11), ma in Dante la semplice equitazione greca (<i>ippiké</i>, <i>ars equestris</i>) diventa la medievale cavalleria e a chi l'esercita, il cavaliere, deve obbedire (""credere"") non solo chi fabbrica morsi e briglie (""lo frenaio"", cioè chi esercita l' <i>ars frenefactiva</i> della traduzione latina dell' Etica), ma anche chi fabbrica selle (""sellaio""), spade (""spadaio"") e scudi (""scudaio""), arnesi del tutto assenti dal testo aristotelico: il commento di Tommaso, dal canto suo, introduce sì le selle, inesistenti per l'ippica greca, ma non gli scudi né le spade. Queste ultime sono invece presenti nella traduzione di Taddeo Alderotti della <i>Summa Alexandrinorum</i> (vedi Gentili 2006, p. 262). L'obbedienza dei produttori di briglie, selle etc. al cavaliere presuppone ovviamente una forma di produzione artigianale regolata dalle esigenze dei committenti.","I 1, 1094 a 6-8 multis autem autem operacionibus entibus et artibus"". (Translatio Grosseteste.Textus purus, p. 141, l. 12)""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
OPERARII E ARTEFICI DI DIVERSE ARTI E OPERAZIONI,"cfr. la versione latina di <i>Eth. Nic</i>. I 1, 1094 a 6-8 multis autem autem operacionibus entibus et artibus"". (<i>Translatio Grosseteste</i>.<i>Textus purus</i>, p. 141, l. 12) dove <i>operacio</i> (""operazioni"", ""operarii"") sta per azione etico-politica (in greco <i>praxis</i>) e <i>ars</i> (""artefici"" ""arti"") sta per attività produttiva (in greco <i>techne</i>). Il concetto di una molteplicità di attività o di produzioni ordinate ad una attività o ad una produzione che funge da fine, su cui Aristotele fonda l' idea di un fine ultimo cui tutte le operazioni umane siano subordinate (cfr. <i>Eth. Nic</i>. I 1-2) viene usato da Dante per dimostrare la superiorità e l'eccellenza di chi esercita questa attività ""finale"": esso deve essere assolutamente (""massimamente"") obbedito e creduto in quanto è l'unico (""solo"") che ha presente (""considera"") lo scopo ultimo cui gli scopi delle altre attività sono subordinati (""l'ultimo fine di tutti li altri fini""). L'esempio del cavaliere deriva anch'esso dallo scritto aristotelico (cfr. <i>Eth Nic</i>. I 1, 1094 a 10-11), ma in Dante la semplice equitazione greca (<i>ippiké</i>, <i>ars equestris</i>) diventa la medievale cavalleria e a chi l'esercita, il cavaliere, deve obbedire (""credere"") non solo chi fabbrica morsi e briglie (""lo frenaio"", cioè chi esercita l' <i>ars frenefactiva</i> della traduzione latina dell' Etica), ma anche chi fabbrica selle (""sellaio""), spade (""spadaio"") e scudi (""scudaio""), arnesi del tutto assenti dal testo aristotelico: il commento di Tommaso, dal canto suo, introduce sì le selle, inesistenti per l'ippica greca, ma non gli scudi né le spade. Queste ultime sono invece presenti nella traduzione di Taddeo Alderotti della <i>Summa Alexandrinorum</i> (vedi Gentili 2006, p. 262). L'obbedienza dei produttori di briglie, selle etc. al cavaliere presuppone ovviamente una forma di produzione artigianale regolata dalle esigenze dei committenti.",I 1-2,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
OPERARII E ARTEFICI DI DIVERSE ARTI E OPERAZIONI,"cfr. la versione latina di <i>Eth. Nic</i>. I 1, 1094 a 6-8 multis autem autem operacionibus entibus et artibus"". (<i>Translatio Grosseteste</i>.<i>Textus purus</i>, p. 141, l. 12) dove <i>operacio</i> (""operazioni"", ""operarii"") sta per azione etico-politica (in greco <i>praxis</i>) e <i>ars</i> (""artefici"" ""arti"") sta per attività produttiva (in greco <i>techne</i>). Il concetto di una molteplicità di attività o di produzioni ordinate ad una attività o ad una produzione che funge da fine, su cui Aristotele fonda l' idea di un fine ultimo cui tutte le operazioni umane siano subordinate (cfr. <i>Eth. Nic</i>. I 1-2) viene usato da Dante per dimostrare la superiorità e l'eccellenza di chi esercita questa attività ""finale"": esso deve essere assolutamente (""massimamente"") obbedito e creduto in quanto è l'unico (""solo"") che ha presente (""considera"") lo scopo ultimo cui gli scopi delle altre attività sono subordinati (""l'ultimo fine di tutti li altri fini""). L'esempio del cavaliere deriva anch'esso dallo scritto aristotelico (cfr. <i>Eth Nic</i>. I 1, 1094 a 10-11), ma in Dante la semplice equitazione greca (<i>ippiké</i>, <i>ars equestris</i>) diventa la medievale cavalleria e a chi l'esercita, il cavaliere, deve obbedire (""credere"") non solo chi fabbrica morsi e briglie (""lo frenaio"", cioè chi esercita l' <i>ars frenefactiva</i> della traduzione latina dell' Etica), ma anche chi fabbrica selle (""sellaio""), spade (""spadaio"") e scudi (""scudaio""), arnesi del tutto assenti dal testo aristotelico: il commento di Tommaso, dal canto suo, introduce sì le selle, inesistenti per l'ippica greca, ma non gli scudi né le spade. Queste ultime sono invece presenti nella traduzione di Taddeo Alderotti della <i>Summa Alexandrinorum</i> (vedi Gentili 2006, p. 262). L'obbedienza dei produttori di briglie, selle etc. al cavaliere presuppone ovviamente una forma di produzione artigianale regolata dalle esigenze dei committenti.","I 1, 1094 a 10-11",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
OPERARII E ARTEFICI DI DIVERSE ARTI E OPERAZIONI,"cfr. la versione latina di <i>Eth. Nic</i>. I 1, 1094 a 6-8 multis autem autem operacionibus entibus et artibus"". (<i>Translatio Grosseteste</i>.<i>Textus purus</i>, p. 141, l. 12) dove <i>operacio</i> (""operazioni"", ""operarii"") sta per azione etico-politica (in greco <i>praxis</i>) e <i>ars</i> (""artefici"" ""arti"") sta per attività produttiva (in greco <i>techne</i>). Il concetto di una molteplicità di attività o di produzioni ordinate ad una attività o ad una produzione che funge da fine, su cui Aristotele fonda l' idea di un fine ultimo cui tutte le operazioni umane siano subordinate (cfr. <i>Eth. Nic</i>. I 1-2) viene usato da Dante per dimostrare la superiorità e l'eccellenza di chi esercita questa attività ""finale"": esso deve essere assolutamente (""massimamente"") obbedito e creduto in quanto è l'unico (""solo"") che ha presente (""considera"") lo scopo ultimo cui gli scopi delle altre attività sono subordinati (""l'ultimo fine di tutti li altri fini""). L'esempio del cavaliere deriva anch'esso dallo scritto aristotelico (cfr. <i>Eth Nic</i>. I 1, 1094 a 10-11), ma in Dante la semplice equitazione greca (<i>ippiké</i>, <i>ars equestris</i>) diventa la medievale cavalleria e a chi l'esercita, il cavaliere, deve obbedire (""credere"") non solo chi fabbrica morsi e briglie (""lo frenaio"", cioè chi esercita l' <i>ars frenefactiva</i> della traduzione latina dell' Etica), ma anche chi fabbrica selle (""sellaio""), spade (""spadaio"") e scudi (""scudaio""), arnesi del tutto assenti dal testo aristotelico: il commento di Tommaso, dal canto suo, introduce sì le selle, inesistenti per l'ippica greca, ma non gli scudi né le spade. Queste ultime sono invece presenti nella traduzione di Taddeo Alderotti della <i>Summa Alexandrinorum</i> (vedi Gentili 2006, p. 262). L'obbedienza dei produttori di briglie, selle etc. al cavaliere presuppone ovviamente una forma di produzione artigianale regolata dalle esigenze dei committenti.","raduzione di Taddeo Alderotti della Summa Alexandrinorum (vedi Gentili 2006, p. 262)",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Summa_Alexandrinorum,Summa Alexandrinorum,Nicola Damasceno,http://dbpedia.org/resource/Nicolaus_of_Damascus,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
OPERARII E ARTEFICI DI DIVERSE ARTI E OPERAZIONI,"cfr. la versione latina di <i>Eth. Nic</i>. I 1, 1094 a 6-8 multis autem autem operacionibus entibus et artibus"". (<i>Translatio Grosseteste</i>.<i>Textus purus</i>, p. 141, l. 12) dove <i>operacio</i> (""operazioni"", ""operarii"") sta per azione etico-politica (in greco <i>praxis</i>) e <i>ars</i> (""artefici"" ""arti"") sta per attività produttiva (in greco <i>techne</i>). Il concetto di una molteplicità di attività o di produzioni ordinate ad una attività o ad una produzione che funge da fine, su cui Aristotele fonda l' idea di un fine ultimo cui tutte le operazioni umane siano subordinate (cfr. <i>Eth. Nic</i>. I 1-2) viene usato da Dante per dimostrare la superiorità e l'eccellenza di chi esercita questa attività ""finale"": esso deve essere assolutamente (""massimamente"") obbedito e creduto in quanto è l'unico (""solo"") che ha presente (""considera"") lo scopo ultimo cui gli scopi delle altre attività sono subordinati (""l'ultimo fine di tutti li altri fini""). L'esempio del cavaliere deriva anch'esso dallo scritto aristotelico (cfr. <i>Eth Nic</i>. I 1, 1094 a 10-11), ma in Dante la semplice equitazione greca (<i>ippiké</i>, <i>ars equestris</i>) diventa la medievale cavalleria e a chi l'esercita, il cavaliere, deve obbedire (""credere"") non solo chi fabbrica morsi e briglie (""lo frenaio"", cioè chi esercita l' <i>ars frenefactiva</i> della traduzione latina dell' Etica), ma anche chi fabbrica selle (""sellaio""), spade (""spadaio"") e scudi (""scudaio""), arnesi del tutto assenti dal testo aristotelico: il commento di Tommaso, dal canto suo, introduce sì le selle, inesistenti per l'ippica greca, ma non gli scudi né le spade. Queste ultime sono invece presenti nella traduzione di Taddeo Alderotti della <i>Summa Alexandrinorum</i> (vedi Gentili 2006, p. 262). L'obbedienza dei produttori di briglie, selle etc. al cavaliere presuppone ovviamente una forma di produzione artigianale regolata dalle esigenze dei committenti.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
NEL PRIMO DI FINE DI BENI,"nel primo libro del <i>De finibus bonorum et malorum</i>: I, 9, 29 (per quanto riguarda l'identificazione del sommo bene con la <i>voluptas</i>) e I, 11, 38 (per quanto riguarda la definizione della <i>voluptas</i> come 'non dolore'). I riferimenti di Dante sono piuttosto precisi (e però che tra'l diletto e lo dolore non ponea mezzo alcuno"" : ""non placuit Epicuro medium esse quiddam inter dolorem et voluptatem""). Dal primo libro del <i>De finibus</i> Dante prende anche l'argomento usato poche righe prima, cioè che, istintivamente, ogni essere capace di sentire fin dalla nascita fugge il dolore e cerca il piacere (""Omne animal, simul atque natum est, voluptatem appetit ... dolorem aspernit"" I, 9, 30). Cfr. <i>Cv</i> IV xxii 5.","I, 9, 29",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/De_finibus_bonorum_et_malorum,De finibus bonorum et malorum,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
NEL PRIMO DI FINE DI BENI,"nel primo libro del <i>De finibus bonorum et malorum</i>: I, 9, 29 (per quanto riguarda l'identificazione del sommo bene con la <i>voluptas</i>) e I, 11, 38 (per quanto riguarda la definizione della <i>voluptas</i> come 'non dolore'). I riferimenti di Dante sono piuttosto precisi (e però che tra'l diletto e lo dolore non ponea mezzo alcuno"" : ""non placuit Epicuro medium esse quiddam inter dolorem et voluptatem""). Dal primo libro del <i>De finibus</i> Dante prende anche l'argomento usato poche righe prima, cioè che, istintivamente, ogni essere capace di sentire fin dalla nascita fugge il dolore e cerca il piacere (""Omne animal, simul atque natum est, voluptatem appetit ... dolorem aspernit"" I, 9, 30). Cfr. <i>Cv</i> IV xxii 5.","I, 11, 38",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/De_finibus_bonorum_et_malorum,De finibus bonorum et malorum,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
NEL PRIMO DI FINE DI BENI,"nel primo libro del <i>De finibus bonorum et malorum</i>: I, 9, 29 (per quanto riguarda l'identificazione del sommo bene con la <i>voluptas</i>) e I, 11, 38 (per quanto riguarda la definizione della <i>voluptas</i> come 'non dolore'). I riferimenti di Dante sono piuttosto precisi (e però che tra'l diletto e lo dolore non ponea mezzo alcuno"" : ""non placuit Epicuro medium esse quiddam inter dolorem et voluptatem""). Dal primo libro del <i>De finibus</i> Dante prende anche l'argomento usato poche righe prima, cioè che, istintivamente, ogni essere capace di sentire fin dalla nascita fugge il dolore e cerca il piacere (""Omne animal, simul atque natum est, voluptatem appetit ... dolorem aspernit"" I, 9, 30). Cfr. <i>Cv</i> IV xxii 5.","Omne animal, simul atque natum est, voluptatem appetit ... dolorem aspernit I, 9, 30",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/De_finibus_bonorum_et_malorum,De finibus bonorum et malorum,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
"TORQUATO NOBILE ROMANO, DISCESO DEL SANGUE ...","a Lucio Manlio Torquato, cui nel dialogo spetta la parte di espositore e difensore delle dottrine epicuree, Cicerone ricorda appunto l'episodio che aveva visto il suo antenato condannare a morte il figlio (cfr. <i>De finibus</i> I, 7, 23).","I, 7, 23",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/De_finibus_bonorum_et_malorum,De finibus bonorum et malorum,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
"MISURATA COL MEZZO PER NOSTRA ELEZIONE PRESO, CH'È VIRTÙ","che attua una medietà derivata da una scelta razionale, ed in cui consiste la virtù; per Aristotele ciò che fonda la correttezza morale delle azioni non è una semplice ed astratta medietà aritmetica, ma una medietà razionalmente scelta volta per volta rispetto alle circostanze. Cfr. la traduzione di Grossatesta di <i>Eth</i>. <i>Nic</i>. II 6, 1106 b 36 - 1107 a 2: Est ergo virtus habitus electivus in medietate existens que ad nos determinata racione"" (<i>Textus purus</i>, p. 171, ll. 7-8","la traduzione di Grossatesta di Eth. Nic. II 6, 1106 b 36 - 1107 a 2: Est ergo virtus habitus electivus in medietate existens que ad nos determinata racione"" (Textus purus, p. 171, ll. 7-8""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
OPERAZIONE CON VIRTÙ,"in realtà questa definizione è totalmente aristotelica (cfr. <i>Eth. Nic</i>. I 7, 1098 a 16). Dante fa qui combaciare le definizioni aristoteliche della virtù morale (il giusto mezzo"") e della felicità (""attività dell'anima secondo la sua propria e peculiare capacità"") che in Aristotele sono distinte.","I 7, 1098 a 16",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PERÒ CHE NELLA SUA FILOSOFIA NULLA FU AFFERMATO,"perché la sua filosofia non sostenne alcuna tesi determinata'. Che a Platone fosse succeduto Speusippo, che i suoi seguaci avessero preso il nome dal luogo in cui studiavano (l'Academia), che Socrate si fosse limitato a porre in dubbio le posizioni altrui senza affermare niente in positivo Dante poteva trovarlo negli <i>Academica</i> di Cicerone (I, 4, 17). Suo è invece il collegamento tra quest'ultima cosa e la mancata denominazione della scuola come socratica (quando invece Agostino parla espressamente di socratici"", cfr. <i>De civitate Dei</i> VIII 3, p. 219).","I, 4, 17",CONCORDANZA STRINGENTE,http://it.dbpedia.org/resource/Academica_(Cicerone),Academica,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
ZENOCRATE CALCEDONIO,"Senocrate di Calcedonia, successore di Speusippo nella direzione dell' Academia dal 339 al 314 a.C., fu effettivamente condiscepolo (compagnone"") di Aristotele. Lo stretto collegamento operato da Dante tra Senocrate ed Aristotele (non presente a mia conoscenza in nessun testo dossografico medievale) deriva da Cicerone, sia dagli <i>Academica</i> (I.4 17-18) sia dal De finibus (IV, 7, 15 sgg.) dove viene attribuita ad entrambi la giusta determinazione di quale sia il sommo bene",I.4 17-18,CONCORDANZA STRINGENTE,http://it.dbpedia.org/resource/Academica_(Cicerone),Academica,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
ZENOCRATE CALCEDONIO,"Senocrate di Calcedonia, successore di Speusippo nella direzione dell' Academia dal 339 al 314 a.C., fu effettivamente condiscepolo (compagnone"") di Aristotele. Lo stretto collegamento operato da Dante tra Senocrate ed Aristotele (non presente a mia conoscenza in nessun testo dossografico medievale) deriva da Cicerone, sia dagli <i>Academica</i> (I.4 17-18) sia dal De finibus (IV, 7, 15 sgg.) dove viene attribuita ad entrambi la giusta determinazione di quale sia il sommo bene","IV, 7, 15 sgg.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/De_finibus_bonorum_et_malorum,De finibus bonorum et malorum,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
PER LO 'NGEGNO [SINGULARE] E QUASI DIVINO,"di Aristotele come vir singulari ingenio et paene divino"" parla sempre Cicerone nel <i>De divinatione</i> I, 25, 53. L'accenno alla ""natura"" è invece in Alberto Magno, <i>De anima</i> III, tr. 2, c. 3 ""Natura hunc hominem posuit quasi regulam veritatis"" (p. 182, ll. 10-11).","I, 25, 53",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/De_Divinatione,De divinatione,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
PER LO 'NGEGNO [SINGULARE] E QUASI DIVINO,"di Aristotele come vir singulari ingenio et paene divino"" parla sempre Cicerone nel <i>De divinatione</i> I, 25, 53. L'accenno alla ""natura"" è invece in Alberto Magno, <i>De anima</i> III, tr. 2, c. 3 ""Natura hunc hominem posuit quasi regulam veritatis"" (p. 182, ll. 10-11).","III, tr. 2, c. 3 ""Natura hunc hominem posuit quasi regulam veritatis"" (p. 182, ll. 10-11)""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_anima(Alberto_Magno),De anima (Alberto Magno),Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
LIMARO E A PERFEZIONE,"limarono (cioè rividero accuratamente) e portarono al grado massimo di perfezione'. Sempre negli <i>Academica</i> (I, 4, 18) è presente l'affermazione di una sostanziale continuità tra le dottrine etiche di Aristotele e quelle di Socrate, di Platone e degli Accademici : Nihil ... inter Peripateticos et illam veterem Academiam differebat"".","I, 4, 18",CONCORDANZA STRINGENTE,http://it.dbpedia.org/resource/Academica_(Cicerone),Academica,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
DEAMBULATORI,"camminatori'. Sulla base delle <i>Derivationes Magnae</i> di Uguccione Dante assimila Aristotele ed i suoi seguaci a quei maestri del XII secolo qui perambulabant de scola ad scolam, disputantes ... quid melius sue sententie possent adiungere"" (s. v. <i>Peri</i>,  P 68, 6, p. 930).","s. v. Peri, P 68, 6, p. 930",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Derivationes_Magnae,Derivationes Magnae,Uguccione da Pisa,http://dbpedia.org/resource/Huguccio,http://purl.org/bncf/tid/9228,WORK
ARISTOTILE ESSERE ... A QUESTO SEGNO,"che Aristotele è colui che indica questo fine e conduce al suo raggiungimento'. Lo stretto collegamento tra Socrate, Platone ed Aristotele, presente in questo paragrafo e nei precedenti, dipende dall'uso di fonti ciceroniane e si distacca dalla comune opinione dossografica che nel Medioevo considerava Platone ed Aristotele capi di due scuole, magari non opposte, ma certo diverse. Il breve accenno di storia della filosofia secondo cui gli Accademici sarebbero stati completamente assorbiti dalla scuola dei Peripatetici deriva dalla lettura del <i>De finibus</i> di Cicerone in cui le due correnti filosofiche sono teoreticamente accomunate, in opposizione agli Stoici (cfr. ad esempio IV, 2, 4). Infine, la constatazione della universale egemonia culturale dell'aristotelismo, dominante non solo nelle Università, ma anche negli <i>Studia</i> cittadini degli ordini mendicanti, dimostra in Dante una coscienza del fenomeno davvero precoce. Osservazioni analoghe non si avranno prima del XVI secolo.","cfr. ad esempio IV, 2, 4",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/De_finibus_bonorum_et_malorum,De finibus bonorum et malorum,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
IN QUELLO DI SAPIENZA,"nel libro della Sapienza'. Calco dal latino: 'in illo Sapientiae'. Cfr. <i>Sap</i> 6, 23  Diligite lumen sapientiae, omnes qui praeestis populis""."" (con ""state innanzi"" Dante traduce letteralmente il 'praeestis' che in realtà significa 'comandate'). Lo stesso versetto verrà di nuovo utilizzato da Dante in <i>Cv</i> IV xvi 1","Sap 6, 23  Diligite lumen sapientiae, omnes qui praeestis populis",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Wisdom,Sapienza,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
DELLO ECCLESIASTE,"cfr. <i>Ecl</i> 10, 16 Vae tibi, terra, cuius rex puer est, et cuius principes mane comedunt"" (stranamente Dante traduce in modo non corretto ""mane"", cioè, dal mattino, con ""domane"" e perde in qualche modo il senso dell'invettiva volta contro i governanti che gozzovigliano fin dall'inizio del giorno. Risulta così suggestiva, anche se non accolta dai vari editori, la proposta avanzata da Moore di sostituire ""la domane"" con ""da mane""). Le prime parole di questo versetto verranno di nuovo citate in <i>Cv</i> IV xvi 5","Ecl 10, 16 Vae tibi, terra, cuius rex puer est, et cuius principes mane comedunt",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Ecclesiastes,Ecclesiaste,Salomone,http://dbpedia.org/resource/Solomon,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
PIÙ CHE ALTRO VILLANO,"più di ogni altra persona ignobile'. Espressioni simili ha il <i>Liber de nobilitate animi</i> di Guglielmo di Aragona, un testo composto verso la fine del XIII secolo probabilmente in zona italiana: Si filii nobilium non assimilentur parentibus in nobilitate non solum erunt viles sed vilitatis principium et corruptores nobilitatis ...Unde in hoc casu valde mirabilis, immo miserabilis est"" (p. 58, ll. 29-33). Dante però traduce questa convinzione in una struttura narrativa e stilistica che nel suo domandare e rispondere ha come modello i Vangeli. In <i>Mt</i> 21, 28 sgg., infatti, Gesù presenta ai Farisei una situazione fittizia, ma possibile (il padre di famiglia che dice ai due figli di andare nel campo; i contadini che uccidono il figlio del padrone della vigna a loro inviato) che genera un interrogativo (quale dei due figli ha fatto la volontà del padre? Cosa farà il padrone ai contadini omicidi?): la risposta, praticamente obbligata, viene per analogia applicata alla situazione reale di cui si sta discutendo.","21, 28 sgg.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Matthew,Vangelo di Matteo,Matteo,http://dbpedia.org/resource/Matthew_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
DELLI PROVERBI,"cfr. <i>Prv</i> 22, 28 Ne transgrediaris terminos antiquos, quos posuerunt patres tui"". E' interessante notare come Dante, utilizzandolo per il suo scopo, modifichi profondamente l'interpretazione corrente di questo testo biblico, in genere invocato contro l'introduzione di innovazioni, viste per lo più come pericolose.","22, 28 Ne transgrediaris terminos antiquos, quos posuerunt patres tui",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Proverbs,Libro dei Proverbi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
NEL QUARTO CAPITOLO ...,"cfr. <i>Prv</i> 4 , 18-19 Iustorum autem semita quasi lux splendens procedit ... Via impiorum tenebrosa. Nesciunt ubi corruant"". Anche in questo caso il testo subisce uno slittamento semantico attraverso l'identificazione dei ""giusti"" biblici con i veri nobili (i ""valenti"").","4 , 18-19 Iustorum autem semita quasi lux splendens procedit ... Via impiorum tenebrosa. Nesciunt ubi corruant",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Proverbs,Libro dei Proverbi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
NEL SECONDO DELL'ANIMA,"cfr. <i>De an</i>. II 4, 415 b 13 Vivere autem viventibus est esse"".","II 4, 415 b 13 Vivere autem viventibus est esse""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
VIVERE È PER MOLTI MODI,"vivere ha una pluralità di significati'. Cfr. <i>De an</i>. II 2, 413 a 22 Multipliciter autem ipso vivere dicto"".","II 2, 413 a 22 Multipliciter autem ipso vivere dicto",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SENTIRE E MUOVERE,"avere sensazioni e muoversi'. In realtà, per Aristotele, il movimento locale non è elemento definitorio dell'animale; esistono infatti animali, come le ostriche, che possiedono la sensibilità senza possedere la motilità (cfr. <i>De an</i>. II 2, 413 b 1-5).","II 2, 413 b 1-5",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
VIVERE NELL'UOMO È RAGIONE USARE,"cfr. il commento di Tommaso all' <i>Etica Nicomachea</i> X, <i>lectio</i> 11, n. 2109 Dum homo vivit secundum operationem intellectus, vivit secundum vitam maxime sibi propriam"".","X, lectio 11, n. 2109 Dum homo vivit secundum operationem intellectus, vivit secundum vitam maxime sibi propriam",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
NEL QUINTO CAPITOLO ...,"cfr. <i>Prv</i> 5, 23 Ipse morietur quia non habuit disciplinam et multitudine stultitiae suae decipietur"" (probabilmente Dante leggeva, o ricordava un ""qui"" al posto del ""quia"").","5, 23 Ipse morietur quia non habuit disciplinam et multitudine stultitiae suae decipietur",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Proverbs,Libro dei Proverbi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
SÌ COME DICE LO FILOSOFO,"Dante si riferisce ad un testo assai conosciuto in cui Aristotele paragona il rapporto tra i vari tipi di anima a quello tra le diverse figure piane (cfr. <i>De an.</i> II 3, 414 b 28-32), ma lo interpreta in modo del tutto singolare. Per lo Stagirita, infatti, come un quadrilatero contiene in sé potenzialmente il triangolo, così l'anima sensitiva contiene in potenza anche quella vegetativa e come commenterà Alberto Magno, ne esercita pienamente le funzioni in quanto ontologicamente superiore (quia est potestas superior ... ex se potest in potestatem inferioris potentiae"" <i>De anima</i> II tr. 1, cap.11, p. 81, ll. 77-79). Seguendo Tommaso (ma anche Bonaventura) Dante introduce accanto alle figure del triangolo e del quadrilatero (""quadrangulo"") anche quella del pentagono (""pentangulo"") corrispondente all'anima intellettiva che sembra concepire in perfetta sequenza con le altre (Aristotele, invece, per cui l'intelletto necessita di una discussione a parte, aveva parlato solo di due figure, il triangolo ed il quadrilatero e di due facoltà, quella vegetativa e quella sensitiva). Ma, con l'immagine per cui la figura che ha più lati (""canti"") sta sopra a quella che ne ha meno, e soprattutto con l'idea per cui togliendo un lato al pentagono si torna al quadrilatero, Dante sembra concepire il rapporto tra i diversi tipi di anima come un processo per addizione, ed in più reversibile, andando così contro le interpretazioni più autorevoli (e in questo caso più aderenti) del testo aristotelico. Cfr. ancora una volta Alberto Magno ""Propter quod etiam solvitur dubium quorundam, utrum scilicet sensitivum sit compositum ex vegetativo et quodam alio; constat enim quod non, sed sensitivum est unum simplex amplioris potestatis ... Neque enim in figuris figura tetragoni est composita, sed simplex"" (<i>De anima</i> II tr. 1, cap. 11, p. 81, ll. 81-4, 89-90). Ancora una volta Dante tratta con molta libertà le sue <i>auctoritates</i> utilizzandole in funzione delle proprie necessità espressive.","II 3, 414 b 28-32",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SÌ COME DICE LO FILOSOFO,"Dante si riferisce ad un testo assai conosciuto in cui Aristotele paragona il rapporto tra i vari tipi di anima a quello tra le diverse figure piane (cfr. <i>De an.</i> II 3, 414 b 28-32), ma lo interpreta in modo del tutto singolare. Per lo Stagirita, infatti, come un quadrilatero contiene in sé potenzialmente il triangolo, così l'anima sensitiva contiene in potenza anche quella vegetativa e come commenterà Alberto Magno, ne esercita pienamente le funzioni in quanto ontologicamente superiore (quia est potestas superior ... ex se potest in potestatem inferioris potentiae"" <i>De anima</i> II tr. 1, cap.11, p. 81, ll. 77-79). Seguendo Tommaso (ma anche Bonaventura) Dante introduce accanto alle figure del triangolo e del quadrilatero (""quadrangulo"") anche quella del pentagono (""pentangulo"") corrispondente all'anima intellettiva che sembra concepire in perfetta sequenza con le altre (Aristotele, invece, per cui l'intelletto necessita di una discussione a parte, aveva parlato solo di due figure, il triangolo ed il quadrilatero e di due facoltà, quella vegetativa e quella sensitiva). Ma, con l'immagine per cui la figura che ha più lati (""canti"") sta sopra a quella che ne ha meno, e soprattutto con l'idea per cui togliendo un lato al pentagono si torna al quadrilatero, Dante sembra concepire il rapporto tra i diversi tipi di anima come un processo per addizione, ed in più reversibile, andando così contro le interpretazioni più autorevoli (e in questo caso più aderenti) del testo aristotelico. Cfr. ancora una volta Alberto Magno ""Propter quod etiam solvitur dubium quorundam, utrum scilicet sensitivum sit compositum ex vegetativo et quodam alio; constat enim quod non, sed sensitivum est unum simplex amplioris potestatis ... Neque enim in figuris figura tetragoni est composita, sed simplex"" (<i>De anima</i> II tr. 1, cap. 11, p. 81, ll. 81-4, 89-90). Ancora una volta Dante tratta con molta libertà le sue <i>auctoritates</i> utilizzandole in funzione delle proprie necessità espressive.","quia est potestas superior ... ex se potest in potestatem inferioris potentiae"" De anima II tr. 1, cap.11, p. 81, ll. 77-79""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_anima(Alberto_Magno),De anima (Alberto Magno),Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
SÌ COME DICE LO FILOSOFO,"Dante si riferisce ad un testo assai conosciuto in cui Aristotele paragona il rapporto tra i vari tipi di anima a quello tra le diverse figure piane (cfr. <i>De an.</i> II 3, 414 b 28-32), ma lo interpreta in modo del tutto singolare. Per lo Stagirita, infatti, come un quadrilatero contiene in sé potenzialmente il triangolo, così l'anima sensitiva contiene in potenza anche quella vegetativa e come commenterà Alberto Magno, ne esercita pienamente le funzioni in quanto ontologicamente superiore (quia est potestas superior ... ex se potest in potestatem inferioris potentiae"" <i>De anima</i> II tr. 1, cap.11, p. 81, ll. 77-79). Seguendo Tommaso (ma anche Bonaventura) Dante introduce accanto alle figure del triangolo e del quadrilatero (""quadrangulo"") anche quella del pentagono (""pentangulo"") corrispondente all'anima intellettiva che sembra concepire in perfetta sequenza con le altre (Aristotele, invece, per cui l'intelletto necessita di una discussione a parte, aveva parlato solo di due figure, il triangolo ed il quadrilatero e di due facoltà, quella vegetativa e quella sensitiva). Ma, con l'immagine per cui la figura che ha più lati (""canti"") sta sopra a quella che ne ha meno, e soprattutto con l'idea per cui togliendo un lato al pentagono si torna al quadrilatero, Dante sembra concepire il rapporto tra i diversi tipi di anima come un processo per addizione, ed in più reversibile, andando così contro le interpretazioni più autorevoli (e in questo caso più aderenti) del testo aristotelico. Cfr. ancora una volta Alberto Magno ""Propter quod etiam solvitur dubium quorundam, utrum scilicet sensitivum sit compositum ex vegetativo et quodam alio; constat enim quod non, sed sensitivum est unum simplex amplioris potestatis ... Neque enim in figuris figura tetragoni est composita, sed simplex"" (<i>De anima</i> II tr. 1, cap. 11, p. 81, ll. 81-4, 89-90). Ancora una volta Dante tratta con molta libertà le sue <i>auctoritates</i> utilizzandole in funzione delle proprie necessità espressive.","II tr. 1, cap. 11, p. 81, ll. 81-4, 89-90",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_anima(Alberto_Magno),De anima (Alberto Magno),Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
SOPRA LO PROLOGO DELL'ETICA,"commentando il prologo dell' <i>Etica</i>'. Calco dal latino universitario 'ut dicit X super librum, prologum Ethicorum'. Cfr. Tommaso, <i>In decem libros Ethicorum Aristotelis expositio</i> I, <i>lectio</i> 1, n. 1 ordinem unius rei ad aliam cognoscere est solius intellectus aut rationis"". In realtà il testo aristotelico non ha alcun prologo da commentare, e l'introduzione al commento vero e proprio, di cui il testo citato da Dante fa parte, è da attribuire completamente a Tommaso.","In decem libros Ethicorum Aristotelis expositio I, lectio 1, n. 1 ordinem unius rei ad aliam cognoscere est solius intellectus aut rationis",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
LO MINORE ALLO MAGGIORE,"chi ha meno autorità a chi ne ha di più'. Avere reverenza"" è quindi un atteggiameno che deriva dalla capacità razionale di vedere le cose nel loro giusto ordine. L'immagine della radice e dei rami, applicata ai fondamenti ed alle applicazioni della scienza, è presente in Avicenna (cfr. <i>De animalibus</i> IX 1, Venetiis 1508, f. 41 r).","IX 1, Venetiis 1508, f. 41 r",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_animalibus(Avicenna),De animalibus (Avicenna),Avicenna,http://dbpedia.org/resource/Avicenna,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
"TULIO, NEL PRIMO DELLI OFFICI","Cicerone, nel primo libro del <i>De officiis</i>",primo libro del De officiis,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/De_Officiis,De officiis,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
BELLEZZA CHE IN SULL'ONESTADE RISPLENDE,"bellezza che si irradia intorno all'integrità morale' (cfr. <i>De officiis</i> I, 27, 95 Pertinet quidem ad omnem honestatem hoc quod dico decorum"").","s I, 27, 95 Pertinet quidem ad omnem honestatem hoc quod dico decorum",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/De_Officiis,De officiis,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
DICE LA REVERENZA ESSERE DI QUELLA,"afferma che l'atteggiamento di rispetto ne è una parte'. Cfr. <i>De officiis</i> I, 28, 98, un testo dove la <i>reverentia</i> viene nominata subito dopo la bellezza, il <i>decorum</i>, senza però dire che ne sia una parte Ut enim pulchritudo corporis movet oculos et delectat ... sic hoc <i>decorum</i> quod elucet in vita movet adprobationem eorum quibuscum vivitur ...Adhibenda est igitur quaedam <i>reverentia</i> adversus homines, et optimi cuiusque et reliquorum"").","I, 28, 98",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/De_Officiis,De officiis,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
DISSOLUTA,"come per tutta la frase, anche nel caso di questo termine Dante traduce letteralmente il latino di Cicerone (neglegere quid de se quisque sentiat, non solum arrogantis est, sed etiam omnino dissoluti"" <i>De officiis</i> I, 28, 99). Probabilmente, usando la parola <i>dissolutus</i>, l'autore latino non voleva dire niente di diverso da ""negligente"", mentre nel volgare italiano il termine ha finito per significare in maniera esclusiva colui che è irrimediabilmente vizioso.","I, 28, 99",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/De_Officiis,De officiis,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
NELLI SENSIBILI COMUNI,"i 'sensibili comuni' sono quelli già elencati in <i>Cv</i> III ix 6. Che nel caso dei sensibili comuni il senso possa essere ingannato è detto da Aristotele nel <i>De anima</i> (III 3, 428 b 22-25).","III 3, 428 b 22-25",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
D'UN PIEDE,"della misura di un piede'. L'esempio, usato frequentemente dai filosofi e dai teologi scolastici, è tratto dal <i>De anima</i> III 3, 428 b 5 ed è utilizzato da Dante anche nella lettera a Cangrande (cfr. <i>Ep.</i> XIII 7, p. 602).","III 3, 428 b 5",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
L'UMANA RAGIONE ... SUE ARTI,"il testo tradito ed accettato da ll'edizione Ageno recita:la umana ragione coll'altre sue arti"". Ma il termine generico ""altre"" sembra rimandare ad un'arte specifica e nominalmente indicata (con tutta probabilità l'astronomia, mentre le altre potrebbero ben essere la geometria e l'ottica). Propongo quindi di ipotizzare una lacuna per omoteleuto. Che le varie ""arti"" siano strumenti generati dalla ragione umana è concetto del primo Agostino (cfr. <i>De ordine</i> II 36 sgg.).",cfr. De ordine II 36 sgg.,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_ordine(Agostino),De ordine,Agostino,http://dbpedia.org/resource/Augustine_of_Hippo,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
TRENTACINQUE MILIA SETTECENTO CINQUANTA MIGLIA,"nel cap. XXII del <i>Liber aggregationis</i> la misura del sole non è data in valori assoluti, ma relativi: diameter solis est aequalis diametro terrae quinquies et semis"" (p. 148). La moltiplicazione è opera di Dante.",cap. XXII del Liber aggregationis,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Liber_aggregationis,Liber aggregationis,Alfragano,http://dbpedia.org/resource/Ahmad_ibn_Muhammad_ibn_Kath%C4%ABr_al-Fargh%C4%81n%C4%AB,http://purl.org/bncf/tid/7996,WORK
PRIVAZIONE ... NEGAZIONE,"si tratta di termini tratti dalla filosofia aristotelica. Privazione indica l'assenza di una qualità in un soggetto che per sua natura dovrebbe possederla: ad esempio, la cecità come privazione di vista, può essere predicata correttamente solo di esseri capaci di vedere (cfr. il commento di Tommaso: <i>In duodecim libros Metaphysicorum Aristotelis expositio</i> IV, <i>lectio</i> 3, n. 565 Non ... omne non videns potest dici caecum, sed solum quod natum est habere eam""). Dante stesso immediatamente sotto dirà che la morte come privazione di vita si può attribuire solo ai soggetti capaci di vivere. Essa funziona da principio di spiegazione del divenire ed ha con la qualità potenzialmente posseduta un rapporto di contrarietà (cfr. <i>Phys</i>. I 7, 190 b 11-16 e il commento di Tommaso, I, <i>lectio</i> 12, n. 102). La negazione ha invece una valenza puramente logica e si pone con la qualità negata in un rapporto di contraddittorietà (rimanendo entro il medesimo esempio, mentre il contrario di vedente è cieco, il suo contraddittorio è semplicemente 'non vedente' nel senso di 'non dotato della possibilità di vedere'). Applicando questo modello alla situazione descritta da Dante, ""irreverenza"" sarà il rifiuto pubblicamente manifestato (il ""disconfessare per manifesto segno"") di prestare il dovuto ossequio, mentre la ""non reverenza"" sarà semplicemente negare che ci sia un ossequio dovuto (""negare la debita subiezione"").","In duodecim libros Metaphysicorum Aristotelis expositio IV, lectio 3, n. 565 Non ... omne non videns potest dici caecum, sed solum quod natum est habere eam",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Metaphysicae(Tommaso),Sententia libri Metaphysicae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
PRIVAZIONE ... NEGAZIONE,"si tratta di termini tratti dalla filosofia aristotelica. Privazione indica l'assenza di una qualità in un soggetto che per sua natura dovrebbe possederla: ad esempio, la cecità come privazione di vista, può essere predicata correttamente solo di esseri capaci di vedere (cfr. il commento di Tommaso: <i>In duodecim libros Metaphysicorum Aristotelis expositio</i> IV, <i>lectio</i> 3, n. 565 Non ... omne non videns potest dici caecum, sed solum quod natum est habere eam""). Dante stesso immediatamente sotto dirà che la morte come privazione di vita si può attribuire solo ai soggetti capaci di vivere. Essa funziona da principio di spiegazione del divenire ed ha con la qualità potenzialmente posseduta un rapporto di contrarietà (cfr. <i>Phys</i>. I 7, 190 b 11-16 e il commento di Tommaso, I, <i>lectio</i> 12, n. 102). La negazione ha invece una valenza puramente logica e si pone con la qualità negata in un rapporto di contraddittorietà (rimanendo entro il medesimo esempio, mentre il contrario di vedente è cieco, il suo contraddittorio è semplicemente 'non vedente' nel senso di 'non dotato della possibilità di vedere'). Applicando questo modello alla situazione descritta da Dante, ""irreverenza"" sarà il rifiuto pubblicamente manifestato (il ""disconfessare per manifesto segno"") di prestare il dovuto ossequio, mentre la ""non reverenza"" sarà semplicemente negare che ci sia un ossequio dovuto (""negare la debita subiezione"").","I, lectio 12, n. 102",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Metaphysicae(Tommaso),Sententia libri Metaphysicae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
PRIVAZIONE ... NEGAZIONE,"si tratta di termini tratti dalla filosofia aristotelica. Privazione indica l'assenza di una qualità in un soggetto che per sua natura dovrebbe possederla: ad esempio, la cecità come privazione di vista, può essere predicata correttamente solo di esseri capaci di vedere (cfr. il commento di Tommaso: <i>In duodecim libros Metaphysicorum Aristotelis expositio</i> IV, <i>lectio</i> 3, n. 565 Non ... omne non videns potest dici caecum, sed solum quod natum est habere eam""). Dante stesso immediatamente sotto dirà che la morte come privazione di vita si può attribuire solo ai soggetti capaci di vivere. Essa funziona da principio di spiegazione del divenire ed ha con la qualità potenzialmente posseduta un rapporto di contrarietà (cfr. <i>Phys</i>. I 7, 190 b 11-16 e il commento di Tommaso, I, <i>lectio</i> 12, n. 102). La negazione ha invece una valenza puramente logica e si pone con la qualità negata in un rapporto di contraddittorietà (rimanendo entro il medesimo esempio, mentre il contrario di vedente è cieco, il suo contraddittorio è semplicemente 'non vedente' nel senso di 'non dotato della possibilità di vedere'). Applicando questo modello alla situazione descritta da Dante, ""irreverenza"" sarà il rifiuto pubblicamente manifestato (il ""disconfessare per manifesto segno"") di prestare il dovuto ossequio, mentre la ""non reverenza"" sarà semplicemente negare che ci sia un ossequio dovuto (""negare la debita subiezione"").","I 7, 190 b 11-16",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SE DUE SONO LI AMICI...,"Dante non cita alla lettera, ma parafrasa il testo latino di <i>Eth. Nic</i>. I, 6, 1096 a 14-17 Videbitur ... oportere et pro salute veritatis et familiaria destruere. Ambobus enim existentibus amicis, sanctum prehonorare veritatem"" (<i>Translatio Grosseteste. Textus Purus</i>, p. 146, ll. 14-16).","I, 6, 1096 a 14-17 Videbitur ... oportere et pro salute veritatis et familiaria destruere. Ambobus enim existentibus amicis, sanctum prehonorare veritatem"" (Translatio Grosseteste. Textus Purus, p. 146, ll. 14-16).""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
CHÉ L'OFFICIO E L'ARTE DELLA NATURA ...,": noi infatti vediamo (vedemo"") che tutte le attività (""operazioni"") della natura hanno un loro limite (sono ""finite""); se infatti consideriamo (""ché se prendere volemo"") la forza universale che regola la totalità delle trasformazioni (""la natura universale di tutto"", per cui vedi <i>Cv</i> I vii 9) ed estende il suo potere per quanto si estende l'universo (""tanto ha di giurisdizione quanto tutto lo mondo ... si stende"") essa ha un limite preciso (""questo è a certo termine"") e di ciò si ha la prova attraverso (""per"") il terzo libro della <i>Fisica</i> ed il primo del <i>De coelo</i> (dove appunto Aristotele, rispettivamente al cap. 5 ed ai capp. 5-7 dimostra che l'universo non è infinito).",terzo libro della Fisica,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
CHÉ L'OFFICIO E L'ARTE DELLA NATURA ...,": noi infatti vediamo (vedemo"") che tutte le attività (""operazioni"") della natura hanno un loro limite (sono ""finite""); se infatti consideriamo (""ché se prendere volemo"") la forza universale che regola la totalità delle trasformazioni (""la natura universale di tutto"", per cui vedi <i>Cv</i> I vii 9) ed estende il suo potere per quanto si estende l'universo (""tanto ha di giurisdizione quanto tutto lo mondo ... si stende"") essa ha un limite preciso (""questo è a certo termine"") e di ciò si ha la prova attraverso (""per"") il terzo libro della <i>Fisica</i> ed il primo del <i>De coelo</i> (dove appunto Aristotele, rispettivamente al cap. 5 ed ai capp. 5-7 dimostra che l'universo non è infinito).",il primo libro del De coelo,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_caelo,De caelo,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
INFINITO COMPRENDE,"se la finitezza del mondo è tesi caratteristica di Aristotele, non lo è sicuramente quella di un Dio limitatore illimitato, potenza infinita in grado di comprendere l'infinito, dottrina che che Dante condivide con i teologi cristiani (cfr. Tommaso, <i>Summa Theologiae</i> I, q. 14, a. 12; <i>Summa contra Gentiles</i> I, cap. 69).","I, q. 14, a. 12; Summa contra Gentiles I, cap. 69",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_Theologica,Summa Theologiae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
CHE SOLO QUELLE SONO OPERAZIONI NOSTRE  ... ALLA VOLONTADE,"che possiamo dire nostre solo quelle attività che sono soggette (subiacciono"") alla ragione ed alla volontà'. Un'attività del tutto irriflessa come la digestione (""l'operazione digestiva"") anche se si compie nell'uomo (""se è in noi"") non può dirsi umana, ma genericamente naturale. Dante segue qui da vicino il pensiero di Tommaso, anzi, sembra proprio aver parafrasato un brano del suo commento all' <i>Etica Nicomachea</i> ""Dico autem operationes humanas quae procedunt a voluntate hominis secundum ordinem rationis. Nam si quae operationes in homine inveniuntur quae non subiacent voluntati et rationi, non dicuntur proprie humanae, sed naturales, sicut patet de operationibus animae vegetativae"" (I, <i>lectio</i> 1, n. 3)","Dico autem operationes humanas quae procedunt a voluntate hominis secundum ordinem rationis. Nam si quae operationes in homine inveniuntur quae non subiacent voluntati et rationi, non dicuntur proprie humanae, sed naturales, sicut patet de operationibus animae vegetativae (I, lectio 1, n. 3)""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
ARTI MECCANICE,"nella classificazione medievale le <i>artes mechanicae</i>, necessarie per il soddifacimento dei bisogni materiali e caratterizzate dalla manualità, si oppongono alle <i>artes liberales</i>. Il loro numero e le loro caratteristiche, codificati nel <i>Didascalicon</i> di Ugo di San Vittore (II, 21-28, PL 176, pp. 760-3) erano però rimasti piuttosto fluttuanti (cfr. Weisheipl 1965). Un esempio di classificazione abbastanza complessa è rintracciabile proprio in Remigio de' Girolami. Il domenicano fiorentino inserisce nell'elenco arti come la <i>tonsiva</i>, la <i>filativa</i>, la <i>textoria</i> che sembrano riprodurre in pieno la filiera della produzione fiorentina di tessuti di lana (cfr. Panella, 1981, pp. 102-106).","II, 21-28, PL 176, pp. 760-3",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Didascalicon(Ugo_da_San_Vittore),Didascalicon,Ugo da San Vittore,http://dbpedia.org/resource/Hugh_of_Saint_Victor,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
ARTI MECCANICE,"nella classificazione medievale le <i>artes mechanicae</i>, necessarie per il soddifacimento dei bisogni materiali e caratterizzate dalla manualità, si oppongono alle <i>artes liberales</i>. Il loro numero e le loro caratteristiche, codificati nel <i>Didascalicon</i> di Ugo di San Vittore (II, 21-28, PL 176, pp. 760-3) erano però rimasti piuttosto fluttuanti (cfr. Weisheipl 1965). Un esempio di classificazione abbastanza complessa è rintracciabile proprio in Remigio de' Girolami. Il domenicano fiorentino inserisce nell'elenco arti come la <i>tonsiva</i>, la <i>filativa</i>, la <i>textoria</i> che sembrano riprodurre in pieno la filiera della produzione fiorentina di tessuti di lana (cfr. Panella, 1981, pp. 102-106).",,CONCORDANZA GENERICA,,,Remigio dei Girolami,http://dbpedia.org/resource/Remigio_dei_Girolami,http://purl.org/bncf/tid/29623,CONCEPT
SONO ANCHE OPERAZIONI,"ci sono anche delle attività. Il quarto tipo di operazioni"", a differenza dei primi tre, non solo cade sotto la considerazione della ragione, ma è costituito da atti della volontà (""operazioni che la nostra ragione considera nell'atto della volontade""). Queste attività sono completamente dipendenti (""del tutto subiacciono"") dalla volontà stessa. Per questo (""e però"") dalla loro natura (""da loro"") siamo giudicati buoni o cattivi moralmente (""semo detti buoni e rei""), proprio perché sono le sole ad esser nostre in senso assoluto (""perch'elle sono propie nostre del tutto""); dunque in questo caso le nostre attività hanno la stessa estensione (""si stendono"") di quanto la nostra volontà può efficacemente operare (""quanto la nostra volontade ottenere puote""). In questi tre paragrafi, per individuare quali siano le ""operazioni nostre"" su cui la maestà imperiale ha potere, e quindi diritto alla 'reverenza', Dante utilizza una quadripartizione presente all'inizio del Commento di Tommaso all' <i>Etica Nicomachea</i> (I, <i>lectio</i> 1, n. 1-2). Le corrispondenze testuali sono evidenti ""<i>ordo</i> quem ratio non facit, sed solum considerat"" ""operazioni ... ch'ella solo considera e non fa""; ""<i>ordo</i> quem ratio considerando facit in proprio actu"" ""operazioni che essa considera e fa nel propio atto suo""; ""<i>ordo</i> quem ratio facit considerando in exterioribus rebus ... pertinet ad artes mechanicas"" ""operazioni ch'ella considera e fa in materia fuori di sé, come sono arti meccanice""; ""<i>ordo</i> quem ratio considerando facit in operationibus voluntatis"" ""operazioni che la nostra ragione considera nell'atto della volontà"". Dove però Tommaso parlava di quattro tipi di ordine che fondano quattro tipi di scienze e di arti, Dante parla di quattro tipi di operazioni della ragione, confondendole con le cose o gli atti verso cui in maniera diversa essa rivolge la sua considerazione. Quello che a lui interessa non è una classificazione delle scienze, ma l'individuazione, per contrasto con tutte le altre, di quella operazione ""che la nostra ragione considera nell'atto della volontà"". Non per niente nel testo di Tommaso essa costituiva il terzo <i>ordo</i> e non, come qui, l'ultimo.","I, lectio 1, n. 1-2",CONCORDANZA GENERICA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
DICE AUGUSTINO,"la frase seguente non corrisponde a nessun testo agostiniano preciso (i passi del <i>De libero arbitrio</i> e delle <i>Enarrationes in Psalmos</i> citati dal Commento <i>Busnelli</i> tematizzano il contrasto tra legge eterna, presente alla mente, e legge temporale, scritta nei codici, affermando che chi aderisce alla prima non ha bisogno della seconda). Ho quindi seguito il suggerimento di Bruno Nardi eliminando i due punti e le virgolette",,CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_libero_arbitrio(Agostino),De libero arbitrio,Agostino,http://dbpedia.org/resource/Augustine_of_Hippo,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
DICE AUGUSTINO,"la frase seguente non corrisponde a nessun testo agostiniano preciso (i passi del <i>De libero arbitrio</i> e delle <i>Enarrationes in Psalmos</i> citati dal Commento <i>Busnelli</i> tematizzano il contrasto tra legge eterna, presente alla mente, e legge temporale, scritta nei codici, affermando che chi aderisce alla prima non ha bisogno della seconda). Ho quindi seguito il suggerimento di Bruno Nardi eliminando i due punti e le virgolette",,CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Enarrationes_in_psalmos,Enarrationes in Psalmos,Agostino,http://dbpedia.org/resource/Augustine_of_Hippo,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
NEL PRINCIPIO DEL VECCHIO DIGESTO,"cfr. <i>Digestum</i> I, 1, 1 <i>De iustitia et iure</i>: ut eleganter Celsus definit, ius est ars boni et equi"". Con la denominazione di <i>Digestum Vetus</i> si indicavano i primi 24 libri dei 50 del <i>Digestum</i> (i libri 24-28 venivano indicati come <i>Inforziato</i> e i rimanenti come <i>Digestum Novum</i>). Tutto il <i>Digestum</i> è a sua volta una parte del <i>Corpus iuris civilis</i>, quella che contiene le dottrine e i responsi degli autori romani di diritto dall'età repubblicana fino a Giustiniano. Le altre parti del <i>Corpus</i> sono costituite dalle <i>Institutiones</i> (regole e metodi per lo studio del diritto), dal <i>Codex</i> (le costituzioni imperiali promulgate fino a Giustiniano) e dalle <i>Novellae</i> (costituzioni promulgate dopo l'entrata in vigore del <i>Codex</i>, anche da parte di imperatori successivi a Giustiniano). Entrato in vigore per la parte occidentale dell'Impero nel 554, il <i>Corpus</i>, dopo lunghi secoli di oblio quasi totale, tornò ad essere letto, commentato ed usato a partire dal XII secolo, per merito soprattutto della scuola giuridica bolognese. Proprio sul <i>Corpus</i> da poco riscoperto Federico Barbarossa fondò la riaffermazione delle prerogative imperiali nei confronti sia delle autonomie locali (i Comuni) che del papato.","Digestum I, 1, 1 De iustitia et iure: ut eleganter Celsus definit, ius est ars boni et equi",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Corpus_Juris_Civilis,Corpus iuris civilis,,,http://purl.org/bncf/tid/5750,WORK
"A QUESTA SCRIVERE, MOSTRARE E COMANDARE","Dante individua quelli che per lui ed i suoi contemporanei (vedi ad esempio il <i>De regimine principum</i> di Egidio Romano, III ii 27 <i>Quod non cuiuslibet est ferre leges et quod ut leges vim obligandi habeant oportet eas promulgatas esse</i>, pp. 526-8) sono i tre momenti fondamentali dell'attività legislativa: formulare le leggi, farle conoscere ai sudditi promulgandole (mostrare"") e dando loro valore coattivo (""comandare""). A tutti questi atti è preposto (""posto"") l'Imperatore che esercitando in questo la più alta funzione pubblica è anch'egli un ""officiale"" e non un autocrate.","III ii 27 Quod non cuiuslibet est ferre leges et quod ut leges vim obligandi habeant oportet eas promulgatas esse, pp. 526-8",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_regimine_principum,De regimine principum (Egidio Romano),Egidio Romano,http://dbpedia.org/resource/Giles_of_Rome,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
CHE È NATURALE MOTO,"In <i>Phys</i>. VII, 2, 241 a 24 la <i>pulsio</i>, insieme alla <i>tractio</i> (la trazione), alla <i>vectio</i> (il trasporto) ed alla <i>vertigo</i> (la rotazione) fa parte dei quattro movimenti possibili nelle cose mosse da altro (quindi in senso stretto non si tratta di moto naturale, ma violento).","VII, 2, 241 a 24",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
E COSE SONO DOVE L'ARTE...,"e ci sono attività in cui avviene il contrario: l'arte cioè è al servizio della natura'. Esse hanno un grado inferiore di artificialità regolata (e queste sono meno arti""), quindi un grado maggiore di incertezza: ad esempio nel seminare (""dare lo seme alla terra""), che appartiene all'arte della agricoltura, bisogna porre attenzione (""si vuole attendere"") alle condizioni naturali più o meno favorevoli (""alla volontà della natura""), nel salpare (""uscire di porto""), che fa parte dell'arte della navigazione, occorre stare attenti alle condizioni atmosferiche (""la naturale disposizione del tempo"") non determinabili in modo certo. Per questo (""E però"") si può vedere (""vedemo"") che in tali attività spesso c'è discussione tra gli esperti (""contenzione tra gli artefici"") e anche chi è più esperto (""lo maggiore"") chiede un parere (""consiglio"") a chi lo è meno (""minore""). Il commento di Tommaso all' Etica, esemplificando le arti in cui c'è necessità di una valutazione ponderata dei fattori che intervengono nel loro esercizio, fa proprio l'esempio dell'arte del navigare: ""ars gubernativa in qua oportet attendere ad flatus ventorum"" (cfr. <i>In decem libros Ethicorum Aristotelis expositio</i> III, <i>lectio</i> 7, n. 468).","In decem libros Ethicorum Aristotelis expositio III, lectio 7, n. 468",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
PIÙ NOBILE DOTTRINA,"di una disciplina più alta della medicina' (cioè la fisica, cui la <i>scientia de plantis</i> è subordinata. Cfr. Tommaso, <i>Super Boethium De Trinitate</i>, q. 5, art. 1 ad 5m ).","q. 5, art. 1 ad 5m",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Super_Boethium_De_Trinitate(Tommaso),Super Boethium De Trinitate,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
CHE SAREBBE FILOSOFO,"e in questo caso, definendola in maniera corretta, sarebbe filososofo'. Cfr. Boncompagno da Signa, <i>Rhetorica Novissima</i>: omnes qui naturaliter definiunt ... possunt et debent philosophi appellari, quia nihil est quod magis ad philosophiam pertineat quam habere habere scientiam definiendi"" (ed. Gaudenzi, p. 257a).","omnes qui naturaliter definiunt ... possunt et debent philosophi appellari, quia nihil est quod magis ad philosophiam pertineat quam habere habere scientiam definiendi"" (ed. Gaudenzi, p. 257a)""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Rhetorica_Novissima,Rhetorica Novissima,Boncompagno da Signa,http://dbpedia.org/resource/Boncompagno_da_Signa,http://purl.org/bncf/tid/4567,WORK
LOICO E CLERICO GRANDE,"grande esperto di logica e grande intellettuale'. Nella versione ampia del <i>Trésor</i>, in una redazione cioè posteriore a Brunetto (I XCV, ed. Carmody, p. 75), Federico è presentato come mervilleusement sages et artilleus et trop bien letrés"". Quasi negli stessi anni della composizione del <i>Convivio</i>, a Bologna, in una prolusione ad un corso di logica, Gentile da Cingoli aveva definito l'imperatore come 'magnus philosophus' (ms Palermo, Bibl. Com. 2. Qq. D. 142, f. 81r. Vedi Fioravanti 1998b).","I XCV, ed. Carmody, p. 75",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Tresor,Trésor,Brunetto Latini,http://dbpedia.org/resource/Brunetto_Latini,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
CHÉ LA DIFFINIZIONE ...,"poiché la nobiltà sembra avere la natura di un principio non riconducibile ad altri principi (con ciò sia cosa che essa paia avere ragione di principio""), la sua definizione avrebbe dovuto esser fatta più correttamente (""la sua diffinizione più degnamente si faria"") partendo dai suoi effetti. Un principio, infatti, non può esser reso noto (""non si può notificare"") mediante qualcosa che lo precede (""per cose prime"") bensì mediante ciò che ne deriva (""per posteriori""). Il commento <i>Vasoli</i> rimanda ad <i>Analitici Posteriori</i> II, 9, 93 b 21-28 dove però Aristotele si limita ad affermare che le essenze che sono anche principi non sono passibili di dimostrazione in senso stretto. Il testo del <i>Convivio</i> ci fa piuttosto ipotizzare che Dante, considerando il principio come causa, abbia avuto presente il cap. 13 del primo libro degli <i>Analitici Posteriori</i> (78 a 22 sgg.), con la trattazione della dimostrazione <i>quia</i>, l'unica che partendo dagli effetti ci fa conoscere qualcosa di una causa non riconducibile ad altra causa superiore..",il cap. 13 del primo libro degli Analitici Posteriori (78 a 22 sgg.),CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Analytica_posteriora,Analytica posteriora,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
TUTTE LE COSE CHE FANNO ... CONVIENE ESSERE ...,"per tutte le cose che ne producono (fanno"") altre, è necessario (""conviene"") che anteriormente alla produzione (""prima"") possiedano pienamente l'essere di ciò che producono (""essere perfettamente in quello essere""). Si tratta di una dottrina aristotelica effettivamente presente nel settimo libro della <i>Metafisica</i> (cfr. VII 8, 1033 b 29-32 ""In quibusdam vero... generans tale quidem est quale generatum""), ma la frase che segue immediatamente e che ha tutte le caratteristiche, anche stilistiche, di una citazione diretta, non trova riscontro letterale nel testo aristotelico. Il brano di <i>Metaph</i>. VII 8, 1033 b 22-24 cui in genere rimandano i commentatori (""facit et generat ex hoc tale. Et quando generatum est est hoc tale"". <i>Recensio Guillelmi</i>, p. 146, ll. 399-400) oltre a non corrispondere alle parole del <i>Convivio</i>, ha nel contesto un significato del tutto diverso (Aristotele, contro la teoria delle idee di Platone sostiene che ogni generante ed ogni generato sono un 'hoc tale', un qualcosa di determinato). E se, come nota <i>Busnelli</i>, il commento di Tommaso alla <i>Metafisica</i> afferma che nella generazione univoca ""forma generati praecedit in generante secundum eumdem modum essendi"" (VII <i>lectio</i> 8, n. 1444) questo avviene in relazione ad un luogo diverso del testo aristotelico.","VII 8, 1033 b 29-32 ""In quibusdam vero... generans tale quidem est quale generatum""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
NEL SETTIMO DELLA FISICA E NEL PRIMO DI GENERAZIONE,"cfr. <i>Phys</i>. VII 2, 244 b 2-3, <i>De gen</i>. I 6, 322 b 22-24 e soprattutto le corrispondenti <i>auctoritates Aristotelis</i> Movens et motum simul sunt"" (p. 155, n. 185); ""Agens et patiens non agunt nisi approximata"" (p. 165, n.14). Cfr. <i>Cv</i> III x 2.","VII 2, 244 b 2-3",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
NEL SETTIMO DELLA FISICA E NEL PRIMO DI GENERAZIONE,"cfr. <i>Phys</i>. VII 2, 244 b 2-3, <i>De gen</i>. I 6, 322 b 22-24 e soprattutto le corrispondenti <i>auctoritates Aristotelis</i> Movens et motum simul sunt"" (p. 155, n. 185); ""Agens et patiens non agunt nisi approximata"" (p. 165, n.14). Cfr. <i>Cv</i> III x 2.","I 6, 322 b 22-24",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/On_Generation_and_Corruption,De generatione et corruptione (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
NEL SETTIMO DELLA FISICA E NEL PRIMO DI GENERAZIONE,"cfr. <i>Phys</i>. VII 2, 244 b 2-3, <i>De gen</i>. I 6, 322 b 22-24 e soprattutto le corrispondenti <i>auctoritates Aristotelis</i> Movens et motum simul sunt"" (p. 155, n. 185); ""Agens et patiens non agunt nisi approximata"" (p. 165, n.14). Cfr. <i>Cv</i> III x 2.","p. 155, n. 185",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Auctoritates_Aristotelis,Auctoritates Aristotelis,Johannes de Fonte,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Johannes_de_Fonte,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
L'UNO CONTRARIO NON SIA FATTORE DELL'ALTRO NÉ POSSA ESSERE,"un contrario non produce né può produrre l'altro contrario'. In realtà, nel pensiero aristotelico, questa proposizione si verifica solo per i contrari che sono anche principi. Il testo di <i>Metaph</i>. I 8, 989 a 27-30 citato dal commento <i>Vasoli</i> dice che da un contrario non può generarsi immediatamente un altro contrario, ma nell'esempio portato (non enim <i>ex</i> frigido fiet calidum"") la preposizione <i>ex</i> non ha valore causale, bensì di origine. Vedi piuttosto <i>Phys</i>. I 6, 189 a 21-26, dove Aristotele afferma che i contrari con cui si identificano i principi del cambiamento devono essere più di due: altrimenti uno di essi produrrebbe l'altro e questo è impossibile. Cfr. anche il Commento di Tommaso a <i>Metaph</i>. X 3, 1054 a 20-21 dove alla affermazione di Aristotele che l'uno e i molti sono contrari si obietta che ciò è impossibile, perché l'uno genera i molti, mentre ""unum ... contrariorum non constituit aliud, sed magis destruit"" (<i>lectio</i> 4, n. 1992).","I 6, 189 a 21-26",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
L'UNO CONTRARIO NON SIA FATTORE DELL'ALTRO NÉ POSSA ESSERE,"un contrario non produce né può produrre l'altro contrario'. In realtà, nel pensiero aristotelico, questa proposizione si verifica solo per i contrari che sono anche principi. Il testo di <i>Metaph</i>. I 8, 989 a 27-30 citato dal commento <i>Vasoli</i> dice che da un contrario non può generarsi immediatamente un altro contrario, ma nell'esempio portato (non enim <i>ex</i> frigido fiet calidum"") la preposizione <i>ex</i> non ha valore causale, bensì di origine. Vedi piuttosto <i>Phys</i>. I 6, 189 a 21-26, dove Aristotele afferma che i contrari con cui si identificano i principi del cambiamento devono essere più di due: altrimenti uno di essi produrrebbe l'altro e questo è impossibile. Cfr. anche il Commento di Tommaso a <i>Metaph</i>. X 3, 1054 a 20-21 dove alla affermazione di Aristotele che l'uno e i molti sono contrari si obietta che ciò è impossibile, perché l'uno genera i molti, mentre ""unum ... contrariorum non constituit aliud, sed magis destruit"" (<i>lectio</i> 4, n. 1992).","unum ... contrariorum non constituit aliud, sed magis destruit (lectio 4, n. 1992).""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Metaphysicae(Tommaso),Sententia libri Metaphysicae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
SANZA CONTENZIONE ...MOVESTE BATTAGLIA,"Dante traduce, con lievi modifiche, i vv. 119-121 del terzo libro della <i>Farsaglia</i> di Lucano (... pereunt discrimine nullo / amissae leges; sed, pars vilissima rerum, certamen movistis, opes"").",vv. 119-121 del terzo libro della Farsaglia,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Pharsalia,Pharsalia,Lucano,http://dbpedia.org/resource/Lucan,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
DANNOSA LORO POSSESSIONE,"in quali modi il possesso delle ricchezze sia dannoso verrà detto nel capitolo XIII di questo trattato, a partire dal paragrafo 10. La partizione trimembre dell'imperfezione delle ricchezze ricorda, anche nello stile e nelle clausole (indiscreto loro ... pericoloso loro ... dannosa loro""  ""avvenimento ...accrescimento ... possessione"") gli schemi di distribuzione della materia usati nella predica tipica degli ordini mendicanti (il <i>sermo modernus</i>). Su alcuni aspetti del rapporto tra lo stile di Dante e quello della predicazione a lui coeva cfr. Delcorno 1993.",predica tipica degli ordini mendicanti (il sermo modernus).,CONCORDANZA GENERICA,,,,,http://purl.org/bncf/tid/18842,CONCEPT
NEL QUALE NULLA DISTRIBUTIVA GIUSTIZIA RISPLENDE,"nell' <i>Etica</i> aristotelica l'aspetto distributivo della giustizia è quello per cui i beni materiali (ricchezze) e quelli immateriali (onori) dovrebbero essere ripartiti in proporzione ai meriti degli individui (cfr. <i>Eth. Nic</i>. V 2, 1130 b 30 sgg.) Si tratta di una virtù politica, che riguarda i rapporti tra cittadini ed ha come oggetto i beni comuni. Qui invece si parla di acquisizione di ricchezze private e la giustizia distributiva si trasforma da regola applicabile a un modello ideale irraggiungibile: generalmente la distribuzione delle ricchezze non segue la regola, ma avviene con assoluta ingiustizia (con tutta iniquitade"" ), e l'ingiustizia è l'effetto più caratteristico (""propio"") della imperfezione.","V 2, 1130 b 30 sgg.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DISSE  ARISTOTILE,"si tratta in realtà del Commento di Tommaso al passo del secondo libro della <i>Fisica</i> aristotelica (II 5, 197 a 5-9) che tratta del caso e della fortuna Quanto aliquid magis subiacet intellectui, tanto minus subiacet fortunae"" (II, <i>lectio</i> 8, n. 216). La dipendenza letterale è tanto più evidente in quanto dal contesto ci aspetteremmo piuttosto un 'meno è sottoposto all'intelletto, più è sottoposto alla fortuna'. Ma vedi anche le <i>Auctoritates Aristotelis libri de bona fortuna</i> (p. 249, n.2) ""Ubi plurimus intellectus et ratio, ibi quandoque minima est fortuna"".","II, lectio 8, n. 216",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commentaria_in_octo_libros_Physicorum(Tommaso),Commentaria in octo libros Physicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
DISSE  ARISTOTILE,"si tratta in realtà del Commento di Tommaso al passo del secondo libro della <i>Fisica</i> aristotelica (II 5, 197 a 5-9) che tratta del caso e della fortuna Quanto aliquid magis subiacet intellectui, tanto minus subiacet fortunae"" (II, <i>lectio</i> 8, n. 216). La dipendenza letterale è tanto più evidente in quanto dal contesto ci aspetteremmo piuttosto un 'meno è sottoposto all'intelletto, più è sottoposto alla fortuna'. Ma vedi anche le <i>Auctoritates Aristotelis libri de bona fortuna</i> (p. 249, n.2) ""Ubi plurimus intellectus et ratio, ibi quandoque minima est fortuna"".","libri de bona fortuna (p. 249, n.2) ""Ubi plurimus intellectus et ratio, ibi quandoque minima est fortuna""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Auctoritates_Aristotelis,Auctoritates Aristotelis,Johannes de Fonte,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Johannes_de_Fonte,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
LO PROVENZALE,"i commentatori rimandano sia Guirault de Borneil (E si 'l paire fo lausatz / e'l filhs se fai malvatz /sembla m tort e pechatz / c'aia las eretatz"": se il padre fu degno di lode e il figlio è diventato malvagio, mi sembra torto e peccato che egli abbia l'eredità) che al meno conosciuto Cadenet, che però presenta un testo più vicino alla citazione dantesca ("" Qui non ereita lo sen e 'l saber / tenh que neys eretar degra l'aver"": chi non eredita il senno e il sapere, credo che non debba ereditare nemmeno gli averi).",,CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Los_Aplechs,Los Aplechs,Giraut de Bornelh,http://dbpedia.org/resource/Giraut_de_Bornelh,http://purl.org/bncf/tid/19683,WORK
LO PROVENZALE,"i commentatori rimandano sia Guirault de Borneil (E si 'l paire fo lausatz / e'l filhs se fai malvatz /sembla m tort e pechatz / c'aia las eretatz"": se il padre fu degno di lode e il figlio è diventato malvagio, mi sembra torto e peccato che egli abbia l'eredità) che al meno conosciuto Cadenet, che però presenta un testo più vicino alla citazione dantesca ("" Qui non ereita lo sen e 'l saber / tenh que neys eretar degra l'aver"": chi non eredita il senno e il sapere, credo che non debba ereditare nemmeno gli averi).",,CITAZIONE ESPLICITA,,,Cadenet,http://dbpedia.org/resource/Cadenet_(troubadour),http://purl.org/bncf/tid/19683,WORK
FATEVI AMICI DELLA PECUNIA DELLA INIQUITADE,"procuratevi degli amici attraverso il denaro ingiustamente accumulato' (Dante traduce alla lettera <i>Lc</i> 16, 9 Facite vobis amicos de mammona iniquitatis"").","16, 9 Facite vobis amicos de mammona iniquitatis",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Luke,Vangelo di Luca,Luca,http://dbpedia.org/resource/Luke_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
MILLE E MILLE,"tutti quelli che saranno raggiunti dalla fama del dono'. Le ricchezze possono dunque riscattare il peccato originale insito nei modi della loro accumulazione solo se sono liberalmente distribuite. E solamente Dante poteva trovare un pressante invito alla virtù della liberalità nella parabola del fattore disonesto che froda due volte il padrone, prima arricchendosi illecitamente sulla gestione e poi condonando ai debitori parte del dovuto perché lo aiutino dopo l'inevitabile licenziamento (cfr. <i>Lc</i> 16, 1-9)","16, 1-9",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Luke,Vangelo di Luca,Luca,http://dbpedia.org/resource/Luke_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
ALESSANDRO,"Alessandro Magno. La liberalità di Alessandro Magno era un <i>topos</i> diffuso nella cultura medievale che, oltre ai testi di Guittone e di Rambaut de Vaqueiras citati dall'Ortis (cfr. Ortis 1925) si riflette, ad esempio, nella dedica del <i>Tesoretto</i> di Brunetto Latini Che tutta la sembianza d'Alessandro tenete, / ché per neente avete / terra, oro ed argento"" vv. 28-31, p. 176. Cfr. Toynbee, pp. 144-5.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Tesoretto(Brunetto_Latini),Tesoretto,Brunetto Latini,http://dbpedia.org/resource/Brunetto_Latini,http://purl.org/bncf/tid/6929,WORK
LO BUONO RE DI CASTELLA,"il valoroso re di Castiglia. L'attributo buono"" ha indotto i commentatori ad identificare questo re con Alfonso VIII (1155-1214) che in molti testi trobadorici viene appunto presentato come 'lo bon rei Amfos'. Questo vale anche per il conte di Tolosa. Bisogna però osservare che nel testo dantesco il termine non sempre ha un valore distintivo poiché è usato anche per un Marchese di Monferrato che non ebbe mai questo appellativo (cfr. Toynbee, p. 147).",,CONCORDANZA GENERICA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Testi_trobadorici,Testi trobadorici,,,http://purl.org/bncf/tid/19683,CONCEPT
IL BUONO MARCHESE DI MONFERRATO,si tratta di Bonifacio II (1150-1207) che fu uno dei capi della IV Crociata conclusasi con la presa di Costantinopoli (1204) e la creazione dell'Impero latino di Oriente (Bonifacio ebbe il regno di Tessalonica). I trovatori provenzali a lui contemporanei esaltarono l'ospitalità generosa della sua corte (Rambaut de Vaqueiras lo elogia paragonandolo proprio ad Alessandro Magno).,,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Lettera_epica(Raimbaut_de_Vaqueiras),Lettera epica,Raimbaut de Vaqueiras,http://dbpedia.org/resource/Raimbaut_de_Vaqueiras,http://purl.org/bncf/tid/19683,WORK
OHMÈ ...CAVOE?,"Dante traduce alla lettera i vv. 27- 30 del quinto metro del secondo libro: ""Heu, primus qui fuit ille / auri qui pondera tecti / gemmasque latere volentes / pretiosa pericula fodit?"" (p. 46).","vv. 27- 30 del quinto metro del secondo libro: Heu, primus qui fuit ille / auri qui pondera tecti / gemmasque latere volentes / pretiosa pericula fodit?"" (p. 46).""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
TULlIO IN QUELLO DI PARADOSSO,Marco Tullio Cicerone nei <i>Paradoxa Stoicorum</i>.,,CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Paradoxa_Stoicorum(Cicerone),Paradoxa Stoicorum,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
IO IN NULLO TEMPO ...,"Dante traduce anche qui alla lettera il testo latino di Cicerone (cfr. <i>Paradoxa</i> 6: Numquam mehercule ego neque pecunias istorum neque tecta magnifica neque opes neque imperia neque eas quibus maxime adstricti sunt voluptates, in bonis rebus aut expetendis esse duxi, quippe cum viderem rebus his circumfluentes, eas tamen desiderare maxime quibus abundarent. Neque enim unquam expletur nec satiatur cupiditas sitis, neque solum ea qui habent libidine augendi cruciantur, sed etiam amittendi metu"". Nel testo da lui usato Dante leggeva ""dixi"" al posto di ""duxi"" e ""quae habent"" al posto di ""qui habent"").","6: Numquam mehercule ego neque pecunias istorum neque tecta magnifica neque opes neque imperia neque eas quibus maxime adstricti sunt voluptates, in bonis rebus aut expetendis esse duxi, quippe cum viderem rebus his circumfluentes, eas tamen desiderare maxime quibus abundarent. Neque enim unquam expletur nec satiatur cupiditas sitis, neque solum ea qui habent libidine augendi cruciantur, sed etiam amittendi metu""",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Paradoxa_Stoicorum(Cicerone),Paradoxa Stoicorum,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
SE QUANTA RENA ...,"in questo caso si tratta non di una traduzione letterale, ma di una abbreviazione dei vv. 1-8 del metro II del secondo libro del <i>De consolatione philosophiae</i> Si quantas rapidis flatibus incitus / pontus versat harenas / aut quot stelliferis edita noctibus / caelo sidera fulgent / tantas fundat opes, nec retrahat manum / pleno Copia cornu / humanum miseras haud ideo genus / cesset flere querelas"" (ed. Moreschini, p. 33) Il genitivo ""della ricchezza"" deve essere letto come un genitivo partitivo riferito a ""ricchezze"" (elargisca di ricchezze) e non di specificazione riferito a ""dea"", altrimenti verrebbe meno il paragone presente nel testo di Boezio: la dea (con questo termine generico Dante traduce il nome specifico della divinità: <i>Copia</i>) non elargisce né sabbie né stelle (la cosa non avrebbe senso), ma ricchezze quante sono le sabbie e le stelle. E' dunque meglio aggiungere una virgola dopo ""la dea"".",vv. 1-8 del metro II del secondo libro del De consolatione philosophiae,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
SALOMONE E SUO PADRE ...,"per la condanna della ricchezza nei libri biblici comunemente attribuiti a Salomone cfr. ad esempio <i>Prv</i> 11, 4, 28; <i>Eccli</i> 5, 10; <i>Sap</i> 5, 8 sgg. Il padre di Salomone è ovviamente David ed il riferimento può essere a <i>Ps.</i> 36, 16; 51, 7; 61, 10","11, 4, 28",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Proverbs,Libro dei Proverbi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
SALOMONE E SUO PADRE ...,"per la condanna della ricchezza nei libri biblici comunemente attribuiti a Salomone cfr. ad esempio <i>Prv</i> 11, 4, 28; <i>Eccli</i> 5, 10; <i>Sap</i> 5, 8 sgg. Il padre di Salomone è ovviamente David ed il riferimento può essere a <i>Ps.</i> 36, 16; 51, 7; 61, 10","5, 10",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Sirach,Ecclesiastico,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
SALOMONE E SUO PADRE ...,"per la condanna della ricchezza nei libri biblici comunemente attribuiti a Salomone cfr. ad esempio <i>Prv</i> 11, 4, 28; <i>Eccli</i> 5, 10; <i>Sap</i> 5, 8 sgg. Il padre di Salomone è ovviamente David ed il riferimento può essere a <i>Ps.</i> 36, 16; 51, 7; 61, 10","5, 8 sgg",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Wisdom,Sapienza,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
SALOMONE E SUO PADRE ...,"per la condanna della ricchezza nei libri biblici comunemente attribuiti a Salomone cfr. ad esempio <i>Prv</i> 11, 4, 28; <i>Eccli</i> 5, 10; <i>Sap</i> 5, 8 sgg. Il padre di Salomone è ovviamente David ed il riferimento può essere a <i>Ps.</i> 36, 16; 51, 7; 61, 10","Ps. 36, 16;",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Psalms,Salmi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
SALOMONE E SUO PADRE ...,"per la condanna della ricchezza nei libri biblici comunemente attribuiti a Salomone cfr. ad esempio <i>Prv</i> 11, 4, 28; <i>Eccli</i> 5, 10; <i>Sap</i> 5, 8 sgg. Il padre di Salomone è ovviamente David ed il riferimento può essere a <i>Ps.</i> 36, 16; 51, 7; 61, 10","Ps. 51, 7;",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Psalms,Salmi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
SALOMONE E SUO PADRE ...,"per la condanna della ricchezza nei libri biblici comunemente attribuiti a Salomone cfr. ad esempio <i>Prv</i> 11, 4, 28; <i>Eccli</i> 5, 10; <i>Sap</i> 5, 8 sgg. Il padre di Salomone è ovviamente David ed il riferimento può essere a <i>Ps.</i> 36, 16; 51, 7; 61, 10","Ps.  61, 10",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Psalms,Salmi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
MASSIMAMENTE A LUCILLO SCRIVENDO,"soprattutto nelle lettere a Lucilio (<i>Lucillus</i> è la forma comune al latino medievale). Le <i>Epistulae ad Lucilium</i> conobbero, nel Tardo Medioevo, un'ampia diffusione e, come abbiamo visto, furono spesso utilizzate nell'ambiente della Facoltà delle Arti per esaltare la vita filosofica. Il rimando di Dante alle <i>Lettere</i> è generico (sono stati proposti diversi passi di riferimento), ed ancor più generico è l'accenno ad altre opere di Seneca diverse dalle <i>Epistulae</i> in cui si condannerebbero le ricchezze.",,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Epistulae_morales_ad_Lucilium,Epistulae morales ad Lucilium,Seneca,http://dbpedia.org/resource/Seneca_the_Younger,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
MASSIMAMENTE A LUCILLO SCRIVENDO,"soprattutto nelle lettere a Lucilio (<i>Lucillus</i> è la forma comune al latino medievale). Le <i>Epistulae ad Lucilium</i> conobbero, nel Tardo Medioevo, un'ampia diffusione e, come abbiamo visto, furono spesso utilizzate nell'ambiente della Facoltà delle Arti per esaltare la vita filosofica. Il rimando di Dante alle <i>Lettere</i> è generico (sono stati proposti diversi passi di riferimento), ed ancor più generico è l'accenno ad altre opere di Seneca diverse dalle <i>Epistulae</i> in cui si condannerebbero le ricchezze.",,CONCORDANZA GENERICA,,,Seneca,http://dbpedia.org/resource/Seneca_the_Younger,http://purl.org/bncf/tid/25917,CONCEPT
"QUANTO ORAZIO, QUANTO IUVENALE","nuovo accenno generico. Con tutta probabilità Dante si serve del <i>Trésor</i>, che riporta i giudizi di Orazio e di Giovenale sulle ricchezze (II CXVIII 3 sgg., pp. 600-602).",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Tresor,Trésor,Brunetto Latini,http://dbpedia.org/resource/Brunetto_Latini,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
LA VERACE SCRITTURA DIVINA,"la Sacra Scrittura la quale, ispirata da Dio, non può che affermare la verità'. A testi della Scrittura (Salmi, Proverbi etc.) Dante era già ricorso poche righe prima. Altre condanne della ricchezza possono essere comunque trovate nel Nuovo Testamento: cfr. <i>Lc</i> 6, 24; Jac 5, 1 sgg.","6, 24",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Luke,Vangelo di Luca,Luca,http://dbpedia.org/resource/Luke_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
LA VERACE SCRITTURA DIVINA,"la Sacra Scrittura la quale, ispirata da Dio, non può che affermare la verità'. A testi della Scrittura (Salmi, Proverbi etc.) Dante era già ricorso poche righe prima. Altre condanne della ricchezza possono essere comunque trovate nel Nuovo Testamento: cfr. <i>Lc</i> 6, 24; Jac 5, 1 sgg.","5, 1 sgg.",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Epistle_of_James,Lettera di Giacomo,Giacomo,http://dbpedia.org/resource/James_the_Just,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
L'UNA E L'ALTRA RAGIONE,"come viene spiegato immediatamente dopo si tratta del Diritto Canonico e del Diritto Civile che, come abbiamo visto comprendeva i volumi delle <i>Istitutiones</i>, del <i>Digestum</i>, del <i>Codex</i> e delle Novellae",,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Corpus_Juris_Civilis,Corpus iuris civilis,,,http://purl.org/bncf/tid/5750,WORK
SE LI LORO COMINCIAMENTI,"'se si leggono i proemi, in cui viene esposto in qualche modo lo scopo dell'opera'. Il <i>Corpus iuris canonici</i>, al tempo di Dante, era costituito dal <i>Decretum</i>, o <i>Concordantia discordantium canonum</i>, opera in cui il monaco bolognese Graziano (ca. 1140) aveva riunito gran parte della giurisprudenza anteriore, e dalle <i>Decretales</i>, pubblicate da Gregorio IX nel 1234 che raccoglievano i pronunciamenti papali posteriori. Dante si riferisce al prologo di queste ultime dove si parla appunto della effrenata cupiditas, mater litium"" che deve esser tenuta a freno dalla forza della giustizia, mentre nel prologo al <i>Digestum</i>, solitamente citato dai commentatori, si parla solo del compito, proprio dei giudici e dei giuristi, di distinguere il giusto dall'ingiusto e di prevenire e punire la violenza e i danni inferti alle persone",prologo,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Decretals_of_Gregory_IX,Decretales Gregorii IX,Gregorio IX,http://dbpedia.org/resource/Pope_Gregory_IX,http://purl.org/bncf/tid/5750,WORK
ALCUNO CALUNNIATORE DELLA VERITADE,"qualcuno che solo per ostinazione cerca di argomentare contro una verità che dovrebbe risultare anche a lui inoppugnabile'. Questo senso della costellazione di termini: calunniatore, calunnia, calunniare è stato fatto risalire al linguaggio giuridico. In realtà esso era anche in uso in quello filosofico universitario (un esempio per tutti nel Commento di Tommaso alla Fisica, VIII, <i>lectio</i> 12, 1076. Vedi <i>Cv</i> IV xiii 6; xv 9; xxiv 16).","VIII, lectio 12, 1076",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commentaria_in_octo_libros_Physicorum(Tommaso),Commentaria in octo libros Physicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
ONDE SENECA,"il detto si trova non in Seneca, ma messo da Pomponio sulle labbra del giurista Giuliano, che a sua volta lo attribuisce ad un anonimo graco, nel <i>Digesto</i> (XL, 5, 20). Esso, però, circolava anche avulso dal suo contesto strettamente giuridico; cfr. Bartolomeo di San Concordio, <i>Ammaestramenti degli antichi</i> (dist. ix, cap. 1, p. 161) Nel <i>Digesto</i> libro quarantesimo dice Pomponio così: io per l'amore di imparare ... tengo in memoria questa sentenzia la quale si conta che disse Giuliano: s'io avessi nel sepolcro già l'uno piè, ancora vorrei imparare"". L'attribuzione del detto a Seneca è peraltro presente in alcune delle introduzioni parigine alla Filosofia (cfr. Lafleur 1995, p. 200).","XL, 5, 20",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Digest_(Roman_law),Digesta,Ulpiano,http://dbpedia.org/resource/Ulpian,http://purl.org/bncf/tid/5750,WORK
LO FILOSOFO NEL SESTO DELL'ETICA,"i brani del sesto libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> citati a questo proposito dai commentatori hanno solo una parentela dottrinale molto larga con le parole di Dante e nessuna corrispondenza terminologica. Più vicina al testo del Convivio è l'affermazione di Tommaso nel suo commento agli Analitici Posteriori, riportata nella edizione Brambilla Ageno scire aliquid est perfecte cognoscere ipsum"" (I, lectio 4, n. 32).","I, lectio 4, n. 32",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Expositio_libri_Posteriorum_Analyticorum(Tommaso),Expositio libri Posteriorum Analyticorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
RITORNARE ALLO SUO PRINCIPIO,"che le cose tutte tendano a ricongiungersi col principio che le ha prodotte è un tema neoplatonico presente anche in Tommaso (cfr. <i>In duodecim libros Metaphysicorum Aristotelis expositio</i> I, <i>lectio</i> I, n. 4: Unicuique rei desiderabile est ut suo principio coniungatur"").","I, lectio I, n. 4: Unicuique rei desiderabile est ut suo principio coniungatur""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Metaphysicae(Tommaso),Sententia libri Metaphysicae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
SÌ COME È SCRITTO,"cfr. <i>Gn</i>. 1, 26 Faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram"". L'identificazione dell'uomo con la sua anima razionale ed immortale per quanto riguarda la somiglianza divina era dottrina divenuta comune almeno a partire da Origene e, in Occidente, da Ambrogio.","1, 26 Faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Genesis,Genesi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
A QUELLO,"a Dio. Cfr. la <i>Summa contra Gentiles</i> II, cap. 87, n. 1719 Finis animae humanae et ultima perfectio eius est quod per cognitionem et amorem transcendat totum ordinem creaturarum et pertingat ad primum principium quod Deus est"".","II, cap. 87, n. 1719 Finis animae humanae et ultima perfectio eius est quod per cognitionem et amorem transcendat totum ordinem creaturarum et pertingat ad primum principium quod Deus est",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_contra_Gentiles,Summa contra Gentiles,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
LI PRINCIPII DELLE COSE NATURALI,"quanti e quali siano i principi che danno ragione del mutamento, realtà costitutiva delle realtà naturali, è problema cui è dedicato tutto il primo libro della <i>Fisica</i> di Aristotele. Per esemplificare meglio quanto detto prima Dante divide l'indagine in due parti: quella che si limita al chiedersi se vi sono i principi e quanti sono, l'altra che va oltre e si chiede quale sia la loro natura (che cosa e com'è ciascuno di questi principii""): il desiderio di sapere che motivava la prima questione è pienamemte appagato (""è compiuto e terminato"") appena (""incontanente"") l'indagine è terminata; se poi in me nasce il desiderio di sapere il che cosa ed il come, si tratta di un desiderio nuovo; il suo insorgere (""il suo avenimento"") e la sua soddisfazione non tolgono nulla alla perfezione collegata alla soddisfazione del desiderio precedente (""non mi si toglie la perfezione alla quale mi condusse l'altro""), anzi la aumentano. Questo tipo di aumento (""questo cotale dilatare"") in cui si sommano perfezioni distinte non è causa (""cagione"") di imperfezione, ma di perfezione maggiore. Viceversa l' aumento del desiderio di ricchezze ad ogni aumento di ricchezza è davvero (""veramente"") un crescere in senso proprio: rimane uno solo, continuo e costante (""è sempre pur uno""), senza che vi si possa vedere una successione di momenti distinti (""sì che nulla successione quivi si vede""), senza nessun limite (""per nullo termine"") e nessun compimento definitivo (""per nulla perfezione"").",primo libro della Fisica di Aristotele,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
QUESTO INTENDE DA LUI,"sa che Averroè nel commento al <i>De anima</i> vuol dire proprio questo'. I passi cui rimandano i commentatori, e cioè il testo commento 36 del terzo libro (pp. 494-95) usato da <i>Busnelli</i> e da <i>Imbach</i>, ed il testo commento 5 sempre del terzo libro (p. 408) usato dal Nardi (cfr Nardi, 1985, p. 161), non sembrano centrati. Il secondo contiene infatti l'affermazione che la filosofia è sempre stata coltivata in una qualche parte del mondo abitato, e dunque è eterna come il mondo è eterno (una dottrina tipica di Averroè, ma nel nostro caso inafferente) mentre il primo parla sì di limiti nella conoscenza di Dio e delle sostanze separate, ma solo per negare che essi dipendano da una diminutio nostrae naturae naturaliter"" (quindi l'esatto contrario di quel che sostiene Dante). Bisogna semmai notare come Dante più che citare un passo preciso di Averroè, rimandi ad una interpretazione della sua dottrina capace di intenderne il senso più profondo (""E chi intende ...questo intende""). Sembra dunque che <i>Busnelli</i> abbia qualche buon motivo quando attira l'attenzione sul Commento di Tommaso al <i>De Trinitate</i> di Boezio: qui l'Aquinate utilizza proprio il brano del testo commento 36 di Averroè per sostenere la limitatezza della conoscenza umana su questa terra e dopo aver concluso che non ci è data la conoscenza dell'essenza delle sostanze separate, ma solo della loro esistenza, termina quasi con la stessa espressione di Dante ""et haec est etiam sententia Commentatoris in III <i>De anima</i>"" (q.6, a.4) Resta da osservare a) che questa interpretazione va contro l'ovvio senso del testo di Averroè. b) che nel pensiero di Tommaso il ""certo limite"" non si collega ad un appagamento naturale e dunque senza residui del desiderio di conoscere, ma, al contrario, è fonte di una insoddisfazione che rimanda alla rivelazione divina: l'opposto, cioè, di quello che sostiene Dante.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Commento_al_De_anima(Averroè),Commento al De anima,Averroè,http://dbpedia.org/resource/Averroes,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
QUESTO INTENDE DA LUI,"sa che Averroè nel commento al <i>De anima</i> vuol dire proprio questo'. I passi cui rimandano i commentatori, e cioè il testo commento 36 del terzo libro (pp. 494-95) usato da <i>Busnelli</i> e da <i>Imbach</i>, ed il testo commento 5 sempre del terzo libro (p. 408) usato dal Nardi (cfr Nardi, 1985, p. 161), non sembrano centrati. Il secondo contiene infatti l'affermazione che la filosofia è sempre stata coltivata in una qualche parte del mondo abitato, e dunque è eterna come il mondo è eterno (una dottrina tipica di Averroè, ma nel nostro caso inafferente) mentre il primo parla sì di limiti nella conoscenza di Dio e delle sostanze separate, ma solo per negare che essi dipendano da una diminutio nostrae naturae naturaliter"" (quindi l'esatto contrario di quel che sostiene Dante). Bisogna semmai notare come Dante più che citare un passo preciso di Averroè, rimandi ad una interpretazione della sua dottrina capace di intenderne il senso più profondo (""E chi intende ...questo intende""). Sembra dunque che <i>Busnelli</i> abbia qualche buon motivo quando attira l'attenzione sul Commento di Tommaso al <i>De Trinitate</i> di Boezio: qui l'Aquinate utilizza proprio il brano del testo commento 36 di Averroè per sostenere la limitatezza della conoscenza umana su questa terra e dopo aver concluso che non ci è data la conoscenza dell'essenza delle sostanze separate, ma solo della loro esistenza, termina quasi con la stessa espressione di Dante ""et haec est etiam sententia Commentatoris in III <i>De anima</i>"" (q.6, a.4) Resta da osservare a) che questa interpretazione va contro l'ovvio senso del testo di Averroè. b) che nel pensiero di Tommaso il ""certo limite"" non si collega ad un appagamento naturale e dunque senza residui del desiderio di conoscere, ma, al contrario, è fonte di una insoddisfazione che rimanda alla rivelazione divina: l'opposto, cioè, di quello che sostiene Dante.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Super_Boethium_De_Trinitate(Tommaso),Super Boethium De Trinitate,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
ARISTOTILE NEL DECIMO DELL'ETICA,"in realtà ad essere citato non è il testo di Aristotele, ma la <i>Summa contra Gentiles</i> di Tommaso I, cap. 5, n. 35. Qui l'Aquinate, elencando i motivi che rendono utile lo studio della teologia, e citando <i>Eth. Nic.</i> X 7, 1177 b 31-34, individua appunto in Simonide il sostenitore della tesi, respinta da Aristotele, per cui l'uomo, mortale, deve occuparsi di cose mortali, e utilizza espressioni di cui il testo del <i>Convivio</i> risulta un vero e proprio calco Apparet etiam alia utilitas ex dictis Philosophi in decimo Ethicorum. Quum enim Simonides cuidam homini praetermittendam divinam cognitionem persuaderet ... oportere inquiens humana sapere hominem et mortalia mortalem, contra eum Philosophus dicit quod homo debet se ad immortalia et divina trahere quantum potest"" (""l' uomo si dee trarre alle cose divine quanto può""). La qualifica di ""poeta"" data a Simonide e non presente nel testo della <i>Summa</i>, implica anche la conoscenza del Commento di Tommaso al passo dell'<i>Etica Nicomachea</i> sopra citato (X, lectio 11, 2107), e tutto l'insieme è un esempio ulteriore di un uso a <i>bricolage</i> delle fonti da parte di Dante (cfr. Moore, p. 105).","I, cap. 5, n. 35",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_contra_Gentiles,Summa contra Gentiles,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
ARISTOTILE NEL DECIMO DELL'ETICA,"in realtà ad essere citato non è il testo di Aristotele, ma la <i>Summa contra Gentiles</i> di Tommaso I, cap. 5, n. 35. Qui l'Aquinate, elencando i motivi che rendono utile lo studio della teologia, e citando <i>Eth. Nic.</i> X 7, 1177 b 31-34, individua appunto in Simonide il sostenitore della tesi, respinta da Aristotele, per cui l'uomo, mortale, deve occuparsi di cose mortali, e utilizza espressioni di cui il testo del <i>Convivio</i> risulta un vero e proprio calco Apparet etiam alia utilitas ex dictis Philosophi in decimo Ethicorum. Quum enim Simonides cuidam homini praetermittendam divinam cognitionem persuaderet ... oportere inquiens humana sapere hominem et mortalia mortalem, contra eum Philosophus dicit quod homo debet se ad immortalia et divina trahere quantum potest"" (""l' uomo si dee trarre alle cose divine quanto può""). La qualifica di ""poeta"" data a Simonide e non presente nel testo della <i>Summa</i>, implica anche la conoscenza del Commento di Tommaso al passo dell'<i>Etica Nicomachea</i> sopra citato (X, lectio 11, 2107), e tutto l'insieme è un esempio ulteriore di un uso a <i>bricolage</i> delle fonti da parte di Dante (cfr. Moore, p. 105).","X, lectio 11, 2107",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
E NEL PRIMO DELL' ETICA,"Dante segue qui, con qualche semplificazione, la traduzione latina di <i>Eth Nic</i>. I, 1, 1094 b 23-25 Disciplinati enim est in tantum certitudinem inquirere secundum unumquodque genus in quantum natura rei recipit"" (<i>Translatio Grosseteste. Textus purus</i>, p. 143, ll. 8-9). Come spiega il commento di Tommaso, il termine ""disciplinatus"" vale ""bene instructus"", cioè intellettualmente preparato.","I, 1, 1094 b 23-25 Disciplinati enim est in tantum certitudinem inquirere secundum unumquodque genus in quantum natura rei recipit"" (Translatio Grosseteste. Textus purus, p. 143, ll. 8-9)""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
E NEL PRIMO DELL' ETICA,"Dante segue qui, con qualche semplificazione, la traduzione latina di <i>Eth Nic</i>. I, 1, 1094 b 23-25 Disciplinati enim est in tantum certitudinem inquirere secundum unumquodque genus in quantum natura rei recipit"" (<i>Translatio Grosseteste. Textus purus</i>, p. 143, ll. 8-9). Come spiega il commento di Tommaso, il termine ""disciplinatus"" vale ""bene instructus"", cioè intellettualmente preparato.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
SECONDO CHE NELLA LORO NATURA DI CERTEZZA SI RICEVA,"in quel grado di certezza che è possibile ottenere dalla loro natura' (e che è diverso da oggetto a oggetto; come dirà immediatamente dopo il testo di <i>Eth</i>. <i>Nic</i>., I, 1, 1094 b 25-27, la materia morale non può aspirare alla certezza posseduta dagli enti matematici).","Eth. Nic., I, 1, 1094 b 25-27",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PAULO DICE,"cfr. <i>Rm</i> 12, 3 Non plus sapere quam oportet sapere, sed sapere ad sobrietatem"" dove però l'affermazione si trova in un contesto del tutto differente (Paolo richiama i fedeli della comunità romana ad esercitare con modestia ognuno il proprio particolare carisma senza prevaricare sugli altri).","Rm 12, 3 Non plus sapere quam oportet sapere, sed sapere ad sobrietatem",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Epistle_to_the_Romans,Epistola ad Romanos,Paolo,http://dbpedia.org/resource/Paul_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
DICE LO SAVIO,"l'aforisma si trova sia nel <i>De consolatione philosophiae</i> di Boezio (II, prosa 5, 34, p. 54) sia nella fonte di Boezio, cioè nella <i>Satira</i> decima di Giovenale, un autore conosciuto da Dante. Nel confronto testuale se l'uso della terza persona farebbe pensare a Giovenale (cantabit vacuus coram latrones viator"" X, 22) i due condizionali ""entrasse"", ""canterebbe"" e sopratutto la menzione della ""via"" fanno propendere per Boezio (""Si vitae huius callem vacuus viator intrasses, coram latrones cantares""). Rimane aperto il problema del perché Dante che pure conosce sia Boezio che Giovenale metta il detto in bocca ad un anonimo Savio. Anche un testo come <i>Gli</i> <i>Ammaestramenti degli Antichi</i> di Bartolomeo da San Concordio lo attribuisce nominativamente ai due autori nel cap. 3 (De' mali de' ricchi temporalmente) della Distinzione xxxviii, p. 539. Cfr. Moore, pp. 257-8. I testi di Boezio e di Giovenale erano già stati citati, in un contesto di critica alle ricchezze, nella <i>Commendatio Philosophie</i> di un anonimo <i>magister</i> parigino della prima metà del '200 (cfr. Lafleur 1995, p. 369).","II, prosa 5, 34, p. 54",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
DICE LO SAVIO,"l'aforisma si trova sia nel <i>De consolatione philosophiae</i> di Boezio (II, prosa 5, 34, p. 54) sia nella fonte di Boezio, cioè nella <i>Satira</i> decima di Giovenale, un autore conosciuto da Dante. Nel confronto testuale se l'uso della terza persona farebbe pensare a Giovenale (cantabit vacuus coram latrones viator"" X, 22) i due condizionali ""entrasse"", ""canterebbe"" e sopratutto la menzione della ""via"" fanno propendere per Boezio (""Si vitae huius callem vacuus viator intrasses, coram latrones cantares""). Rimane aperto il problema del perché Dante che pure conosce sia Boezio che Giovenale metta il detto in bocca ad un anonimo Savio. Anche un testo come <i>Gli</i> <i>Ammaestramenti degli Antichi</i> di Bartolomeo da San Concordio lo attribuisce nominativamente ai due autori nel cap. 3 (De' mali de' ricchi temporalmente) della Distinzione xxxviii, p. 539. Cfr. Moore, pp. 257-8. I testi di Boezio e di Giovenale erano già stati citati, in un contesto di critica alle ricchezze, nella <i>Commendatio Philosophie</i> di un anonimo <i>magister</i> parigino della prima metà del '200 (cfr. Lafleur 1995, p. 369).",Satira decima,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Satires_(Juvenal),Satire (Giovenale),Giovenale,http://dbpedia.org/resource/Juvenal,http://purl.org/bncf/tid/34535,WORK
LUCANO NEL QUINTO LIBRO,"si tratta del quinto libro della <i>Farsaglia</i>. I versi citati (527-531) fungono da commento all'episodio del povero pescatore, Amiclate, non turbato da Cesare che gli bussa alla porta O vitae tuta facultas / pauperis angustique <i>Lares</i>, o <i>munera</i> nondum / intellecta Deum! Quibus hoc contingere templis / aut potuit muris nullo trepidare tumultu / caesarea pulsante manu"". Nella sua traduzione Dante si prende qualche libertà ampliando <i>Lares</i> in ""abitaculi"" (""stretti abitaculi"" equivale a angusti tuguri ) e ""masserizie"" (cioè le supellettili di arredo) e interpretando <i>munera</i> non come doni, ma come ricchezza.","quinto libro, versi citati (527-531)",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Pharsalia,Pharsalia,Lucano,http://dbpedia.org/resource/Lucan,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
BOEZIO,"cfr. <i>De consolatione Philosophiae</i> II, prosa 5, 4, pp. 41-42 Siquidem avaritia semper odiosos ... facit"".","II, prosa 5, 4, pp. 41-42 Siquidem avaritia semper odiosos ... facit",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
SPLENDIENTI,"'splendenti'. Dante torna a citare il testo di Boezio ""claros largitas facit"".",,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
BOEZIO,"cfr. <i>De consolatione Philosophiae</i> p. 42 Tunc est pretiosa pecunia cum translata in alios largiendi usu, desinit possideri"".","p. 42 Tunc est pretiosa pecunia cum translata in alios largiendi usu, desinit possideri",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
TRANSMUTATA NELLI ALTRI PER USO DI LARGHEZZA,"trasferita agli altri attraverso l'esercizio della liberalità'. L'equivalenza semantica tra <i>liberalitas</i> e <i>largitas</i> era già stata notata da Tommaso d' Aquino (<i>Summa Theologiae</i>, IIa IIae, q.117, a.2, <i>respondeo</i>).",", IIa IIae, q.117, a.2, respondeo",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_Theologica,Summa Theologiae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
A MAGGIORE LORO CONFUSIONE,"a loro maggiore vergogna e umiliazione'. Questo senso del verbo confondere"" ha ascendenze bibliche. Vedi ad esempio <i>Ps</i>. 24, 4 ""Confundantur omnes iniqua agentes"".","Ps. 24, 4 ""Confundantur omnes iniqua agentes""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Psalms,Salmi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
UNO NOBILE CAVALLO...,"per l'applicazione di termini valutativi come nobile e virtuoso a realtà diverse da quella umana cfr. <i>Cv</i> I v 11. Come dice un commentatore della <i>Politica</i> aristotelica, Nicola di Vaudemont, res dicitur nobilis quando bene disposita est ad finem ad quem facta est"", e l'uomo non esaurisce certo l'insieme delle cose. ""Nobili"" saranno dunque quel cavallo e quel falcone che compiono perfettamente ciò a cui la loro natura li destina (correre, cacciare) e vili quelli che ciò non fanno o fanno male (cfr. <i>Cv</i> IV xi 2; xvi 4). Qui Dante rimanda specificamente ad un uso linguistico particolare che applica l'aggettivo ad animali (o a cose) presenti più degli altri nella vita quotidiana degli uomini. Significativo a questo riguardo mi sembra il <i>Liber de nobilitate</i> dove ci si chiede ""utrum nobilitas inveniatur in aliis rebus sicut in avibus, equis et canibus, quia hoc etiam tenere videtur communis opinio"" e si risponde positivamente esaminando entrambi i modi di attribuzione della nobiltà: ""Dicendum ... quod nobilitas in aliis animalibus ab homine notatur dupliciter, scilicet generaliter et absolute, aut particulariter et in relacione ad aliquid. Primo modo dicitur animal nobile vel generosum, ut dicit Philosophus in primo De animalibus, quod perfecte facit quod pertinet ad opus suum. Unde individua alicuius generis animalium que ita operantur quod non dimittunt opus proprium sui generis dicuntur generosa animalia vel nobilia, quecumque fuerint illa ... In relacione ad hominem sicut aves quedam et canes que ordinantur ad aliquam recreationem ... nobilium dominorum"" (pp. 71-2). Quanto alle pietre preziose (""margherite"") la valutazione si baserà sul grado della loro purezza.",in primo De animalibus,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_partibus_animalium,De animalibus (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
CHÉ CIÒ È FAVOLA ...,"perché questa è una favola di cui non ci si deve curare quando si discute secondo i principi e il metodo della filosofia'. Già Aristotele, in un contesto polemico, presentava il discorso della filosofia come profondamente diverso da quello dei mitologi"" (cfr. ad esempio <i>Metaph</i>. III, 4, 1000 a 9-19); molti dei pensatori del Basso Medioevo avrebbero accentuato il contrasto escludendo che, tranne in casi particolari, metafore e racconti potessero essere utilizzati come argomenti nel dibattito filosofico. Assumendo in questo le stesse posizioni di Tommaso d'Aquino o di Sigieri di Brabante Dante sottolinea in modo evidente il carattere strettamente scientifico di questo quarto trattato che, appunto, ha abbandonato del tutto l'allegoria, sia nella scrittura poetica che nella sua esegesi. Nel caso specifico poi, la possibilità stessa di utilizzare il modello teorizzato nel primo capitolo del secondo trattato sembra rifiutata in assoluto: come viene detto immediatamente dopo, quel che la favola ""cuopre"" non è una verità filosofica, ma un fatto storico imbarazzante.","III, 4, 1000 a 9-19",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
E COSÌ È TORRE VIA QUELLE,"annullando ogni distinzione tra nobiltà e ignobiltà, si annullano i concetti stessi: se tutti sono nobili nessuno è nobile e se tutti sono ignobili nessuno è ignobile. Il testo del <i>Convivio</i> presenta un forte parallelo, segnalato da Maria Corti (Corti 1959, pp. 65-66) con il brano della <i>Summa</i> di Guglielmo Peraldo in cui si confuta appunto la teoria per cui la nobiltà si trasmetterebbe di padre in figlio (... omnes sumus ex eodem patre et eadem matre ... Unde si aliquis ex hoc solo nobilis est quia ex nobili patre aut nobili matre, aut omnes erimus nobiles aut omnes ignobiles, quia aut parentes primi fuerunt nobiles aut ignobiles. Si ipsi fuerunt nobiles, ergo et nos omnes nobiles sumus ... si vero ignobiles fuerunt, ergo et nos omnes ignobiles sumus"").",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Summa_virtutum_ac_vitiorum(Guglielmo_Peraldo),Summa virtutum ac vitiorum,Guglielmo Peraldo,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Guglielmo_Peraldo,http://purl.org/bncf/tid/762,WORK
LA LEGGE ... DELLI GENTILI,"la religione ... dei pagani'. Il termine principio"" ha qui un duplice significato: esso indica i due eventuali capostipiti storici dell'umanità, i due possibili Adami (uno nobile e l'altro ignobile) ma anche anche una eventuale dualità di forme specifiche (cioè di principi strutturali). Nel primo caso si va contro quanto detto dalla Scrittura e dalle credenze del paganesimo (che Dante vedrà rappresentate nel racconto della nascita del mondo e dell'uomo che apre le <i>Metamorfosi</i> di Ovidio), nel secondo contro principi basilari della filosofia incarnata dai suoi due massimi rappresentanti: Platone ed Aristotele.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Metamorphoses,Metamorphoseon libri XV,Ovidio,http://dbpedia.org/resource/Ovid,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
NON POGNA LO PROCESSO DA UNO PRIMO UOMO,"non sostenga che la catena delle generazioni ha avuto inizio da un primo uomo'. Si tratta forse di una interpretazione moderata della dottrina sostenuta da Aristotele, e cioè che le specie viventi sono eterne e da sempre un uomo ha generato un altro uomo (cfr. <i>De an</i>. II, 4, 415 a 26 - b 7). Dante, infatti, sembra dire che nel pensiero dello Stagirita un progenitore iniziale semplicemente non compare, non che la sua esistenza debba essere negata in base ai principi della scienza fisica come avevano affermato alcuni <i>magistri artium</i> parigini della seconda metà del '200 (valga per tutti Boezio di Dacia ed il suo <i>De aeternitate mundi</i>). Molte volte, in settori della cultura medievale, un ovvio silenzio dello Stagirita relativamente a dottrine cristiane oggettivamente in contrasto con la sua filosofia è stato interpretato 'in bonam partem' come una cosciente autolimitazione.","II, 4, 415 a 26 - b 7",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
UNA SOLA ESSENZA ESSERE IN TUTTI LI UOMINI,"che gli uomini sono accomunati da un'unica essenza' (in questo breve aforisma Dante riassume, o probabilmente ha trovato già riassunto, il testo di <i>Metaph</i>. VII, 7, 1032 a 15 sgg.).","VII, 7, 1032 a 15 sgg.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
VUOLE CHE TUTTI LI UOMINI DA UNA SOLA IDEA DEPENDANO,"i testi aristotelici con relativa esposizione di Tommaso citati dai commentatori, e ripresi ed accresciuti nell'edizione Ageno, come fonte per Dante della dottrina platonica non sembrano del tutto afferenti; contengono infatti le critiche dello Stagirita alla teoria delle Idee (cfr. <i>Metaph</i>. I, 9, 990 b 1 sgg; <i>Eth. Nic</i>. I, 4, 1096 a 34 - b 2). Un riassunto della dottrina di Platone in termini più vicini a quelli del <i>Convivio</i> è piuttosto nel <i>De dogmate Platonis</i> di Apuleio (ideas vero, id est formas omnium simplices et aeternas esse nec corporales: esse tamen ... exempla rerum que sunt eruntve nec posse amplius quam singularum specierum singulas imagines in exemplaribus inveniri"" I, 6, p. 87)..","ideas vero, id est formas omnium simplices et aeternas esse nec corporales: esse tamen ... exempla rerum que sunt eruntve nec posse amplius quam singularum specierum singulas imagines in exemplaribus inveniri"" I, 6, p. 87""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_dogmate_Platonis(Apuleio),De dogmate Platonis,Apuleio,http://dbpedia.org/resource/Apuleius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
CHI SA SE ...GIUSO,"cfr. <i>Ecl</i> 3, 21 Quis novit si spiritus filiorum Adam ascendat sursum, et si spiritus iumentorum descendat deorsum?"".","Ecl 3, 21 Quis novit si spiritus filiorum Adam ascendat sursum, et si spiritus iumentorum descendat deorsum?",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Ecclesiastes,Ecclesiaste,Salomone,http://dbpedia.org/resource/Solomon,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
NATO È L'UOMO ...,"cfr. <i>Metamorfosi</i> I 78-83 Natus homo est: sive hunc divino semine fecit / ille opifex rerum ... / sive recens tellus seductaque nuper ab alto / aethere cognati retinebat semina caeli: / quam <i>satus</i> Iapeto mixta pluvialibus aquis / finxit in effigiem moderantum cuncta deorum"". Dante traduce abbastanza letteralmente (il ""mista con l'acqua del fiume"" si spiega con il fatto che egli leggeva nel suo testo 'fluvialibus' al posto di 'pluvialibus'); sente però il bisogno di rendere il termine <i>aether</i> con una espressione più tecnica (corpo più nobile degli altri, perché sottile e trasparente) e di spiegare che il figlio (<i>satus</i>) di Giapeto è Prometeo).",I 78-83 Natus homo est: sive hunc divino semine fecit / ille opifex rerum ... / sive recens tellus seductaque nuper ab alto / aethere cognati retinebat semina caeli: / quam satus Iapeto mixta pluvialibus aquis / finxit in effigiem moderantum cuncta deorum,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Metamorphoses,Metamorphoseon libri XV,Ovidio,http://dbpedia.org/resource/Ovid,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
NEL TERZO DELL'ANIMA,"nel terzo libro del <i>De anima</i>, qui probabilmente citato attraverso il commento di Tommaso all' <i>Etica Nicomachea</i> (VI, <i>lectio</i> 5, 1179) In tertio de Anima dicitur quod obiectum proprium intellectus est quod quid est"".",,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
NEL TERZO DELL'ANIMA,"nel terzo libro del <i>De anima</i>, qui probabilmente citato attraverso il commento di Tommaso all' <i>Etica Nicomachea</i> (VI, <i>lectio</i> 5, 1179) In tertio de Anima dicitur quod obiectum proprium intellectus est quod quid est"".","(VI, lectio 5, 1179) In tertio de Anima dicitur quod obiectum proprium intellectus est quod quid est",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
NEL PRIMO DELLI OFFICI,"nel primo libro del <i>De Officiis</i>. Cfr. <i>De officiis</i> I, 6, 18 Omnes ... trahimur ...ad cognitionis et scientiae cupiditatem ... In hoc genere et naturali et honesto duo vitia vitanda sunt: unum ne incognita pro cognitis habeamus iisque temere adsentiamur ..."".","I, 6, 18 Omnes ... trahimur ...ad cognitionis et scientiae cupiditatem ... In hoc genere et naturali et honesto duo vitia vitanda sunt: unum ne incognita pro cognitis habeamus iisque temere adsentiamur ...",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/De_Officiis,De officiis,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
TOMMASO NEL SUO CONTRA-LI-GENTILI,"cfr. <i>Summa contra Gentiles</i> I, cap. 5, n. 31 Sunt enim quidam tantum de suo ingenio praesumentes ut totam naturam divinam se reputent suo intellectu posse metiri, aestimantes scilicet totum esse verum quod eis videtur et falsum quod eis non videtur"". Per adattare la citazione al suo scopo, nella traduzione Dante ha allargato il riferimento dalla specifica natura divina alla realtà nel suo complesso (""tutte le cose"") ed ha sostituito ai 'quidam-qualcuno' i ""molti"".","I, cap. 5, n. 31 Sunt enim quidam tantum de suo ingenio praesumentes ut totam naturam divinam se reputent suo intellectu posse metiri, aestimantes scilicet totum esse verum quod eis videtur et falsum quod eis non videtur",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Summa_contra_Gentiles,Summa contra Gentiles,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
SALOMONE NELLI PROVERBI,"cfr. <i>Prv</i> 29, 20 Vidisti hominem velocem ad loquendum? Stultitia magis speranda est quam illius correptio"".","29, 20 Vidisti hominem velocem ad loquendum? Stultitia magis speranda est quam illius correptio",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Proverbs,Libro dei Proverbi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
DICENDO QUELLI ESSERE INSUFFICIENTI UDITORI DELLA MORALE FILOSOFIA,"affermando che sono incapaci di apprendere la filosofia morale'. Cfr. <i>Eth. Nic</i>. I, 4, 1095 b 4 sgg. dove Aristotele, dopo aver detto che chi vuole ascoltare con profitto l'insegnamento morale deve essere stato rettamente educato, così conclude citando Esiodo: Qui autem neque ipsemet intelligit neque alium audiens in animo ponit"" (""mai per loro non cercano ... mai quello che altri dice non curano"") ... hic inutilis vir"".","I, 4, 1095 b 4 sgg",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
D'OGNI DOTTRINA DISPERATI,"del tutto incapaci di ricevere ogni tipo di conoscenza'. Nonostante l'identità terminologica, questa pusillanimità naturale non è da identificarsi con il vizio analizzato da Aristotele nel quarto libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> in contrapposizione alla virtù della magnanimità (cfr. soprattutto 1125 a 16-35). Il pusillanime aristotelico, infatti è chi si ritiene inferiore a quanto merita, con particolare riferimento agli onori, e se ha un difetto conoscitivo questo riguarda solo la conoscenza delle sue capacità relazionali. Ma nel commento al brano aristotelico in cui si afferma che i pusillanimi si astengono dalle azioni e dalle occupazioni belle (discedunt ab operationibus bonis et adinventionibus, ut indigni"") Tommaso (IV, <i>lectio</i> 11, n. 787) glossa il termine ""adinventio"" nella direzione che poi verrà presa da Dante ""Recedunt ab ... adinventionibus speculabilium veritatum, quasi indigni et insufficientes ad talia"".","IV, lectio 11, n. 787",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
NEL PRIMO DELLA FISICA,"nel primo libro della <i>Fisica</i>. I passi di Aristotele, di Averroè, di Tommaso e di Alberto citati dai commentatori esprimono sì il concetto (uno scienziato non deve perdere tempo a discutere con chi nega i principi costitutivi della sua scienza) ma sono letterariamente lontani dal testo del <i>Convivio</i> che invece, come ha ben visto <i>Imbach</i>, trova piena corrispondenza nelle <i>Auctoritates Aristotelis</i> (p. 140, n.6) Contra negantem principia non est disputandum"" formulazione ripresa alla lettera nella <i>Quaestio de aqua et terra</i>: ""cum contra negantem principia alicuius scientie non sit disputandum ... ut patet ex primo Physicorum"" (xi 21, p. 750). In ogni caso l'identificazione dei ""lievi di fantasia"" con i negatori dei principi è originale trovata di Dante.","s (p. 140, n.6) Contra negantem principia non est disputandum"" formulazione ripresa alla lettera nella Quaestio de aqua et terra: ""cum contra negantem principia alicuius scientie non sit disputandum ... ut patet ex primo Physicorum"" (xi 21, p. 750)""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Auctoritates_Aristotelis,Auctoritates Aristotelis,Johannes de Fonte,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Johannes_de_Fonte,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
LO INFORZATO DICE,"cfr. <i>Digesto</i> XXVIII, 1, 2 In eo qui testatur, eius temporis quo testamentum facit, integritas mentis, non corporis sanitas exigenda est"". (Cfr. la nota a <i>Cv</i> IV ix 8 ).","Digesto XXVIII, 1, 2 In eo qui testatur, eius temporis quo testamentum facit, integritas mentis, non corporis sanitas exigenda est",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Corpus_Juris_Civilis,Corpus iuris civilis,,,http://purl.org/bncf/tid/5750,WORK
LO REGE SI LETIFICHERÀ ... CHE PARLANO LE INIQUE COSE,"Dante traduce alla lettera il versetto finale del salmo 62 Rex vero laetabitur in Deo; laudabuntur omnes qui iurant in eo, quia obstructum est os loquentium iniqua"".","il versetto finale del salmo 62: Rex vero laetabitur in Deo; laudabuntur omnes qui iurant in eo, quia obstructum est os loquentium iniqua",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Psalms,Salmi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
NEL LIBRO DI SAPIENZA,"cfr. <i>Sap</i> 6, 23 Diligite lumen sapientiae omnes qui praeestis populis"" (il testo era già stato citato in Cv IV vi 18)","6, 23 Diligite lumen sapientiae omnes qui praeestis populis",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Wisdom,Sapienza,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
PER CHE VIA SIA DA CAMMINARE,"quale metodo si debba usare per'. Dante ha sicuramente presente la distinzione aristotelica tra definizione nominale, che parte appunto dal significato usuale del nome della cosa da definire (secondo la comune consuetudine di parlare"", come verrà precisato subito dopo) e definizione essenziale, che coglie le proprietà strutturali della cosa stessa (cfr. <i>An Post</i> II, 7, 92 b 26-28). Lo Stagirita considerava del tutto diversi i due tipi di definizione (cfr. ivi, 92 b 28-35); i medievali (e anche Dante) ritennero che la definizione nominale potesse essere un utile punto di partenza per arrivare a quella essenziale. Sulla definizione comunemente data della nobiltà come ""perfezione di propia natura in ciascuna cosa"" vedi . Beltrami 2000.","II, 7, 92 b 26-28",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Analytica_posteriora,Analytica posteriora,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DICE SALOMONE NELLO ECCLESIASTES,"cfr. <i>Ecl</i> 10, 17 Beata terra cuius rex nobilis est"".","Ecl 10, 17 Beata terra cuius rex nobilis est",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Ecclesiastes,Ecclesiaste,Salomone,http://dbpedia.org/resource/Solomon,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
GUAI A TE ...,"cfr. <i>Ecl</i> 10, 16 Vae tibi terra, cuius rex puer est"".","Ecl 10, 16 Vae tibi terra, cuius rex puer est",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Sirach,Ecclesiastico,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
NEL PRIMO DELL'ETICA,"cfr. <i>Eth. Nic.</i> I, 1, 1095 a 6-8 (e la nota a <i>Cv</i> I iv 3).","I, 1, 1095 a 6-8",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
VIENE DA 'NON VILE',"questa etimologia (fattualmente errata) è presa dalle <i>Etymologiae</i> di Isidoro di Siviglia (cfr. X controllare 184, vol. I, s. p.) .","X controllare 184, vol. I, s. p.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Etymologiae,Etymologiae,Isidoro di Siviglia,http://dbpedia.org/resource/Isidore_of_Seville,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
QUANDO DICE,"Dante traduce fedelmente il testo aristotelico (unumquodque ... tum maxime perfectum est cum attingit propriae virtuti, et tunc est maxime secundum naturam"") rendendo con un doppio verbo (""tocca e aggiugne"", cioè raggiunge) il termine ""attingit"". L' esempio del cerchio (""circulo"") immediatamente seguente è ripreso dal medesimo passo di Aristotele (""et circulus tunc maxime secundum naturam est, cum maxime circulus sit"". 266, ll. 13-16 <i>Translatio Vetus</i>, p. 266, ll. 13-16)","et circulus tunc maxime secundum naturam est, cum maxime circulus sit. 266, ll. 13-16 Translatio Vetus, p. 266, ll. 13-16",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SUA VIRTUTE PARTE PER LO CIRCULO,"già in Agostino (cfr. <i>De quantitate animae</i> XI 18-XII 19, pp. 152-154) la natura del cerchio dipende dal centro che è capace di far partecipare in egual misura alla sua potenza tutti i punti della circonferenza (che equalmente sua virtute parte per lo circulo""). Anche Tommaso, quando vuole illustrare il modo con cui l'eternità è presente ad ogni istante del tempo prende ad esempio il centro del cerchio che coesiste simultaneamente ad ogni punto della circonferenza (cfr. <i>Summa contra Gentiles</i>, I, cap. 56, n. 548). Del resto, già nella <i>Vita Nova</i>, apparendo a Dante, Amore aveva usato il medesimo concetto ""Ego tamquam centrum circuli, cui simili modo se habent circumferentiae partes; tu autem non sic"" (5,11)","XI 18-XII 19, pp. 152-154",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_quantitate_animae,De quantitate animae,Agostino,http://dbpedia.org/resource/Augustine_of_Hippo,http://purl.org/bncf/tid/11978,WORK
SUA VIRTUTE PARTE PER LO CIRCULO,"già in Agostino (cfr. <i>De quantitate animae</i> XI 18-XII 19, pp. 152-154) la natura del cerchio dipende dal centro che è capace di far partecipare in egual misura alla sua potenza tutti i punti della circonferenza (che equalmente sua virtute parte per lo circulo""). Anche Tommaso, quando vuole illustrare il modo con cui l'eternità è presente ad ogni istante del tempo prende ad esempio il centro del cerchio che coesiste simultaneamente ad ogni punto della circonferenza (cfr. <i>Summa contra Gentiles</i>, I, cap. 56, n. 548). Del resto, già nella <i>Vita Nova</i>, apparendo a Dante, Amore aveva usato il medesimo concetto ""Ego tamquam centrum circuli, cui simili modo se habent circumferentiae partes; tu autem non sic"" (5,11)","I, cap. 56, n. 548",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_contra_Gentiles,Summa contra Gentiles,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
NEL VANGELIO DI SANTO MATEO - QUANDO DICE CRISTO,"cfr. <i>Mt</i> 7, 15-16 Attendite a falsis prophetis ... A fructibus eorum cognoscetis eos"".","Mt 7, 15-16 Attendite a falsis prophetis ... A fructibus eorum cognoscetis eos",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Matthew,Vangelo di Matteo,Matteo,http://dbpedia.org/resource/Matthew_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
CHE SONO MORALI VERTÙ E INTELLETTUALI,"la partizione delle virtù in morali ed intellettuali è presente nelle ultime righe del primo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> (I, 13, 1103 a 3-10) al termine di una analisi delle diverse facoltà dell'anima cui esse corrispondono.","I, 13, 1103 a 3-10",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SECONDO CHE NEL SECONDO DELL'ETICA È PER LO FILOSOFO DIFFINITO,"con le parole usate da Aristotele nel secondo libro dell' Etica Nicomachea per definirla' (cfr. <i>Eth. Nic</i>. II, 6, 1106 b 36 Est virtus habitus electivus in medietate existens"" <i>Translatio Grosseteste</i>. <i>Textus purus</i>, p. 404, l. 1).","II, 6, 1106 b 36 Est virtus habitus electivus in medietate existens"" Translatio Grosseteste. Textus purus, p. 404, l. 1""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
QUESTE SONO UNDICI VERTUDI ...,"le virtù elencate (nomate"") da Aristotele nel capitolo 7 del secondo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> II 7, 1107 a 28-1108 b 10) sono in realtà dieci (il pudore e l'indignazione, infatti, pur presenti alla fine della elencazione, non sono considerati da Aristotele come virtù in senso stretto). Dante aggiunge la giustizia così come aveva già fatto Tommaso nella <i>Summa Theologiae</i> (cfr. Ia- IIae, q. 60, a. 5, <i>respondeo</i> ""Sic igitur patet quod secundum Aristotelem sunt decem virtutes morales ... scilicet fortitudo, temperantia, liberalitas, magnificentia, magnanimitas, philotimia, mansuetudo, amicitia, veritas et eutrapelia ... Si igitur addatur iustitia, quae est circa operationes, erunt omnes undecim""). La caratterizzazione delle singole virtù, ed anche il loro nome, non sempre corrispondono in pieno a quanto Dante poteva leggere nella traduzione latina del testo aristotelico (che, dopo l'elenco fornito nel secondo libro, presenta una particolareggiata analisi delle singole virtù dal cap. 6 del terzo a tutto il quarto libro, mentre alla giustizia viene riservato per intero il quinto ), ma presuppongono sia il <i>Liber Ethicorum</i> o <i>Summa Alexandrinorum</i> (per cui vedi la nota a <i>Cv</i> I x 10 ) sia il Commento di Tommaso all' <i>Etica Nicomachea</i>.","II 7, 1107 a 28-1108 b 10",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
QUESTE SONO UNDICI VERTUDI ...,"le virtù elencate (nomate"") da Aristotele nel capitolo 7 del secondo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> II 7, 1107 a 28-1108 b 10) sono in realtà dieci (il pudore e l'indignazione, infatti, pur presenti alla fine della elencazione, non sono considerati da Aristotele come virtù in senso stretto). Dante aggiunge la giustizia così come aveva già fatto Tommaso nella <i>Summa Theologiae</i> (cfr. Ia- IIae, q. 60, a. 5, <i>respondeo</i> ""Sic igitur patet quod secundum Aristotelem sunt decem virtutes morales ... scilicet fortitudo, temperantia, liberalitas, magnificentia, magnanimitas, philotimia, mansuetudo, amicitia, veritas et eutrapelia ... Si igitur addatur iustitia, quae est circa operationes, erunt omnes undecim""). La caratterizzazione delle singole virtù, ed anche il loro nome, non sempre corrispondono in pieno a quanto Dante poteva leggere nella traduzione latina del testo aristotelico (che, dopo l'elenco fornito nel secondo libro, presenta una particolareggiata analisi delle singole virtù dal cap. 6 del terzo a tutto il quarto libro, mentre alla giustizia viene riservato per intero il quinto ), ma presuppongono sia il <i>Liber Ethicorum</i> o <i>Summa Alexandrinorum</i> (per cui vedi la nota a <i>Cv</i> I x 10 ) sia il Commento di Tommaso all' <i>Etica Nicomachea</i>.","a- IIae, q. 60, a. 5, respondeo ""Sic igitur patet quod secundum Aristotelem sunt decem virtutes morales ... scilicet fortitudo, temperantia, liberalitas, magnificentia, magnanimitas, philotimia, mansuetudo, amicitia, veritas et eutrapelia ... Si igitur addatur iustitia, quae est circa operationes, erunt omnes undecim""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
FORTEZZA ... A MODERARE L' AUDACIA E LA TIMIDITATE NOSTRA,"cfr. <i>Liber Ethicorum</i>  Fortitudo medium est timiditatis et audacie""  (p. XLIX).","Fortitudo medium est timiditatis et audacie""  (p. XLIX)""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Summa_Alexandrinorum,Summa Alexandrinorum,Nicola Damasceno,http://dbpedia.org/resource/Nicolaus_of_Damascus,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
NELLE COSE CHE SONO CORRUZIONE DELLA NOSTRA VITA,"relativamente a ciò che può distruggere la nostra esistenza' (cfr. il Commento di Tommaso al secondo libro dell' <i>Etica Nicomachea, lectio</i> 8, n. 340 Primo loquitur de fortitudine, quae respicit pericula interimentia vitam""). In effetti il coraggio è per Aristotele la capacità di rimanere saldi davanti al più terribile di tutti i mali: la morte (cfr. <i>Eth. Nic</i>. III, 6, 1115 a 24-35).","lectio 8, n. 340 Primo loquitur de fortitudine, quae respicit pericula interimentia vitam",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
NELLE COSE CHE SONO CORRUZIONE DELLA NOSTRA VITA,"relativamente a ciò che può distruggere la nostra esistenza' (cfr. il Commento di Tommaso al secondo libro dell' <i>Etica Nicomachea, lectio</i> 8, n. 340 Primo loquitur de fortitudine, quae respicit pericula interimentia vitam""). In effetti il coraggio è per Aristotele la capacità di rimanere saldi davanti al più terribile di tutti i mali: la morte (cfr. <i>Eth. Nic</i>. III, 6, 1115 a 24-35).","III, 6, 1115 a 24-35",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
TEMPERANZA ...,"la definizione della temperanza non corrisponde letteralmente a nessuno dei testi cui abbiamo accennato. Aristotele presenta la temperanza come una <i>medietas</i> tra un eccesso nel godimento dei piaceri del cibo e del sesso ed un eccesso nel loro rifiuto (soperchievole astinenza""), che peraltro giudica rarissimo se non impossibile (cfr. <i>Eth. Nic.</i> III, 11, 1119 a 5-7). Stranamente Dante parla solo della gola (""gulositade"") e non della lussuria.","II, 11, 1119 a 5-7",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
NELLE COSE CHE CONSERVANO LA NOSTRA VITA,"la notazione non si trova in Aristotele. Vedi. invece il commento di Tommaso (II, <i>lectio</i> 8, n. 340) Temperantia, quae respicit ea quae sunt utilia ad conservandam vitam"". Il cibo, in effetti, serve a mantenere in vita l'individuo, mentre il sesso perpetua la specie.","II, lectio 8, n. 340",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
LA TERZA SI È LIBERALITADE ...,"nel testo aristotelico (II 7, 1107 b 8-10) la liberalità riguarda la 'datio' e la 'acceptio pecuniarum'. Le <i>pecunie</i> diventano più generalmente in Dante le cose temporali"", cioè i beni di questo mondo.","II 7, 1107 b 8-10",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
LA QUARTA SI È MAGNIFICENZA,"anche la magnificenza è una virtù che riguarda l'uso del denaro, relativa però allo spendere in grande. Cfr. il Commento di Tommaso al quarto libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> (<i>lectio</i> 6, n. 708) Magnificentia ... est solum circa magnas expensas","(lectio 6, n. 708) Magnificentia ... est solum circa magnas expensas",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
LA QUINTA SI È MAGNANIMITADE ... DE' GRANDI ONORI E FAMA,"cfr. <i>Eth. Nic</i>. II, 7, 1107 b 26.","II, 7, 1107 b 26",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
LA SESTA SI È AMATIVA D'ONORE ...,"per Aristotele, accanto alla virtù che riguarda i grandi onori ne esiste una relativa agli onori mediocri il cui possessore non ha un nome specifico, ma che potrebbe essere chiamato 'giustamente ambizioso'. Il termine greco <i>philotimos</i> nella traduzione latina era stato semplicemente traslitterato (<i>philotimus</i>); nel suo Commento Tommaso lo rende appunto con 'amator honoris' (cfr. <i>In decem libros Ethicorum Aristotelis expositio</i>, II, <i>lectio</i> 9, n. 346). La denominazione della <i>philotimia</i> come 'virtus amativa honoris' si trova nella tavola delle virtù del <i>De regimine principum</i> di Egidio Romano; cfr I ii 3 <i>Quot sunt virtutes morales et quomodo eorum numerus est sumendus</i>, p. 51.","In decem libros Ethicorum Aristotelis expositio, II, lectio 9, n. 346",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
LA SETTIMA SI È MANSUETUDINE ...,"che la <i>mansuetudo</i> sia il giusto mezzo tra un eccesso ed un difetto di ira Dante poteva leggerlo sia nell' <i>Etica Nicomachea</i> (II 7, 1108 a 4-6) che nel Commento di Tommaso (II, <i>lectio</i> 9, n. 349) che nel <i>Trésor</i> di Brunetto (II XXIV 1, p. 394).","II, lectio 9, n. 349",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
LA SETTIMA SI È MANSUETUDINE ...,"che la <i>mansuetudo</i> sia il giusto mezzo tra un eccesso ed un difetto di ira Dante poteva leggerlo sia nell' <i>Etica Nicomachea</i> (II 7, 1108 a 4-6) che nel Commento di Tommaso (II, <i>lectio</i> 9, n. 349) che nel <i>Trésor</i> di Brunetto (II XXIV 1, p. 394).","II 7, 1108 a 4-6",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
LA SETTIMA SI È MANSUETUDINE ...,"che la <i>mansuetudo</i> sia il giusto mezzo tra un eccesso ed un difetto di ira Dante poteva leggerlo sia nell' <i>Etica Nicomachea</i> (II 7, 1108 a 4-6) che nel Commento di Tommaso (II, <i>lectio</i> 9, n. 349) che nel <i>Trésor</i> di Brunetto (II XXIV 1, p. 394).","II XXIV 1, p. 394",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Tresor,Trésor,Brunetto Latini,http://dbpedia.org/resource/Brunetto_Latini,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
LI MALI ESTERIORI,"cfr. il Commento di Tommaso (II, <i>lectio</i> 9, n. 349) ponit virtutem quae respicit exteriora mala"" Il male che ci viene da fuori potrebbe essere identificato, in questo caso, con le offese ingiustamente inflitte a noi ed ai nostri consanguinei ed amici, contro cui si deve reagire, come dice Tommaso, ""repellendo iniurias"". Di questo, infatti parla la trattazione specifica della <i>mansuetudo</i> in <i>Eth. Nic</i>. IV 5, 1125 b 26-1126 b 10.","II, lectio 9, n. 349",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
L'OTTAVA SI È AFFABILITADE,"in realtà nella tavola aristotelica delle virtù si tratta della decima (anche se poi, nella trattazione più ampia del terzo e del quarto libro, risulta effettivamente ottava). Aristotele per definirla aveva usato il termine <i>philia</i>, nel senso di socievolezza (cfr. <i>Eth</i>. <i>Nic</i>. II 7, 1108 a 26-7) e con questo nome essa è presente nell'elenco della <i>Summa Theologiae</i> precedentemente citato. Nel più tardo commento all' <i>Etica</i> (II, <i>lectio</i> 9, n. 354) Tommaso introdurrà il termine <i>affabilitas</i> (ipsa medietas vocatur amicitia vel <i>affabilitas</i>"").","II, lectio 9, n. 354",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
LA NONA SI È CHIAMATA VERITADE,"si tratta, nella tavola, della ottava virtù, la sincerità, che è media tra la iattanza, cioè il presentarci migliori di quanto siamo (vantare noi oltre che siamo"") ed il suo contrario, l'ironia (""lo diminuire noi oltre che siamo""). Cfr. il commento di Tommaso a <i>Eth. Nic</i>. IV, 7, 1127 b 17-26, <i>lectio</i> 13, n. 835 ""Uno modo iactator simulat sibi inesse aliqua gloriosa quae non sunt ... alio modo quia dicit ea esse maiora quam sint"".","IV, 7, 1127 b 17-26, lectio 13, n. 835 ""Uno modo iactator simulat sibi inesse aliqua gloriosa quae non sunt ... alio modo quia dicit ea esse maiora quam sint""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
LA DECIMA SI È CHIAMATA EUTRAPELIA,"si tratta della nona virtù della tavola (cfr. <i>Eth. Nic</i>. II, 7, 1108 a 23-24) che riguarda la piacevolezza nei rapporti basati sullo scherzo amichevole e sul gioco. Sia la traduzione latina che il commento di Tommaso (e anche il <i>Trésor</i>) avevano semplicemente traslitterato il termine che quindi, anche in Dante, rimane un puro calco (il greco <i>eutrapelia</i> indica la capacità di essere spiritosi senza essere volgari).",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
NELLI SOLLAZZI,"nelle attività ludiche' (cfr. il Commento di Tommaso, II, <i>lectio</i> 9, n.353: Exemplificat de virtute quae est circa ludos"").","II, lectio 9, n.353: Exemplificat de virtute quae est circa ludos",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
L'UNDECIMA SI È GIUSTIZIA ...,"come abbiamo detto, nella tavola delle virtù non compare elencata la giustizia. Dante, ponendola alla fine e sottolineando che essa ci dispone (ordina noi"") a desiderare e ad attuare ciò che è retto (""dirittura"") in tutte le cose, la considera come una virtù generale, fedele in questo alla lettera ed allo spirito di Aristotele (cfr. <i>Eth. Nic</i>. V 1, 1130 a 9 ""Hic quidem igitur iustitia non pars virtutis, sed tota virtus est"". <i>Translatio Grosseteste. Textus purus</i>, p. 229, ll. 6-7 ).","V 1, 1130 a 9 ""Hic quidem igitur iustitia non pars virtutis, sed tota virtus est"". Translatio Grosseteste. Textus purus, p. 229, ll. 6-7 """,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DUE INIMICI COLLATERALI,"Dante, seguendo la vulgata aristotelica, presenta ogni virtù come il giusto mezzo (sono li mezzi"") tra due vizi, considerati come due nemici che le insidiano da una parte e dall'altra (""due inimici collaterali""), cioè per eccesso o per difetto (il ""troppo e il poco""). Il testo di riferimento è <i>Eth. Nic</i>. II 8, 1108 b 11-15, così riassunto nelle <i>Auctoritates Aristotelis</i> ""Omnis virtus consistit in medio, scilicet inter defectum et excessum"" (p. 235, n. 38). I termini ""troppo"" e ""poco"" erano già stati usati dalla traduzione italiana della sezione etica del <i>Trésor</i> (ad esempio II 13,controllare ed. Gaiter, p. 42). Poiché le virtù consistono in una abitudine (""abito"") acquisita attraverso il ripetersi di scelte giuste (""della nostra buona elezione""), le si può definire in generale (""generalmente si può dicere di tutte"") come abitudine a scegliere ciò che è medio tra due estremi (""abito elettivo consistente nel mezzo"", che è la traduzione letterale di <i>Eth. Nic</i>. II 6, 1107 a 1 ""Est autem virtus habitus electivus in medietate existens"". Vedi <i>Cv</i> IV xvii 1).","II 8, 1108 b 11-15",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PER CH'ELLE SI COMPONGONO,"attraverso cui si uniscono'. Aristotele aveva introdotto la distinzione tra virtù morali (etiche) ed intellettuali (dianoetiche) alla fine del primo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> (cap. 13, 1103 a 3-7); il libro VI è dedicato appunto alla trattazione di queste ultime e tra esse è compresa la <i>phronesis</i> (che i traduttori latini renderanno con <i>prudentia</i>) cui vengono dedicati l'intero capitolo quinto e parti del sesto e del settimo. Che la prudenza diriga le virtù morali era stato affermato da Tommaso nel suo Commento al decimo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> (<i>lectio</i> 12, n. 2111) mentre l'immagine del mostrare la via si trova nel volgarizzamento italiano della sezione etica del <i>Trésor</i> (ma non nel testo francese): Disse Tullio che la prudenza va dinanzi all'altre virtù e porta la lucerna e mostra alle altre la via"" (VII, 8, ed. Gaiter, III, p. 236.) controllare. Tra i molti che sostengono ""la prudenza essere morale virtute"" potrebbe essere annoverato Egidio Romano che nel <i>De regimine principum</i>, pur ponendola 'in intellectu' la classifica tra le dodici 'virtutes morales' (cfr. <i>De regimine principum</i> I ii 3, pp. 51-2).",il libro VI è dedicato appunto alla trattazione di queste ultime e tra esse è compresa la phronesis (che i traduttori latini renderanno con prudentia) cui vengono dedicati l'intero capitolo quinto e parti del sesto e del settimo,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PER CH'ELLE SI COMPONGONO,"attraverso cui si uniscono'. Aristotele aveva introdotto la distinzione tra virtù morali (etiche) ed intellettuali (dianoetiche) alla fine del primo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> (cap. 13, 1103 a 3-7); il libro VI è dedicato appunto alla trattazione di queste ultime e tra esse è compresa la <i>phronesis</i> (che i traduttori latini renderanno con <i>prudentia</i>) cui vengono dedicati l'intero capitolo quinto e parti del sesto e del settimo. Che la prudenza diriga le virtù morali era stato affermato da Tommaso nel suo Commento al decimo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> (<i>lectio</i> 12, n. 2111) mentre l'immagine del mostrare la via si trova nel volgarizzamento italiano della sezione etica del <i>Trésor</i> (ma non nel testo francese): Disse Tullio che la prudenza va dinanzi all'altre virtù e porta la lucerna e mostra alle altre la via"" (VII, 8, ed. Gaiter, III, p. 236.) controllare. Tra i molti che sostengono ""la prudenza essere morale virtute"" potrebbe essere annoverato Egidio Romano che nel <i>De regimine principum</i>, pur ponendola 'in intellectu' la classifica tra le dodici 'virtutes morales' (cfr. <i>De regimine principum</i> I ii 3, pp. 51-2).","lectio 12, n. 2111",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
PER CH'ELLE SI COMPONGONO,"attraverso cui si uniscono'. Aristotele aveva introdotto la distinzione tra virtù morali (etiche) ed intellettuali (dianoetiche) alla fine del primo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> (cap. 13, 1103 a 3-7); il libro VI è dedicato appunto alla trattazione di queste ultime e tra esse è compresa la <i>phronesis</i> (che i traduttori latini renderanno con <i>prudentia</i>) cui vengono dedicati l'intero capitolo quinto e parti del sesto e del settimo. Che la prudenza diriga le virtù morali era stato affermato da Tommaso nel suo Commento al decimo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> (<i>lectio</i> 12, n. 2111) mentre l'immagine del mostrare la via si trova nel volgarizzamento italiano della sezione etica del <i>Trésor</i> (ma non nel testo francese): Disse Tullio che la prudenza va dinanzi all'altre virtù e porta la lucerna e mostra alle altre la via"" (VII, 8, ed. Gaiter, III, p. 236.) controllare. Tra i molti che sostengono ""la prudenza essere morale virtute"" potrebbe essere annoverato Egidio Romano che nel <i>De regimine principum</i>, pur ponendola 'in intellectu' la classifica tra le dodici 'virtutes morales' (cfr. <i>De regimine principum</i> I ii 3, pp. 51-2).","isse Tullio che la prudenza va dinanzi all'altre virtù e porta la lucerna e mostra alle altre la via"" (VII, 8, ed. Gaiter, III, p. 236.)""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Tresor,Trésor,Brunetto Latini,http://dbpedia.org/resource/Brunetto_Latini,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
LO FILOSOFO NEL DECIMO DELL'ETICA,"cfr. <i>Eth. Nic.</i> X, 7, 1177 a 12-17 dove riguardo alla vita teoretica si parla appunto di 'felicitas perfecta'.","X, 7, 1177 a 12-17",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
NEL VANGELIO DI LUCA,"l'episodio in cui Gesù è ospite in casa di Marta e Maria, è narrato nel cap. decimo, ai versetti 38-42. Dante traduce alla lettera il testo latino dei versetti 41-42 Martha, Martha, sollicita es et turbaris erga plurima: porro unum est necessarium. Maria optimam partem elegit quae non auferetur ab ea"", ma ne stravolge il significato. Con la glossa ""cioè quello che fai"" egli infatti attribuisce alle molteplici attività di Marta il ""porro unum est necessarium"" che il Vangelo riserva all'ascolto di Maria. Vedi a questo proposito le osservazioni di John A. Scott (Scott 2004, pp. 132-133).","versetti 41-42 Martha, Martha, sollicita es et turbaris erga plurima: porro unum est necessarium. Maria optimam partem elegit quae non auferetur ab ea",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Luke,Vangelo di Luca,Luca,http://dbpedia.org/resource/Luke_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
ALLE EVANGELICHE PAROLE,"l'identificazione di Marta con la vita attiva e di Maria con quella contemplativa operata già a partire da Gregorio Magno (cfr. <i>Moralia in Job</i>, VI 37, 62, PL 75, p. 763) era, al tempo di Dante, di uso corrente tra i teologi (vedi ad esempio, la <i>Summa Theologiae</i> di Tommaso IIa-IIae, q. 179, a. 2, <i>sed contra</i>, che rimanda appunto a Gregorio Magno). Bisogna però osservare che in linea di massima questi due modelli di vita identificavano attività proprie del clero (ad esempio, come abbiamo già avuto modo di dire commentando <i>Cv</i> I v 11, i prelati rappresentavano la vita attiva, i monaci e poi i frati quella contemplativa). Dante invece identificandoli con l'esercizio delle virtù etiche e di quelle dianoetiche, li estende in linea di principio a tutti gli uomini in quanto esseri razionali (in via di fatto, per quel che riguarda la vita attiva, a quel pubblico di nobili, baroni, cavalieri e molt'altra nobile gente di cui si parla in <i>Cv</i>  I ix 5).","VI 37, 62, PL 75, p. 763",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Moralia_in_Iob,Moralia in Iob,Gregorio Magno,http://dbpedia.org/resource/Pope_Gregory_I,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/esegesi_biblica_vecchio_testamento,WORK
ALLE EVANGELICHE PAROLE,"l'identificazione di Marta con la vita attiva e di Maria con quella contemplativa operata già a partire da Gregorio Magno (cfr. <i>Moralia in Job</i>, VI 37, 62, PL 75, p. 763) era, al tempo di Dante, di uso corrente tra i teologi (vedi ad esempio, la <i>Summa Theologiae</i> di Tommaso IIa-IIae, q. 179, a. 2, <i>sed contra</i>, che rimanda appunto a Gregorio Magno). Bisogna però osservare che in linea di massima questi due modelli di vita identificavano attività proprie del clero (ad esempio, come abbiamo già avuto modo di dire commentando <i>Cv</i> I v 11, i prelati rappresentavano la vita attiva, i monaci e poi i frati quella contemplativa). Dante invece identificandoli con l'esercizio delle virtù etiche e di quelle dianoetiche, li estende in linea di principio a tutti gli uomini in quanto esseri razionali (in via di fatto, per quel che riguarda la vita attiva, a quel pubblico di nobili, baroni, cavalieri e molt'altra nobile gente di cui si parla in <i>Cv</i>  I ix 5).","Ia-IIae, q. 179, a. 2",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_Theologica,Summa Theologiae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
E FONDASI SOPRA UNA PROPOSIZIONE FILOSOFICA ...,"l'assioma cui Dante ricorre afferma che quando due realtà hanno in comune una medesima caratteristica (si truovano convenire in una"") devono essere ricondotte in un rapporto di effetto a causa (""si deono riducere... sì come effetto a cagione"") o una delle due all'altra o entrambe ad una terza (""ad alcuno terzo""). Questo perché è impossibile che una medesima qualità sia posseduta, di per sé e in maniera non derivata (""prima e per sé"", calco del latino filosofico universitario 'primo et per se'), da due enti diversi: proprio in quanto primaria e non derivata essa deve appartenere in modo esclusivo ad unico ente da cui gli altri in qualche modo la ricevono (""non può essere se non da uno""). Il principio era stato formulato da Tommaso nella <i>Summa contra Gentiles</i> II cap. 16, n. 941 per dimostrare la creazione ex <i>nihilo</i>.","II cap. 16, n. 941",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_contra_Gentiles,Summa contra Gentiles,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
COME SCRITTO È IN RAGIONE E PER REGOLA DI RAGIONE SI TIENE,"come è scritto nel <i>Codex Iuris</i> e come viene applicato nell'esercizio concreto della giustizia'. La regola per cui quae manifesta sunt ... probatione non indigent"" è presente, come rileva il commento di <i>Busnelli</i>, non tanto nel testo giustinianeo quanto nella glossa di Accursio a <i>Digesto</i> II 8, 5, 1.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Glossa_perpetua(Accursio),Glossa perpetua,Accursio,http://dbpedia.org/resource/Accursius,http://purl.org/bncf/tid/5750,WORK
"LAUDABILI PASSIONI, CIOÈ VERGOGNA E MISERICORDIA","il pudore (vergogna"") viene considerato da Aristotele non una virtù in senso stretto, ma una passione collegata, come tutte le passioni, ad un fenomeno fisico: nel caso specifico, il rossore (cfr. <i>Eth. Nic</i>. IV, 9, 1128 b 10 sgg). La compassione (""misericordia"") non viene presa in considerazione nell' <i>Etica Nicomachea</i>, ma, come abbiamo già visto (cfr. <i>Cv</i> II x 6 e nota) è catalogata tra le passioni nel secondo libro della <i>Retorica</i>. La vergogna (<i>verecundia</i>) e la misericordia vengono presentate come 'passiones laudabiles' nel <i>De regimine principum</i> (I iii 11, p. 184) dove si rimanda ad Aristotele (cfr. <i>Eth. Nic</i>. IV 9, 1128 b 19 ""Laudamus quidem juvenes verecundos"").","IV, 9, 1128 b 10 sgg",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
"LAUDABILI PASSIONI, CIOÈ VERGOGNA E MISERICORDIA","il pudore (vergogna"") viene considerato da Aristotele non una virtù in senso stretto, ma una passione collegata, come tutte le passioni, ad un fenomeno fisico: nel caso specifico, il rossore (cfr. <i>Eth. Nic</i>. IV, 9, 1128 b 10 sgg). La compassione (""misericordia"") non viene presa in considerazione nell' <i>Etica Nicomachea</i>, ma, come abbiamo già visto (cfr. <i>Cv</i> II x 6 e nota) è catalogata tra le passioni nel secondo libro della <i>Retorica</i>. La vergogna (<i>verecundia</i>) e la misericordia vengono presentate come 'passiones laudabiles' nel <i>De regimine principum</i> (I iii 11, p. 184) dove si rimanda ad Aristotele (cfr. <i>Eth. Nic</i>. IV 9, 1128 b 19 ""Laudamus quidem juvenes verecundos"").",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://it.dbpedia.org/resource/Retorica_(Aristotele),Rhetorica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
"LAUDABILI PASSIONI, CIOÈ VERGOGNA E MISERICORDIA","il pudore (vergogna"") viene considerato da Aristotele non una virtù in senso stretto, ma una passione collegata, come tutte le passioni, ad un fenomeno fisico: nel caso specifico, il rossore (cfr. <i>Eth. Nic</i>. IV, 9, 1128 b 10 sgg). La compassione (""misericordia"") non viene presa in considerazione nell' <i>Etica Nicomachea</i>, ma, come abbiamo già visto (cfr. <i>Cv</i> II x 6 e nota) è catalogata tra le passioni nel secondo libro della <i>Retorica</i>. La vergogna (<i>verecundia</i>) e la misericordia vengono presentate come 'passiones laudabiles' nel <i>De regimine principum</i> (I iii 11, p. 184) dove si rimanda ad Aristotele (cfr. <i>Eth. Nic</i>. IV 9, 1128 b 19 ""Laudamus quidem juvenes verecundos"").","I iii 11, p. 184",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_regimine_principum,De regimine principum (Egidio Romano),Egidio Romano,http://dbpedia.org/resource/Giles_of_Rome,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
"LAUDABILI PASSIONI, CIOÈ VERGOGNA E MISERICORDIA","il pudore (vergogna"") viene considerato da Aristotele non una virtù in senso stretto, ma una passione collegata, come tutte le passioni, ad un fenomeno fisico: nel caso specifico, il rossore (cfr. <i>Eth. Nic</i>. IV, 9, 1128 b 10 sgg). La compassione (""misericordia"") non viene presa in considerazione nell' <i>Etica Nicomachea</i>, ma, come abbiamo già visto (cfr. <i>Cv</i> II x 6 e nota) è catalogata tra le passioni nel secondo libro della <i>Retorica</i>. La vergogna (<i>verecundia</i>) e la misericordia vengono presentate come 'passiones laudabiles' nel <i>De regimine principum</i> (I iii 11, p. 184) dove si rimanda ad Aristotele (cfr. <i>Eth. Nic</i>. IV 9, 1128 b 19 ""Laudamus quidem juvenes verecundos"").","IV 9, 1128 b 19 ""Laudamus quidem juvenes verecundos""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
QUEL SALMO CHE COMINCIA,"si tratta dell'inizio del Salmo 8 ""Domine, dominus noster quam admirabile est nomen tuum in universa terra"".","Salmo 8: Domine, dominus noster quam admirabile est nomen tuum in universa terra",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Psalms,Salmi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
CHE COSA È L'UOMO ...,"cfr. <i>Ps.</i> 8, 4-6 ""quid est homo, quod memor es eius? Aut filius hominis quoniam visitas eum? Minuisti eum paulo minus ab angelis; gloria et honore coronasti eum et constituisti eum super opera manuum tuarum"".","Salmo 8, 4-6 quid est homo, quod memor es eius? Aut filius hominis quoniam visitas eum? Minuisti eum paulo minus ab angelis; gloria et honore coronasti eum et constituisti eum super opera manuum tuarum",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Psalms,Salmi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
TEMA DI DISNORANZA,"'paura del disonore'. La caratterizzazione del pudore come 'timor ingloriationis' è presente in <i>Eth. Nic</i>. IV 9, 1128 b 11-12.","IV 9, 1128 b 11-12",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
LAUDABILE,"'degna di lode'. Cfr. <i>Eth. Nic</i>. IV, 9, 1128 b 18-19 laudamus quidem iuvenum verecundos"" Il riferimento alle donne, non presente nel testo aristotelico, deriva direttamente dal testo della canzone, e quindi non c'è bisogno di ricorrere ad altre fonti (cfr. Brambilla Ageno 1986, pp. 267-8).","IV, 9, 1128 b 18-19 laudamus quidem iuvenum verecundos",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
VERGOGNA NON È LAUDABILE...,"nonostante le varie edizioni del <i>Convivio</i>, compresa quella Brambilla Ageno, mettano la frase tra virgolette non si tratta di una citazione letterale, piuttosto di una parafrasi riassuntiva di <i>Eth. Nic.</i> IV, 9, 1128 b 15-23, dove Aristotele afferma che il pudore è una passione lodevole solo nei giovani che, non avendo ancora raggiunto il controllo razionale delle passioni (cioè la virtù), possono essere frenati appunto dalla vergogna. Essa invece è biasimevole quando si tratta di anziani e comunque di persone che dovrebbero essere virtuose (<i>studiosus</i> è il termine della traduzione latina del termine greco <i>epieikes</i>, interpretato da Tommaso come <i>virtuosus</i>; cfr. <i>In decem libros Ethicorum Aristotelis expositio</i>, IV, <i>lectio</i> 17, n. 874).","IV, 9, 1128 b 15-23",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PERÒ CHE A LORO SI CONVIENE DI GUARDARE DA QUELLE COSE CHE A VERGOGNA LI CONDUCANO,"poiché la cosa giusta per loro è tenersi lontano da ciò che potrebbe farli vergognare'. Il testo di Dante sembra in questo caso più vicino alle <i>Auctoritates Aristotelis</i> di quanto non lo sia al testo dello Stagirita Senem verecundum vituperamus, quare senex caveat (""si guardi"") id de quo verecundabitur"" (p. 238, n. 82).",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Auctoritates_Aristotelis,Auctoritates Aristotelis,Johannes de Fonte,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Johannes_de_Fonte,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
"IDDIO SOLO, APPO CUI NON È SCELTA DI PERSONE","solo Dio, presso il quale non esiste alcuna scelta che privilegi singoli individui in base a loro presunti meriti'. Il richiamo alla Scrittura (sì come le divine Scritture manifestano"") riguarda numerosi testi: i più vicini alla espressione dantesca sono la Lettera ai Romani (2, 11), quella agli Efesini (6, 9) e quella ai Colossesi (3, 25). L'assenza, al momento dell'infusione dell'anima in un corpo perfettamente organizzato, di ogni ""macula di vizio"" sembra mettere tra parentesi l'esistenza del peccato originale e così andare contro quell' <i>auctoritas</i> che Dante stesso aveva citato in <i>Cv</i> I iv 9: ""come dice Agustino, nullo è sanza macula"".","2, 11",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Epistle_to_the_Romans,Epistola ad Romanos,Paolo,http://dbpedia.org/resource/Paul_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
"IDDIO SOLO, APPO CUI NON È SCELTA DI PERSONE","solo Dio, presso il quale non esiste alcuna scelta che privilegi singoli individui in base a loro presunti meriti'. Il richiamo alla Scrittura (sì come le divine Scritture manifestano"") riguarda numerosi testi: i più vicini alla espressione dantesca sono la Lettera ai Romani (2, 11), quella agli Efesini (6, 9) e quella ai Colossesi (3, 25). L'assenza, al momento dell'infusione dell'anima in un corpo perfettamente organizzato, di ogni ""macula di vizio"" sembra mettere tra parentesi l'esistenza del peccato originale e così andare contro quell' <i>auctoritas</i> che Dante stesso aveva citato in <i>Cv</i> I iv 9: ""come dice Agustino, nullo è sanza macula"".","6, 9",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Epistle_to_the_Ephesians,Epistola ad Ephesios,Paolo,http://dbpedia.org/resource/Paul_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
"IDDIO SOLO, APPO CUI NON È SCELTA DI PERSONE","solo Dio, presso il quale non esiste alcuna scelta che privilegi singoli individui in base a loro presunti meriti'. Il richiamo alla Scrittura (sì come le divine Scritture manifestano"") riguarda numerosi testi: i più vicini alla espressione dantesca sono la Lettera ai Romani (2, 11), quella agli Efesini (6, 9) e quella ai Colossesi (3, 25). L'assenza, al momento dell'infusione dell'anima in un corpo perfettamente organizzato, di ogni ""macula di vizio"" sembra mettere tra parentesi l'esistenza del peccato originale e così andare contro quell' <i>auctoritas</i> che Dante stesso aveva citato in <i>Cv</i> I iv 9: ""come dice Agustino, nullo è sanza macula"".","3, 25",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Epistle_to_the_Colossians,Epistola ad Colossenses,Paolo,http://dbpedia.org/resource/Paul_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
NEL SETTIMO DELL'ETICA,"per la terza volta Dante fa riferimento al passo del libro settimo dell'<i>Etica Nicomachea</i> (VII 1, 1145 a 18-25) dove la traduzione latina parla di ""homines qui fiunt divini propter virtutis superexcellentiam"" Cfr. <i>Cv</i> III vii 6-7; IV v 2.","VII 1, 1145 a 18-25",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PER LO TESTO D'OMERO POETA,"'attraverso una citazione dal poeta Omero'. La citazione dall'Iliade parla di Ettore, talmente virtuoso da non sembrare figlio di un uomo ma di un Dio (ivi, 1145 a 20-22).",1145 a 20-22,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Iliad,Iliade,Omero,http://dbpedia.org/resource/Homer,http://purl.org/bncf/tid/21864,WORK
SECONDO LA PAROLA DELL' APOSTOLO ...,"cfr. <i>Jac</i> 1, 17: Omne datum optimum et omne donum perfectum desursum est, descendens a Patre luminum"".","1, 17",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Epistle_of_James,Lettera di Giacomo,Giacomo,http://dbpedia.org/resource/James_the_Just,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
OTTIMO DATO ... DONO PERFETTO,"nella esegesi comune al tempo di Dante il dato"" veniva identificato con i doni naturali, mentre il ""dono"" indicava specificamente quanto elargito gratuitamente della grazia divina (cfr. il capitolo <i>De donis Spiritus Sancti</i> nel trattato <i>De virtutibus</i> di Alano di Lilla, p. 85).","capitolo De donis Spiritus Sancti nel trattato De virtutibus di Alano di Lilla, p. 85",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Tractatus_de_virtutibus_de_vitiis_et_de_donis_Spiritus_Sancti(Alano_di_Lilla),"Tractatus de virtutibus, de vitiis et de donis Spiritus Sancti",Alano di Lilla,http://dbpedia.org/resource/Alain_de_Lille,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/poesia_allegorica,WORK
LE COSE CONVENGONO ESSERE DISPOSTE ALLI LORO AGENTI ...,"nonostante le edizioni, compresa quella Brambilla Ageno, mettano la frase tra virgolette non si tratta di una citazione diretta. La dottrina è sicuramente rintracciabile nel secondo libro del <i>De anima</i> di Aristotele (cap. 2, 414 a 11-12), ma con parole diverse (Videtur enim in patiente et disposito activorum inesse actio""). Anche la formulazione delle <i>Auctoritates Aristotelis</i> (p. 179, n. 55), che Dante aveva avuto presente citando il medesimo principio in <i>Cv</i> II ix 7, pur se più vicina al nostro testo in quanto usa <i>actus</i> (""atti"") al posto di <i>actio</i>, non vi corrisponde. Anche in questo caso il sintagma ""disposito a ricevere"" è riscontrabile in un brano di Gentile da Cingoli, sempre relativamente al rapporto tra l'azione fisica ed il suo oggetto: ""virtus agentis non recipitur in passo nisi secundum quod est dispositum ad recipiendum actionem illius agentis"" (in Longoni 1991, pp. 119-120. Il testo di Gentile, però, non ha alcun riferimento esplicito ad Aristotele).","cap. 2, 414 a 11-12",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
IN UNA SUA CANZONE,"cfr. <i>Al cor gentile ripara sempre amore</i>: Foco d'amore in gentil cor s'aprende /come vertute in pietra preziosa, / che da la stella valor no i discende / anti che 'l sol la faccia gentil cosa; / poi che n'ha tratto fore / per sua forza lo sol che li è vile /stella li dà valore"" (11-17, II, Contini, p. 461).","Foco d'amore in gentil cor s'aprende /come vertute in pietra preziosa, / che da la stella valor no i discende / anti che 'l sol la faccia gentil cosa; / poi che n'ha tratto fore / per sua forza lo sol che li è vile /stella li dà valore"" (11-17, II, Contini, p. 461)""",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Al_cor_gentil_rempaira_sempre_amore(Guinizzelli),Al cor gentil rempaira sempre amore,Guido Guinizzelli,http://dbpedia.org/resource/Guido_Guinizelli,http://purl.org/bncf/tid/28954,WORK
TUTTE E QUATTRO LE CAGIONI,"tutte e quattro le cause'. Dante affermando che la definizione di nobiltà, finalmente raggiunta, comprende le quattro specie di cause elencate da Aristotele, vuole sottolineare che si tratta di una definizione che ci fa finalmente cogliere con assoluta certezza l'oggetto cercato. Infatti, come dice il Filosofo all'inizio della <i>Fisica</i> tunc... opinamur cognoscere unumquodque, cum causas cognoscamus"" (I, 1, 184 a 12-13. <i>Translatio Vetus</i>, p. 7, ll 5-6. Il testo era stato esplicitamente citato in <i>Cv</i> III xi 1).","I, 1, 184 a 12-13. Translatio Vetus, p. 7, ll 5-6. Il testo era stato esplicitamente citato in Cv III xi 1",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
AVICENNA E ALGAZEL ... PLATO ... PITTAGORA,"ancora una volta la rassegna di opinioni filosofiche dipende da Alberto Magno e ancora una volta, come già in <i>Cv</i> II xiii 5, Dante ricorre, per Avicenna, Algazel e Platone al terzo libro del <i>De somno et vigilia</i>, dedicato ai sogni. La dottrina dei due filosofi arabi, come esposta da Alberto, collega i diversi gradi delle anime alla loro maggiore o minore capacità intellettiva (Avicenna et Algazel ... dicunt ... gradus esse in anima intellectuali, quia quidam sortiuntur animas altiores et quidam inferiores"" <i>De somno et vigilia</i> III, tr. 1, cap. 6, p. 185a). Quanto a Platone Dante, sempre basandosi sul testo di Alberto, precisa quanto già detto in <i>Cv</i> II 13 5: non solo le anime provengono dagli astri, ma dalla maggiore o minore nobiltà dell'astro derivano la loro maggiore o minore nobiltà (""Plato autem ... dicit ...omnes a comparibus stellis animas descendisse et in se habere differentias nobilitatis et ignobilitatis secundum differentiam istarum stellarum"" op. cit., ed. cit., p. 187 b). Per quel che riguarda Pitagora la fonte è un altro testo di Alberto: il <i>De intellectu et intelligibili</i> I, tr. 1, cap. 5, p. 483b: ""Nec est verum quod dicit Pythagoras, omnes animas esse intellectuales ... nec motus sensus vel intellectus posse exequi ... animam in quibusdam corporibus ob materiae gravitatem. Lapis enim, ut ait, animatus est, sed propter terrestreitatem est in ea oppressa anima ne ostendat motus vegetationis, vel sensus vel intellectus. In plantis autem propter minorem terrestreitatem ostendit ... anima vegetationem ... sed non sensum. In brutis autem minus terrestribus operatur unum vel duos vel omnes sensus, sed non intellectum"" cfr. per tutto questo Nardi 1967, pp. 63-80.","III, tr. 1, cap. 6, p. 185a",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_somno_et_vigilia(Alberto_Magno),De somno et vigilia,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
AVICENNA E ALGAZEL ... PLATO ... PITTAGORA,"ancora una volta la rassegna di opinioni filosofiche dipende da Alberto Magno e ancora una volta, come già in <i>Cv</i> II xiii 5, Dante ricorre, per Avicenna, Algazel e Platone al terzo libro del <i>De somno et vigilia</i>, dedicato ai sogni. La dottrina dei due filosofi arabi, come esposta da Alberto, collega i diversi gradi delle anime alla loro maggiore o minore capacità intellettiva (Avicenna et Algazel ... dicunt ... gradus esse in anima intellectuali, quia quidam sortiuntur animas altiores et quidam inferiores"" <i>De somno et vigilia</i> III, tr. 1, cap. 6, p. 185a). Quanto a Platone Dante, sempre basandosi sul testo di Alberto, precisa quanto già detto in <i>Cv</i> II 13 5: non solo le anime provengono dagli astri, ma dalla maggiore o minore nobiltà dell'astro derivano la loro maggiore o minore nobiltà (""Plato autem ... dicit ...omnes a comparibus stellis animas descendisse et in se habere differentias nobilitatis et ignobilitatis secundum differentiam istarum stellarum"" op. cit., ed. cit., p. 187 b). Per quel che riguarda Pitagora la fonte è un altro testo di Alberto: il <i>De intellectu et intelligibili</i> I, tr. 1, cap. 5, p. 483b: ""Nec est verum quod dicit Pythagoras, omnes animas esse intellectuales ... nec motus sensus vel intellectus posse exequi ... animam in quibusdam corporibus ob materiae gravitatem. Lapis enim, ut ait, animatus est, sed propter terrestreitatem est in ea oppressa anima ne ostendat motus vegetationis, vel sensus vel intellectus. In plantis autem propter minorem terrestreitatem ostendit ... anima vegetationem ... sed non sensum. In brutis autem minus terrestribus operatur unum vel duos vel omnes sensus, sed non intellectum"" cfr. per tutto questo Nardi 1967, pp. 63-80.","I, tr. 1, cap. 5, p. 483b",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_intellectu_et_intelligibili(Alberto_Magno),De intellectu et intelligibili,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
DICO CHE QUANDO L'UMANO SEME CADE NEL SUO RECETTACULO,"nella prima parte della sua trattazione Dante espone la dottrina peripatetica riguardante la generazione degli animali, con particolare riguardo all'uomo. Per la biologia aristotelica nel processo di formazione ed animazione del feto chi agisce è esclusivamente il seme maschile: l'elemento femminile, rappresentato dal sangue mestruale contenuto nell'utero (matrice"") come in un recipiente (""recettaculo""), funziona da materia totalmente passiva. Le tre forze agenti (""virtù"") veicolate dal liquido seminale hanno come origine rispettivamente l' anima del padre dal cui corpo è stato prodotto, dopo un lungo processo di elaborazione del cibo, il seme stesso (""vertù dell'anima generativa"", identica alla ""vertù formativa che diede l'anima del generante""); la seconda dai cieli (""la virtù celeste""); la terza dal tipo di mescolanza dei quattro elementi di cui, come ogni altro corpo, il seme è composto (""la vertù delli elementi legati, cioè la complessione"". Si tratta di quella che i medici chiamavano 'complexio innata seu radicalis', attribuibile non solo al seme ma anche al sangue mestruale). Nella descrizione del <i>Convivio</i> il seme agisce sulla materia mestruale allo stesso modo con cui il sole matura un frutto, e la prepara (""dispone"") all'azione della '<i>virtus formativa</i>' il cui compito è quello di diversificarla producendo i vari organi necessari alle diverse funzioni vitali (""prepara gli organi""). Quando la materia è così organizzata, la 'virtù celestiale' interviene dotando l'embrione umano di un autonomo principio vitale, l'anima sensitiva, che nel seme era solo in potenza (""produce dalla potenza del seme l'anima in vita"". L'anima prodotta dalla potenza del seme, prodotta cioè attraverso un processo di generazione naturale, non può essere, pace <i>Busnelli</i>, quella intellettiva, che come Dante dice esplicitamente subito dopo, viene creata direttamente da Dio). Nella cultura del XIII secolo l'embriologia era una branca della filosofia naturale, oggetto di insegnamento specifico nelle Facoltà di medicina. Essa, però, quando si occupava dei modi con cui si producevano nell'uomo le varie anime, affrontava problemi e usava linguaggi propri della metafisica. Per questo la descrizione dei processi generativi non era esclusiva competenza dei medici, ma veniva presa in considerazione dai filosofi (cfr. Martorelli Vico 2002). Anche i teologi erano interessati alla materia che, ad esempio, è trattata in numerosi scritti di Tommaso, dal Commento alle <i>Sentenze</i> (I, dist. 48, q. 2) fino alla <i>Summa contra Gentiles</i> (II, capp. 86 sgg. ) ed alla <i>Summa Theologiae</i> (I, q. 118, aa. 1 e 2). Che nella parte spumosa del seme fossero presenti la <i>virtus formativa</i> trasmessa dal padre e una 'virtù celestiale' era stato detto sia da Alberto Magno (cfr. <i>De natura et origine animae</i> tr. I, cap. 4, p. 10, ll 11-12 ""virtus animae patris et caelestis intellectus est in spiritu illo"") che dallo stesso Tommaso (cfr. <i>Summa Theologiae</i>, cit., a. 1: ""ista vis activa ...fundatur in ipso spiritu incluso in semine, quod est spumosum ut attestatur eius albedo. In quo etiam spiritu est quidam calor ex virtute caelestium corporum, quorum etiam virtute agentia inferiora agunt ad speciem""). Che il compito della '<i>virtus formativa</i>' fosse quello di differenziare la materia su cui agisce formando gli organi dell'essere vivente era pure dottrina vulgata sia tra i medici che tra i teologi (cfr. Alberto Magno, <i>De natura et origine animae</i> ... cit.: ""gutta maris ... penetrat in guttam feminae, pulsando per eam et distinguendo et formando eam per virtutem formantem quae est in ipso""). Per quanto riguarda la ""vertù del cielo"" un accenno si trova già in Aristotele: il seme agisce mediante il calore, ma, a differenza del caldo del fuoco che distrugge ciò che brucia, si tratta di un calore intelligente che sa autoregolarsi e quindi ha una qualche parentela con il calore degli astri (cfr <i>De generatione animalium</i> II, 3, 736 b34-737 a 2: ""In spermate inexistit quod facit gonima esse spermata, vocatum calidum. Hoc autem non ignis ... sed interceptus in spermate et spumoso spiritus aliquis et in spiritu natura proportionalis existens astrorum ordinationi"" <i>Translatio Guillelmi</i>, p. 54, ll. 9-13. Vedi le ulteriori precisazioni di Alberto Magno nelle sue <i>Quaestiones super De animalibus</i>, liber XVI, <i>quaestio</i> 6, pp. 277-278). A questa caratteristica del seme Dante aveva già accennato in <i>Cv</i> II.xiii.5 parlando di ""vertude celestiale che è nel calore naturale del seme"" presentandola anche lì come dottrina propria di Aristotele e degli altri Peripatetici. La trattazione di Dante, brevissima in confronto a quelle di Tommaso o di Egidio Romano (che ai problemi embriologici aveva dedicato un' intera opera, il <i>De formatione corporis humani in utero</i>), utilizza insomma concetti assai vulgati, senza alcuna pretesa di originalità dottrinale, ma utilizzandoli in funzione della sua concezione della nascita della nobiltà, questa sì veramente originale","I, dist. 48, q. 2",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Scriptum_super_sententiis,Scriptum super Sententiis,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
DICO CHE QUANDO L'UMANO SEME CADE NEL SUO RECETTACULO,"nella prima parte della sua trattazione Dante espone la dottrina peripatetica riguardante la generazione degli animali, con particolare riguardo all'uomo. Per la biologia aristotelica nel processo di formazione ed animazione del feto chi agisce è esclusivamente il seme maschile: l'elemento femminile, rappresentato dal sangue mestruale contenuto nell'utero (matrice"") come in un recipiente (""recettaculo""), funziona da materia totalmente passiva. Le tre forze agenti (""virtù"") veicolate dal liquido seminale hanno come origine rispettivamente l' anima del padre dal cui corpo è stato prodotto, dopo un lungo processo di elaborazione del cibo, il seme stesso (""vertù dell'anima generativa"", identica alla ""vertù formativa che diede l'anima del generante""); la seconda dai cieli (""la virtù celeste""); la terza dal tipo di mescolanza dei quattro elementi di cui, come ogni altro corpo, il seme è composto (""la vertù delli elementi legati, cioè la complessione"". Si tratta di quella che i medici chiamavano 'complexio innata seu radicalis', attribuibile non solo al seme ma anche al sangue mestruale). Nella descrizione del <i>Convivio</i> il seme agisce sulla materia mestruale allo stesso modo con cui il sole matura un frutto, e la prepara (""dispone"") all'azione della '<i>virtus formativa</i>' il cui compito è quello di diversificarla producendo i vari organi necessari alle diverse funzioni vitali (""prepara gli organi""). Quando la materia è così organizzata, la 'virtù celestiale' interviene dotando l'embrione umano di un autonomo principio vitale, l'anima sensitiva, che nel seme era solo in potenza (""produce dalla potenza del seme l'anima in vita"". L'anima prodotta dalla potenza del seme, prodotta cioè attraverso un processo di generazione naturale, non può essere, pace <i>Busnelli</i>, quella intellettiva, che come Dante dice esplicitamente subito dopo, viene creata direttamente da Dio). Nella cultura del XIII secolo l'embriologia era una branca della filosofia naturale, oggetto di insegnamento specifico nelle Facoltà di medicina. Essa, però, quando si occupava dei modi con cui si producevano nell'uomo le varie anime, affrontava problemi e usava linguaggi propri della metafisica. Per questo la descrizione dei processi generativi non era esclusiva competenza dei medici, ma veniva presa in considerazione dai filosofi (cfr. Martorelli Vico 2002). Anche i teologi erano interessati alla materia che, ad esempio, è trattata in numerosi scritti di Tommaso, dal Commento alle <i>Sentenze</i> (I, dist. 48, q. 2) fino alla <i>Summa contra Gentiles</i> (II, capp. 86 sgg. ) ed alla <i>Summa Theologiae</i> (I, q. 118, aa. 1 e 2). Che nella parte spumosa del seme fossero presenti la <i>virtus formativa</i> trasmessa dal padre e una 'virtù celestiale' era stato detto sia da Alberto Magno (cfr. <i>De natura et origine animae</i> tr. I, cap. 4, p. 10, ll 11-12 ""virtus animae patris et caelestis intellectus est in spiritu illo"") che dallo stesso Tommaso (cfr. <i>Summa Theologiae</i>, cit., a. 1: ""ista vis activa ...fundatur in ipso spiritu incluso in semine, quod est spumosum ut attestatur eius albedo. In quo etiam spiritu est quidam calor ex virtute caelestium corporum, quorum etiam virtute agentia inferiora agunt ad speciem""). Che il compito della '<i>virtus formativa</i>' fosse quello di differenziare la materia su cui agisce formando gli organi dell'essere vivente era pure dottrina vulgata sia tra i medici che tra i teologi (cfr. Alberto Magno, <i>De natura et origine animae</i> ... cit.: ""gutta maris ... penetrat in guttam feminae, pulsando per eam et distinguendo et formando eam per virtutem formantem quae est in ipso""). Per quanto riguarda la ""vertù del cielo"" un accenno si trova già in Aristotele: il seme agisce mediante il calore, ma, a differenza del caldo del fuoco che distrugge ciò che brucia, si tratta di un calore intelligente che sa autoregolarsi e quindi ha una qualche parentela con il calore degli astri (cfr <i>De generatione animalium</i> II, 3, 736 b34-737 a 2: ""In spermate inexistit quod facit gonima esse spermata, vocatum calidum. Hoc autem non ignis ... sed interceptus in spermate et spumoso spiritus aliquis et in spiritu natura proportionalis existens astrorum ordinationi"" <i>Translatio Guillelmi</i>, p. 54, ll. 9-13. Vedi le ulteriori precisazioni di Alberto Magno nelle sue <i>Quaestiones super De animalibus</i>, liber XVI, <i>quaestio</i> 6, pp. 277-278). A questa caratteristica del seme Dante aveva già accennato in <i>Cv</i> II.xiii.5 parlando di ""vertude celestiale che è nel calore naturale del seme"" presentandola anche lì come dottrina propria di Aristotele e degli altri Peripatetici. La trattazione di Dante, brevissima in confronto a quelle di Tommaso o di Egidio Romano (che ai problemi embriologici aveva dedicato un' intera opera, il <i>De formatione corporis humani in utero</i>), utilizza insomma concetti assai vulgati, senza alcuna pretesa di originalità dottrinale, ma utilizzandoli in funzione della sua concezione della nascita della nobiltà, questa sì veramente originale","II, capp. 86 sgg.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_contra_Gentiles,Summa contra Gentiles,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
DICO CHE QUANDO L'UMANO SEME CADE NEL SUO RECETTACULO,"nella prima parte della sua trattazione Dante espone la dottrina peripatetica riguardante la generazione degli animali, con particolare riguardo all'uomo. Per la biologia aristotelica nel processo di formazione ed animazione del feto chi agisce è esclusivamente il seme maschile: l'elemento femminile, rappresentato dal sangue mestruale contenuto nell'utero (matrice"") come in un recipiente (""recettaculo""), funziona da materia totalmente passiva. Le tre forze agenti (""virtù"") veicolate dal liquido seminale hanno come origine rispettivamente l' anima del padre dal cui corpo è stato prodotto, dopo un lungo processo di elaborazione del cibo, il seme stesso (""vertù dell'anima generativa"", identica alla ""vertù formativa che diede l'anima del generante""); la seconda dai cieli (""la virtù celeste""); la terza dal tipo di mescolanza dei quattro elementi di cui, come ogni altro corpo, il seme è composto (""la vertù delli elementi legati, cioè la complessione"". Si tratta di quella che i medici chiamavano 'complexio innata seu radicalis', attribuibile non solo al seme ma anche al sangue mestruale). Nella descrizione del <i>Convivio</i> il seme agisce sulla materia mestruale allo stesso modo con cui il sole matura un frutto, e la prepara (""dispone"") all'azione della '<i>virtus formativa</i>' il cui compito è quello di diversificarla producendo i vari organi necessari alle diverse funzioni vitali (""prepara gli organi""). Quando la materia è così organizzata, la 'virtù celestiale' interviene dotando l'embrione umano di un autonomo principio vitale, l'anima sensitiva, che nel seme era solo in potenza (""produce dalla potenza del seme l'anima in vita"". L'anima prodotta dalla potenza del seme, prodotta cioè attraverso un processo di generazione naturale, non può essere, pace <i>Busnelli</i>, quella intellettiva, che come Dante dice esplicitamente subito dopo, viene creata direttamente da Dio). Nella cultura del XIII secolo l'embriologia era una branca della filosofia naturale, oggetto di insegnamento specifico nelle Facoltà di medicina. Essa, però, quando si occupava dei modi con cui si producevano nell'uomo le varie anime, affrontava problemi e usava linguaggi propri della metafisica. Per questo la descrizione dei processi generativi non era esclusiva competenza dei medici, ma veniva presa in considerazione dai filosofi (cfr. Martorelli Vico 2002). Anche i teologi erano interessati alla materia che, ad esempio, è trattata in numerosi scritti di Tommaso, dal Commento alle <i>Sentenze</i> (I, dist. 48, q. 2) fino alla <i>Summa contra Gentiles</i> (II, capp. 86 sgg. ) ed alla <i>Summa Theologiae</i> (I, q. 118, aa. 1 e 2). Che nella parte spumosa del seme fossero presenti la <i>virtus formativa</i> trasmessa dal padre e una 'virtù celestiale' era stato detto sia da Alberto Magno (cfr. <i>De natura et origine animae</i> tr. I, cap. 4, p. 10, ll 11-12 ""virtus animae patris et caelestis intellectus est in spiritu illo"") che dallo stesso Tommaso (cfr. <i>Summa Theologiae</i>, cit., a. 1: ""ista vis activa ...fundatur in ipso spiritu incluso in semine, quod est spumosum ut attestatur eius albedo. In quo etiam spiritu est quidam calor ex virtute caelestium corporum, quorum etiam virtute agentia inferiora agunt ad speciem""). Che il compito della '<i>virtus formativa</i>' fosse quello di differenziare la materia su cui agisce formando gli organi dell'essere vivente era pure dottrina vulgata sia tra i medici che tra i teologi (cfr. Alberto Magno, <i>De natura et origine animae</i> ... cit.: ""gutta maris ... penetrat in guttam feminae, pulsando per eam et distinguendo et formando eam per virtutem formantem quae est in ipso""). Per quanto riguarda la ""vertù del cielo"" un accenno si trova già in Aristotele: il seme agisce mediante il calore, ma, a differenza del caldo del fuoco che distrugge ciò che brucia, si tratta di un calore intelligente che sa autoregolarsi e quindi ha una qualche parentela con il calore degli astri (cfr <i>De generatione animalium</i> II, 3, 736 b34-737 a 2: ""In spermate inexistit quod facit gonima esse spermata, vocatum calidum. Hoc autem non ignis ... sed interceptus in spermate et spumoso spiritus aliquis et in spiritu natura proportionalis existens astrorum ordinationi"" <i>Translatio Guillelmi</i>, p. 54, ll. 9-13. Vedi le ulteriori precisazioni di Alberto Magno nelle sue <i>Quaestiones super De animalibus</i>, liber XVI, <i>quaestio</i> 6, pp. 277-278). A questa caratteristica del seme Dante aveva già accennato in <i>Cv</i> II.xiii.5 parlando di ""vertude celestiale che è nel calore naturale del seme"" presentandola anche lì come dottrina propria di Aristotele e degli altri Peripatetici. La trattazione di Dante, brevissima in confronto a quelle di Tommaso o di Egidio Romano (che ai problemi embriologici aveva dedicato un' intera opera, il <i>De formatione corporis humani in utero</i>), utilizza insomma concetti assai vulgati, senza alcuna pretesa di originalità dottrinale, ma utilizzandoli in funzione della sua concezione della nascita della nobiltà, questa sì veramente originale","tr. I, cap. 4, p. 10, ll 11-12 ""virtus animae patris et caelestis intellectus est in spiritu illo""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_natura_et_origine_animae,De natura et origine animae,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
DICO CHE QUANDO L'UMANO SEME CADE NEL SUO RECETTACULO,"nella prima parte della sua trattazione Dante espone la dottrina peripatetica riguardante la generazione degli animali, con particolare riguardo all'uomo. Per la biologia aristotelica nel processo di formazione ed animazione del feto chi agisce è esclusivamente il seme maschile: l'elemento femminile, rappresentato dal sangue mestruale contenuto nell'utero (matrice"") come in un recipiente (""recettaculo""), funziona da materia totalmente passiva. Le tre forze agenti (""virtù"") veicolate dal liquido seminale hanno come origine rispettivamente l' anima del padre dal cui corpo è stato prodotto, dopo un lungo processo di elaborazione del cibo, il seme stesso (""vertù dell'anima generativa"", identica alla ""vertù formativa che diede l'anima del generante""); la seconda dai cieli (""la virtù celeste""); la terza dal tipo di mescolanza dei quattro elementi di cui, come ogni altro corpo, il seme è composto (""la vertù delli elementi legati, cioè la complessione"". Si tratta di quella che i medici chiamavano 'complexio innata seu radicalis', attribuibile non solo al seme ma anche al sangue mestruale). Nella descrizione del <i>Convivio</i> il seme agisce sulla materia mestruale allo stesso modo con cui il sole matura un frutto, e la prepara (""dispone"") all'azione della '<i>virtus formativa</i>' il cui compito è quello di diversificarla producendo i vari organi necessari alle diverse funzioni vitali (""prepara gli organi""). Quando la materia è così organizzata, la 'virtù celestiale' interviene dotando l'embrione umano di un autonomo principio vitale, l'anima sensitiva, che nel seme era solo in potenza (""produce dalla potenza del seme l'anima in vita"". L'anima prodotta dalla potenza del seme, prodotta cioè attraverso un processo di generazione naturale, non può essere, pace <i>Busnelli</i>, quella intellettiva, che come Dante dice esplicitamente subito dopo, viene creata direttamente da Dio). Nella cultura del XIII secolo l'embriologia era una branca della filosofia naturale, oggetto di insegnamento specifico nelle Facoltà di medicina. Essa, però, quando si occupava dei modi con cui si producevano nell'uomo le varie anime, affrontava problemi e usava linguaggi propri della metafisica. Per questo la descrizione dei processi generativi non era esclusiva competenza dei medici, ma veniva presa in considerazione dai filosofi (cfr. Martorelli Vico 2002). Anche i teologi erano interessati alla materia che, ad esempio, è trattata in numerosi scritti di Tommaso, dal Commento alle <i>Sentenze</i> (I, dist. 48, q. 2) fino alla <i>Summa contra Gentiles</i> (II, capp. 86 sgg. ) ed alla <i>Summa Theologiae</i> (I, q. 118, aa. 1 e 2). Che nella parte spumosa del seme fossero presenti la <i>virtus formativa</i> trasmessa dal padre e una 'virtù celestiale' era stato detto sia da Alberto Magno (cfr. <i>De natura et origine animae</i> tr. I, cap. 4, p. 10, ll 11-12 ""virtus animae patris et caelestis intellectus est in spiritu illo"") che dallo stesso Tommaso (cfr. <i>Summa Theologiae</i>, cit., a. 1: ""ista vis activa ...fundatur in ipso spiritu incluso in semine, quod est spumosum ut attestatur eius albedo. In quo etiam spiritu est quidam calor ex virtute caelestium corporum, quorum etiam virtute agentia inferiora agunt ad speciem""). Che il compito della '<i>virtus formativa</i>' fosse quello di differenziare la materia su cui agisce formando gli organi dell'essere vivente era pure dottrina vulgata sia tra i medici che tra i teologi (cfr. Alberto Magno, <i>De natura et origine animae</i> ... cit.: ""gutta maris ... penetrat in guttam feminae, pulsando per eam et distinguendo et formando eam per virtutem formantem quae est in ipso""). Per quanto riguarda la ""vertù del cielo"" un accenno si trova già in Aristotele: il seme agisce mediante il calore, ma, a differenza del caldo del fuoco che distrugge ciò che brucia, si tratta di un calore intelligente che sa autoregolarsi e quindi ha una qualche parentela con il calore degli astri (cfr <i>De generatione animalium</i> II, 3, 736 b34-737 a 2: ""In spermate inexistit quod facit gonima esse spermata, vocatum calidum. Hoc autem non ignis ... sed interceptus in spermate et spumoso spiritus aliquis et in spiritu natura proportionalis existens astrorum ordinationi"" <i>Translatio Guillelmi</i>, p. 54, ll. 9-13. Vedi le ulteriori precisazioni di Alberto Magno nelle sue <i>Quaestiones super De animalibus</i>, liber XVI, <i>quaestio</i> 6, pp. 277-278). A questa caratteristica del seme Dante aveva già accennato in <i>Cv</i> II.xiii.5 parlando di ""vertude celestiale che è nel calore naturale del seme"" presentandola anche lì come dottrina propria di Aristotele e degli altri Peripatetici. La trattazione di Dante, brevissima in confronto a quelle di Tommaso o di Egidio Romano (che ai problemi embriologici aveva dedicato un' intera opera, il <i>De formatione corporis humani in utero</i>), utilizza insomma concetti assai vulgati, senza alcuna pretesa di originalità dottrinale, ma utilizzandoli in funzione della sua concezione della nascita della nobiltà, questa sì veramente originale","De natura et origine animae ... cit.: ""gutta maris ... penetrat in guttam feminae, pulsando per eam et distinguendo et formando eam per virtutem formantem quae est in ipso""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_natura_et_origine_animae,De natura et origine animae,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
DICO CHE QUANDO L'UMANO SEME CADE NEL SUO RECETTACULO,"nella prima parte della sua trattazione Dante espone la dottrina peripatetica riguardante la generazione degli animali, con particolare riguardo all'uomo. Per la biologia aristotelica nel processo di formazione ed animazione del feto chi agisce è esclusivamente il seme maschile: l'elemento femminile, rappresentato dal sangue mestruale contenuto nell'utero (matrice"") come in un recipiente (""recettaculo""), funziona da materia totalmente passiva. Le tre forze agenti (""virtù"") veicolate dal liquido seminale hanno come origine rispettivamente l' anima del padre dal cui corpo è stato prodotto, dopo un lungo processo di elaborazione del cibo, il seme stesso (""vertù dell'anima generativa"", identica alla ""vertù formativa che diede l'anima del generante""); la seconda dai cieli (""la virtù celeste""); la terza dal tipo di mescolanza dei quattro elementi di cui, come ogni altro corpo, il seme è composto (""la vertù delli elementi legati, cioè la complessione"". Si tratta di quella che i medici chiamavano 'complexio innata seu radicalis', attribuibile non solo al seme ma anche al sangue mestruale). Nella descrizione del <i>Convivio</i> il seme agisce sulla materia mestruale allo stesso modo con cui il sole matura un frutto, e la prepara (""dispone"") all'azione della '<i>virtus formativa</i>' il cui compito è quello di diversificarla producendo i vari organi necessari alle diverse funzioni vitali (""prepara gli organi""). Quando la materia è così organizzata, la 'virtù celestiale' interviene dotando l'embrione umano di un autonomo principio vitale, l'anima sensitiva, che nel seme era solo in potenza (""produce dalla potenza del seme l'anima in vita"". L'anima prodotta dalla potenza del seme, prodotta cioè attraverso un processo di generazione naturale, non può essere, pace <i>Busnelli</i>, quella intellettiva, che come Dante dice esplicitamente subito dopo, viene creata direttamente da Dio). Nella cultura del XIII secolo l'embriologia era una branca della filosofia naturale, oggetto di insegnamento specifico nelle Facoltà di medicina. Essa, però, quando si occupava dei modi con cui si producevano nell'uomo le varie anime, affrontava problemi e usava linguaggi propri della metafisica. Per questo la descrizione dei processi generativi non era esclusiva competenza dei medici, ma veniva presa in considerazione dai filosofi (cfr. Martorelli Vico 2002). Anche i teologi erano interessati alla materia che, ad esempio, è trattata in numerosi scritti di Tommaso, dal Commento alle <i>Sentenze</i> (I, dist. 48, q. 2) fino alla <i>Summa contra Gentiles</i> (II, capp. 86 sgg. ) ed alla <i>Summa Theologiae</i> (I, q. 118, aa. 1 e 2). Che nella parte spumosa del seme fossero presenti la <i>virtus formativa</i> trasmessa dal padre e una 'virtù celestiale' era stato detto sia da Alberto Magno (cfr. <i>De natura et origine animae</i> tr. I, cap. 4, p. 10, ll 11-12 ""virtus animae patris et caelestis intellectus est in spiritu illo"") che dallo stesso Tommaso (cfr. <i>Summa Theologiae</i>, cit., a. 1: ""ista vis activa ...fundatur in ipso spiritu incluso in semine, quod est spumosum ut attestatur eius albedo. In quo etiam spiritu est quidam calor ex virtute caelestium corporum, quorum etiam virtute agentia inferiora agunt ad speciem""). Che il compito della '<i>virtus formativa</i>' fosse quello di differenziare la materia su cui agisce formando gli organi dell'essere vivente era pure dottrina vulgata sia tra i medici che tra i teologi (cfr. Alberto Magno, <i>De natura et origine animae</i> ... cit.: ""gutta maris ... penetrat in guttam feminae, pulsando per eam et distinguendo et formando eam per virtutem formantem quae est in ipso""). Per quanto riguarda la ""vertù del cielo"" un accenno si trova già in Aristotele: il seme agisce mediante il calore, ma, a differenza del caldo del fuoco che distrugge ciò che brucia, si tratta di un calore intelligente che sa autoregolarsi e quindi ha una qualche parentela con il calore degli astri (cfr <i>De generatione animalium</i> II, 3, 736 b34-737 a 2: ""In spermate inexistit quod facit gonima esse spermata, vocatum calidum. Hoc autem non ignis ... sed interceptus in spermate et spumoso spiritus aliquis et in spiritu natura proportionalis existens astrorum ordinationi"" <i>Translatio Guillelmi</i>, p. 54, ll. 9-13. Vedi le ulteriori precisazioni di Alberto Magno nelle sue <i>Quaestiones super De animalibus</i>, liber XVI, <i>quaestio</i> 6, pp. 277-278). A questa caratteristica del seme Dante aveva già accennato in <i>Cv</i> II.xiii.5 parlando di ""vertude celestiale che è nel calore naturale del seme"" presentandola anche lì come dottrina propria di Aristotele e degli altri Peripatetici. La trattazione di Dante, brevissima in confronto a quelle di Tommaso o di Egidio Romano (che ai problemi embriologici aveva dedicato un' intera opera, il <i>De formatione corporis humani in utero</i>), utilizza insomma concetti assai vulgati, senza alcuna pretesa di originalità dottrinale, ma utilizzandoli in funzione della sua concezione della nascita della nobiltà, questa sì veramente originale","cit., a. 1: ""ista vis activa ...fundatur in ipso spiritu incluso in semine, quod est spumosum ut attestatur eius albedo. In quo etiam spiritu est quidam calor ex virtute caelestium corporum, quorum etiam virtute agentia inferiora agunt ad speciem""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_Theologica,Summa Theologiae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
DICO CHE QUANDO L'UMANO SEME CADE NEL SUO RECETTACULO,"nella prima parte della sua trattazione Dante espone la dottrina peripatetica riguardante la generazione degli animali, con particolare riguardo all'uomo. Per la biologia aristotelica nel processo di formazione ed animazione del feto chi agisce è esclusivamente il seme maschile: l'elemento femminile, rappresentato dal sangue mestruale contenuto nell'utero (matrice"") come in un recipiente (""recettaculo""), funziona da materia totalmente passiva. Le tre forze agenti (""virtù"") veicolate dal liquido seminale hanno come origine rispettivamente l' anima del padre dal cui corpo è stato prodotto, dopo un lungo processo di elaborazione del cibo, il seme stesso (""vertù dell'anima generativa"", identica alla ""vertù formativa che diede l'anima del generante""); la seconda dai cieli (""la virtù celeste""); la terza dal tipo di mescolanza dei quattro elementi di cui, come ogni altro corpo, il seme è composto (""la vertù delli elementi legati, cioè la complessione"". Si tratta di quella che i medici chiamavano 'complexio innata seu radicalis', attribuibile non solo al seme ma anche al sangue mestruale). Nella descrizione del <i>Convivio</i> il seme agisce sulla materia mestruale allo stesso modo con cui il sole matura un frutto, e la prepara (""dispone"") all'azione della '<i>virtus formativa</i>' il cui compito è quello di diversificarla producendo i vari organi necessari alle diverse funzioni vitali (""prepara gli organi""). Quando la materia è così organizzata, la 'virtù celestiale' interviene dotando l'embrione umano di un autonomo principio vitale, l'anima sensitiva, che nel seme era solo in potenza (""produce dalla potenza del seme l'anima in vita"". L'anima prodotta dalla potenza del seme, prodotta cioè attraverso un processo di generazione naturale, non può essere, pace <i>Busnelli</i>, quella intellettiva, che come Dante dice esplicitamente subito dopo, viene creata direttamente da Dio). Nella cultura del XIII secolo l'embriologia era una branca della filosofia naturale, oggetto di insegnamento specifico nelle Facoltà di medicina. Essa, però, quando si occupava dei modi con cui si producevano nell'uomo le varie anime, affrontava problemi e usava linguaggi propri della metafisica. Per questo la descrizione dei processi generativi non era esclusiva competenza dei medici, ma veniva presa in considerazione dai filosofi (cfr. Martorelli Vico 2002). Anche i teologi erano interessati alla materia che, ad esempio, è trattata in numerosi scritti di Tommaso, dal Commento alle <i>Sentenze</i> (I, dist. 48, q. 2) fino alla <i>Summa contra Gentiles</i> (II, capp. 86 sgg. ) ed alla <i>Summa Theologiae</i> (I, q. 118, aa. 1 e 2). Che nella parte spumosa del seme fossero presenti la <i>virtus formativa</i> trasmessa dal padre e una 'virtù celestiale' era stato detto sia da Alberto Magno (cfr. <i>De natura et origine animae</i> tr. I, cap. 4, p. 10, ll 11-12 ""virtus animae patris et caelestis intellectus est in spiritu illo"") che dallo stesso Tommaso (cfr. <i>Summa Theologiae</i>, cit., a. 1: ""ista vis activa ...fundatur in ipso spiritu incluso in semine, quod est spumosum ut attestatur eius albedo. In quo etiam spiritu est quidam calor ex virtute caelestium corporum, quorum etiam virtute agentia inferiora agunt ad speciem""). Che il compito della '<i>virtus formativa</i>' fosse quello di differenziare la materia su cui agisce formando gli organi dell'essere vivente era pure dottrina vulgata sia tra i medici che tra i teologi (cfr. Alberto Magno, <i>De natura et origine animae</i> ... cit.: ""gutta maris ... penetrat in guttam feminae, pulsando per eam et distinguendo et formando eam per virtutem formantem quae est in ipso""). Per quanto riguarda la ""vertù del cielo"" un accenno si trova già in Aristotele: il seme agisce mediante il calore, ma, a differenza del caldo del fuoco che distrugge ciò che brucia, si tratta di un calore intelligente che sa autoregolarsi e quindi ha una qualche parentela con il calore degli astri (cfr <i>De generatione animalium</i> II, 3, 736 b34-737 a 2: ""In spermate inexistit quod facit gonima esse spermata, vocatum calidum. Hoc autem non ignis ... sed interceptus in spermate et spumoso spiritus aliquis et in spiritu natura proportionalis existens astrorum ordinationi"" <i>Translatio Guillelmi</i>, p. 54, ll. 9-13. Vedi le ulteriori precisazioni di Alberto Magno nelle sue <i>Quaestiones super De animalibus</i>, liber XVI, <i>quaestio</i> 6, pp. 277-278). A questa caratteristica del seme Dante aveva già accennato in <i>Cv</i> II.xiii.5 parlando di ""vertude celestiale che è nel calore naturale del seme"" presentandola anche lì come dottrina propria di Aristotele e degli altri Peripatetici. La trattazione di Dante, brevissima in confronto a quelle di Tommaso o di Egidio Romano (che ai problemi embriologici aveva dedicato un' intera opera, il <i>De formatione corporis humani in utero</i>), utilizza insomma concetti assai vulgati, senza alcuna pretesa di originalità dottrinale, ma utilizzandoli in funzione della sua concezione della nascita della nobiltà, questa sì veramente originale","I, q. 118, aa. 1 e 2",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_Theologica,Summa Theologiae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
DICO CHE QUANDO L'UMANO SEME CADE NEL SUO RECETTACULO,"nella prima parte della sua trattazione Dante espone la dottrina peripatetica riguardante la generazione degli animali, con particolare riguardo all'uomo. Per la biologia aristotelica nel processo di formazione ed animazione del feto chi agisce è esclusivamente il seme maschile: l'elemento femminile, rappresentato dal sangue mestruale contenuto nell'utero (matrice"") come in un recipiente (""recettaculo""), funziona da materia totalmente passiva. Le tre forze agenti (""virtù"") veicolate dal liquido seminale hanno come origine rispettivamente l' anima del padre dal cui corpo è stato prodotto, dopo un lungo processo di elaborazione del cibo, il seme stesso (""vertù dell'anima generativa"", identica alla ""vertù formativa che diede l'anima del generante""); la seconda dai cieli (""la virtù celeste""); la terza dal tipo di mescolanza dei quattro elementi di cui, come ogni altro corpo, il seme è composto (""la vertù delli elementi legati, cioè la complessione"". Si tratta di quella che i medici chiamavano 'complexio innata seu radicalis', attribuibile non solo al seme ma anche al sangue mestruale). Nella descrizione del <i>Convivio</i> il seme agisce sulla materia mestruale allo stesso modo con cui il sole matura un frutto, e la prepara (""dispone"") all'azione della '<i>virtus formativa</i>' il cui compito è quello di diversificarla producendo i vari organi necessari alle diverse funzioni vitali (""prepara gli organi""). Quando la materia è così organizzata, la 'virtù celestiale' interviene dotando l'embrione umano di un autonomo principio vitale, l'anima sensitiva, che nel seme era solo in potenza (""produce dalla potenza del seme l'anima in vita"". L'anima prodotta dalla potenza del seme, prodotta cioè attraverso un processo di generazione naturale, non può essere, pace <i>Busnelli</i>, quella intellettiva, che come Dante dice esplicitamente subito dopo, viene creata direttamente da Dio). Nella cultura del XIII secolo l'embriologia era una branca della filosofia naturale, oggetto di insegnamento specifico nelle Facoltà di medicina. Essa, però, quando si occupava dei modi con cui si producevano nell'uomo le varie anime, affrontava problemi e usava linguaggi propri della metafisica. Per questo la descrizione dei processi generativi non era esclusiva competenza dei medici, ma veniva presa in considerazione dai filosofi (cfr. Martorelli Vico 2002). Anche i teologi erano interessati alla materia che, ad esempio, è trattata in numerosi scritti di Tommaso, dal Commento alle <i>Sentenze</i> (I, dist. 48, q. 2) fino alla <i>Summa contra Gentiles</i> (II, capp. 86 sgg. ) ed alla <i>Summa Theologiae</i> (I, q. 118, aa. 1 e 2). Che nella parte spumosa del seme fossero presenti la <i>virtus formativa</i> trasmessa dal padre e una 'virtù celestiale' era stato detto sia da Alberto Magno (cfr. <i>De natura et origine animae</i> tr. I, cap. 4, p. 10, ll 11-12 ""virtus animae patris et caelestis intellectus est in spiritu illo"") che dallo stesso Tommaso (cfr. <i>Summa Theologiae</i>, cit., a. 1: ""ista vis activa ...fundatur in ipso spiritu incluso in semine, quod est spumosum ut attestatur eius albedo. In quo etiam spiritu est quidam calor ex virtute caelestium corporum, quorum etiam virtute agentia inferiora agunt ad speciem""). Che il compito della '<i>virtus formativa</i>' fosse quello di differenziare la materia su cui agisce formando gli organi dell'essere vivente era pure dottrina vulgata sia tra i medici che tra i teologi (cfr. Alberto Magno, <i>De natura et origine animae</i> ... cit.: ""gutta maris ... penetrat in guttam feminae, pulsando per eam et distinguendo et formando eam per virtutem formantem quae est in ipso""). Per quanto riguarda la ""vertù del cielo"" un accenno si trova già in Aristotele: il seme agisce mediante il calore, ma, a differenza del caldo del fuoco che distrugge ciò che brucia, si tratta di un calore intelligente che sa autoregolarsi e quindi ha una qualche parentela con il calore degli astri (cfr <i>De generatione animalium</i> II, 3, 736 b34-737 a 2: ""In spermate inexistit quod facit gonima esse spermata, vocatum calidum. Hoc autem non ignis ... sed interceptus in spermate et spumoso spiritus aliquis et in spiritu natura proportionalis existens astrorum ordinationi"" <i>Translatio Guillelmi</i>, p. 54, ll. 9-13. Vedi le ulteriori precisazioni di Alberto Magno nelle sue <i>Quaestiones super De animalibus</i>, liber XVI, <i>quaestio</i> 6, pp. 277-278). A questa caratteristica del seme Dante aveva già accennato in <i>Cv</i> II.xiii.5 parlando di ""vertude celestiale che è nel calore naturale del seme"" presentandola anche lì come dottrina propria di Aristotele e degli altri Peripatetici. La trattazione di Dante, brevissima in confronto a quelle di Tommaso o di Egidio Romano (che ai problemi embriologici aveva dedicato un' intera opera, il <i>De formatione corporis humani in utero</i>), utilizza insomma concetti assai vulgati, senza alcuna pretesa di originalità dottrinale, ma utilizzandoli in funzione della sua concezione della nascita della nobiltà, questa sì veramente originale","I, 3, 736 b34-737 a 2: ""In spermate inexistit quod facit gonima esse spermata, vocatum calidum. Hoc autem non ignis ... sed interceptus in spermate et spumoso spiritus aliquis et in spiritu natura proportionalis existens astrorum ordinationi"" Translatio Guillelmi, p. 54, ll. 9-13""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_partibus_animalium,De animalibus (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DICO CHE QUANDO L'UMANO SEME CADE NEL SUO RECETTACULO,"nella prima parte della sua trattazione Dante espone la dottrina peripatetica riguardante la generazione degli animali, con particolare riguardo all'uomo. Per la biologia aristotelica nel processo di formazione ed animazione del feto chi agisce è esclusivamente il seme maschile: l'elemento femminile, rappresentato dal sangue mestruale contenuto nell'utero (matrice"") come in un recipiente (""recettaculo""), funziona da materia totalmente passiva. Le tre forze agenti (""virtù"") veicolate dal liquido seminale hanno come origine rispettivamente l' anima del padre dal cui corpo è stato prodotto, dopo un lungo processo di elaborazione del cibo, il seme stesso (""vertù dell'anima generativa"", identica alla ""vertù formativa che diede l'anima del generante""); la seconda dai cieli (""la virtù celeste""); la terza dal tipo di mescolanza dei quattro elementi di cui, come ogni altro corpo, il seme è composto (""la vertù delli elementi legati, cioè la complessione"". Si tratta di quella che i medici chiamavano 'complexio innata seu radicalis', attribuibile non solo al seme ma anche al sangue mestruale). Nella descrizione del <i>Convivio</i> il seme agisce sulla materia mestruale allo stesso modo con cui il sole matura un frutto, e la prepara (""dispone"") all'azione della '<i>virtus formativa</i>' il cui compito è quello di diversificarla producendo i vari organi necessari alle diverse funzioni vitali (""prepara gli organi""). Quando la materia è così organizzata, la 'virtù celestiale' interviene dotando l'embrione umano di un autonomo principio vitale, l'anima sensitiva, che nel seme era solo in potenza (""produce dalla potenza del seme l'anima in vita"". L'anima prodotta dalla potenza del seme, prodotta cioè attraverso un processo di generazione naturale, non può essere, pace <i>Busnelli</i>, quella intellettiva, che come Dante dice esplicitamente subito dopo, viene creata direttamente da Dio). Nella cultura del XIII secolo l'embriologia era una branca della filosofia naturale, oggetto di insegnamento specifico nelle Facoltà di medicina. Essa, però, quando si occupava dei modi con cui si producevano nell'uomo le varie anime, affrontava problemi e usava linguaggi propri della metafisica. Per questo la descrizione dei processi generativi non era esclusiva competenza dei medici, ma veniva presa in considerazione dai filosofi (cfr. Martorelli Vico 2002). Anche i teologi erano interessati alla materia che, ad esempio, è trattata in numerosi scritti di Tommaso, dal Commento alle <i>Sentenze</i> (I, dist. 48, q. 2) fino alla <i>Summa contra Gentiles</i> (II, capp. 86 sgg. ) ed alla <i>Summa Theologiae</i> (I, q. 118, aa. 1 e 2). Che nella parte spumosa del seme fossero presenti la <i>virtus formativa</i> trasmessa dal padre e una 'virtù celestiale' era stato detto sia da Alberto Magno (cfr. <i>De natura et origine animae</i> tr. I, cap. 4, p. 10, ll 11-12 ""virtus animae patris et caelestis intellectus est in spiritu illo"") che dallo stesso Tommaso (cfr. <i>Summa Theologiae</i>, cit., a. 1: ""ista vis activa ...fundatur in ipso spiritu incluso in semine, quod est spumosum ut attestatur eius albedo. In quo etiam spiritu est quidam calor ex virtute caelestium corporum, quorum etiam virtute agentia inferiora agunt ad speciem""). Che il compito della '<i>virtus formativa</i>' fosse quello di differenziare la materia su cui agisce formando gli organi dell'essere vivente era pure dottrina vulgata sia tra i medici che tra i teologi (cfr. Alberto Magno, <i>De natura et origine animae</i> ... cit.: ""gutta maris ... penetrat in guttam feminae, pulsando per eam et distinguendo et formando eam per virtutem formantem quae est in ipso""). Per quanto riguarda la ""vertù del cielo"" un accenno si trova già in Aristotele: il seme agisce mediante il calore, ma, a differenza del caldo del fuoco che distrugge ciò che brucia, si tratta di un calore intelligente che sa autoregolarsi e quindi ha una qualche parentela con il calore degli astri (cfr <i>De generatione animalium</i> II, 3, 736 b34-737 a 2: ""In spermate inexistit quod facit gonima esse spermata, vocatum calidum. Hoc autem non ignis ... sed interceptus in spermate et spumoso spiritus aliquis et in spiritu natura proportionalis existens astrorum ordinationi"" <i>Translatio Guillelmi</i>, p. 54, ll. 9-13. Vedi le ulteriori precisazioni di Alberto Magno nelle sue <i>Quaestiones super De animalibus</i>, liber XVI, <i>quaestio</i> 6, pp. 277-278). A questa caratteristica del seme Dante aveva già accennato in <i>Cv</i> II.xiii.5 parlando di ""vertude celestiale che è nel calore naturale del seme"" presentandola anche lì come dottrina propria di Aristotele e degli altri Peripatetici. La trattazione di Dante, brevissima in confronto a quelle di Tommaso o di Egidio Romano (che ai problemi embriologici aveva dedicato un' intera opera, il <i>De formatione corporis humani in utero</i>), utilizza insomma concetti assai vulgati, senza alcuna pretesa di originalità dottrinale, ma utilizzandoli in funzione della sua concezione della nascita della nobiltà, questa sì veramente originale","Quaestiones super De animalibus, liber XVI, quaestio 6, pp. 277-278",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_animalibus,De animalibus (Alberto Magno),Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
RICEVE DALLA VERTÙ DEL MOTORE DEL CIELO LO INTELLETTO POSSIBILE,"fino allo stadio della vita puramente vegetativa e sensitiva il processo di generazione dell'anima umana è stato opera della natura. L'apparire dell'anima intellettiva è dovuto invece ad un agente esterno. Anche in questo caso il punto di partenza è l'affermazione aristotelica secondo cui l'intelletto risulta essere un altro genere di anima che proviene dal di fuori ed è di natura divina (cfr. <i>De generatione animalium</i> II 3, 736 b 27-28). Nell'esegesi medievale questo 'di fuori' era stato rapidamente identificato con Dio. Ed è appunto quello che dice Dante: l'anima sensitiva, nel momento stesso in cui viene prodotta, riceve dalla potenza del Motore del cielo (Lo Motor Primo"" di <i>Pg</i> XXV, 70, cioè Dio come principio di tutta la natura) l'intelletto possibile. Di una parte o funzione dell'intelletto caratterizzata dall'essere in potenza rispetto a tutti i possibili concetti parla Aristotele nel capitolo quarto del terzo libro del <i>De anima</i> Non è invece aristotelica l'affermazione per cui gli intelligibili che l'intelletto porta con sé (""in sé adduce"") sono, in potenza (""potenzialmente""), le stesse forme universali che Dio (visto ora come prima Intelligenza) possiede in atto (""secondo che sono nel suo produttore""). Dante può avere preso spunto dal <i>De intellectu et intelligibili</i> di Alberto e più precisamente dal trattato primo del secondo libro: <i>Unde habet forma quod sit in anima intellectuali</i> (pp. 503-504). Anche l'affermazione immediatamente seguente, e cioè che i singoli intelletti possibili hanno in potenza forme sempre meno universali in proporzione al loro grado di allontanamento dall'Intelligenza prima (""tanto meno quanto più dilungato dalla prima Intelligenza è"" riferendo il ""meno"" non al numero delle forme ma alla loro universalità) non è aristotelica: essa può avere riscontro nella decima proposizione del <i>Liber de causis:</i> ""Omnis intelligentia est plena formis: verumtamen ex intelligentiis sunt quae continent formas plus universales et ex eis sunt quae continent formas minus universales"" (p. 70) interpretata da Alberto nel senso che maggiore o minore universalità dipendono dalla minore o maggiore distanza delle intelligenze celesti dalla Causa Prima. Dante sembra applicare questo principio ontologico e cosmologico di ascendenza neoplatonica ai singoli intelletti umani: la loro maggiore o minore capacità di astrazione dipenderebbe dal grado di differenza (distanza) da Dio determinato dalla loro minore o maggiore purità (cfr. Falzone 2009). Sulla ""torsione"" neoplatonica cui, seguendo Alberto, Dante sottopone le formule aristoteliche cfr. Nardi 1985, pp. 149-154).","II 3, 736 b 27-28",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_partibus_animalium,De animalibus (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
VOGLIO DIRE COME L'APOSTOLO,"l'apostolo Paolo. Cfr. <i>Rm</i> 11, 33 O altitudo divitiarum sapientiae et scientiae Dei, quam incomprehensibilia sunt iudicia eius et investigabiles viae eius"". Il testo era già stato usato in <i>Cv</i> IV v 9 a proposito del modo con cui Dio, attraverso l'Impero romano, ha preparato la nascita di suo figlio","Rm 11, 33 O altitudo divitiarum sapientiae et scientiae Dei, quam incomprehensibilia sunt iudicia eius et investigabiles viae eius",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Epistle_to_the_Romans,Epistola ad Romanos,Paolo,http://dbpedia.org/resource/Paul_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
INTELLETTUALE VERTUDE SIA BENE ASTRATTA ...,"il grado di purezza dell'anima sensitiva influisce su quello dell'intelletto possibile. Ora, essendo in sé immateriale, l'intelletto possiede una capacità tanto più pura quanto più è separata (astratta) e sciolta (""assoluto"") da ogni offuscamento che proviene dal corpo. L'immagine secondo cui il principio intellettuale nella sua discesa dalla Prima Causa verso il corpo, progressivamente si offusca (""obumbratur"") si ritrova, ancora una volta, nel <i>De intellectu et intelligibili</i> (cfr. I, tr. 1, cap. 5, p. 484). Il discorso di Dante presenta qui elementi contraddittori: il grado di purezza dell'anima sensitiva da cui dipende la maggiore o minore astrazione dell'intelletto possibile è infatti collegato proprio alla azione più o meno perfetta di agenti corporei","I, tr. 1, cap. 5, p. 484",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_intellectu_et_intelligibili(Alberto_Magno),De intellectu et intelligibili,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
IMPERCIÒ CELESTIALE ANIMA ...,"cfr <i>De senectute</i> xxi 77 Est enim animus caelestis ex altissimo domicilio depressus et quasi demersus in terram, locum divinae naturae aeternitatique contrarium"". Come si vede la citazione non è letterale (il testo di Cicerone non ha quel ""discese in noi"" che è ciò che a Dante più interessa).","xxi 77 Est enim animus caelestis ex altissimo domicilio depressus et quasi demersus in terram, locum divinae naturae aeternitatique contrarium",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Cato_Maior_de_Senectute,De senectute,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
NEL LIBRO DELLE CAGIONI,"la citazione del <i>De causis</i> rimanda alle parole iniziali della terza proposizione Omnis anima nobilis tres habet operationes: nam ex operationibus eius est operatio animalis, et operatio <i>intellectibilis</i> et operatio divina"" (p. 51). Dante, però, ha ancora una volta presente Alberto Magno che ha un testo identico nel <i>De natura et origine animae</i> (tr. 2, cap. 2, p 21, ll. 26-8) ""...tres haec anima nobilis habet operationes, divinam videlicet et intellectualem et animalem"". La presenza, nel testo di Dante, del termine ""intellettuale"", al posto del più difficile <i>intellectibilis</i>, potrebbe essere un segnale di questa dipendenza; e del resto il domenicano tedesco, proprio come farà Dante, applica all'anima intellettiva dell'uomo quello che il <i>Liber de causis</i> riferiva invece alle anime divine che muovono i cieli (cfr. Nardi 1967, pp. 91-4).","tr. 2, cap. 2, p 21, ll. 26-8",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_natura_et_origine_animae,De natura et origine animae,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
NEL LIBRO DELLE CAGIONI,"la citazione del <i>De causis</i> rimanda alle parole iniziali della terza proposizione Omnis anima nobilis tres habet operationes: nam ex operationibus eius est operatio animalis, et operatio <i>intellectibilis</i> et operatio divina"" (p. 51). Dante, però, ha ancora una volta presente Alberto Magno che ha un testo identico nel <i>De natura et origine animae</i> (tr. 2, cap. 2, p 21, ll. 26-8) ""...tres haec anima nobilis habet operationes, divinam videlicet et intellectualem et animalem"". La presenza, nel testo di Dante, del termine ""intellettuale"", al posto del più difficile <i>intellectibilis</i>, potrebbe essere un segnale di questa dipendenza; e del resto il domenicano tedesco, proprio come farà Dante, applica all'anima intellettiva dell'uomo quello che il <i>Liber de causis</i> riferiva invece alle anime divine che muovono i cieli (cfr. Nardi 1967, pp. 91-4).","parole iniziali della terza proposizione Omnis anima nobilis tres habet operationes: nam ex operationibus eius est operatio animalis, et operatio intellectibilis et operatio divina",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Liber_de_Causis,Liber de causis,Aristotele (ps.),http://dbpedia.org/resource/Pseudo-Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
CHE QUASI SAREBBE UN ALTRO IDDIO INCARNATO,"ancora una volta il testo dipende dal <i>De somno et vigilia</i> di Alberto , (III tr. 1, cap. 6, p. 185) che riporta a sua volta le tesi di Avicenna ed Algazel In tantum exaltant (scil. superiores Intelligentiae) nobilitatem huius intellectus, quod invenitur anima quae scit omnia per seipsam, ut dicunt, et est quoad intellectum quasi Deus incarnatus qui perfectionem habet ad omnia scienda ex seipso"".",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_somno_et_vigilia(Alberto_Magno),De somno et vigilia,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
SIA APPROPIATA ALLO SPIRITO SANTO,"il termine appropiato"" ha qui un significato strettamente teologico: nonostante che le tre persone della Trinità siano egualmente Dio, ad ognuna di esse può essere attribuito, nella loro relazione con le cose, uno specifico modo di azione (si tratta di quella che viene chiamata la distinzione 'ad extra'). Cfr. ad esempio Tommaso d'Aquino, <i>Summa contra Gentiles</i>, IV, cap. 20, n. 3571 ""Ex hoc quod Spiritus Sanctus per modum amoris procedit, amor autem vim quamdam impulsivam et motivam habet, motus qui est a Deo in rebus Spiritui Sancto proprie attribui videtur"".","IV, cap. 20, n. 3571 ""Ex hoc quod Spiritus Sanctus per modum amoris procedit, amor autem vim quamdam impulsivam et motivam habet, motus qui est a Deo in rebus Spiritui Sancto proprie attribui videtur""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_contra_Gentiles,Summa contra Gentiles,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
"SAPIENZA, INTELLETTO ...","cfr. <i>Is</i> 11, 2 Et requiescet super eum Spiritus Domini: spiritus sapientiae et intellectus, spiritus consilii et fortitudinis, spiritus scientiae et pietatis, et replebit eum spiritus timoris Domini"". L'esegesi critiana aveva visto l'avverarsi di questa profezia nella discesa dello Spirito Santo su Gesù al momento del battesimo nel Giordano (cfr. il commento di Girolamo a questo versetto di Isaia in PL 24, p. 14) ed i sette spiriti erano diventati i suoi sette doni (vedi ad esempio il commento ad Isaia di Aimone di Halberstadt, PL 181, 779 ).",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Isaiah,Libro di Isaia,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
SEMINATORE,"ancora all'interno della metafora, Dio. Evidente è il richiamo alla parabola evangelica (<i>Mt</i> 13, 3-8; <i>Mc</i> 4, 3-20; <i>Lc</i> 8, 5-10). Per altro anche nella tradizione classica fin da Cicerone e Virgilio <i>sator</i> era uno degli appellativi della divinità somma e con questo nome Boezio si rivolge a Dio nel <i>De consolatione</i> all'inizio del celebre metro nono del terzo libro che Dante ha in parte tradotto (cfr. <i>Cv</i> III ii 17-18 e Dronke 2008, p. 38). Ma lo stesso Aristotele, nel decimo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> (10, 1179 b 24 -26), parlando di una preparazione necessaria alla virtù, e quindi necessariamente ad essa precedente, aveva usato la metafora della terra ben lavorata e capace di accogliere il seme","13, 3-8",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Matthew,Vangelo di Matteo,Matteo,http://dbpedia.org/resource/Matthew_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
SEMINATORE,"ancora all'interno della metafora, Dio. Evidente è il richiamo alla parabola evangelica (<i>Mt</i> 13, 3-8; <i>Mc</i> 4, 3-20; <i>Lc</i> 8, 5-10). Per altro anche nella tradizione classica fin da Cicerone e Virgilio <i>sator</i> era uno degli appellativi della divinità somma e con questo nome Boezio si rivolge a Dio nel <i>De consolatione</i> all'inizio del celebre metro nono del terzo libro che Dante ha in parte tradotto (cfr. <i>Cv</i> III ii 17-18 e Dronke 2008, p. 38). Ma lo stesso Aristotele, nel decimo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> (10, 1179 b 24 -26), parlando di una preparazione necessaria alla virtù, e quindi necessariamente ad essa precedente, aveva usato la metafora della terra ben lavorata e capace di accogliere il seme","4, 3-20",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Mark,Vangelo di Marco,Marco,http://dbpedia.org/resource/Mark_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
SEMINATORE,"ancora all'interno della metafora, Dio. Evidente è il richiamo alla parabola evangelica (<i>Mt</i> 13, 3-8; <i>Mc</i> 4, 3-20; <i>Lc</i> 8, 5-10). Per altro anche nella tradizione classica fin da Cicerone e Virgilio <i>sator</i> era uno degli appellativi della divinità somma e con questo nome Boezio si rivolge a Dio nel <i>De consolatione</i> all'inizio del celebre metro nono del terzo libro che Dante ha in parte tradotto (cfr. <i>Cv</i> III ii 17-18 e Dronke 2008, p. 38). Ma lo stesso Aristotele, nel decimo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> (10, 1179 b 24 -26), parlando di una preparazione necessaria alla virtù, e quindi necessariamente ad essa precedente, aveva usato la metafora della terra ben lavorata e capace di accogliere il seme","8, 5-10",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Luke,Vangelo di Luca,Luca,http://dbpedia.org/resource/Luke_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
SEMINATORE,"ancora all'interno della metafora, Dio. Evidente è il richiamo alla parabola evangelica (<i>Mt</i> 13, 3-8; <i>Mc</i> 4, 3-20; <i>Lc</i> 8, 5-10). Per altro anche nella tradizione classica fin da Cicerone e Virgilio <i>sator</i> era uno degli appellativi della divinità somma e con questo nome Boezio si rivolge a Dio nel <i>De consolatione</i> all'inizio del celebre metro nono del terzo libro che Dante ha in parte tradotto (cfr. <i>Cv</i> III ii 17-18 e Dronke 2008, p. 38). Ma lo stesso Aristotele, nel decimo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> (10, 1179 b 24 -26), parlando di una preparazione necessaria alla virtù, e quindi necessariamente ad essa precedente, aveva usato la metafora della terra ben lavorata e capace di accogliere il seme",metro nono del terzo libro,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
SEMINATORE,"ancora all'interno della metafora, Dio. Evidente è il richiamo alla parabola evangelica (<i>Mt</i> 13, 3-8; <i>Mc</i> 4, 3-20; <i>Lc</i> 8, 5-10). Per altro anche nella tradizione classica fin da Cicerone e Virgilio <i>sator</i> era uno degli appellativi della divinità somma e con questo nome Boezio si rivolge a Dio nel <i>De consolatione</i> all'inizio del celebre metro nono del terzo libro che Dante ha in parte tradotto (cfr. <i>Cv</i> III ii 17-18 e Dronke 2008, p. 38). Ma lo stesso Aristotele, nel decimo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> (10, 1179 b 24 -26), parlando di una preparazione necessaria alla virtù, e quindi necessariamente ad essa precedente, aveva usato la metafora della terra ben lavorata e capace di accogliere il seme","10, 1179 b 24 -26",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
"L'APPETITO DELL'ANIMO, LO QUALE IN GRECO È CHIAMATO 'HORMÉN'","in realtà <i>hormén</i> è il caso accusativo del termine horme, ma proprio in accusativo Dante lo leggeva nella sua fonte, il <i>De finibus</i> di Cicerone (cfr. V, 6, 17: appetitus animi quem <i>hormē</i> Graeci vocant"". Evidentemente il codice a sua disposizione conteneva una traslitterazione dei caratteri greci. Cfr. Moore, p. 267). Dante parlerà diffusamente nel capitolo seguente di questo impulso presente nell'anima umana (e non solo umana) fin dall'inizio.","V, 6, 17",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/De_finibus_bonorum_et_malorum,De finibus bonorum et malorum,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
SANTO AUGUSTINO...,"nel primo capitolo del secondo libro dell'<i>Etica Nicomachea</i> (1103 a 14 - b 25) Aristotele parla effettivamente della abitudine come condizione necessaria per la nascita delle virtù. Più difficile si è rivelata per i commentatori la ricerca di una corrispondenza precisa nel mare magnum degli scritti di Agostino. Maria Corti (Corti 1983, p. 112) ha suggerito ancora una volta come fonte Alberto Magno che nel suo <i>Super Ethica</i> mette in bocca ad Agostino, proprio sul tema della educazione morale, la metafora del legno diritto e di quello storto (una metafora che ha avuto lunga fortuna visto che ancora oggi è presente nell'uso comune). Bisogna però osservare che il termine presente nei due testi ('rectitudo ligni', rettitudine del tallo"") è usato in contesti diversi. Alberto parla infatti non delle buone abitudini, ma dell'intervento correttivo di una pena che agisce sul colpevole come coloro che, per raddrizzare un legno curvo (un legno si badi bene, non un germoglio), lo piegano nella direzione opposta (""per poenam tollitur vitium per inclinationem ad contrarium ... sicut dirigentes ligna curva plicant ea ad oppositum ... utraque curvitas est opposita rectitudini ligni, sed per unam inducitur rectitudo, dum per eam alia curvitas expellitur"" cfr. <i>Super Ethica commentum et quaestiones</i> II, lectio 2, vol. I, p. 99, ll. 59-65; cfr. anche  lectio 8, vol. II, p.136, ll. 14-16).",1103 a 14 - b 25,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SANTO AUGUSTINO...,"nel primo capitolo del secondo libro dell'<i>Etica Nicomachea</i> (1103 a 14 - b 25) Aristotele parla effettivamente della abitudine come condizione necessaria per la nascita delle virtù. Più difficile si è rivelata per i commentatori la ricerca di una corrispondenza precisa nel mare magnum degli scritti di Agostino. Maria Corti (Corti 1983, p. 112) ha suggerito ancora una volta come fonte Alberto Magno che nel suo <i>Super Ethica</i> mette in bocca ad Agostino, proprio sul tema della educazione morale, la metafora del legno diritto e di quello storto (una metafora che ha avuto lunga fortuna visto che ancora oggi è presente nell'uso comune). Bisogna però osservare che il termine presente nei due testi ('rectitudo ligni', rettitudine del tallo"") è usato in contesti diversi. Alberto parla infatti non delle buone abitudini, ma dell'intervento correttivo di una pena che agisce sul colpevole come coloro che, per raddrizzare un legno curvo (un legno si badi bene, non un germoglio), lo piegano nella direzione opposta (""per poenam tollitur vitium per inclinationem ad contrarium ... sicut dirigentes ligna curva plicant ea ad oppositum ... utraque curvitas est opposita rectitudini ligni, sed per unam inducitur rectitudo, dum per eam alia curvitas expellitur"" cfr. <i>Super Ethica commentum et quaestiones</i> II, lectio 2, vol. I, p. 99, ll. 59-65; cfr. anche  lectio 8, vol. II, p.136, ll. 14-16).","Super Ethica commentum et quaestiones II, lectio 2, vol. I, p. 99, ll. 59-65; cfr. anche  lectio 8, vol. II, p.136, ll. 14-16",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Super_Ethica_commentum_et_quaestiones,Super Ethica commentum et quaestiones,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
COME DICE LO FILOSOFO NEL PRIMO DELL'ETICA,"Aristotele, sempre a proposito del fine ultimo delle azioni umane, usa l'esempio dell'arciere e del bersaglio al positivo; cfr. <i>Eth. Nic.</i> I 1, 1094 a 22-24: Ad vitam cognicio eius magnum habet incrementum et, quemadmodum sagittatores signum habentes, magis utique adipiscemur quod oportet"". <i>Translatio Grosseteste. Textus purus</i>, p. 142, ll. 8-9","I 1, 1094 a 22-24: Ad vitam cognicio eius magnum habet incrementum et, quemadmodum sagittatores signum habentes, magis utique adipiscemur quod oportet"".Translatio Grosseteste. Textus purus, p. 142, ll. 8-9""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
TULIO IN QUELLO DEL FINE DE' BENI,"Il brano in cui Cicerone usa la metafora della freccia e dell'arciere in relazione al perseguimento del sommo bene si trova specificamente in <i>De finibus bonorum et malorum</i> III, 9, 22 .",,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/De_finibus_bonorum_et_malorum,De finibus bonorum et malorum,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
FACEMO,"facciamo'. Che la felicità sia il termine cui tutto il nostro agire tende per trovarvi infine quiete viene detto da Tommaso, commentando <i>Eth. Nic</i>. X, 7, 1177 b 4 (Videturque felicitas in vacacione esse""): ""Vacare dicitur aliquis quando non restat ei aliquid agendum, quod contingit cum aliquis ad finem pervenerit ... et sic felicitati, quae est ultimus finis, maxime competit vacatio"" (<i>lectio</i> 11, nn. 2098-2099).","lectio 11, nn. 2098-2099",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
SÉ MEDESIMO AMA,"Cfr. <i>De finibus</i> V, 9, 24: Omne animal seipsum diligit ac, simul et ortum est, id agit ut se conservet. Cfr. Cv IV vi 11-12","V, 9, 24: Omne animal seipsum diligit ac, simul et ortum est, id agit ut se conservet",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/De_finibus_bonorum_et_malorum,De finibus bonorum et malorum,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
MOLTI CORRONO AL PALIO ...,"molti corrono per ottenere il premio. Dante traduce con qualche variante la prima Lettera ai Corinzi di Paolo 9, 24 Nescitis quod ii qui in stadio currunt, omnes quidem currunt, sed unus accipit <i>bravium</i>?"". Il termine <i>bravium</i> che indicava genericamente il premio di una gara atletica (corsa, ma anche pugilato), viene modernizzato in ""palio"" (il ""drappo verde"" di <i>If</i> XV 122), mentre il termine <i>stadium</i> viene omesso: nel Medioevo, infatti, non esistevano stadi, e i corridori saranno piuttosto simili ai podisti ricordati nel medesimo contesto del canto quindicesimo dell' <i>Inferno</i> ("" ... coloro / che corrono a Verona il drappo verde / per la campagna ..."").",,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/First_Epistle_to_the_Corinthians,Epistola I ad Corinthios,Paolo,http://dbpedia.org/resource/Paul_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
TENERE DIETRO A,"seguire da vicino'. Ad una diversificazione delle scelte e dei modi di vita per il raggiungimento della felicità, ed alla necessità di individuarne l'unico giusto, Dante aveva già accennato in <i>Cv</i> IV vi 8. L'uso del termine calle"" rimanda al <i>De consolatione philosophiae</i> III, prosa 2, 2, pp. 59-60: ""Omnis mortalium cura ... diverso calle procedit, sed ad unum tamen beatitudinis finis nititur pervenire",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Consolation_of_Philosophy,De consolatione philosophiae,Boezio,http://dbpedia.org/resource/Boethius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
DEE,"deve. Nella descrizione del processo per cui, partendo da un indistinto amore per se stessi, l'appetito naturale diversifica i suoi oggetti mediante l'intervento della riflessione, Dante, più che usare Aristotele e i Peripatetici, ha avuto presente il <i>De finibus</i> di Cicerone; cfr. ad esempio V, 9, 24 :Omne animal seipsum diligit ... Hanc initio institutionem confusam habet et incertam, ut tantum se tueatur, qualecumque sit ... Cum autem processit paululum ... tum sensim incipit progredi seseque agnoscere et intelligere quam ob causam habeat eum quem diximus animi appetitum"". Ancora più evidente il rapporto quando Dante parla della scoperta che l'uomo fa di essere un composto di anima e corpo e del maggior amore che egli comprende doversi portare all'anima: cfr. V 37-38: ""Nam cui proposita sit conservatio sui, necesse est huic partes quoque sui caras esse, carioresque quo perfectiores sint ... quibus expositis, facilis est coniectura ea maxime esse expetenda ex nostris quae plurimum habent dignitatis ... ita fiet ut animi virtus corporis virtuti anteponatur"".","ad esempio V, 9, 24 :Omne animal seipsum diligit ... Hanc initio institutionem confusam habet et incertam, ut tantum se tueatur, qualecumque sit ... Cum autem processit paululum ... tum sensim incipit progredi seseque agnoscere et intelligere quam ob causam habeat eum quem diximus animi appetitum",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/De_finibus_bonorum_et_malorum,De finibus bonorum et malorum,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
L'USO DEL NOSTRO ANIMO,"l'esercizio delle facoltà della nostra anima razionale e la loro fruizione' . Un' identica struttura argomentativa è presente nel <i>De summo bono</i> di Boezio di Dacia, ed esattamente nella medesima posizione, cioè a conclusione di un segmento importante della argomentazione: Et quia quilibet delectatur in illo quod amat, et maxime delectatur in illo quod maxime amat ..."" (p. 377, 234-235). Solo che nel <i>De summo bono</i> l'amore non è quello dell'uomo per il proprio animo, ma del filosofo per l' Ente Primo.","Et quia quilibet delectatur in illo quod amat, et maxime delectatur in illo quod maxime amat ..."" (p. 377, 234-235)""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_summo_bono,De summo bono,Boezio di Dacia,http://dbpedia.org/resource/Boetius_of_Dacia,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
ED È UNO MODO QUASI  ... SOPRA DIVERSA RADICE,"ed è come innestare una natura diversa su di un tronco che non è il suo'. La metafora dell'innesto era già stata usata da Paolo nella Lettera ai Romani (ma in questo caso era la natura deteriore, l'oleastro simbolo dei Gentili, ad essere innestato sul tronco buono, l'olivo simbolo degli Ebrei. Cfr. <i>Rm</i> 11, 17 sgg.).","Rm 11, 17 sgg.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Epistle_to_the_Romans,Epistola ad Romanos,Paolo,http://dbpedia.org/resource/Paul_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
SÌ COME È LO SPECULATIVO,che l'attività speculativa fosse superiore all' esercizio delle virtù etiche era stato decisamente sostenuto da Aristotele nei capp. 7-8 del decimo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i> e comunque già detto da Dante stesso in <i>Cv</i> IV xvii 9-12.,capp. 7-8 del decimo libro dell' Etica Nicomachea,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SANZA MISTURA,"senza alcuna mescolanza esterna, in purezza assoluta'. In un brano dell' <i>Etica Nicomachea</i> assai usato dai maestri universitari che spesso ne facevano il tema dei loro discorsi in lode della filosofia, Aristotele aveva detto che essa possedeva admirabiles delectaciones puritate et firmitate"" (X 7, 1177 a 25-26); l'esercizio del pensiero, a differenza di tutte la altre attività umane, non ha bisogno che di se stesso.","X 7, 1177 a 25-26",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
DICE MARCO...,"Dante cita, riassumendo, <i>Mc</i> 16, 1-7.","16, 1-7",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Mark,Vangelo di Marco,Marco,http://dbpedia.org/resource/Mark_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
ANDARO PER TROVARE LO SALVATORE AL MONIMENTO,"andarono al sepolcro a cercare il Salvatore' (cfr. <i>Mc</i> 16, 1-2:  ... Maria Magdalene et Maria Jacobi et Salome emerunt aromata ut venientes ungerent Jesum. Et valde mane ... veniunt ad monumentum ..."").","16, 1-2:  ... Maria Magdalene et Maria Jacobi et Salome emerunt aromata ut venientes ungerent Jesum. Et valde mane ... veniunt ad monumentum ...""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Mark,Vangelo di Marco,Marco,http://dbpedia.org/resource/Mark_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
MA TROVARO ...,"cfr. <i>Mc</i> 16, 5-7 viderunt iuvenem ...coopertum stola candida ... qui dicit illis: Nolite expavescere: Jesum quaeritis ... non est hic ... sed ite, dicite discipulis eius et Petro quia praecedit vos in Galilaeam; ibi eum videbitis, sicut dixit vobis"".","16, 5-7 viderunt iuvenem ...coopertum stola candida ... qui dicit illis: Nolite expavescere: Jesum quaeritis ... non est hic ... sed ite, dicite discipulis eius et Petro quia praecedit vos in Galilaeam; ibi eum videbitis, sicut dixit vobis",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Mark,Vangelo di Marco,Marco,http://dbpedia.org/resource/Mark_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
"EPICUREI, LI STOICI E LI PERIPATETICI","a queste tre scuole (e alla loro concordia filosofica nella Atene celeste) Dante aveva già fatto riferimento in <i>Cv</i> III xiv 15. La loro caratterizzazione come filosofie che identificano il sommo bene con la vita attiva rimanda a <i>Cv</i> IV vi 9-15 dove anche di Aristotele si dice che, in continuità con il maestro Platone, pose il fine dell'uomo nella 'operazione con virtù'. Questa interpretazione dipende, come si è già avuto modo di osservare, dal fatto che per la diversa identificazione del sommo bene da parte delle diverse scuole filosofiche Dante si basa sul <i>De finibus</i> di Cicerone. In quest'opera, infatti, si fa riferimento ad un' etica del peripatetismo che sembra prescindere proprio dall' ultimo libro dell' <i>Etica Nicomachea</i>. In altri contesti Dante ha detto e dirà correttamente di Aristotele che ha posto l'esercizio della vita contemplativa al di sopra di ogni altra attività.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/De_finibus_bonorum_et_malorum,De finibus bonorum et malorum,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
"AL MONIMENTO, CIOÈ AL MONDO PRESENTE","mentre l'identificazione delle tre Marie con le tre sette"" è del tutto arbitraria, l'interpretazione del sepolcro (""monimento"") come allegoria del mondo terreno (""presente"", in contrapposizione al mondo futuro) si basa su di una analogia: come le tombe, questo mondo è luogo di raccolta (""ricettacolo"") di cose che si corrompono (cfr. <i>Mt</i> 23, 27: ""Vae vobis Pharisaei ypocritae, quia similes estis sepulchris dealbatis ... quae intus sunt plena ossibus mortuorum et omni spurcitia"")","Mt 23, 27: ""Vae vobis Pharisaei ypocritae, quia similes estis sepulchris dealbatis ... quae intus sunt plena ossibus mortuorum et omni spurcitia""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Matthew,Vangelo di Matteo,Matteo,http://dbpedia.org/resource/Matthew_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
SECONDO LA TESTIMONIANZA DI MATEO E ANCHE DELLI ALTRI [EVANGELISTI,"Matteo verrà citato immediatamente dopo. Quanto agli altri Giovanni parla esplicitamente di due angeli che appaiono a Maria Maddalena (cfr. <i>Io</i> 20, 12), e se Luca, che mantiene il numero di due, parla più genericamente di persone in vesti splendenti (cfr. <i>Lc</i> 24, 4) la loro identificazione con gli Angeli era più che ovvia.","Io 20, 12",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_John,Vangelo di Giovanni,Giovanni,http://dbpedia.org/resource/John_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
SECONDO LA TESTIMONIANZA DI MATEO E ANCHE DELLI ALTRI [EVANGELISTI,"Matteo verrà citato immediatamente dopo. Quanto agli altri Giovanni parla esplicitamente di due angeli che appaiono a Maria Maddalena (cfr. <i>Io</i> 20, 12), e se Luca, che mantiene il numero di due, parla più genericamente di persone in vesti splendenti (cfr. <i>Lc</i> 24, 4) la loro identificazione con gli Angeli era più che ovvia.","Lc 24, 4",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Luke,Vangelo di Luca,Luca,http://dbpedia.org/resource/Luke_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
MATEO DISSE,"cfr. <i>Mt</i> 28, 5-7 (questa volta la citazione e la traduzione sono letterali): Angelus ...Domini descendit de caelo, et accedens revolvit lapidem et sedebat super eum; erat autem aspectus eius sicut fulgur et vestimentum eius sicut nix"".","Mt 28, 5-7",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Matthew,Vangelo di Matteo,Matteo,http://dbpedia.org/resource/Matthew_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
CHE L'AVEA NEGATO,"che l'aveva rinnegato' (cfr. <i>Mt</i> 26, 69-75; <i>Mc</i> 14, 66-72; <i>Lc</i> 22, 55-62).","Mt 26, 69-75",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Matthew,Vangelo di Matteo,Matteo,http://dbpedia.org/resource/Matthew_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
CHE L'AVEA NEGATO,"che l'aveva rinnegato' (cfr. <i>Mt</i> 26, 69-75; <i>Mc</i> 14, 66-72; <i>Lc</i> 22, 55-62).","14, 66-72",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Mark,Vangelo di Marco,Marco,http://dbpedia.org/resource/Mark_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
CHE L'AVEA NEGATO,"che l'aveva rinnegato' (cfr. <i>Mt</i> 26, 69-75; <i>Mc</i> 14, 66-72; <i>Lc</i> 22, 55-62).","Lc 22, 55-62",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Luke,Vangelo di Luca,Luca,http://dbpedia.org/resource/Luke_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
GALILEA È TANTO A DIRE QUANTO BIANCHEZZA,"dire Galilea è come dire bianchezza'. Per la costruzione dell'allegoria Dante ricorre ad un artificio assai usato in questo genere di approccio al testo: trovare nell' etimologia (molto spesso fantasiosa) dei nomi propri di persone o di luoghi il riferimento ad un insieme di proprietà reali esse stesse interpretabili allegoricamente (cfr. G. Dahan 2000). Nel caso specifico il rapporto tra Galilea e bianchezza, che Dante trovava sia nelle <i>Etymologiae</i> di Isidoro di Siviglia, sia nelle <i>Derivationes</i> di Uguccione da Pisa si basa sulla presunzione (falsa) che nel nome Galilea fosse presente come radice il termine greco <i>gala</i>, latte e quindi bianco. Dove però i due etimologisti sostenevano che la Galilea si chiama così perché in essa nascono gli uomini di pelle più chiara (<i>candidiores</i>) di tutta la Palestina (cfr. <i>Etymologiae</i> XIV iii. 3, vol. II, p. 117; <i>Derivationes</i>, s.v. <i>Gala</i>, G 14, 3, p. 505) Dante parla invece di una perfetta equivalenza di significato. Galilea, dunque, è uguale a bianchezza. Ora il bianco, nella teoria aristotelica è uno degli estremi della scala dei colori, quello in cui la luce è presente al massimo nella parte perspicua di un corpo (è un colore pieno di luce corporale più che ogni altro"". Cfr. <i>De sensu et sensato</i> 3, 439 b 14-18 e la parafrasi di Alberto Magno, tr. 2, cap. 2, p. 42); esso dunque, per analogia, può significare la contemplazione che è la realtà più luminosa dal punto di vista spirituale (""più piena di luce spirituale"").","XIV iii. 3, vol. II, p. 117",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Etymologiae,Etymologiae,Isidoro di Siviglia,http://dbpedia.org/resource/Isidore_of_Seville,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
GALILEA È TANTO A DIRE QUANTO BIANCHEZZA,"dire Galilea è come dire bianchezza'. Per la costruzione dell'allegoria Dante ricorre ad un artificio assai usato in questo genere di approccio al testo: trovare nell' etimologia (molto spesso fantasiosa) dei nomi propri di persone o di luoghi il riferimento ad un insieme di proprietà reali esse stesse interpretabili allegoricamente (cfr. G. Dahan 2000). Nel caso specifico il rapporto tra Galilea e bianchezza, che Dante trovava sia nelle <i>Etymologiae</i> di Isidoro di Siviglia, sia nelle <i>Derivationes</i> di Uguccione da Pisa si basa sulla presunzione (falsa) che nel nome Galilea fosse presente come radice il termine greco <i>gala</i>, latte e quindi bianco. Dove però i due etimologisti sostenevano che la Galilea si chiama così perché in essa nascono gli uomini di pelle più chiara (<i>candidiores</i>) di tutta la Palestina (cfr. <i>Etymologiae</i> XIV iii. 3, vol. II, p. 117; <i>Derivationes</i>, s.v. <i>Gala</i>, G 14, 3, p. 505) Dante parla invece di una perfetta equivalenza di significato. Galilea, dunque, è uguale a bianchezza. Ora il bianco, nella teoria aristotelica è uno degli estremi della scala dei colori, quello in cui la luce è presente al massimo nella parte perspicua di un corpo (è un colore pieno di luce corporale più che ogni altro"". Cfr. <i>De sensu et sensato</i> 3, 439 b 14-18 e la parafrasi di Alberto Magno, tr. 2, cap. 2, p. 42); esso dunque, per analogia, può significare la contemplazione che è la realtà più luminosa dal punto di vista spirituale (""più piena di luce spirituale"").","Derivationes, s.v. Gala, G 14, 3, p. 505",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Derivationes_Magnae,Derivationes Magnae,Uguccione da Pisa,http://dbpedia.org/resource/Huguccio,http://purl.org/bncf/tid/9228,WORK
GALILEA È TANTO A DIRE QUANTO BIANCHEZZA,"dire Galilea è come dire bianchezza'. Per la costruzione dell'allegoria Dante ricorre ad un artificio assai usato in questo genere di approccio al testo: trovare nell' etimologia (molto spesso fantasiosa) dei nomi propri di persone o di luoghi il riferimento ad un insieme di proprietà reali esse stesse interpretabili allegoricamente (cfr. G. Dahan 2000). Nel caso specifico il rapporto tra Galilea e bianchezza, che Dante trovava sia nelle <i>Etymologiae</i> di Isidoro di Siviglia, sia nelle <i>Derivationes</i> di Uguccione da Pisa si basa sulla presunzione (falsa) che nel nome Galilea fosse presente come radice il termine greco <i>gala</i>, latte e quindi bianco. Dove però i due etimologisti sostenevano che la Galilea si chiama così perché in essa nascono gli uomini di pelle più chiara (<i>candidiores</i>) di tutta la Palestina (cfr. <i>Etymologiae</i> XIV iii. 3, vol. II, p. 117; <i>Derivationes</i>, s.v. <i>Gala</i>, G 14, 3, p. 505) Dante parla invece di una perfetta equivalenza di significato. Galilea, dunque, è uguale a bianchezza. Ora il bianco, nella teoria aristotelica è uno degli estremi della scala dei colori, quello in cui la luce è presente al massimo nella parte perspicua di un corpo (è un colore pieno di luce corporale più che ogni altro"". Cfr. <i>De sensu et sensato</i> 3, 439 b 14-18 e la parafrasi di Alberto Magno, tr. 2, cap. 2, p. 42); esso dunque, per analogia, può significare la contemplazione che è la realtà più luminosa dal punto di vista spirituale (""più piena di luce spirituale"").","3, 439 b 14-18",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Sense_and_Sensibilia_(Aristotle),De sensu et sensato (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
GALILEA È TANTO A DIRE QUANTO BIANCHEZZA,"dire Galilea è come dire bianchezza'. Per la costruzione dell'allegoria Dante ricorre ad un artificio assai usato in questo genere di approccio al testo: trovare nell' etimologia (molto spesso fantasiosa) dei nomi propri di persone o di luoghi il riferimento ad un insieme di proprietà reali esse stesse interpretabili allegoricamente (cfr. G. Dahan 2000). Nel caso specifico il rapporto tra Galilea e bianchezza, che Dante trovava sia nelle <i>Etymologiae</i> di Isidoro di Siviglia, sia nelle <i>Derivationes</i> di Uguccione da Pisa si basa sulla presunzione (falsa) che nel nome Galilea fosse presente come radice il termine greco <i>gala</i>, latte e quindi bianco. Dove però i due etimologisti sostenevano che la Galilea si chiama così perché in essa nascono gli uomini di pelle più chiara (<i>candidiores</i>) di tutta la Palestina (cfr. <i>Etymologiae</i> XIV iii. 3, vol. II, p. 117; <i>Derivationes</i>, s.v. <i>Gala</i>, G 14, 3, p. 505) Dante parla invece di una perfetta equivalenza di significato. Galilea, dunque, è uguale a bianchezza. Ora il bianco, nella teoria aristotelica è uno degli estremi della scala dei colori, quello in cui la luce è presente al massimo nella parte perspicua di un corpo (è un colore pieno di luce corporale più che ogni altro"". Cfr. <i>De sensu et sensato</i> 3, 439 b 14-18 e la parafrasi di Alberto Magno, tr. 2, cap. 2, p. 42); esso dunque, per analogia, può significare la contemplazione che è la realtà più luminosa dal punto di vista spirituale (""più piena di luce spirituale"").","tr. 2, cap. 2, p. 42",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_sensu_et_sensato(Alberto_Magno),De sensu et sensato (Alberto Magno),Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
"ADOLESCENZA, PER LA GIOVENTUTE, PER LA SENETTUTE E PER LO SENIO","Dante utilizza uno schema diffusissimo nella cultura medievale, quello delle quattro età della vita. Se tutti gli autori conosciuti o conoscibili da parte di Dante sono d'accordo sul numero, non altrettanto lo sono sulle denominazioni: la traduzione latina del <i>Canon</i> di Avicenna e Alberto Magno convergono nel dire che le ultime due sono vecchiaia (senettute"" dal lat. <i>senectus</i>) e decrepitezza (""senio"", dal lat. <i>senium</i>), divergono invece tra loro e da Dante riguardo alla prima che in Alberto è non l'adolescenza, ma la <i>pueritia</i>, e alla seconda, definita da Avicenna come 'aetas pulchritudinis' (cfr. <i>Canon</i> I, 1, 3, 3, f. 3va) e che Alberto preferisce chiamare 'aetas virilis' (<i>De iuventute et senectute</i>, tr. 1. cap. 2, p. 307 a ""rectius ... vocatur virilis quam iuventus, quia iuventus ad pueritiam videtur pertinere""). Bisogna notare che i termini <i>senectus</i> e <i>senium</i> (come decrepitezza), presenti nella Vulgata (cfr. <i>Ps.</i> 70, 18: ""usque in senectam et senium ne derelinquas me"") erano già ampiamente in uso prima di Alberto (vedi già nel titolo il <i>De malo senectutis et senii</i> di Boncompagno da Signa)",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_malo_senectutis_et_senii(Boncompagno_da_Signa),De malo senectutis et senii,Boncompagno da Signa,http://dbpedia.org/resource/Boncompagno_da_Signa,http://purl.org/bncf/tid/762,WORK
"ADOLESCENZA, PER LA GIOVENTUTE, PER LA SENETTUTE E PER LO SENIO","Dante utilizza uno schema diffusissimo nella cultura medievale, quello delle quattro età della vita. Se tutti gli autori conosciuti o conoscibili da parte di Dante sono d'accordo sul numero, non altrettanto lo sono sulle denominazioni: la traduzione latina del <i>Canon</i> di Avicenna e Alberto Magno convergono nel dire che le ultime due sono vecchiaia (senettute"" dal lat. <i>senectus</i>) e decrepitezza (""senio"", dal lat. <i>senium</i>), divergono invece tra loro e da Dante riguardo alla prima che in Alberto è non l'adolescenza, ma la <i>pueritia</i>, e alla seconda, definita da Avicenna come 'aetas pulchritudinis' (cfr. <i>Canon</i> I, 1, 3, 3, f. 3va) e che Alberto preferisce chiamare 'aetas virilis' (<i>De iuventute et senectute</i>, tr. 1. cap. 2, p. 307 a ""rectius ... vocatur virilis quam iuventus, quia iuventus ad pueritiam videtur pertinere""). Bisogna notare che i termini <i>senectus</i> e <i>senium</i> (come decrepitezza), presenti nella Vulgata (cfr. <i>Ps.</i> 70, 18: ""usque in senectam et senium ne derelinquas me"") erano già ampiamente in uso prima di Alberto (vedi già nel titolo il <i>De malo senectutis et senii</i> di Boncompagno da Signa)","cfr. Ps. 70, 18: usque in senectam et senium ne derelinquas me",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Vulgate,Vulgata (Bibbia),Girolamo,http://dbpedia.org/resource/Jerome,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/esegesi_biblica,WORK
"ADOLESCENZA, PER LA GIOVENTUTE, PER LA SENETTUTE E PER LO SENIO","Dante utilizza uno schema diffusissimo nella cultura medievale, quello delle quattro età della vita. Se tutti gli autori conosciuti o conoscibili da parte di Dante sono d'accordo sul numero, non altrettanto lo sono sulle denominazioni: la traduzione latina del <i>Canon</i> di Avicenna e Alberto Magno convergono nel dire che le ultime due sono vecchiaia (senettute"" dal lat. <i>senectus</i>) e decrepitezza (""senio"", dal lat. <i>senium</i>), divergono invece tra loro e da Dante riguardo alla prima che in Alberto è non l'adolescenza, ma la <i>pueritia</i>, e alla seconda, definita da Avicenna come 'aetas pulchritudinis' (cfr. <i>Canon</i> I, 1, 3, 3, f. 3va) e che Alberto preferisce chiamare 'aetas virilis' (<i>De iuventute et senectute</i>, tr. 1. cap. 2, p. 307 a ""rectius ... vocatur virilis quam iuventus, quia iuventus ad pueritiam videtur pertinere""). Bisogna notare che i termini <i>senectus</i> e <i>senium</i> (come decrepitezza), presenti nella Vulgata (cfr. <i>Ps.</i> 70, 18: ""usque in senectam et senium ne derelinquas me"") erano già ampiamente in uso prima di Alberto (vedi già nel titolo il <i>De malo senectutis et senii</i> di Boncompagno da Signa)","De iuventute et senectute, tr. 1. cap. 2, p. 307 a ""rectius ... vocatur virilis quam iuventus, quia iuventus ad pueritiam videtur pertinere",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_iuventute_et_senectute(Alberto_Magno),De iuventute et senectute,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
"ADOLESCENZA, PER LA GIOVENTUTE, PER LA SENETTUTE E PER LO SENIO","Dante utilizza uno schema diffusissimo nella cultura medievale, quello delle quattro età della vita. Se tutti gli autori conosciuti o conoscibili da parte di Dante sono d'accordo sul numero, non altrettanto lo sono sulle denominazioni: la traduzione latina del <i>Canon</i> di Avicenna e Alberto Magno convergono nel dire che le ultime due sono vecchiaia (senettute"" dal lat. <i>senectus</i>) e decrepitezza (""senio"", dal lat. <i>senium</i>), divergono invece tra loro e da Dante riguardo alla prima che in Alberto è non l'adolescenza, ma la <i>pueritia</i>, e alla seconda, definita da Avicenna come 'aetas pulchritudinis' (cfr. <i>Canon</i> I, 1, 3, 3, f. 3va) e che Alberto preferisce chiamare 'aetas virilis' (<i>De iuventute et senectute</i>, tr. 1. cap. 2, p. 307 a ""rectius ... vocatur virilis quam iuventus, quia iuventus ad pueritiam videtur pertinere""). Bisogna notare che i termini <i>senectus</i> e <i>senium</i> (come decrepitezza), presenti nella Vulgata (cfr. <i>Ps.</i> 70, 18: ""usque in senectam et senium ne derelinquas me"") erano già ampiamente in uso prima di Alberto (vedi già nel titolo il <i>De malo senectutis et senii</i> di Boncompagno da Signa)",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/The_Canon_of_Medicine,Liber canonis medicinae,Avicenna,http://dbpedia.org/resource/Avicenna,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
ALCUNA MORTE,"Dante vuol sottolineare che il modello dell'arco della vita, con tutte le sue variazioni interne, non tiene conto dei casi di morte violenta o anticipata (affrettata"") a causa di malattia (""infertade"") accidentale, cioè sopravveniente dall'esterno, come nel caso di una epidemia (cfr. Aristotele, <i>De iuventute et senectute</i>, 17 478 b 22: ""Mors est hec quidem violenta, hec autem secundum naturam ... quando in ipso ... sed non adventitia aliqua passio""); solo quella morte che comunemente viene chiamata naturale (""naturale è chiamata dal vulgo"") e che effettivamente lo è, può essere ritenuta il punto finale (""termine"") dell'arco. Per confermare con una autorità l'invalicabilità di questo limite Dante cita il <i>Salmo</i> 103, che però si riferisce al limite che Dio pose alle acque del mare (cfr. Ps 103, 9 ""terminum posuisti quem non transgredientur"") contaminandolo con il libro di Giobbe dove i termini riguardano effettivamente la vita dell'uomo (Cfr. <i>Job</i> 14, 5 ""Breves dies hominis sunt ... constituisti terminos eius qui praeteriri non poterunt"").","17 478 b 22: ""Mors est hec quidem violenta, hec autem secundum naturam ... quando in ipso ... sed non adventitia aliqua passio""",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_Juventute_et_Senectute(Aristotele),"De Juventute et Senectute, De Vita et Morte, De Respiratione",Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
ALCUNA MORTE,"Dante vuol sottolineare che il modello dell'arco della vita, con tutte le sue variazioni interne, non tiene conto dei casi di morte violenta o anticipata (affrettata"") a causa di malattia (""infertade"") accidentale, cioè sopravveniente dall'esterno, come nel caso di una epidemia (cfr. Aristotele, <i>De iuventute et senectute</i>, 17 478 b 22: ""Mors est hec quidem violenta, hec autem secundum naturam ... quando in ipso ... sed non adventitia aliqua passio""); solo quella morte che comunemente viene chiamata naturale (""naturale è chiamata dal vulgo"") e che effettivamente lo è, può essere ritenuta il punto finale (""termine"") dell'arco. Per confermare con una autorità l'invalicabilità di questo limite Dante cita il <i>Salmo</i> 103, che però si riferisce al limite che Dio pose alle acque del mare (cfr. Ps 103, 9 ""terminum posuisti quem non transgredientur"") contaminandolo con il libro di Giobbe dove i termini riguardano effettivamente la vita dell'uomo (Cfr. <i>Job</i> 14, 5 ""Breves dies hominis sunt ... constituisti terminos eius qui praeteriri non poterunt"").","Ps 103, 9 ""terminum posuisti quem non transgredientur""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Psalms,Salmi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
ALCUNA MORTE,"Dante vuol sottolineare che il modello dell'arco della vita, con tutte le sue variazioni interne, non tiene conto dei casi di morte violenta o anticipata (affrettata"") a causa di malattia (""infertade"") accidentale, cioè sopravveniente dall'esterno, come nel caso di una epidemia (cfr. Aristotele, <i>De iuventute et senectute</i>, 17 478 b 22: ""Mors est hec quidem violenta, hec autem secundum naturam ... quando in ipso ... sed non adventitia aliqua passio""); solo quella morte che comunemente viene chiamata naturale (""naturale è chiamata dal vulgo"") e che effettivamente lo è, può essere ritenuta il punto finale (""termine"") dell'arco. Per confermare con una autorità l'invalicabilità di questo limite Dante cita il <i>Salmo</i> 103, che però si riferisce al limite che Dio pose alle acque del mare (cfr. Ps 103, 9 ""terminum posuisti quem non transgredientur"") contaminandolo con il libro di Giobbe dove i termini riguardano effettivamente la vita dell'uomo (Cfr. <i>Job</i> 14, 5 ""Breves dies hominis sunt ... constituisti terminos eius qui praeteriri non poterunt"").","Job 14, 5 ""Breves dies hominis sunt ... constituisti terminos eius qui praeteriri non poterunt""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Job,Libro di Giobbe,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
DI GIOVINEZZA E DI VECCHIEZZA,"nel suo libro sulla giovinezza e la vecchiaia'. E' il piccolo trattato <i>De iuventute et senectute</i> che comprende anche un <i>De respiratione</i>. Proprio nel trattare della respirazione Aristotele usa relativamente alla <i>iuventus</i> e alla <i>senectus</i> i termini <i>auctio</i> e <i>decretio</i>, non però per la vita in generale, come interpreta Dante (acrescimento di quella""), ma per un particolare organo, i polmoni, concepito come sistema di raffreddamento del calore interno necessario per ritardare la consunzione e dunque la morte dell'essere vivente (""iuventa primae refrigerabilis particulae <i>auctio</i>; senecta autem eiusdem <i>decretio</i>"", 17, 479 a 30-32).",,CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_Juventute_et_Senectute(Aristotele),"De Juventute et Senectute, De Vita et Morte, De Respiratione",Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
TRA IL TRENTESIMO E QUARANTESIMO ANNO,"che la durata della vita umana fosse tra i settanta e gli ottanta anni (ed che quindi il suo culmine fosse tra i trentacinque ed i quaranta) era dottrina comune (la troviamo anche nella <i>Composizione del mondo colle sue cascioni</i> di Ristoro d'Arezzo, I.22, p. 36). Dante poteva leggerla sia in Averroè che in Alberto Magno (entrambi poi attribuivano questa opinione ai medici).","I.22, p. 36",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/La_composizione_del_mondo,La composizione del mondo colle sue cascioni,Restoro d'Arezzo,http://it.dbpedia.org/resource/Restoro_d'Arezzo,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
NON ERA CONVENEVOLE ...,"'non era degno di Dio rimanere in una situazione di deperimento, di decadenza fisica'. Cfr. Tommaso, <i>Summa Theologiae</i> III, q. 46, a. 9, <i>ad quartum</i>: ""Christus in iuvenili aetate pati voluit ... quando erat in perfectissimo statu ... quia non conveniebat ut in eo appareret naturae diminutio"".","III, q. 46, a. 9, ad quartum: Christus in iuvenili aetate pati voluit ... quando erat in perfectissimo statu ... quia non conveniebat ut in eo appareret naturae diminutio""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_Theologica,Summa Theologiae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
ONDE DICE LUCA,"gli altri vangeli sinottici danno come ora di morte di Cristo l'ora nona, cioè circa le tre pomeridiane (cfr. <i>Mt</i> 27, 46; <i>Mc</i> 15, 34). Luca è meno preciso: anch'egli parla di tenebre che coprirono la terra dall'ora sesta all'ora nona, ma non dice esplicitamente che Cristo sia spirato al termine di questo fenomeno miracoloso (cfr. <i>Lc</i> 23, 44 -46 : Erat autem fere hora sexta et tenebrae factae sunt in universam terram usque in horam nonam ... et clamans voce magna Iesus ait: Pater in manus tuas commendo spiritum meum. Et haec dicens expiravit""). Il testo poteva essere interpretato da Dante a favore della sua tesi: che cioè il Salvatore, come era morto nel culmine del giorno (l'ora sesta corrisponde infatti circa a mezzogiorno) così era vissuto fino al culmine della vita.","c 23, 44 -46 : Erat autem fere hora sexta et tenebrae factae sunt in universam terram usque in horam nonam ... et clamans voce magna Iesus ait: Pater in manus tuas commendo spiritum meum. Et haec dicens expiravit""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Luke,Vangelo di Luca,Luca,http://dbpedia.org/resource/Luke_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
ONDE DICE LUCA,"gli altri vangeli sinottici danno come ora di morte di Cristo l'ora nona, cioè circa le tre pomeridiane (cfr. <i>Mt</i> 27, 46; <i>Mc</i> 15, 34). Luca è meno preciso: anch'egli parla di tenebre che coprirono la terra dall'ora sesta all'ora nona, ma non dice esplicitamente che Cristo sia spirato al termine di questo fenomeno miracoloso (cfr. <i>Lc</i> 23, 44 -46 : Erat autem fere hora sexta et tenebrae factae sunt in universam terram usque in horam nonam ... et clamans voce magna Iesus ait: Pater in manus tuas commendo spiritum meum. Et haec dicens expiravit""). Il testo poteva essere interpretato da Dante a favore della sua tesi: che cioè il Salvatore, come era morto nel culmine del giorno (l'ora sesta corrisponde infatti circa a mezzogiorno) così era vissuto fino al culmine della vita.","Mt 27, 46",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Matthew,Vangelo di Matteo,Matteo,http://dbpedia.org/resource/Matthew_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
ONDE DICE LUCA,"gli altri vangeli sinottici danno come ora di morte di Cristo l'ora nona, cioè circa le tre pomeridiane (cfr. <i>Mt</i> 27, 46; <i>Mc</i> 15, 34). Luca è meno preciso: anch'egli parla di tenebre che coprirono la terra dall'ora sesta all'ora nona, ma non dice esplicitamente che Cristo sia spirato al termine di questo fenomeno miracoloso (cfr. <i>Lc</i> 23, 44 -46 : Erat autem fere hora sexta et tenebrae factae sunt in universam terram usque in horam nonam ... et clamans voce magna Iesus ait: Pater in manus tuas commendo spiritum meum. Et haec dicens expiravit""). Il testo poteva essere interpretato da Dante a favore della sua tesi: che cioè il Salvatore, come era morto nel culmine del giorno (l'ora sesta corrisponde infatti circa a mezzogiorno) così era vissuto fino al culmine della vita.","Mc 15, 34",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Mark,Vangelo di Marco,Marco,http://dbpedia.org/resource/Mark_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
LE QUATTRO COMBINAZIONI DELLE CONTRARIE QUALITADI,"che le quattro qualità contrarie, caldo, freddo, umido e secco possono dar luogo a quattro combinazioni possibili (caldo umido, caldo secco, freddo umido, freddo secco) era stato detto da Aristotele nel terzo capitolo del secondo libro del <i>De generatione et corruptione</i> (330 a 33 - b 2) :  manifestum quoniam quattuor erunt elementorum coniugationes: calidi et sicci, calidi et humidi et rursus frigidi et humidi et sicci et frigidi"". <i>Translatio Vetus</i>, p. 56, ll. 19-21","nel terzo capitolo del secondo libro del De generatione et corruptione (330 a 33 - b 2) :  manifestum quoniam quattuor erunt elementorum coniugationes: calidi et sicci, calidi et humidi et rursus frigidi et humidi et sicci et frigidi"". Translatio Vetus, p. 56, ll. 19-21""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/On_Generation_and_Corruption,De generatione et corruptione (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
NEL QUARTO DELLA METAURA,"nella parafrasi del quarto libro dei Meteorologici' (sul termine <i>Metaura</i> vedi la nota a <i>Cv</i> II xiii 21-22). Cfr. <i>Meteora</i> IV tr. 1, cap. 13 (in senectute abundat frigiditas cum sicco, et in ultima aetate abundat frigiditas cum humido frigido"" p. 227, ll. 17-19) e Nardi, 1967, p. 125, nota 55).","Meteora IV tr. 1, cap. 13 (in senectute abundat frigiditas cum sicco, et in ultima aetate abundat frigiditas cum humido frigido"" p. 227, ll. 17-19)",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Meteorology_(Aristotle),Meteorologica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
NEL QUARTO DELLA METAURA,"nella parafrasi del quarto libro dei Meteorologici' (sul termine <i>Metaura</i> vedi la nota a <i>Cv</i> II xiii 21-22). Cfr. <i>Meteora</i> IV tr. 1, cap. 13 (in senectute abundat frigiditas cum sicco, et in ultima aetate abundat frigiditas cum humido frigido"" p. 227, ll. 17-19) e Nardi, 1967, p. 125, nota 55).",nella parafrasi del quarto libro dei Meteorologici,CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Meteororum(Alberto_Magno),Meteororum,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
NEL SECONDO DEL METAMORFOSEOS,"nel secondo libro delle <i>Metamorfosi</i>'. In realtà il testo non trova una corrispondenza precisa in Ovidio, né per quanto riguarda  i nomi (in luogo di <i>Filogeo</i> Ovidio ha <i>Phlegon</i>) né per quanto riguarda il loro ordine (<i>Pyrois</i> in Ovidio viene prima di <i>Eous</i>. Cfr. <i>Metamorfosi</i> II 153-155) Il collegamento tra i quattro cavalli e le quattro parti del giorno, assente nelle <i>Metamorfosi</i>, è stato operato dai più tardi mitografi, p.e. da Fulgenzio (cfr. <i>Mythologiarum</i> <i>libri</i> I 12, p. 23) dove peraltro i nomi dei cavalli, <i>Erythraeus</i>, <i>Acteon</i>, <i>Lampus</i>, <i>Filogeus</i> e il loro ordine non corrispondono pienamente né a Ovidio né al testo del <i>Convivio</i>. Un dizionario sicuramente conosciuto da Dante, le <i>Derivationes</i> di Uguccione, presenta maggiori corrispondenze: Primus dicitur Acteus vel <i>Eous</i>, idest rubens; eos enim est aurora vel oriens; secundus dicitur Ericteus vel Pirous, id est splendens, a pir quod est ignis; tertius <i>Lampus</i> vel <i>Phlegon</i>, id est fervens a fos quod est ignis; quartus Ethon, id est tepens, vel Philogeus, idest amans terram, a philos quod est amor, et ge quod est terra, quia tunc tendit ad occasum"" (s. v. <i>Bis</i>, B 65, 7, p. 127). Ma è probabile che Dante usasse un testo di Ovidio corredato di glosse, come quelle citate da Fausto Ghisalberti (Ghisalberti¹ 1934).","I 12, p. 23",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Mythologiarum_libri,Mythologiarum libri,Fulgenzio,http://dbpedia.org/resource/Fabius_Planciades_Fulgentius,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/poesia_allegorica,WORK
NEL SECONDO DEL METAMORFOSEOS,"nel secondo libro delle <i>Metamorfosi</i>'. In realtà il testo non trova una corrispondenza precisa in Ovidio, né per quanto riguarda  i nomi (in luogo di <i>Filogeo</i> Ovidio ha <i>Phlegon</i>) né per quanto riguarda il loro ordine (<i>Pyrois</i> in Ovidio viene prima di <i>Eous</i>. Cfr. <i>Metamorfosi</i> II 153-155) Il collegamento tra i quattro cavalli e le quattro parti del giorno, assente nelle <i>Metamorfosi</i>, è stato operato dai più tardi mitografi, p.e. da Fulgenzio (cfr. <i>Mythologiarum</i> <i>libri</i> I 12, p. 23) dove peraltro i nomi dei cavalli, <i>Erythraeus</i>, <i>Acteon</i>, <i>Lampus</i>, <i>Filogeus</i> e il loro ordine non corrispondono pienamente né a Ovidio né al testo del <i>Convivio</i>. Un dizionario sicuramente conosciuto da Dante, le <i>Derivationes</i> di Uguccione, presenta maggiori corrispondenze: Primus dicitur Acteus vel <i>Eous</i>, idest rubens; eos enim est aurora vel oriens; secundus dicitur Ericteus vel Pirous, id est splendens, a pir quod est ignis; tertius <i>Lampus</i> vel <i>Phlegon</i>, id est fervens a fos quod est ignis; quartus Ethon, id est tepens, vel Philogeus, idest amans terram, a philos quod est amor, et ge quod est terra, quia tunc tendit ad occasum"" (s. v. <i>Bis</i>, B 65, 7, p. 127). Ma è probabile che Dante usasse un testo di Ovidio corredato di glosse, come quelle citate da Fausto Ghisalberti (Ghisalberti¹ 1934).","Primus dicitur Acteus vel Eous, idest rubens; eos enim est aurora vel oriens; secundus dicitur Ericteus vel Pirous, id est splendens, a pir quod est ignis; tertius Lampus vel Phlegon, id est fervens a fos quod est ignis; quartus Ethon, id est tepens, vel Philogeus, idest amans terram, a philos quod est amor, et ge quod est terra, quia tunc tendit ad occasum"" (s. v. Bis, B 65, 7, p. 127)""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Derivationes_Magnae,Derivationes Magnae,Uguccione da Pisa,http://dbpedia.org/resource/Huguccio,http://purl.org/bncf/tid/9228,WORK
ADOLESCENZIA...,"le due etimologie, di <i>adolescentia</i> da <i>adolere</i> (""id est crescere""), <i>iuvenis</i> da <i>iuvare</i> (""quia adiuvare posse incipit"") si trovano nelle <i>Derivationes</i> di Uguccione da Pisa (s.v. <i>Oleo, Iuvo</i>, O 18, 11; I 120, 6, pp. 866, 631).","s.v. Oleo, Iuvo, O 18, 11; I 120, 6, pp. 866, 631",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Derivationes_Magnae,Derivationes Magnae,Uguccione da Pisa,http://dbpedia.org/resource/Huguccio,http://purl.org/bncf/tid/9228,WORK
LA RAGIONE,"il <i>Corpus Juris Civilis</i> (e precisamente <i>Institutiones</i> I, 23).","Institutiones I, 23",CONCORDANZA STRINGENTE,http://live.dbpedia.org/resource/Institutes_of_Justinian,Institutiones,,,http://purl.org/bncf/tid/5750,WORK
PERÒ CHE LO CALDO NATURALE ... E L'UMIDO È INGROSSATO,"come abbiamo già sottolineato la scienza medievale considera la vita come un processo in cui il calore naturale si alimenta dell'umido radicale: nel corso degli anni quest'ultimo, man mano che si consuma, viene rimpiazzato dall'umido nutrimentale, derivante cioè dai processi di digestione del cibo; nella terza età, dunque, l'umido ha cambiato natura ingrossando non quantitativamente, ma solo (pur"") qualitativamente, diventando cioè più viscoso e meno ricco d'aria, dunque meno soggetto ad evaporazione sotto l'azione consumatrice del calore naturale (""meno vaporabile e consumabile""). Tale calore, a sua volta, ha perso parte della sua capacità di agire (""è menomato e puote poco""), quindi consuma meno. Per la concomitanza di questi due fenomeni accade (""avviene"") che la nostra vita possa durare oltre i settanta anni della vecchiaia (la diversa velocità tra il crescere e il decrescere spiega anche la dissimetria tra gli otto mesi e i dieci anni). Se i materiali di questa spiegazione sono tutti presenti, p. e. nel <i>De morte et vita</i> o nel <i>De juventute et senectute</i> di Alberto Magno, e ampiamente citati, ad esempio, dal commento <i>Vasoli</i>, in realtà il loro assemblaggio è operazione originale di Dante: egli infatti non vuole descrivere quest'ultima parte della vita umana, ma dimostrare come e perché sia possibile.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_iuventute_et_senectute(Alberto_Magno),De iuventute et senectute,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
PRIMA,"per la prima volta'. Dante cita, attraverso il <i>De somno et vigilia</i> di Alberto Magno (III, tr. 1, cap. 1, p. 178 ) un episodio presente nel <i>De dogmate Platonis</i> di Apuleio (I, 1, p. 83):: Socrate avrebbe sognato un giovane cigno che dall'altare di Cupido gli volava in grembo per poi innalzarsi verso il cielo cantando dolcemente. Mentre raccontava il sogno agli amici il padre di Platone gli avrebbe presentato il figlio quem ubi Socrates aspexit, ingenium intimum de exteriore conspicatus est faciem"" I, 1-2). Citando la frase di Apuleio Alberto vi inserisce proprio un 'per physionomiam' (""ingenium intimum per physionomiam de exteriore conspicatus est facie"").","III, tr. 1, cap. 1, p. 178",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_somno_et_vigilia(Alberto_Magno),De somno et vigilia,Alberto Magno,http://dbpedia.org/resource/Albertus_Magnus,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
PRIMA,"per la prima volta'. Dante cita, attraverso il <i>De somno et vigilia</i> di Alberto Magno (III, tr. 1, cap. 1, p. 178 ) un episodio presente nel <i>De dogmate Platonis</i> di Apuleio (I, 1, p. 83):: Socrate avrebbe sognato un giovane cigno che dall'altare di Cupido gli volava in grembo per poi innalzarsi verso il cielo cantando dolcemente. Mentre raccontava il sogno agli amici il padre di Platone gli avrebbe presentato il figlio quem ubi Socrates aspexit, ingenium intimum de exteriore conspicatus est faciem"" I, 1-2). Citando la frase di Apuleio Alberto vi inserisce proprio un 'per physionomiam' (""ingenium intimum per physionomiam de exteriore conspicatus est facie"").","I, 1, p. 83",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_dogmate_Platonis(Apuleio),De dogmate Platonis,Apuleio,http://dbpedia.org/resource/Apuleius,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
IN QUELLO DI SENETTUTE,cfr. <i>De senectute</i> v 13.,v 13,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Cato_Maior_de_Senectute,De senectute,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
ALLI OTTANTUNO ANNO,"l'età attribuibile all'umanità di Cristo, se la sua vita naturale non fosse finita prima, è prefigurata da quella di Platone. Probabilmente Dante conosceva anche l' episodio narrato da Seneca e ripreso dallo <i>Speculum Historiale</i>: alcuni magi, presenti ad Atene al momento della morte del filosofo, avendo conosciuto la sua età, lo avevano ritenuto più che un uomo: ottantuno, nove volte nove, è infatti il numero più perfetto (cfr. <i>Epistulae ad Lucilium</i> 58, 30-31, <i>Speculum Historiale</i> IV cap. 6, <i>De obitu Platonis et de discipulis eius</i>, p. 118).",IV cap. 6,CONCORDANZA STRINGENTE,http://it.dbpedia.org/resource/Speculum_historiale,Speculum Historiale,Vincenzo di Beauvais,http://dbpedia.org/resource/Vincent_of_Beauvais,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
ALLI OTTANTUNO ANNO,"l'età attribuibile all'umanità di Cristo, se la sua vita naturale non fosse finita prima, è prefigurata da quella di Platone. Probabilmente Dante conosceva anche l' episodio narrato da Seneca e ripreso dallo <i>Speculum Historiale</i>: alcuni magi, presenti ad Atene al momento della morte del filosofo, avendo conosciuto la sua età, lo avevano ritenuto più che un uomo: ottantuno, nove volte nove, è infatti il numero più perfetto (cfr. <i>Epistulae ad Lucilium</i> 58, 30-31, <i>Speculum Historiale</i> IV cap. 6, <i>De obitu Platonis et de discipulis eius</i>, p. 118).","58, 30-31",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Epistulae_morales_ad_Lucilium,Epistulae morales ad Lucilium,Seneca,http://dbpedia.org/resource/Seneca_the_Younger,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
E TULIO IN CIÒ S'ACCORDA IN QUELLO DI SENETTUTE,"e ciò che dice Cicerone nel <i>De senectute</i> concorda con questo'. In realtà nel testo proposto dai commentatori (<i>De senectute</i> ii 5) si usa sì la metafora della bacca e del frutto maturo, ma essa serve a far accettare il fatto che la vita abbia inevitabilmente un suo termine quod ferendum est molliter sapienti"". Vedi piuttosto il testo del <i>De senectute</i> x 33 che sarà citato letteralmente in <i>Cv</i> IV xxvii 2: ""Cursus est certus etatis et una via naturae, eaque simplex, suaque cuique parti aetatis tempestivitas est data"".",x 33,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Cato_Maior_de_Senectute,De senectute,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
LO FIGURATO CHE ... TIENE VIRGILIO,"Nella sua <i>Expositio vergilianae continentiae secundum philosophos morales</i>, Fulgenzio mette in effetti in scena Virgilio stesso che spiega il significato morale dell'Eneide : ergo sub figuralitate historiae plenum hominis monstravimus statum"" (pp. 89-90). Il poema doveva essere visto come una figura dell'arco della vita umana, scandito in tre tappe: <i>pueritia</i>-<i>natura</i>- libri I-III; <i>juventus</i>-<i>doctrina</i>- III-VII libro; <i>perfectio virilis</i> - <i>felicitas</i>- VIII-XII libro. Questo modello era stato sostanzialmente accolto dai commentatori del XII secolo (vedi Dronke 1992). Anche Dante in <i>Cv</i> IV xxvi ricorrerà ad una interpretazione dell'Eneide come figura della vita umana, ma solo per la <i>juventus</i> ed in modo sostanzialmente autonomo da Fulgenzio, sia nei contenuti, che nello schema generale. Egli dunque effettivamente ""tralascia ... lo figurato che tiene Virgilio"". In ogni caso qui come in Fulgenzio la ""figura"" ha un effettiva consistenza storica, dato che anche per Dante, le peripezie di Enea non sono una semplice invenzione poetica.",pp. 89-90,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Expositio_Virgilianae_continentiae(Fulgenzio),Expositio Virgilianae continentiae,Fulgenzio,http://dbpedia.org/resource/Fabius_Planciades_Fulgentius,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/poesia_allegorica,WORK
EGIDIO EREMITA,"si tratta di Egidio Romano, chiamato eremita"" perché membro dell'ordine agostiniano, detto anche degli eremiti di Sant'Agostino. Abbiamo già avuto modo di citare il suo <i>De regimine principum</i>, non solo diffusissimo anche in ambienti non universitari, ma già tradotto in volgare nel 1288. Nella quarta parte del primo libro il trattato si occupa dei costumi e dei comportamenti propri dell'adolescenza, della vecchiaia e dell'età matura.",,CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_regimine_principum,De regimine principum (Egidio Romano),Egidio Romano,http://dbpedia.org/resource/Giles_of_Rome,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
CHE NON VIENE MENO NELLE COSE NECESSARIE,"che non fallisce nel raggiungimento di ciò che è necessario'. Dante ripete qui un adagio comunissimo nella cultura filosofica del suo tempo, che ha la sua origine nel <i>De anima</i> (cfr. III 9, 432 b 21-23 natura nihil facit frustra, neque deficit in necessariis"").","III 9, 432 b 21-23 natura nihil facit frustra, neque deficit in necessariis",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/On_the_Soul,De anima (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
SÌ CHE SOSTIENE,"in modo da sostenere'. Un richiamo alla vite che con i suoi viticci adminicula tamquam manibus adprehendunt atque ita se erigunt ut animantes"" si ha in Cicerone, <i>De natura deorum</i> II, 47,120. Lo stesso esempio, ma in un contesto completamente diverso (si tratta della necessità di potare per ridurre l'eccessivo rigoglio della pianta) in <i>De senectute</i> xv. 52. In nessuno dei due si parla del frutto.","De natura deorum II, 47,120",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/De_Natura_Deorum,De natura deorum,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
SÌ CHE SOSTIENE,"in modo da sostenere'. Un richiamo alla vite che con i suoi viticci adminicula tamquam manibus adprehendunt atque ita se erigunt ut animantes"" si ha in Cicerone, <i>De natura deorum</i> II, 47,120. Lo stesso esempio, ma in un contesto completamente diverso (si tratta della necessità di potare per ridurre l'eccessivo rigoglio della pianta) in <i>De senectute</i> xv. 52. In nessuno dei due si parla del frutto.",xv. 52,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Cato_Maior_de_Senectute,De senectute,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
"AUDI, FIGLIO MIO ...","cfr. <i>Prv</i> 1, 8  Audi, fili mi, disciplinam patris tui"" (si tratta, in effetti, della prima esortazione rivolta al lettore).","Prv 1, 8  Audi, fili mi, disciplinam patris tui",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Proverbs,Libro dei Proverbi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
NON TI POSSANO QUELLO FARE ... CHE TU VADA CON LORO,"i peccatori non riescano mai a indurti a fare questo, né con promesse né con piacevolezze, cioè che tu vada loro dietro' (intendendo quello"" come prolettico e il ""che"" come dichiarativo). Si tratta di una parafrasi di <i>Prv</i> 1, 10 e 15: ""Fili mi, si te lactaverint peccatores, ne acquiescas eis ... Fili mi, ne ambules cum eis"".","Prv 1, 10 e 15: ""Fili mi, si te lactaverint peccatores, ne acquiescas eis ... Fili mi, ne ambules cum eis""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Proverbs,Libro dei Proverbi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
CHE LA PERSONA DEL PADRE ...,"cfr. <i>Digestum</i>, XXXVII, 15, 9 Liberto et filio semper honesta et sancta persona patris et patroni videri debet"".","Digestum, XXXVII, 15, 9 Liberto et filio semper honesta et sancta persona patris et patroni videri debet""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Digest_(Roman_law),Digesta,Ulpiano,http://dbpedia.org/resource/Ulpian,http://purl.org/bncf/tid/5750,WORK
SARÀ GLORIOSO,"sarà oggetto di glorificazione' (cfr. <i>Prv</i> 13, 18 Qui ... acquiescit arguenti glorificabitur').","Prv 13, 18 Qui ... acquiescit arguenti glorificabitur",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Proverbs,Libro dei Proverbi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
DICE L'APOSTOLO ALLI COLOSSENSI,"cfr <i>Col</i> 3, 20 Filii, obedite parentibus per omnia; hoc enim placitum est in Domino"".",,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Epistle_to_the_Colossians,Epistola ad Colossenses,Paolo,http://dbpedia.org/resource/Paul_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
PERFETTA VITA AVERE SANZA AMICI,"cfr. <i>Eth. Nic</i>. VIII 1, 1155 a 1-6 Post haec autem de amicitia sequitur utique pertransire. Est enim ... maxime necessarium in vitam. Sine amicis enim nullus utique eligeret vivere, habens reliqua bona omnia"". <i>Translatio Grosseteste. Textus purus</i>, p. 298, ll. 5-8.","VIII 1, 1155 a 1-6 Post haec autem de amicitia sequitur utique pertransire. Est enim ... maxime necessarium in vitam. Sine amicis enim nullus utique eligeret vivere, habens reliqua bona omnia"". Translatio Grosseteste. Textus purus, p. 298, ll. 5-8.""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
CORTESEMENTE SERVIRE E OPERARE,"servire"" ha qui il senso di mettere spontaneamente e gratuitamente se stesso e le proprie cose a disposizione di altri, anche se sconosciuti; questo servizio è parte integrante della cortesia. Come aveva detto Salimbene de Adam, mettendo queste parole sulla bocca di un padre guardiano francescano che chiede aiuto per due prelati in fuga: ""Amore Dei ostendite caritatem et curialitatem et faciatis eis servitium et vobis honorem. Nam honos non est eius tantum cui impenditur, sed potius impendentis, et ille vere censendus est curialis, qui libenter et yllariter sine spe retributionis suum servitium incognitis elargitur"". (<i>Chronica</i>, vol. I, p. 575).","""Amore Dei ostendite caritatem et curialitatem et faciatis eis servitium et vobis honorem. Nam honos non est eius tantum cui impenditur, sed potius impendentis, et ille vere censendus est curialis, qui libenter et yllariter sine spe retributionis suum servitium incognitis elargitur"". (Chronica, vol. I, p. 575).""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Cronica(Salimbene_de_Adam),Cronica,Salimbene de Adam,http://dbpedia.org/resource/Salimbene_di_Adam,http://purl.org/bncf/tid/9645,WORK
DICE SALOMONE ...,"cfr. <i>Prv</i> 3, 34 ""Ipse dominus deludet illusores et mansuetis dabit gratiam"".","Prv 3, 34 Ipse dominus deludet illusores et mansuetis dabit gratiam""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Proverbs,Libro dei Proverbi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
E ALTROVE DICE ...,"cfr. <i>Prv</i> 4, 24 ""Remove a te os pravum et detrahentia labia sint procul a te"". Dante, nella traduzione, modifica il testo in funzione delle sue esigenze, sostituendo alle labbra maldicenti (""detrahentia labia"") gli atteggiamenti scortesi (""atti villani"").","Prv 4, 24 Remove a te os pravum et detrahentia labia sint procul a te",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Proverbs,Libro dei Proverbi,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
IN QUANTO ... DI SAPERE DI QUELLE,"come già in <i>Cv</i> II xv 11 il riferimento è alla <i>Metafisica</i> aristotelica dove la meraviglia (<i>admiratio</i>) è lo stimolo iniziale al filosofare. Come fa peraltro notare <i>Busnelli</i> nel suo commento Tommaso aveva nettamente distinto tra <i>admiratio</i> e <i>stupor</i>, osservando che mentre chi si meraviglia è spinto ad indagare, chi rimane stupefatto vi rinuncia. Dunque lo stupore risulta piuttosto un philosophicae considerationis impedimentum"" (cfr. <i>Summa Theologiae</i>, Ia- IIae, q. 41, a. 4, ad 5m).",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Metaphysics_(Aristotle),Metaphysica (Aristotele),Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
IN QUANTO ... DI SAPERE DI QUELLE,"come già in <i>Cv</i> II xv 11 il riferimento è alla <i>Metafisica</i> aristotelica dove la meraviglia (<i>admiratio</i>) è lo stimolo iniziale al filosofare. Come fa peraltro notare <i>Busnelli</i> nel suo commento Tommaso aveva nettamente distinto tra <i>admiratio</i> e <i>stupor</i>, osservando che mentre chi si meraviglia è spinto ad indagare, chi rimane stupefatto vi rinuncia. Dunque lo stupore risulta piuttosto un philosophicae considerationis impedimentum"" (cfr. <i>Summa Theologiae</i>, Ia- IIae, q. 41, a. 4, ad 5m).","Ia- IIae, q. 41, a. 4, ad 5m",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_Theologica,Summa Theologiae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
D'ARTIFICIO,"artisticamente elaborati'. Il commento <i>Busnelli</i> rimanda ad <i>Eneide</i> I 494-5 dove Enea a Cartagine, prima di incontrare Didone, ammira stupefatto, nel tempio di Giunone, le pitture riproducenti episodi della guerra di Troia. Più calzante mi sembra un richiamo al passo delLa composizione del mondo colle sue cascioni dove Ristoro parla de li savi artefici che fano la nobilissima operazione musaica, a adornare e a storiare le pareti e li pavimenti de li grandi imperatori e de li re"" con ""pezzoli de vetro endeorati"" e nota come ""gli altissimi maiestri entalliatori antichi ... per sutilità e per gli atti facieno smarrire e quasi uscire di sé li conoscitori"" (I vii 9; II i 1, pp. 11, 49). Una disposizione degli interni particolarmente fastosa, ricca di ornamenti preziosi e automi meccanici era stata effettivamente utilizzata dagli imperatori bizantini per stupire diplomatici ed invitati stranieri, come nel caso di Liutprando da Cremona (cfr. Liudprandi Cremonensis, <i>Antapodosis</i> VI 5, ed. Chiesa, p. 147).","I vii 9; II i 1, pp. 11, 49",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/La_composizione_del_mondo,La composizione del mondo colle sue cascioni,Restoro d'Arezzo,http://it.dbpedia.org/resource/Restoro_d'Arezzo,http://purl.org/bncf/tid/9214,WORK
"STAZIO, LO DOLCE POETA","sulla dolcezza dei versi di Stazio cfr. <i>Pg</i> XXI 88-9 Tanto fu dolce mio vocale spirto / che, tolosano, a sé mi trasse Roma"". Della dolcezza della poesia di Stazio, proprio in relazione alla <i>Tebaide</i>, aveva parlato Giovenale nella settima <i>Satira</i>, ai versi 82-5.","settima Satira, ai versi 82-5",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Satires_(Juvenal),Satire (Giovenale),Giovenale,http://dbpedia.org/resource/Juvenal,http://purl.org/bncf/tid/34535,WORK
"QUASI COME SICURI, SI TENNERO","'si mantennero fissi, come per mantenersi al sicuro'. Cfr. <i>Tebaide</i> I 536-9.",I 536-9,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Thebaid_(Latin_poem),Thebais,Stazio,http://dbpedia.org/resource/Statius,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
"NULLO ATTO È LAIDO, CHE NON SIA LAIDO QUELLO NOMINARE","nel caso di qualsiasi azione turpe è turpe anche il solo parlarne. Come convincentemente dimostra Marchesi contro l'opinione comune dei commentatori il testo di riferimento non è il <i>Trésor</i>, ma proprio il <i>De officiis</i> di Cicerone I, 35, 127, quodque facere non turpe est, modo occulte, id dicere obscaenum est"" (Marchesi 2001, pp. 98-99).","I, 35, 127, quodque facere non turpe est, modo occulte, id dicere obscaenum est",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/De_Officiis,De officiis,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
IN QUELLA MEDESIMA PARTE,"sempre nello stesso episodio della <i>Tebaide</i>' (cfr. I, 671 sgg.).","I, 671 sgg.",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Thebaid_(Latin_poem),Thebais,Stazio,http://dbpedia.org/resource/Statius,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
DUBITÒ PRIMA DI DICERE,"inizialmente esitò a rispondere' (cfr. <i>Tebaide</i> I, 671-678 Tu pande quis Argos advenias ... / Deiecit maestos extemplo Ismenius heros / in terram vultus ... / Tum longa silentia movit... / unde genus, quae terra mihi, quis defluat ordo / sanguinis antiqui piget inter sacra fateri"".","Tebaide I, 671-678 Tu pande quis Argos advenias ... / Deiecit maestos extemplo Ismenius heros / in terram vultus ... / Tum longa silentia movit... / unde genus, quae terra mihi, quis defluat ordo / sanguinis antiqui piget inter sacra fateri""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Thebaid_(Latin_poem),Thebais,Stazio,http://dbpedia.org/resource/Statius,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
LA MADRE,"'Giocasta' (cfr. <i>Tebaide</i> I 679-681 Sed si praecipitant miserum cognoscere curae / Cadmus origo patrum, tellus Mavortia Thebae / et genetrix Jocasta mihi"").","I 679-681 Sed si praecipitant miserum cognoscere curae / Cadmus origo patrum, tellus Mavortia Thebae / et genetrix Jocasta mihi",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Thebaid_(Latin_poem),Thebais,Stazio,http://dbpedia.org/resource/Statius,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
UNO COLORE DOLCE A RIGUARDARE,"sul ruolo del colore"" nella valutazione della bellezza cfr. il <i>De civitate Dei</i> di Agostino (XXII 19, p. 838) ""Omnis ... corporis pulchritudo est partium congruentia cum quadam coloris suavitate"", ripreso da Tommaso nella <i>Summa Theologiae</i> (IIa IIae, q. 145, a. 2) ""pulchritudo corporis in hoc consistit, quod homo habeat membra corporis bene proportionata cum quadam debiti coloris claritate"" (cfr. <i>Cv</i> I v 13).","IIa IIae, q. 145, a. 2",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_Theologica,Summa Theologiae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
CACCIARE E FUGGIRE,"cercare (ciò che appare bene) ed evitare (ciò che appare male)'. I termini <i>prosecutio</i> e <i>fuga</i> erano presenti nella traduzione latina dell' <i>Etica Nicomachea</i> proprio per indicare i due atteggiamenti fondamentali del desiderio. (VI 2, 1139 a 21-22).","VI 2, 1139 a 21-22",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
CHE IRASCIBILE E CONCUPISCIBILE SI CHIAMA,"questa distinzione interna alla facoltà del desiderio non è in sé aristotelica; risalente alla psicologia platonica della <i>Repubblica</i> e pervenuta al medioevo latino tramite fonti secondarie è stata utilizzata dai teologi molto prima della conoscenza dell' <i>Etica Nicomachea</i>. Tommaso la fa propria in questi termini: ""Necesse est quod in parte sensitiva sint duo appetitivae potentiae: una per quam anima simpliciter inclinatur ad prosequendum ea quae sunt convenientia secundum sensum et ad refugiendum nociva, et haec dicitur concupiscibilis; alia vero per quam animal resistit impugnantibus, quae convenientia impugnant et nocumenta inferunt, et haec vocatur irascibilis (<i>Summa Theologiae</i>, I, q. 81, a. 2).","I, q. 81, a. 2",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_Theologica,Summa Theologiae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
ALLA RAGIONE OBEDIRE CONVIENE,"'è bene che obbedisca alla ragione'. Aristotele parla del desiderio come di un qualcosa che, a differenza della facoltà nutritiva, è capace di dare ascolto e di obbedire alla ragione (cfr. <i>Eth. Nic</i>. I 13, 1102 a 27 sgg.).","I 13, 1102 a 27 sgg.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
È DA ... PUNGARE,"'bisogna combattere' (""pungare"": pugnare). L'idea di combattimento è effettivamente collegata a quella della 'vis irascibilis'. Come dice ancora Tommaso, essa deve vincere tutto ciò che ostacola la ricerca della 'vis concupiscibilis', sia quando questo ""convenientibus impedimentum praebet"", che quando ""nocumenta ingerit"" (cfr. <i>Summa Theologiae</i>, cit.). In questa presentazione delle virtù proprie della giovinezza Dante identifica fortezza con magnanimità, virtù che nell'elenco di <i>Cv</i> IV 17 erano state correttamente distinte.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Summa_Theologica,Summa Theologiae,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
PARTE DELLO ENEIDA OVE QUESTA ETADE SI FIGURA,"'in quella sezione dell'Eneide che sta a significare la <i>juventus</i>'. Anche nell' interpretazione di Fulgenzio i libri quarto, quinto e sesto corrispondono alla <i>juventus</i>, ma il nome è equivoco: nella <i>Vergiliana continentia</i> essa corrisponde piuttosto alla <i>adolescentia</i> dello schema dantesco. In ogni modo qui Dante torna a quel figurato che di questo diverso processo dell'etadi tiene Virgilio nello Eneida"" prima escluso in <i>Cv</i> IV xxiv 9.",,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Aeneid,Aeneis,Virgilio,http://dbpedia.org/resource/Virgil,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
PARTE DELLO ENEIDA OVE QUESTA ETADE SI FIGURA,"'in quella sezione dell'Eneide che sta a significare la <i>juventus</i>'. Anche nell' interpretazione di Fulgenzio i libri quarto, quinto e sesto corrispondono alla <i>juventus</i>, ma il nome è equivoco: nella <i>Vergiliana continentia</i> essa corrisponde piuttosto alla <i>adolescentia</i> dello schema dantesco. In ogni modo qui Dante torna a quel figurato che di questo diverso processo dell'etadi tiene Virgilio nello Eneida"" prima escluso in <i>Cv</i> IV xxiv 9.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_vergiliana_continentia(Fulgenzio),De vergiliana continentia,Fulgenzio,http://dbpedia.org/resource/Fabius_Planciades_Fulgentius,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/poesia_allegorica,WORK
SOLO CON SIBILLA ... NELLO INFERNO... COME NEL SESTO ... SI DIMOSTRA,"cfr. <i>Eneide</i> VI 98 sgg. Anche questa interpretazione di Dante si discosta da quella di Fulgenzio che nella discesa all'Ade di Enea vede la figura non della Fortezza, ma della iniziazione ai segreti della sapienza.",Eneide VI 98 sgg.,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Aeneid,Aeneis,Virgilio,http://dbpedia.org/resource/Virgil,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
SOSTENUTO,"aiutato'. Cfr. gli <i>Economici</i> pseudoaristotelici I 2, 1343 b 20-23.","I 2, 1343 b 20-23",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Economico,Economico,Aristotele (ps.),http://dbpedia.org/resource/Pseudo-Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
ARMEGGIANDO,"esercitandosi nelle armi' (il termine è tipico delle giostre e dei tornei). Per l'episodio in cui Enea, dopo l' incendio di gran parte delle navi (provocato su istigazione di Giunone da parte delle stesse donne troiane) decide di lasciare in Sicilia, sotto la protezione di Aceste, le donne e i vecchi, cfr. <i>Eneide</i> V  604 sgg.  Per gli armeggiamenti"" dei giovinetti troiani capeggiati da Ascanio a conclusione dei giochi funebri in onore di Anchise, vedi ivi, 545-603. Anche in questi casi l'interpretazione figurale si distacca dal modello di Fulgenzio e sembra creazione originale di Dante.",V 604 sgg.,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Aeneid,Aeneis,Virgilio,http://dbpedia.org/resource/Virgil,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
NEL SESTO SOPRA DETTO,cfr. <i>Eneide</i> VI 183 sgg.,Eneide VI 183 sgg.,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Aeneid,Aeneis,Virgilio,http://dbpedia.org/resource/Virgil,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
ENEA REGE,"l'appellativo di <i>rex</i> viene dato ad Enea nel discorso di Ilioneo a Didone. Cfr. <i>Eneide</i> I 544-5, versi citati anche in <i>Mn</i> II iii 8.",Eneide I 544-5,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Aeneid,Aeneis,Virgilio,http://dbpedia.org/resource/Virgil,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
NEL PREDETTO QUINTO LIBRO,cfr. <i>Eneide</i> V 42 sgg.,V 42 sgg.,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Aeneid,Aeneis,Virgilio,http://dbpedia.org/resource/Virgil,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
IN QUELLO DI SENETTUTE,"cfr. <i>De senectute</i> x 33 Cursus est certus etatis et una via naturae, eaque simplex, suaque cuique parti aetatis tempestivitas est data"".","x 33 Cursus est certus etatis et una via naturae, eaque simplex, suaque cuique parti aetatis tempestivitas est data",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Cato_Maior_de_Senectute,De senectute,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
COME ARISTOTILE DICE,"la definizione dell'uomo come 'animal civile' (<i>civile</i> è la traduzione del greco <i>politikón</i>) è presente in <i>Politica</i> I 2, 1253 a 3, ma Dante avrebbe potuta leggerla sia in florilegi come le <i>Auctoritates Aristotilis</i> (p. 252, n. 3) sia soprattutto in un testo a lui sicuramente noto come il commento di Tommaso all'<i>Etica Nicomachea</i> dove l'Aquinate la collegava al  dovere di giovare non solo a se stessi, ma anche agli altri (I, <i>lectio</i> 9, n. 112 quia homo est animal civile ... ideo non sufficit suo desiderio quod sibi provideat, sed etiam quod possit aliis providere"" ).","I 2, 1253 a 3",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Politics_(Aristotle),Politica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
COME ARISTOTILE DICE,"la definizione dell'uomo come 'animal civile' (<i>civile</i> è la traduzione del greco <i>politikón</i>) è presente in <i>Politica</i> I 2, 1253 a 3, ma Dante avrebbe potuta leggerla sia in florilegi come le <i>Auctoritates Aristotilis</i> (p. 252, n. 3) sia soprattutto in un testo a lui sicuramente noto come il commento di Tommaso all'<i>Etica Nicomachea</i> dove l'Aquinate la collegava al  dovere di giovare non solo a se stessi, ma anche agli altri (I, <i>lectio</i> 9, n. 112 quia homo est animal civile ... ideo non sufficit suo desiderio quod sibi provideat, sed etiam quod possit aliis providere"" ).","p. 252, n. 3",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Auctoritates_Aristotelis,Auctoritates Aristotelis,Johannes de Fonte,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Johannes_de_Fonte,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
COME ARISTOTILE DICE,"la definizione dell'uomo come 'animal civile' (<i>civile</i> è la traduzione del greco <i>politikón</i>) è presente in <i>Politica</i> I 2, 1253 a 3, ma Dante avrebbe potuta leggerla sia in florilegi come le <i>Auctoritates Aristotilis</i> (p. 252, n. 3) sia soprattutto in un testo a lui sicuramente noto come il commento di Tommaso all'<i>Etica Nicomachea</i> dove l'Aquinate la collegava al  dovere di giovare non solo a se stessi, ma anche agli altri (I, <i>lectio</i> 9, n. 112 quia homo est animal civile ... ideo non sufficit suo desiderio quod sibi provideat, sed etiam quod possit aliis providere"" ).","I, lectio 9, n. 112 quia homo est animal civile ... ideo non sufficit suo desiderio quod sibi provideat, sed etiam quod possit aliis providere",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
NATO ESSER CREDEA,"riteneva di esser nato per il bene di' (Dante riassume qui i versi 380-383 del secondo libro della <i>Farsaglia</i> di Lucano dove Catone impersona in qualche modo i principi morali dello Stoicismo:  ... hi mores, haec dura inmota Catonis / secta fuit, servare modum finemque tenere / naturamque sequi patriaeque inpendere vitam / nec sibi sed toti genitum se credere mundo"").",versi 380-383 del secondo libro della Farsaglia,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Pharsalia,Pharsalia,Lucano,http://dbpedia.org/resource/Lucan,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
NEL TERZO LIBRO DELLI REGI,"nel terzo libro dei Re' (nell'ordinamento attuale dei libri biblici si tratta del primo) Salomone, appena diventato re, chiede a Dio ed ottiene il dono di saper discernere il bene dal male, cioè la saggezza (cfr. <i>Rg</i> I, 3, 4 sgg.)","Rg I, 3, 4 sgg.",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Books_of_Kings,Libri dei Re,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
COME DICE NOSTRO SIGNORE,"cfr. <i>Mt</i> 10, 8 Gratis accepistis, gratis date"".","Mt 10, 8 Gratis accepistis, gratis date",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Matthew,Vangelo di Matteo,Matteo,http://dbpedia.org/resource/Matthew_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
SINGULARE,"del tutto particolare'. La giustizia, infatti, come dice l' <i>Etica Nicomachea</i> (V 1, 1130 a 8-9), è virtù perfetta che in qualche modo comprende tutte le altre. Cfr. <i>Cv</i> IV xvii 4-6.","V 1, 1130 a 8-9",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
FU DETTO SENATO,"dal latino <i>senex</i>, vecchio (l'etimologia già in Cicerone, <i>De senectute</i> vi 19).",vi 19,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Cato_Maior_de_Senectute,De senectute,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
LA LARGHEZZA VUOLE ESSERE ...,"bisogna donare tenendo conto delle circostanze'. Che la virtù della <i>liberalitas</i> consista nel donare non in maniera indiscriminata, ma tenendo conto delle persone a cui si dona, del tempo e del modo in cui si dona era stato detto appunto da Aristotele (cfr. <i>Eth. Nic.</i> IV 2, 1120 a 23-26) e da Cicerone (cfr. <i>De officiis</i> I, 14, 42-44 ).","Eth. Nic. IV 2, 1120 a 23-26",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
LA LARGHEZZA VUOLE ESSERE ...,"bisogna donare tenendo conto delle circostanze'. Che la virtù della <i>liberalitas</i> consista nel donare non in maniera indiscriminata, ma tenendo conto delle persone a cui si dona, del tempo e del modo in cui si dona era stato detto appunto da Aristotele (cfr. <i>Eth. Nic.</i> IV 2, 1120 a 23-26) e da Cicerone (cfr. <i>De officiis</i> I, 14, 42-44 ).","I, 14, 42-44",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/De_Officiis,De officiis,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
PER VIA NATURALE,"secondo le regole della natura' (regole che in alcuni casi particolari possono anche esser modificate da un intervento divino; ad esempio Gesù è stato sicuramente saggio e giusto anche nella sua adolescenza e nella sua giovinezza). Facendo della <i>liberalitas</i> un segno della nobiltà cosi come si manifesta nella terza età della vita, Dante contrappone la vecchiaia dell'uomo nobile a quella comunemente descritta dalla pubblicistica del suo tempo. Che la vecchiaia fosse caratterizzata dall'avarizia (mentre dei giovani è propria la larghezza"") era infatti convinzione della cultura delle scuole che aveva alle spalle quanto detto da Aristotele nell' <i>Etica Nicomachea</i> (IV, 1, 1121 b 13-14) e nella <i>Retorica</i> (II, 13, 1389 b 27-29): sia Tommaso che Egidio Romano avevano ripetuto ed ampliato queste notazioni (cfr. il commento di Tommaso all' <i>Etica</i> IV, <i>lectio</i> 4, n. 687 e il <i>De regimine principum</i> I iv 3 <i>Qui mores senum sunt vituperabiles</i>, pp. 195-199 ). Per un'analoga caratterizzazione in Boncompagno da Signa vedi nota a <i>Cv</i> IV xxvii 16).","IV, 1, 1121 b 13-14",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PER VIA NATURALE,"secondo le regole della natura' (regole che in alcuni casi particolari possono anche esser modificate da un intervento divino; ad esempio Gesù è stato sicuramente saggio e giusto anche nella sua adolescenza e nella sua giovinezza). Facendo della <i>liberalitas</i> un segno della nobiltà cosi come si manifesta nella terza età della vita, Dante contrappone la vecchiaia dell'uomo nobile a quella comunemente descritta dalla pubblicistica del suo tempo. Che la vecchiaia fosse caratterizzata dall'avarizia (mentre dei giovani è propria la larghezza"") era infatti convinzione della cultura delle scuole che aveva alle spalle quanto detto da Aristotele nell' <i>Etica Nicomachea</i> (IV, 1, 1121 b 13-14) e nella <i>Retorica</i> (II, 13, 1389 b 27-29): sia Tommaso che Egidio Romano avevano ripetuto ed ampliato queste notazioni (cfr. il commento di Tommaso all' <i>Etica</i> IV, <i>lectio</i> 4, n. 687 e il <i>De regimine principum</i> I iv 3 <i>Qui mores senum sunt vituperabiles</i>, pp. 195-199 ). Per un'analoga caratterizzazione in Boncompagno da Signa vedi nota a <i>Cv</i> IV xxvii 16).","II, 13, 1389 b 27-29",CONCORDANZA STRINGENTE,http://it.dbpedia.org/resource/Retorica_(Aristotele),Rhetorica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
PER VIA NATURALE,"secondo le regole della natura' (regole che in alcuni casi particolari possono anche esser modificate da un intervento divino; ad esempio Gesù è stato sicuramente saggio e giusto anche nella sua adolescenza e nella sua giovinezza). Facendo della <i>liberalitas</i> un segno della nobiltà cosi come si manifesta nella terza età della vita, Dante contrappone la vecchiaia dell'uomo nobile a quella comunemente descritta dalla pubblicistica del suo tempo. Che la vecchiaia fosse caratterizzata dall'avarizia (mentre dei giovani è propria la larghezza"") era infatti convinzione della cultura delle scuole che aveva alle spalle quanto detto da Aristotele nell' <i>Etica Nicomachea</i> (IV, 1, 1121 b 13-14) e nella <i>Retorica</i> (II, 13, 1389 b 27-29): sia Tommaso che Egidio Romano avevano ripetuto ed ampliato queste notazioni (cfr. il commento di Tommaso all' <i>Etica</i> IV, <i>lectio</i> 4, n. 687 e il <i>De regimine principum</i> I iv 3 <i>Qui mores senum sunt vituperabiles</i>, pp. 195-199 ). Per un'analoga caratterizzazione in Boncompagno da Signa vedi nota a <i>Cv</i> IV xxvii 16).","IV, lectio 4, n. 687",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_libri_Ethicorum(Tommaso),Sententia libri Ethicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
PER VIA NATURALE,"secondo le regole della natura' (regole che in alcuni casi particolari possono anche esser modificate da un intervento divino; ad esempio Gesù è stato sicuramente saggio e giusto anche nella sua adolescenza e nella sua giovinezza). Facendo della <i>liberalitas</i> un segno della nobiltà cosi come si manifesta nella terza età della vita, Dante contrappone la vecchiaia dell'uomo nobile a quella comunemente descritta dalla pubblicistica del suo tempo. Che la vecchiaia fosse caratterizzata dall'avarizia (mentre dei giovani è propria la larghezza"") era infatti convinzione della cultura delle scuole che aveva alle spalle quanto detto da Aristotele nell' <i>Etica Nicomachea</i> (IV, 1, 1121 b 13-14) e nella <i>Retorica</i> (II, 13, 1389 b 27-29): sia Tommaso che Egidio Romano avevano ripetuto ed ampliato queste notazioni (cfr. il commento di Tommaso all' <i>Etica</i> IV, <i>lectio</i> 4, n. 687 e il <i>De regimine principum</i> I iv 3 <i>Qui mores senum sunt vituperabiles</i>, pp. 195-199 ). Per un'analoga caratterizzazione in Boncompagno da Signa vedi nota a <i>Cv</i> IV xxvii 16).","I iv 3 Qui mores senum sunt vituperabiles, pp. 195-199",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_regimine_principum,De regimine principum (Egidio Romano),Egidio Romano,http://dbpedia.org/resource/Giles_of_Rome,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
CON LI SEGNI ECCLESIASTICI ANCORA,"senza nemmeno aver tolto quei segni (croci o monogrammi ricamati) che la fanno riconoscere come oggetto di chiesa'. Che non è veramente liberale chi dà prendendo non dal proprio patrimonio ma da quello degli altri era stato affermato in <i>Eth. Nic</i>. IV 1, 1120 a 30 - b 5 e nel medesimo contesto Aristotele aveva parlato di tiranni che traggono dal saccheggio delle città e dei templi le ricchezze che serviranno alle loro messioni"". Ma quello che nel filosofo greco è una descrizione tranquillamente oggettiva diventa in Dante una dura condanna. L' invettiva è chiaramente modellata sui 'guai a voi' biblici: cfr. <i>Is</i>, 10, 30 e 31; <i>Am</i>, 6, ma soprattutto <i>Mt</i> 23, 14 sgg. Per i tiranni, poi, non è da escludere che, oltre ai signori cittadini (per cui <i>Cv</i> IV vi 20 e nota al testo) essi comprendano anche membri della aristocrazia feudale, dagli Este ai Pazzi (cfr. <i>If</i> XII 109-111,137). In ogni caso, sono i rappresentanti di una situazione dove i giusti rapporti politici sono sconvolti e chi dovrebbe esercitare il potere entro un sistema gerarchico ed armonioso di regole si comporta ormai come un ladro di strada.","IV 1, 1120 a 30 - b 5",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Nicomachean_Ethics,Ethica Nicomachea,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
CON LI SEGNI ECCLESIASTICI ANCORA,"senza nemmeno aver tolto quei segni (croci o monogrammi ricamati) che la fanno riconoscere come oggetto di chiesa'. Che non è veramente liberale chi dà prendendo non dal proprio patrimonio ma da quello degli altri era stato affermato in <i>Eth. Nic</i>. IV 1, 1120 a 30 - b 5 e nel medesimo contesto Aristotele aveva parlato di tiranni che traggono dal saccheggio delle città e dei templi le ricchezze che serviranno alle loro messioni"". Ma quello che nel filosofo greco è una descrizione tranquillamente oggettiva diventa in Dante una dura condanna. L' invettiva è chiaramente modellata sui 'guai a voi' biblici: cfr. <i>Is</i>, 10, 30 e 31; <i>Am</i>, 6, ma soprattutto <i>Mt</i> 23, 14 sgg. Per i tiranni, poi, non è da escludere che, oltre ai signori cittadini (per cui <i>Cv</i> IV vi 20 e nota al testo) essi comprendano anche membri della aristocrazia feudale, dagli Este ai Pazzi (cfr. <i>If</i> XII 109-111,137). In ogni caso, sono i rappresentanti di una situazione dove i giusti rapporti politici sono sconvolti e chi dovrebbe esercitare il potere entro un sistema gerarchico ed armonioso di regole si comporta ormai come un ladro di strada.","10, 30 e 31",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Isaiah,Libro di Isaia,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
CON LI SEGNI ECCLESIASTICI ANCORA,"senza nemmeno aver tolto quei segni (croci o monogrammi ricamati) che la fanno riconoscere come oggetto di chiesa'. Che non è veramente liberale chi dà prendendo non dal proprio patrimonio ma da quello degli altri era stato affermato in <i>Eth. Nic</i>. IV 1, 1120 a 30 - b 5 e nel medesimo contesto Aristotele aveva parlato di tiranni che traggono dal saccheggio delle città e dei templi le ricchezze che serviranno alle loro messioni"". Ma quello che nel filosofo greco è una descrizione tranquillamente oggettiva diventa in Dante una dura condanna. L' invettiva è chiaramente modellata sui 'guai a voi' biblici: cfr. <i>Is</i>, 10, 30 e 31; <i>Am</i>, 6, ma soprattutto <i>Mt</i> 23, 14 sgg. Per i tiranni, poi, non è da escludere che, oltre ai signori cittadini (per cui <i>Cv</i> IV vi 20 e nota al testo) essi comprendano anche membri della aristocrazia feudale, dagli Este ai Pazzi (cfr. <i>If</i> XII 109-111,137). In ogni caso, sono i rappresentanti di una situazione dove i giusti rapporti politici sono sconvolti e chi dovrebbe esercitare il potere entro un sistema gerarchico ed armonioso di regole si comporta ormai come un ladro di strada.","23, 14 sgg.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Matthew,Vangelo di Matteo,Matteo,http://dbpedia.org/resource/Matthew_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
CON LI SEGNI ECCLESIASTICI ANCORA,"senza nemmeno aver tolto quei segni (croci o monogrammi ricamati) che la fanno riconoscere come oggetto di chiesa'. Che non è veramente liberale chi dà prendendo non dal proprio patrimonio ma da quello degli altri era stato affermato in <i>Eth. Nic</i>. IV 1, 1120 a 30 - b 5 e nel medesimo contesto Aristotele aveva parlato di tiranni che traggono dal saccheggio delle città e dei templi le ricchezze che serviranno alle loro messioni"". Ma quello che nel filosofo greco è una descrizione tranquillamente oggettiva diventa in Dante una dura condanna. L' invettiva è chiaramente modellata sui 'guai a voi' biblici: cfr. <i>Is</i>, 10, 30 e 31; <i>Am</i>, 6, ma soprattutto <i>Mt</i> 23, 14 sgg. Per i tiranni, poi, non è da escludere che, oltre ai signori cittadini (per cui <i>Cv</i> IV vi 20 e nota al testo) essi comprendano anche membri della aristocrazia feudale, dagli Este ai Pazzi (cfr. <i>If</i> XII 109-111,137). In ogni caso, sono i rappresentanti di una situazione dove i giusti rapporti politici sono sconvolti e chi dovrebbe esercitare il potere entro un sistema gerarchico ed armonioso di regole si comporta ormai come un ladro di strada.","23, 14 sgg.",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Book_of_Amos,Libro di Amos,,,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
NEL LIBRO DELLI OFFICI,"cfr. <i>De officiis</i> I, 14, 43:  Sunt ... multi et quidem cupidi splendoris et gloriae qui eripiunt aliis quod aliis largiantur, iique arbitrantur se beneficos in suos amicos visum iri, si locupletent eos quacumque ratione. Id autem tantum abest ab officio, ut nihil magis officio possit esse contrarium"".","I, 14, 43:  Sunt ... multi et quidem cupidi splendoris et gloriae qui eripiunt aliis quod aliis largiantur, iique arbitrantur se beneficos in suos amicos visum iri, si locupletent eos quacumque ratione. Id autem tantum abest ab officio, ut nihil magis officio possit esse contrarium",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/De_Officiis,De officiis,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
IN QUELLO DI SENETTUTE ...,"il testo comunemente riportato dai commentatori è <i>De senectute</i> xiv 46 Ego vero propter sermonis delectationem tempestivis quoque conviviis delector ... habeoque senectuti magnam gratiam, quae mihi sermonis aviditatem auxit, potionis et cibi sustulit"". Come ben si vede non si tratta però di una citazione letterale.","xiv 46 Ego vero propter sermonis delectationem tempestivis quoque conviviis delector ... habeoque senectuti magnam gratiam, quae mihi sermonis aviditatem auxit, potionis et cibi sustulit"". Come ben si vede non si tratta però di una citazione letterale""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Cato_Maior_de_Senectute,De senectute,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
NEL SETTIMO [DI] METAMORFOSEOS,cfr. <i>Metamorfosi</i> VII 490-664.,,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Metamorphoses,Metamorphoseon libri XV,Ovidio,http://dbpedia.org/resource/Ovid,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
SANZA ESCUSA,"e non ci sarebbero scuse per un rifiuto'. Dante traduce qui i vv. 507-511 del settimo libro delle <i>Metamorfosi</i> (Ne petite auxilium, sed sumite -dixit- Athenae. / Nec dubie vires quas haec habet insula vestras / ducite, et omnia quae rerum status iste mearum. / Robora non desunt; superat mihi miles et hosti/ Gratia Dis, felix et inescusabile tempus""), ma legge un testo diverso da quello delle moderne edizioni critiche, un testo che probabilmente aveva ""dubias"" al posto di ""dubie"", ""dicite"" al posto di ""ducite"", ""hostis grandis"" al posto di ""hosti gratia dis"" .","vv. 507-511 del settimo libro delle Metamorfosi (Ne petite auxilium, sed sumite -dixit- Athenae. / Nec dubie vires quas haec habet insula vestras / ducite, et omnia quae rerum status iste mearum. / Robora non desunt; superat mihi miles et hosti/ Gratia Dis, felix et inescusabile tempus"")""",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Metamorphoses,Metamorphoseon libri XV,Ovidio,http://dbpedia.org/resource/Ovid,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
EACO RE ... FU PADRE,"sui tre figli di Eaco cfr. <i>Metamorfosi</i> VII 476-479. Che Aiace fosse figlio di Telamone e Achille di Peleo Dante poteva leggerlo invece in <i>Metamorfosi</i> XII 624 e 619; con tutta probabilità, però, egli utilizzava una delle note riassuntive che in molti manoscritti medievali corredavano il testo di Ovidio, se non direttamente quella che conosciamo dal Laurenziano Marciano 238 :  Eacus ... concubuit cum Sarmace et inde nati sunt Phocus et Peleus et Telamon. Peleus fuit pater Achillis, Telamon Aiacis"" (cfr. Robson 1980, p. 88)",VII 476-479,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Metamorphoses,Metamorphoseon libri XV,Ovidio,http://dbpedia.org/resource/Ovid,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
SÌ COME DICE TULIO ...,"cfr. <i>De senectute</i> xix.71 ""Quae (scilic. maturitas) quidem mihi tam iucunda est, ut, quo propius ad mortem accedam, quasi terram videre videar, aliquandoque in portum ex longa navigatione esse venturus"".","xix.71 Quae (scilic. maturitas) quidem mihi tam iucunda est, ut, quo propius ad mortem accedam, quasi terram videre videar, aliquandoque in portum ex longa navigatione esse venturus",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Cato_Maior_de_Senectute,De senectute,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
IN QUELLO DI GIOVENTUTE E SENETTUTE,"cfr. <i>De juventute et senectute</i> 17, 479 a 20 -21 Sine dolore est que in senectute mors"". L'immagine del frutto maturo che si stacca senza sforzo dal ramo è presente nello stesso brano del <i>De senectute</i> di Cicerone citato al paragrafo precedente:""et quasi poma ex arboribus cruda si sunt, vix evelluntur, si matura et cocta, decidunt, sic vitam adolescentibus vis aufert, senibus maturitas","17, 479 a 20 -21 Sine dolore est que in senectute mors",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/De_Juventute_et_Senectute(Aristotele),"De Juventute et Senectute, De Vita et Morte, De Respiratione",Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
IN QUELLO DI GIOVENTUTE E SENETTUTE,"cfr. <i>De juventute et senectute</i> 17, 479 a 20 -21 Sine dolore est que in senectute mors"". L'immagine del frutto maturo che si stacca senza sforzo dal ramo è presente nello stesso brano del <i>De senectute</i> di Cicerone citato al paragrafo precedente:""et quasi poma ex arboribus cruda si sunt, vix evelluntur, si matura et cocta, decidunt, sic vitam adolescentibus vis aufert, senibus maturitas","De senectute xix.71: et quasi poma ex arboribus cruda si sunt, vix evelluntur, si matura et cocta, decidunt, sic vitam adolescentibus vis aufert, senibus maturitas",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Cato_Maior_de_Senectute,De senectute,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
IN PERSONA DI CATONE VECCHIO,"'mettendo queste parole sulla bocca di Catone il censore'. Cfr. <i>De senectute</i> xxiii. 83 Equidem efferor studio patres vestros, quos colui et dilexi, videndi, neque vero eos solos convenire aveo quos ipse cognovi, sed illos etiam de quibus audivi et legi et ipse conscripsi"" (il ""pare già vedere"" è un'aggiunta dantesca al passo di Cicerone. La lacuna di archetipo qui presente è stata sanata dall'editore sul fondamento del testo latino citato).","xxiii. 83 Equidem efferor studio patres vestros, quos colui et dilexi, videndi, neque vero eos solos convenire aveo quos ipse cognovi, sed illos etiam de quibus audivi et legi et ipse conscripsi",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Cato_Maior_de_Senectute,De senectute,Cicerone,http://dbpedia.org/resource/Cicero,http://purl.org/bncf/tid/25917,WORK
NELLA PROPIA MANSIONE,"nella propria dimora stabile, cioè il cielo, opposta alla precarietà dell'albergo, cioè sia il corpo che la terra (cfr. <i>Io</i> 14, 2: in domo Patris mei mansiones sunt multae"").","14, 2: in domo Patris mei mansiones sunt multae",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_John,Vangelo di Giovanni,Giovanni,http://dbpedia.org/resource/John_the_Evangelist,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
DISPONENDO,"'deponendo'. Che Lancillotto, alla fine della vita, si sia ritirato in un romitaggio, come dice uno dei romanzi del ciclo, <i>La mort le roi Arthur</i>, è notizia essa stessa romanzesca. L'entrata di Guido da Montefeltro nell'ordine francescano è invece, come abbiamo visto, un dato storico. Ma i due personaggi erano, sia pure per vie diverse, assai noti al pubblico di principi, baroni, cavalieri e molt'altra nobile gente"" cui Dante vuole rivolgersi (cfr. <i>Cv</i> I ix 5) e, sicuramente nel caso di Lancillotto, ""non solamente maschi, ma femmine"" (cfr. le parole di Francesca in <i>If</i> V 127-8  ""Noi leggiavamo un giorno per diletto / di Lancialotto come amor lo strinse""). Si trattava dunque di due casi esemplari di nobili di stirpe che erano anche nobili di natura (e la dizione ""questi nobili"" a loro applicata mi sembra volutamente ambigua). E' stato ovviamente da tutti sottolineato come Dante abbia poi posto Guido nell'Inferno, tra i consiglieri frodolenti. A lui stesso viene fatta raccontare la scena che rappresenta icasticamente proprio l'inutilità del suo 'essersi reso a religione':  San Francesco, di cui era cordigliero, viene a prendere la sua anima al momento della morte, ma si ritira sconfitto da un ""nero cherubino"" che la rivendica giustamente a sé (<i>If</i> XVII  112-120). Interessante è vedere come Dante ponga sulle labbra di Guido dannato la stessa metafora che nel <i>Convivio</i> era stata usata a sua lode: ""Quando mi vidi giunto in quella parte / di mia etade ove ciascun dovrebbe / calar le vele e raccoglier le sarte ..."".",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/La_Mort_le_roi_Arthur,La Mort le roi Arthur,,,http://purl.org/bncf/tid/3572,WORK
ALLI ROMANI,"Dante traduce <i>Rm</i> 2, 28-29 Non ... qui in manifesto, Iudaeus est, neque quae manifesto in carne est circumcisio, sed qui in abscondito Iudaeus est, et circumcisio cordis in spiritu, non littera; cuius laus non ex hominibus, sed ex Deo est"". Nonostante i tentativi di Busnelli volti a ricondurre il testo entro una tranquilla ortodossia, l'interpretazione che Dante offre di questo brano della Lettera ai Romani è assolutamente originale: tutti i commentatori medievali, da Ruperto di Deutz a Pier Lombardo, compreso lo stesso Abelardo, lo hanno infatti strettamente mantenuto nel contesto paolino, semmai accentuandone gli aspetti antigiudaici. Non solo: l'originalità della lettura che ne dà il <i>Convivio</i> va in una direzione che rompe con l'intera tradizione: monastica all'origine, ma fatta propria anche dai nuovi ordini mendicanti, la teologia degli 'stati di vita' poneva la professione religiosa, con tutti i suoi voti e le sue manifestazioni esteriori (compreso l'abito), al di sopra della vita matrimoniale dei laici, considerandola la via regia della perfezione e della salvezza. Dire che Dio in noi di religioso ha voluto solo il cuore e che anche sposati si può avere accesso ad una 'buona religione' significa dare ai termini un significato del tutto nuovo e, diciamolo pure, rivoluzionario.","Rm 2, 28-29 Non ... qui in manifesto, Iudaeus est, neque quae manifesto in carne est circumcisio, sed qui in abscondito Iudaeus est, et circumcisio cordis in spiritu, non littera; cuius laus non ex hominibus, sed ex Deo est",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Epistle_to_the_Romans,Epistola ad Romanos,Paolo,http://dbpedia.org/resource/Paul_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
PER LA QUALE MARZIA S'INTENDE LA NOBILE ANIMA,"questa Marzia significa l'anima nobile. Si tratta, storicamente, di una complicata vicenda matrimoniale dell'alta società romana verso la fine della Repubblica in cui una nobile fanciulla della famiglia Marcia viene prima sposata da Marco Porcio Catone (il futuro Uticense), è poi ceduta, consenziente, all'oratore Quinto Ortensio, e infine torna al primo marito. La trattazione di Lucano nella <i>Farsaglia</i> (II 327 sgg.) già trasfigurava il dato di cronaca in un dramma psicologico, presentando una Marzia fedele al primo matrimonio che il ricordo e il rimpianto spingono, dopo la morte del secondo marito, a chiedere con accenti patetici a Catone di prenderla di nuovo con sé. Infine, in Dante, un fatto, legale sì, ma abbastanza scandaloso anche per i parametri del tempo e della società in cui avveniva diventa un ammaestramento in cui Marzia rappresenta appunto l'anima nobile e Catone addirittura Dio. Ci troviamo, in questo caso, nonostante il testo da interpretare sia quello di un poeta, davanti ad un tipico esempio di allegoria dei teologi dove le peripezie di personaggi reali sono figura"" di realtà più alte.",II 327 sgg.,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Pharsalia,Pharsalia,Lucano,http://dbpedia.org/resource/Lucan,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
MENTRE CHE IN ME FU LO SANGUE ... LA MATERNALE VIRTUTE ... COMPIEI I TUOI COMANDAMENTI,"cfr. <i>Farsaglia</i>, II 338-339 Dum sanguis inerat, dum vis materna, peregi /iussa, Cato ..."".","II 338-339 Dum sanguis inerat, dum vis materna, peregi /iussa, Cato ...",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Pharsalia,Pharsalia,Lucano,http://dbpedia.org/resource/Lucan,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
TOLSI DUE MARITI,"cfr. <i>Farsaglia</i> II, 339 et geminos excepi feta maritos","II, 339 et geminos excepi feta maritos",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Pharsalia,Pharsalia,Lucano,http://dbpedia.org/resource/Lucan,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
ORA ... AD ALTRO SPOSO,cfr. <i>Farsaglia</i> II 340-341 Visceribus lassis partuque exhausta revertor / iam nulli tradenda viro,II 340-341 Visceribus lassis partuque exhausta revertor / iam nulli tradenda viro,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Pharsalia,Pharsalia,Lucano,http://dbpedia.org/resource/Lucan,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
E DICE MARZIA,"cfr. <i>Farsaglia</i> II 341-343 Da foedera prisci / inlibata thori; da tantum nomen inane / connubii"".",II 341-343 Da foedera prisci / inlibata thori; da tantum nomen inane / connubii,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Pharsalia,Pharsalia,Lucano,http://dbpedia.org/resource/Lucan,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
E DICE MARZIA,"non si tratta di una citazione diretta, ma di una parafrasi dei vv. 343-345 sempre del secondo libro della <i>Farsaglia</i> liceat tumulo scripsisse: Catonis / Marcia: nec dubium longo quaeratur in aevo /mutarim primas expulsa an tradita taedas"".",vv. 343-345,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Pharsalia,Pharsalia,Lucano,http://dbpedia.org/resource/Lucan,http://purl.org/bncf/tid/21865,WORK
SPOSA DI DIO,"come abbiamo già avuto modo di notare (cfr. <i>Cv</i> IV ii 17 e nota) la metafora nuziale per indicare il rapporto dell'anima con Dio, basata su un'interpretazione allegorica del Cantico dei Cantici, è comune nella cultura medievale.",,CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Song_of_Songs,Cantico dei cantici,Salomone,http://dbpedia.org/resource/Solomon,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_vecchio_testamento,WORK
RISPONDE GIOVENALE ...,"in questo caso Dante, pur tagliando e parafrasando, dimostra una conoscenza piuttosto precisa della ottava satira (specialmente per i vv. 1- 55).",ottava satira (specialmente per i vv. 1- 55),CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Satires_(Juvenal),Satire (Giovenale),Giovenale,http://dbpedia.org/resource/Juvenal,http://purl.org/bncf/tid/34535,WORK
CHE FANNO QUESTE ONORANZE,"che valore hanno questi onori (cfr. <i>Satira</i> VIII 1 Stemmata quid faciunt? ..."". In realtà il termine <i>stemmata</i> che originariamente indica i serti di foglie che univano i busti di cera degli antenati esposti nelle dimore delle nobili famiglie romane, già nell'uso del latino classico, e anche in Giovenale, sta per 'alberi genealogici'.",Satira VIII 1 Stemmata quid faciunt? ...,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Satires_(Juvenal),Satire (Giovenale),Giovenale,http://dbpedia.org/resource/Juvenal,http://purl.org/bncf/tid/34535,WORK
MALE SI VIVE,"'si conduce una vita moralmente cattiva' (<i>Satira</i> VIII 9 ""si coram Lepidis male vivitur ?"".",Satira VIII 9 si coram Lepidis male vivitur ?,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Satires_(Juvenal),Satire (Giovenale),Giovenale,http://dbpedia.org/resource/Juvenal,http://purl.org/bncf/tid/34535,WORK
CHIAMARE LO NANO GIGANTE,"cfr. <i>Satira</i> VIII, 30-32 ...quis enim generosum dixerit hunc qui / indignus genere et praeclaro nomine tantum/ insignis? nanum cuiusdam Atlanta vocamus"".","Satira VIII, 30-32 ...quis enim generosum dixerit hunc qui / indignus genere et praeclaro nomine tantum/ insignis? nanum cuiusdam Atlanta vocamus",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Satires_(Juvenal),Satire (Giovenale),Giovenale,http://dbpedia.org/resource/Juvenal,http://purl.org/bncf/tid/34535,WORK
LA SUA TESTA È DI MARMO ...,"cfr. <i>Satira</i> VIII, vv. 54-55 ""Nullo quippe alio vincis discrimine, quam quod / illi marmoreum caput est, tua vivit imago"".","atira VIII, vv. 54-55 Nullo quippe alio vincis discrimine, quam quod / illi marmoreum caput est, tua vivit imago",CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Satires_(Juvenal),Satire (Giovenale),Giovenale,http://dbpedia.org/resource/Juvenal,http://purl.org/bncf/tid/34535,WORK
MA È LA SUA UNA ESSENZA SECONDARIA ...,"in un insieme costituito per giustapposizione di parti capaci di esistere separatamente (in questo caso una massa di grano) chi possiede in senso proprio e primario una sua essenza (vera e prima essenza"") sono le singole parti (in questo caso i singoli chicchi); il tutto invece ha un'essenza solo in senso derivato (""essenza secondaria""); di un tale tipo di insieme (""in questo tutto cotale"") le proprietà (""le qualitadi"") delle singole parti si predicano (""si dicono essere) nel medesimo senso derivato dell'essenza (""così secondariamente come l'essere""). L' esempio di un tutto che vien detto bianco in base al colore del maggior numero delle sue parti è in <i>Phys</i>. VI 9, 240 a 19-26.","VI 9, 240 a 19-26",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Physics_(Aristotle),Physica,Aristotele,http://dbpedia.org/resource/Aristotle,http://purl.org/bncf/tid/19144,WORK
E COSÌ BASTI ...,"e come risposta al secondo problema questo può bastare'. Le due questioni finali non hanno alcun punto di appoggio nel testo della canzone e soprattutto la seconda, con la sua soluzione, dimostra un approccio al tema della nobiltà delle stirpi sicuramente meno radicale di quello espresso dai versi 112-113 di <i>Le dolci rimed'amor ch'io solía</i>. La 'virtus generis' in qualche modo esiste anche se non con la forza di una struttura ontologica, ma nel modo più debole di una tendenza statistica. Come dice Pietro d'Alvernia, commentando <i>Pol</i>. IV, 8, 1294 a 2022: Nobilitas ... est virtus generis, hoc est inclinatio ad virtutem descendens a parentibus in filios, et in parentes ab aliis prioribus"" (in Tommaso d'Aquino, <i>In octo libros Politicorum Aristotelis expositio</i>, IV, <i>lectio</i> 7, n. 612). Anche se una 'inclinatio naturalis' può esser frustrata, per lo più ('ut in pluribus') produrrà i suoi effetti. Nella <i>Monarchia</i> Dante sarà esplicito in questo senso, distinguendo due tipi di nobiltà ("" merito virtutis nobilitantur homines, virtutis videlicet propriae vel maiorum"") e presentando Enea come colui in cui esse si congiungono in maniera perfetta (II, 3).","IV, 8, 1294 a 2022: Nobilitas ... est virtus generis, hoc est inclinatio ad virtutem descendens a parentibus in filios, et in parentes ab aliis prioribus""",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Continuatio_S.Thomae_in_Politicam,Continuatio S.Thomae in Politicam,Pietro d'Alvernia,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Pietro_d_Alvernia,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
E COSÌ BASTI ...,"e come risposta al secondo problema questo può bastare'. Le due questioni finali non hanno alcun punto di appoggio nel testo della canzone e soprattutto la seconda, con la sua soluzione, dimostra un approccio al tema della nobiltà delle stirpi sicuramente meno radicale di quello espresso dai versi 112-113 di <i>Le dolci rimed'amor ch'io solía</i>. La 'virtus generis' in qualche modo esiste anche se non con la forza di una struttura ontologica, ma nel modo più debole di una tendenza statistica. Come dice Pietro d'Alvernia, commentando <i>Pol</i>. IV, 8, 1294 a 2022: Nobilitas ... est virtus generis, hoc est inclinatio ad virtutem descendens a parentibus in filios, et in parentes ab aliis prioribus"" (in Tommaso d'Aquino, <i>In octo libros Politicorum Aristotelis expositio</i>, IV, <i>lectio</i> 7, n. 612). Anche se una 'inclinatio naturalis' può esser frustrata, per lo più ('ut in pluribus') produrrà i suoi effetti. Nella <i>Monarchia</i> Dante sarà esplicito in questo senso, distinguendo due tipi di nobiltà ("" merito virtutis nobilitantur homines, virtutis videlicet propriae vel maiorum"") e presentando Enea come colui in cui esse si congiungono in maniera perfetta (II, 3).","IV, lectio 7, n. 612",CONCORDANZA STRINGENTE,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Sententia_Libri_Politicorum(Tommaso),Sententia libri Politicorum,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
TUTTI QUELLI CHE DISVIANO DA NOSTRA FEDE,"se si interpreta disviano"" come ""si allontanano"" dovremmo pensare che per Dante la <i>Summa contra Gentiles</i> fosse diretta in primo luogo contro gli eretici e gli scismatici. L' intento dell'opera (iniziata nel 1259 alla fine del primo soggiorno parigino, e completata in Italia verso il 1263-64) sembrerebbe piuttosto quello di difendere razionalmente le verità della fede contro tutte le obiezioni provenienti da culture e pensatori non cristiani (ebrei, musulmani, filosofi pagani, le <i>gentes</i>, appunto. Cfr. Torrell 1993, pp. 153-156).",,CITAZIONE ESPLICITA,http://dbpedia.org/resource/Summa_contra_Gentiles,Summa contra Gentiles,Tommaso,http://dbpedia.org/resource/Thomas_Aquinas,http://purl.org/bncf/tid/29623,WORK
COME DICE NOSTRO SIGNORE,"nel Vangelo di Matteo 7, 6: ""... neque mittatis margaritas vestras ante porcos"".","7, 6:  ... neque mittatis margaritas vestras ante porcos",CONCORDANZA STRINGENTE,http://dbpedia.org/resource/Gospel_of_Matthew,Vangelo di Matteo,Matteo,http://dbpedia.org/resource/Matthew_the_Apostle,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/bibbia_nuovo_testamento,WORK
COME DICE ESOPO POETA,"Dante utilizza qui una delle raccolte di favole esopiche che circolavano nel Medioevo, probabilmente quella composta da Gualtiero Anglico in distici elegiaci (e questo spiegherebbe perché Esopo viene considerato poeta).","Dante utilizza qui una delle raccolte di favole esopiche che circolavano nel Medioevo, probabilmente quella composta da Gualtiero Anglico in distici elegiaci",CITAZIONE ESPLICITA,http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/resource/Liber_Aesopi,Liber Aesopi,Gualtiero Anglico,http://dbpedia.org/resource/Gualterus_Anglicus,http://purl.org/bncf/tid/13406,WORK